La “Stella Polare,, La “Stella Polare,, ed il suo viaggio avventuroso Emilio Salgari Opera illustrata da ritratti, vedute, dieci disegni di G. Gamba e da due carte geografiche Genova l. Donath, editore PARTE PRIMA Capitolo I Laurvik Sulle coste meridionali della Norvegia, di fronte allo Skager-Rak, che bagna contemporaneamente le spiagge settentrionali della Da¬ nimarca, si apre una piccola baia che dai norvegesi fu chiamata di Lai'vik o di Laurvik. Essa è situata fra il profondo fiori di Helge- raa o quello amplissimo di Christiania, e la città che sorge a metà della baia è capoluogo della contea, quantunque non conti che un numero molto limitato di persone, appena dodicimila- Nessuna notorietà, nessuna fama dì qualsiasi genere l’aveva fatta conoscere prima. Era molto se si sapeva in Europa che esistesse; tutt’al più si sapeva che era un porticìno di mare, perduto fra i Fu Nansen, il fortunato navigatore polare, che tutto d’un colpo la rese celebre, poiché fu in uno di quei modesti cantieri che fu fabbricata, dall’ingegnere Archer, la nave che condusse o meglio che trascinò, per tre lunghi anni, l’audace esploratore dei mari Fu infatti costruito, varato ed armato a Laurvik quel capolavoro dell’ ingegneria navale, che mercè le sue forme speciali, seppe resi¬ stere per tanto tempo alle tremende pressioni dei ghiacci. , Il Fram fece conoscere Laurvik all’Europa, anzi, possiamo dire, Capitolo Verso i primi di giugno del 1899, presso ima delle calate della baia s’accalcava una folla di marinai, di pescatori ed anche di po¬ polani, intenti ad osservare una nave che pareva aflrettasse gli ul¬ timi preparativi della partenza. Quel leguo non aveva, almeno in apparenza, alcunché di straor¬ dinario per attirare l’attenzione di tante persone. A Laurvik ben altre navi, anche molto più belle e più. grosse s’erano vedute Era un tre-alberi, simile a quelli che usano i pescatori di balene, costruito interamente in leguo, con ima macchina che non doveva sviluppare una forza soverchia, e che di notevole non aveva che un grande sviluppo di vele. Sul coronamento però portava un nome che dopo d’aver fatto battere il cuore a tanti italiani, produceva ora una viva emozione nei cuori dei norvegesi « La Stella Polare ». Quel nome era ormai'diventato popolare anche nella tranquilla Laurvik; forse quanto quello della nave di Nansen. La voce che quella nave stava per slanciarsi fra i nebbioni della regione polare e le montagne di ghiaccio di quella gelida regione, si era sparsa rapida, scuotendo anche i freddi temperamenti dei buoni norvegesi. Sulla coperta e intorno alla nave ferveva un lavoro febbrile, che accresceva la curiosità dei marinai, dei pescatori e dei borghesi ac¬ calcati sulla gettata. Ad ogni istante casse di dimensioni enormi, mucchi di cassette, di barili, ammassi di pellicce, sacelli, attrezzi di ricambio, pali, tra¬ verse ed oggetti informi venivano issati a bordo per scomparire su¬ fi’ equipaggio composto per la maggior parte di norvegesi, lavo¬ rava con un ardore insolito, stimolato dalla voce di alcuni ufficiali che dall’ aspetto e dai tratti del volto parevano appartenere ad una razza ben diversa dalla scandinava. Sul ponte di comando, un giovanotto dall’aspetto ardito, dai li- Capitolo primo — Il stato imbarcato come primo nostromo, è vero ? — B con una paga splendida. Il principe è generoso come un lord, mio caro. — E che cosa ti ha raccontato? — Olle a Ohrìstiania la Stella Polare imbarcherà tanti viveri da poter nutrire l’equipaggio per due anni. M’ha detto che non man¬ cheranno nemmeno gl’ istrumenti musicali e che vi sono perfino dei fonografi. — Dunque la Stella Polare non completerà qui il suo carico? — No, amico Hotum. La nave quest’oggi lascierà Laurvik. — E non tornerà più ? — chiesero parecchi marinai e pescatori con una certa emozione. — Farà poi una breve comparsa, cosi almeno mi ha detto An- dresen, — disse mastro Nerike. — Faremo al principe una splendida accoglienza, — disse il gi¬ gante. — Giammai urrà più formidabile'sarà uscito dal mio petto. — E poi andrà direttamente verso il polo? — chiese un giovane pescatore, con un certo tremito nella voce. — Uh !... Come corri, tu, Sodermann, — disse mastro Nerike. — Credi tu che sia così facile andare al polo? Il nostro Nansen ha impiegato tre lunghi anni per compiere il suo viaggiò, e come tu sai non ha potuto giungere a quel dannato polo. Se le mie informazioni sono esatte, la Stella Polare per quest’anno non si spingerà molto innanzi. Si fermerà ad Arcangelo per ulti¬ mare le sue provviste e per imbarcare centoquaranta cani, poi inno¬ verà direttamente verso la Terra di Francesco Giuseppe, dove pro¬ babilmente svernerà. Non sarà che l’anno venturo che il principe si slancierà risoluta- — Con la nave? — chiesero il giovane pescatore e il marinaio — No, amici, il principe non seguirà la tattica di Nansen. Ormai barriera di ghiaccio che circonda il polo. Lascierà la Stella in qualche sicura baia della Terra di Francesco >pe, nei pressi del Capo Flora, a quanto sembra, poi andrà urchè il cholera non colga quegli animai: 1 Tu sai, papà Ne¬ lle i cani polari vanno soggetti ad un’ epidemia tenibile che ve li distrugge. Id allora il principe andrà innanzi a piedi, a piccole tappe, uomo di arrestarsi, ve lo dico io, e così lo ha detto pure il Nansen. — [Uelhistante un marinaio che veniva dall’interno della città, te impetuosamente la folla accalcata sulla gettata, gridando : largo!... Largo!... Ho fretta!... — Capitolo elargii le costole, e tutte le stagioni era tornato trionfante nei porti della Norvegia, portando dei grossi carichi di pelli e di grassi. Come tutte le navi che vanno a pescare i grandi cetacei, o cacciare le foche e le morse, la Stella Polare, cosi battezzata da S. A. E. il duca degli Abruzzi, era costruita in legno. Il Fram di Nansen era pure in legno, e così pure lo furono tutte le navi che s’inoltrarono nei grandi campi di ghiaccio delle regioni polari, essendo il legno miglior conduttore di calorico, ed essendo pure un coefficente di elasticità assai maggiore d’ogni altra materia, quindi pili resistente alle formidabili pressioni dei ghiacci. Le navi in ferro hanno fatto sempre cattiva prova in mezzo ai ghiacci, sia per la loro estrema rigidità, sia perchè poco abitabili col freddo intenso che regna sotto le latitudini artiche, sia infine per le gravi difficoltà che presentano le riparazioni, non essendo possibile avere a bordo i mezzi meccanici necessairi. La Stella Polare, malgrado i suoi diciassette anni, passati in gran parte nelle regioni artiche, era ancora una solida nave che poteva fare ottima figura e affrontare, senza tema di dover subito cedere, i poderosi urti degli icc-bergs, dei palks, degli streams e dei wake, che le correnti polari trascinano verso il sud. Stazzava trecentocinquancotto tonnellate nette, su una lunghezza, dalle ruote di prora e di poppa di quarantaquattro metri e settanta centimetri ed una larghezza di metri nove e trenta centimetri. La sua profondità toccava i metri cinque e venti, il suo tonnel¬ laggio lordo era di quattrocento e venticinque e portava una mac- cinquanta di effettivi, da sett^intacinque chilogrammi, a sistema compound, con due cilindri, capaci di sviluppare, a mare calmo, una Ma più che sulla sua macchina, doveva contare sulla propria ve¬ latura, molto ampia e con un’ alberatura altissima onde poter ap¬ profittare delle più lievi brezze. Già nei mari artici, con buon vento a mezza nave od in poppa era riuscita a toccare gli undici nodi all’ ora, ossia circa venti chilometri, velocità difficilmente raggiunta dai soliti navigli mercantili. Prima però di lasciare Lanrvik, aveva subito notevoli trasforma¬ zioni, essendo ben diversa una campagna di esplorazione, che può anche durare parecchi anni, da una semplice corsa attraverso i mari artici durante una stagione favorevole. S. A. E. il duca, dopo essersi consigliato a piò riprese con Nansen e coi più noti lupi di mare della Norvegia, aveva fatto rinforzare resistere agli urti ed alle pressioni dei ghiacci, costruire sopra co¬ perta cabine per gli ufficiali e un nuovo salottino per passare alla meglio le lunghissime notti polari, e persino un laboratorio fisico¬ chimico ed un gabinetto fotografico. Inoltre aveva fatto cambiare tutte le lastre di rame onde impe¬ dire possibili filtrazioni, inverniciare completamente la nave ed anche allargare i depositi di carbone. Ma questo non era ancora tutto. Da uomo previdente, S. A. E. aveva dotata la nave d’ un approvvigionamento tale da superare quello dello stesso Nansen e di tutti gli esploratori che lo avevano preceduto nelle gelide regioni del polo artico, e da assicurare al suo equipaggio, una lunga permanenza fra i ghiacci, senza correre il pericolo di doverlo mettere a razione. Di ciò parleremo più innanzi. Ventidue uomini componevano l’equipaggio della nave: dodici italiani e dieci norvegesi, scelti questi fra le persone ormai pratiche delle regioni polari e cioè provati agii intensi freddi ed ai grandi campi di ghiaccio. Capo della spedizione, S. A. E. Luigi Amedeo di Savoia, duca degli Abruzzi, d’anni 20, luogotenente della marina italiana. Il nome del Duca degli Abruzzi è popolare in Italia. La splendida e fortunata scalata del gigantesco Sant’ Elia dell’Alaska, lo ha reso troppo noto fra noi italiani perchè se ne debba parlare, però è nostro debito farlo conoscere un po’ meglio, molti ignorando il suo passato. È nato sul suolo spaglinolo, nella capitale dei possenti imperatori iberici, che mai vedevano tramontare il sole sulle loro terre, il 29 gennaio del 1S73. Sulla sua culla brillarono, fugaci lampi, gli splendori di Carlo quinto, dì Filippo secondo il Tetro, e di Ferdinando il Cattolico e d’isabella, la protettrice di Colombo; ma la rinuncia magnanima del Capitolo secondo trono spagnuolo da parte di Amedeo, figlio di Vittorio Emanuele II, lo trasse ancora bambino in Italia. Di fibra forte e di carattere energico, si fece subito notare, anche quando era giovanetto. Gli splendori della Córte gli apparvero ben stretti pei suoi alti ideali e per il suo carattere avventuroso, e a quattordici anni, al pari del Duca di Genova, entrava nell’Accade¬ mia Beale dì Livorno. Il mare, sirena ammaliatrice, lo aveva at- V Accademia Beale, lo annoverò fra i suoi migliori allievi. Pece Ed eccolo, nel 1896, lasciare momentaneamente il mare e cor¬ rere attraverso l’America del' nord, fino ai confini dell’Alaska, l’an¬ tico possedimento russo, per tentare la memoranda scalata del più gigantesco colosso della regione artica, invano tentata, prima di lui, da inglesi e da americani. Nò le valanghe, nè i grandi perigli della montagna gigante, nè i ghiacciai, nè il freddo intenso, nè le privazioni spaventano l’audace principe. Sempre primo fra tutti, a piccole tappe, con una costanza, incredibile, trascina con sèqla colonna italiana e, con un’ultima e> meravigliosa salita, pianta la bandiera d’Italia sulla più alfa cima del colosso americano. i interrogare i più noti navigatori artici, icora, ed ecco il principe a Laurvik, a bordo della sua _ , pronto a sfidare, con serena tranquillità, le montagne di ghiaccio della regione artica ed a strappare, anche alle immacolate nevi del polo, i loro segreti. Quanta ammirabile audacia e quanta fibra in così giovane prin¬ cipe della valorosa stirpe dei sabaudi duchi!... Secondo di bordo della Sulla Polare è Umberto Cagni, aiutante di S. A. E. il duca e figlio del compianto Generale, un uomo forte e dotto, che aveva giù accompagnato il Duca nella spedizione del- Astigiano di nascita, e oggidì capitano dì corvetta, possiede tre qualità ammirabili per uu esploratore, soprattutto polare: coraggio, sangue freddo ed una invidiabile fama come uomo di mare. Terzo ufficiale il conte Querini Franco, di Venezia, un altro va¬ loroso che si era già distinto nel 1897 a Candia, quand’era ufficiale di bandiera dell’ammiraglio Amoretti. Si narra di lui, che alla Canea si guadagnò la medaglia al valore militare, affrontando, alla testa di un plotone di marinai della no¬ stra. corazzata Re Umberto e di un plotone di marinai russi, i gen¬ darmi turchi che si erano ribellati uccidendo il loro colonnello. Il contegno del Querini fu in quell’ epoca così degno di lode, da affidargli difficili incarichi che seppe disimpegnare con molto tatto. Il Querini non aveva che trent’anni, era di statura inedia, dal- — Tremendo, — rispose il norvegese. — Un giorno la nave che — E venne sfracellata! — No, ci scaricò in coperta una mezza dozzina d ! orsi bianchi affamati e ferocissimi. — Oh!... Questa è strana! Forse che quegli animali hanno l’abi¬ tudine d’imbarcami sui banchi di ghiaccio? — Non lo fanno appositamente. Quando avviene lo sgelo, il quale ordinariamente comincia alla fine di giugno, i grandi banchi di ghiaccio, che noi chiamiamo ice-fieU, si sgretolano e la corrente trascina verso il sud i rottami. Avviene così che gli orsi bianchi che si trovano su quei campi di ghiaccio, per non annegarsi, s’im¬ barcano su uno di quei frammenti, lasciandosi trasportare alla — Pure mi hanno detto che quegli animali sono buoni nuotatori, — osservò la guida. — Abilissimi, poiché se ne sono veduti alcuni nuotare a venti¬ cinque e perfino a trenta miglia dalla terra più vicina. — E come finiscono quelli che vengono trascinati verso il sud! — chiese il montanaro, che s’interessava molto di quelle spiegazioni. — O muoiono di fame o s’ annegano, — rispose il norvegese. — Le acque, essendo meno fredde al di lil del circolo artico, in causa auche della cori-ente del Gulf-streani, a poco a poco corrodono i banchi di ghiaccio e gli ice-bergs, ed i poveri or-si finiscono coll’ af¬ fogarsi. — Oh !... certamente, — rispose Andresen. — E vedremo anche delle renne! — Se si andasse allo Spitzbergen se ne incontrerebbero molte, ma ignoro se ve ne siano sulla Terra di Francesco Giuseppe. Ali!... Eccoci alla bocca del fiord ! Guardate che spettacolo! È uno dei più belli della nostra Norvegia ! — La Stella Polare, dopo d’aver girate le isole del Sandyfjord, era entrata nella profondissima baia di Cln-istiania, uua delle più ammi¬ rabili dello Skager-Eak e del Ivattegat. Non è molto larga, anzi la sua imboccatura è piuttosto stretta, ma si addentra molto nella terra, dividendosi in tre rami, il più illuso dei quali è quello di Christiania. Numerose isolette inceppano la navigazione, tutte graziose, ridenti, abbellite da villini appartenenti ai ricchi norvegesi, e sulle sife coste si ergono belle e popolose città nonché un gran numero di villaggi. All’entrata si trovano Sandyfjord e Fredrikstad, più sopra Tonsberg, poi Holmestrand quasi all’estremità del primo braccio, Drammen all’estremità del secondo e Christiania del terzo. L’aspetto del fiord, nel momento in cui la Stella Polare v’ entrava, era gaio, ridente, pittoresco. Sulla azzurro-cupa superficie del golfo, placida come se fosse di cristallo, navi a vapore, navi a vela e barchette d’ogni specie, andavano e venivano. Le bianche vele si riflettevano vagamente sulle acque irradiate da un tepido sole già Sui pendìi delle due sponde, appollaiate graziosamente sui mar¬ gini delle pinete, si vedevano gran numero di casettine linde, con le tende bianche ad ogni finestra, i vasi di porcellana, già pieni di fiori, ai poggiuoli o sui davanzali, e l’orticello dinanzi, cinto da cancellate di legno dipinte a vivaci colori. Più giù, presso le rive ed all’ estremità degli azzurri fjorda, si ve¬ devano slanciarsi verso il nitido cielo gli 'esili camini rossi delle segherie e delle cartiere, fumanti come locomotive. Nell’aria si espandeva un acuto odore di resina, di larice tagliato di recente, di pesce messo a seccare e di catrame. Di passo in passo che la Stella Polare s’avanzava nel fjord , nuove e più belle vedute si offrivano agli sguardi delle guide. Oardenti, l’ardente nocchiero di Porto Ferraio, salito pure in coperta assieme al suo camerata Canepa, non poteva frenare la sua meraviglia e manifestava la sua soddisfazione con rumorose esclamazioni che fa¬ cevano sorridere l’equipaggio norvegese. Il fjord andava allargandosi sempre più. Belle collinette coperte di pini e di larici s’alzavano ad occidente ed a oriente, e nuovi vil¬ laggi e nuove cittadelle apparivano in fondo ai capricciosi frasta¬ gliamenti della costa. Ecco la ridente Aasgaard, mollemente adagiata sulla riva occiden¬ tale, contornata di giardinetti, di villette, di segherie e .di ammassi Capitolo Cristiiino IV re di Danimarca, la ricostruiva più tardi, più bella, più vasta, eppure pareva che un triste destino pesasse su quella 'città. Altri numerosissimi incendi a poco a poco distrussero anche le ul¬ time vestigia della nuova città, non risparmiando che la fortezza d’Alrershus, l’unica che rammenti ancora l’antica. Infatti tutti i monumenti più importanti sono di costruzione re¬ cente. Il castello reale fu innalzato nel 1849, l’università nel 53, la chiesa della Trinità, una delle più belle della Norvegia, nel 58, la vecchia chiesa d’Akefu rimodernata nel 61, il palazzo della Dieta Vista dall’ alto, dallo splendido e ampio parco di S. Haushangen, la città si presenta come un immenso scacchiere, con vie diritte, re¬ golari, che dal fjonl salgono al castello reale, attraversata da una via più ampia, più spaziosa, che dalla stazione ferroviaria va ai palazzo, la così detta Karl Jolians Gade. Tutto all’intorno quartieri belli, ampi, ma monotoni per la loro villette'che s’arrampicano su per le colline, con giardini e boschetti. Ma il più bello spettacolo lo si può godere dall’alto, specialmente dal castello reale, il quale occupa una delle più ridenti posizioni del fiord. Quell’ampia insenatura, circondata da colline che ora scendono dolcemente verso le spiagge, ora cadono quasi a picco, nude, sel¬ vagge; quelle miriadi di graziose ville annidate dappertutto, sui margini delle pinete, nelle aufrattuosità delle rocce, all’estremità dei burroni, in prossimità delle cascate; quelle isolette numerose, ora di dimensioni notevoli ed ora tanto piccine che sembrano grandi come una mano, disperse in tutti i luoghi, ora staccate ed ora così unite da non permettere il passaggio ad un battello, offrono agli sguardi del viaggiatore non abituato alle selvagge bellezze dei fiords norvegesi, qualche cosa di maravigiioso, di fantastico. Quale incomparabile incanto se lassù brillasse la luce smagliante, vivida delle nostre città marittime del mezzogiorno! Ma no. la luce della Norvegia ha qualche cosa di freddo, di strano, di cupo che produce su noi un effetto curiosissimo; si direbbe luce polare quantunque le coste meridionali di quel paese nordico siano così lontane dal circolo artico. Capitolo giallo. Le cose più disparate si trovavano rinchiuse in quelle -sca¬ tole: mazzi di carte, dame, scaccili, l’oca, la tombola, varii istru-, menti musicali, un grafofono, un fonografo, un piano melodico si¬ stema Giovanni Bacca, con un ricco e svariato repertorio: Pagliacci, Puritani, Domut .Juanita, Rigolettc, il Profeta, la Bohème, MeftsUfele, la Marcia Reale, la Cavalleria Rusticana e moltissime altre opere e marcie che sarebbe troppo lungo annoverare. Il Duca aveva messa anzi molta cura nella scelta di quei giuochi. La noia è il nemico più mortale degli esploratori polari, mi nemico che a poco a poco vince ed accascia gli spiriti degli equipaggi, specialmente durante la lunga notte polare che dura centoventi o anche centocinquanta giorni e più ancora, se la nave si trova in latitudini altissime. Da questo lato ben poco avevano da temere gli audaci esplora¬ tori. I giuochi erano molti e svariati e fra una partita alle carte od alla dama, una giocata di scacchi, o un «addio al cigno» del Lohengrin suonato dal grafofono o un pezzo d’opera del piano melodico od un concerto di chitarre e mandolini, avrebbero ben potuto sbarcare alla meno peggio le non poche settimane della notte polare. Il carico si effettuava rapidamente, sotto gli occhi di una folla sempre crescente e curiosa. Il Duca aveva dato ordine di affrettarsi. Già Nansen, con cui aveva avuto parecchi colloqui, lo aveva re- plicatameute consigliato di raggiungere al più presto i mari artici, onde non vedersi, più tardi, contrastato il passo dai ghiacci polari. Buone notizie avevano mandato i balenieri della Norvegia set¬ tentrionale, partiti da qualche settimana per la annuale stagione di pesca. Pochi ghiacci avevano incontrato al largo delle coste e la temperatura s’era raddolcita più presto del solito. Urgeva quindi approfittare, poiché talvolta un ritardo di poche settimane può diventare fatale alle navi che osano avanzarsi sulle correre prima di giungere alla lontana Terra di Brancesco Giuseppe. I marinai norvegesi lavoravano però con tale lena, da non du¬ bitare che prima del 12 giugno, tutto il materiale della spedizione si trovasse stivato a bordo. Anche Carienti ed il suo collega Oa- nepa, si erano messi della partita per affrettare il carico. La partenza 27 Nel pomeriggio dell 1 11 l’ultima cassa scenderà nella stiva della Stella Polare. Tutto il carico era stato disposto accuratamente, in modo da po¬ ter scegliere qualsiasi oggetto senza scombussolare l’immensa mole delle casse. Il cav. Cagni ed il cav. (Juerini avevano sorvegliato, in La sera stessa la Stella Polare dal Bjoerviken si portava ai largo, per caricare una considerevole partita di barili di petrolio, tornando al mattino ad ancorarsi a circa cento metri dal molo. L’ora della partenza stava per scoccare. La macchina, di già ac¬ cesa, fumava allegramente e le quattro guide alpine, Petigaux, Sa- voi, Ollier e Fenoillet erano già giunte a bordo assieme a Carienti e Canepa. Sulla gettata, una folla immensa si accalcava per mandare l’ul¬ timo urrà in onore dei coraggiosi che si proponevano di emulare le gesta di Nanseu. Marinai, borghesi, popolani, donne e fanciulli si pigiavano, guar¬ dando con viva curiosità la Stella Polare, mentre da tutte le parti del gran fiord accorrevano scialuppe a vapore, piccole veliere ed imbarcazioni d’ogni specie, cariche di persone. Le navi ancorate nel porto sono pavesate e le gran gale ondeg¬ giano al vento. I marinai sono sui pennoni, sulle coffe, sulle cro¬ cette, pronti a mandare assordanti urrà. Sulla Stella Polare regna confusione. I marinai s’affannano a sgombrare la tolda che è piena di barili Alle dieci ima scialuppa si stacca dalla riva e s’accosta rapida¬ mente alla nave. Nessuno s’è quasi accorto che entro si trovano Frigerio, e al dott. Cavalli. Hanno appena ricevuto i saluti e gli auguri delle autorità di Cliristiauia. La comparsa del Duca, fa affrettare i marinai. Sgombrano alla meglio una parte della coperta per poter ricevere gli ultimi aulici che andranno a salutarli a bordo. Una viva ansietà regna su tutti i volti. Perfino i flemmatici e freddi norvegesi sembrano commossi e nervosi. sempre crescènti della folla ed i fischi rauchi o stridenti delle sirene. — Sempre avanti Savoia!... — La Stella Polare si agita; il vapore esce sbuffando dalla sua ci- Un ultimo urrà s’alza dalla folla e dalle navi ancorate nel porto, e va a morire lontano, lontano, sulle placide acque del fjord. È l’ultimo saluto agl’intrepidi che vanno a seppellirsi fra i pe¬ santi nebbioni ed i banchi di ghiaccio della regione polare. — Sempre avanti Savoia!... — tuona ancora Cardenti. La sua voce si perde fra gli ultimi addii della folla. impaziente di fendere, colla sua prora, le acque del mare del Nord. Dallo Skager-Rak al mare del Nord Al largo, il tempo, che fino al giorno innanzi si era mantenuto bellissimo, era minaccioso. Pel cielo correvano dei nuvoloni di brutto aspetto che parevano gravidi di pioggia e dalle coste della vicina Carienti, eterno chiacchierone, scambiava parole con gli uomini dell’ equipaggio che beu poco lo comprendevano, ma che pure, per cortesia, lo ascoltavano egualmente, sorridendo. Andresen, il giovane nostromo, che bene o male masticava la lingua, francese, spiegava alle quattro guide alpine l’itinerario del viaggio, e s’ingegnava a dare loro una pallida idea delle regioni — Faremo molte fermate lungo la via ? — chiedeva Ollier. — Tre sole, — rispose Andresen, — oltre una piccola tappa a — Ah!... Ci fermeremo ancora a Laurvik? — Poche ore solamente. Questa notte salperemo definitivamente pel mare del Nord. — E dove ci fermeremo poi ? — A Tromsoe, a Varioe, e poi ad Arcangelo dove faremo le no¬ stre ultime provviste di carbone, ed imbarcheremo i centoventi cani che ci condurrà Ivanowik Troutheim. — Chi è quei signore ? — chiese Petigaux, il più esperimentato delle guide alpine, che aveva già seguito il Duca nella meravigliosa ascensione del Sant’ Elia. — Un allevatore di cani della Siberia occidentale, — Che verrà con noi?... — chiese Ollier. — Oh no, — rispose Andresen. — Egli non lascierà, a nessun prezzo, i suoi canili. Un gran brav’uoino d’altronde,-che si vanta di possedere delle razze scelte, e che provvide anche il nostro Nausei). — Ditemi, signor Andresen, — chiese Ollier. — È vero che i cani rendono preziosi servigi in mezzo ai ghiacci? — Sì, se sono però di buona razza. Non fatevi tuttavia troppe illu¬ sioni sulla loro obbedienza. Sono molto selvatici, testardi, ed anche maligni, specialmente quelli di razza esquimese, i quali non deri¬ vano altro che da un incrocio di lupi, avendo la stessa taglia, l’egual theirn devono appartenere a inverno in mezzo ai ghiacci. — Credete che la Stella Polare verrà imprigionata dai banchi ? — chiese Ollier. — Certamente, — rispose il secondo macchinista. — Tra quattro e gli ice-lergs, e non potrà più muoversi. — E rimarrà molto, prigioniera!.. — Volete dire?... — Che non si è sempre sicuri di liberarsi dai ghiacci durante io scioglimento. Certe navi sono rimaste prigioniere perfino tre anni — Il vostro Natiseli ha però abbandonata la sua nave, — disse Petiganx. — Io l’ho udito raccontare. cità. in direzione Ai Laurvik, dovi contava di fare nn’ultima fer¬ mata, prima di abbandonare- definitivamente lo Skager-Rak. Il vento favoriva la navigazione, quantunque la macchina non fosse stata ancora spenta. Qualche straglio e qualche flocco erano stati spiegati per aumentare la corsa e anche per dare alla nave Alle due pomeridiane già le isolette di Sandyljord erano state su¬ perate, 'ed in lontananza cominciavano a disegnarsi sull’ orizzonte le spiagge di Laurvik e le colline sovrastanti, cinte di pini ver¬ deggianti. Alle undici e mezzo della notte dopo d’aver costeggiata la pe¬ nisoletta di Sandyfjord, la Stella Polare entrava nella baia di Laur¬ vik, gettando l'àncora a breve distanza dal molo. ■ Non si doveva fare che una brevissima fermata, perciò pochis¬ simi dell’ equipaggio poterono scendere a terra a dare l’ultimo sa¬ luto ai parenti ed agli amici. Furono caricate in fretta alcune casse che erano state lasciate a Entro quelle baie profonde, che s’addentravano fra colline e mon¬ tagne coperte di pini e di larici, apparivano villaggi graziosi anni¬ dati fra le rupi delle spiagge, oppure si mostravano quasi improv¬ visamente delle cittadelle dinanzi alle quali si vedevano ancorati non pochi velieri, oppure delle barche pescherecce colle candide vele sciolte al vento. va dirupatissima, frastagliata Dallo klcager-1 gliata quasi a picco; tal’altra invece scendeva dolcemente formando delle penisolette e delle insenature verdeggianti, d’un effetto bellis¬ simo che contrastava vivamente con la tinta azzurro-cupa del mare. La Stella Polare però non s’arrestava e proseguiva la sua corsa, frettolosa di solcare le acque del mare del Nord. Sondeled, una bella cittadina, situata nel fiorii omonimo, apparve per qualche istante, mostrando le sue bianche casette a punta; più tardi fri segnalato Grimstad, altra cittaduzza, frequentata per lo più da pescatori, e situata nel mezzo di un’ampia insenatura, quindi verso il tramonto le isole che chiudono il largo fiord di Christian- sand, una delle più belle e anche delle più industriose cittft della Norvegia, che non la cede a Bergen ed a Stavanger. L’indomani la Stella Polare, superato il capo di Lindesnas, navi¬ gava nelle acque del mare del Nord, uno dei più vasti dell’Europa, che bagna contemporaneamente le coste occidentali della Norvegia, quelle orientali dell’ Inghilterra e quelle settentrionali della Germa- nia, dell’Olanda, del Belgio e di parte della Francia. — Che tinta cupa ha questo mare, — disse Harry Stókken, l’in¬ gegnere di macchina, abbordando il capitano Evensen che stava os¬ servando, con un cannocchiale, le coste norvegesi. — Sì, più oscure di quelle dello Skager-Rak, — rispose il lupo di mare. — Forse qualche tempesta le ha scombussolate. — Scoppiata molto lontana forse? — Lontanissima di certo, probabilmente nell’oceano Artico. Voi sapete che le onde, quando non trovano sulla loro via delle terre di grandi estensioni, si propagano a delle distanze immense, — disse il capitano. — Nell’oceano Artico io ho veduto delle ondate che provenivano da una distanza di cinque o seicento miglia. Nel Pa¬ cifico poi, se ne sono osservate di quelle che avevano attraversata una distanza di mille e perfino di mille cinquecento. — Incredibile. — Ma verissimo, ingegnere, — Ditemi, signor Evensen, è vero che il mare del Nord ha nn livello inferiore a quello del Baltico? — Ordinariamente quasi tutti i mari interni hanno una notevole differenza di livello in paragone di quelli aperti. Sembra molto strano Capitolo quarto che i mari, che comunicano tutti fra di loro, debbano avere un di¬ slivello, eppure è precisamente così. Ne parlavo appunto ieri col tenente Querini. Per esempio il mare Mediterraneo è più basso del¬ l’oceano Atlantico, come pure il golfo del Messico, è più alto del¬ l’oceano Pacifico. — Non trascurabili. Era l’Atlantico ed il Mediterraneo esiste un dislivello di ben 72 centimetri. Anche quello del Baltico è diverso da quello del Mediterraneo, oltrepassandolo di 0,697. — E da che cosa provengono queste differenze di livello ? — Molta influenza- hanno le correnti, per taluni mari; in altri in¬ vece l’evaporazione ol’abbondanza delle acque versate dai fiumi. — Anche le tinte dei mari variano, è vero signor Eveusen? — chiese l’ingegnere di macchina. — Sì, signor Stiikken. Nel mar Bosso, per esempio, talvolta si sono osservate delle tinte porporine, dovute alla presenza di una specie d’alga colorante; nel Giappone l’acqua è molto oscura, talvolta quasi nerastra, mentre nel golfo di Guinea è spesso lattea. — E l’Artico non ha alcuna tinta speciale? — Solo una grande limpidezza, che non eguaglia però quella del- l’oceano Antartico, — rispose il capitano. — In certe giornate di calma, io ho potuto vedere dei delfini nuotare a cinquanta e tal¬ volta a ottanta metri di profondità ! — E nell’oceano Antartico è più limpida? sgombra di ghiacci? — Sì, capitano. — Non sembra, signor Stokkeu. Non si sa ancora per quale ra¬ gione esatta, i ghiacci galleggianti abbondano più nell’ oceano An¬ tartico che nell’Artico. Probabilmente dipende dalia mancanza d’una grande corrente tepida. — Sì, ingegnere, e malgrado la lunga via percorsa, conserva ancora un po’ del calore raccolto nel golfo del Messico, sicché i I « fjords » della Norvegia Nei giovili seguenti la Stella Polare navigò costantemente sotto le coste occidentali della Norvegia, passando successivamente dinanzi ai grandiosi e pittoreschi fjords di Stavanger, di Boinmel, di Bìorne, di Sartero, nelle cui profonditi si nascondono numerose ed impor¬ tanti città marittime, come quella di Stavanger, di Hardanger e di Bergen, famosa Le spiagge del sguardi però cercavano di preferenza le vette delle montagne che si disegnavano in lontananza, al di là dei fjords. Su quelle spiagge molte navi s’incrociavano colla Stella Polare e talune, riconoscendola, salutavano ammainando tre volte le ban¬ diere, gentile saluto a cui subito rispondeva il Duca. Anche una baleniera, riconoscibile per i suoi fornelli situati a poppa e pel numero delle sue scialuppe, fu raggiunta. Era un pic¬ colo legno, a due alberi, dalla prora tagliente, con uno sviluppo straordinario di vele. — Mi sembra Y Berta, — disse il capitano Evensen, dopo d’averla osservata attentamente. — Parte un po’ tardi, a dire il vero, però farà egualmente buona caccia. Il capitano Ole Forgensen è un lupo di mare che sa sempre cavarsela bene (1). — Una delle nostre navi? — chiese l’ingegnere Stòkken. — È di Sandyfjord, cioè della mia città natale, — rispose il capi¬ tano. — La conosco benissimo ; è la più piccola delle navi baleniere, non stazzando più di duecento cinquanta tonnellate. — Con venticinque uomini d’ equipaggio, capitano, — disse An- dresen, il giovane mastro, che stava chiacchierando con le quattro guide alpine e con Cardanti. — Ciò vuol dire che ve ne sono altre più grandi, — disse l’inge- — La maggiore era questa, la Stella Polare, parlando sempre delle navi baleniere a vapore. Ora è il Nómi d’Oremberg, poi vengono il Tiking, quindi la Cappella, che probabilmente incontreremo più tardi nelle acque della Terra di Francesco Giuseppe. — Dove andrà YBerta a cercare i grandi cetacei ? — chiese l’in- I « fjords » della Norvegia 43 — Sì adopera ancora il rampone? — chiese il tenente Querini che s’era appressato. — È un’ arma ormai passata d’uso, — rispose il capitano. — Quindici o vent’ anni or sono si usava assalire la balena con una specie di lancia, foggiata a V, coi margini esterni molto taglienti e quelli superiori larghi ed il manico di legno, e veniva scagliata da un bravissimo fiociniere; però la caccia offriva dei gravissimi peri¬ coli. Le scialuppe montate dai cacciatori venivano facilmente rove¬ sciate dalle ondate o dai colpi di coda del cetaceo, dovendosi avvi¬ cinare molto a quei giganti del mare, per scagliare con maggior sicurezza il rampone. L’agonia delle balene era allora lunghissima e qualche volta perfino le navi correvano dei serii pericoli. Mi ri¬ cordo, anzi, che uu veliero fu mandato a picco di colpo da una testata datagli da un cetaceo furibondo. Ora, la caccia non offre più tanti rischi, anche perchè le navi baleniere hanno adottato il vapore. — E che cosa adoperano? — Tifano forse a palla contro le balene? — Non sempre, e poi si tratta d’una palla vuota contenente una quantità di stricnina capace di fulminare i cetacei più giganteschi. Ordinariamente però si usa l’arpione, molto più pesante di quello che adoperavano i fiocinieri, con la punta fatta a foglia d’ulivo e fornito, sul manico, di due lame che si aprono in senso contrario onde impedire che 1’ arma, una volta entrata nel corpo della balena, possa poi uscire. Al manico viene attaccata ima forte lenza, lunga da quattrocentocinquanta a cinquecento metri, che sovente non ba^ sta, ed i balenieri sono costretti ad aggiungerne ima seconda, e tal¬ volta anche una terza. — E muore subito il cetaceo, dopo d’aver ricevuto l’arpione in pieno corpo? — Mai più- Hanno ima vitalità straordinaria, quei giganti del mare, ed una sola ferita non basta ad ucciderli. Appena toccati, friggono disperatamente, all* impazzata, ora tuffandosi ed ora tor¬ nando a galla, ed i balenieri, per finirli, sono costretti a dargli la caccia colle scialuppe, lanciandogli altri arpioni, specialmente sotto la coda per recidergli le ultime vertebre. — Devono vendere molto quei cetacei. — Una volta da una sola balena o da un capodoglio si ricavava perfino sessantamilalire; ora 1’ olio delle balene è molto deprezzato e si è bravi a guadagnarne la metà, e anche non sempre. Sulle nostre coste settentrionali però, specialmente nel Varanger-Fjord, a Vadso, si utilizzano anche i carcami delle balene. Un tempo, levata la grascia, s’abbandonava il corpo agli uccelli marini ed ai pesci cani; ora invece si rimorchiano i cetacei nel Varanger-I^ord, e là vengono completamente distrutti, ricavando dall’immensa massa di carne un ottimo concime e dagli ossami del nero-fumo pregiato. È stato il si¬ gnor Foyn, il così detto re dei balenieri, che ha avuto quella buona idea, ed i suoi grandiosi stabilimenti gli hanno fruttato molti milioni. — E dite che le balene sono talvolta molto pericolose 1 — chiese il tenente. — Molti marinai hanno pagata la loro audacia colla loro vita. Questa sera, durante il quarto, se S. A. E. il duca non avrà bisogno dei miei servigi, vi narrerò una terribile avventura toccata ad un capitano mio amico, nei pressi 'dell’ isola di Nuova Zembla. — L’ascolteremo volentieri, capitano, — risposero l’ingegnere ed — E se mi permetterete, assisterò anch’ io al racconto, — disse Andresen. — Le avventure mi piacciono immensamente e condurrò con me anche i due marinai del Duca, se riusciranno a capirvi. — Sia pure, — rispose il capitano, sorridendo. — Basta !... Ecco la penisola di Stadtland. Ci cacceremo entro il canale e navighe- Nord si ostina a rovesciarci addosso. — La Stella Polare si trovava allora di fronte all’ isola di Vaagso, una delle più considerevoli del Nord Fjord e marciava rapidamente verso la lunga penisola di Ualbinsel Stadtland, nel eqfefondo si na¬ sconde la borgatella di Aahjem. : ** Essendo il mare un po’ mosso, anche in causa della ripidità delle coste che producono i così detti flutti di fondo, molto seccanti per le navi, anche se di grossa portata, il pilota aveva consigliato di prendere i canali interni che sono già battuti dai vapori costieri e molto bene delineati, quindi facili a percorrersi. La Stélla Palme, superata la punta estrema della penisola, si gettò fra i numerosi isolotti che formano il così detto Brend Sund, e elle portano, i maggiori, i nomi di Gusko, di Hareid-land e di Sulo. Numerosi fari indicano la via da tenersi durante la notte; fari, però, che durante la stagione estiva hanno una importanza molto limitata, non tramontando il sole, in quelle alte latitudini, che molto tardi, per alzarsi poi prestissimo. Infatti, con grande stupore delle guide alpine e soprattutto di Canepa e di Oardenti, alle undici di sera ci si vedeva benissimo sul ponte della nave, e la notte vera non durava che pochissime ore, appena tre o quattro. Alle dieci e mezzo pomeridiane, luna e sole si facevano la corte, mescolando le ioro luci, ed il mare scintillava sotto i biondi raggi di Febo. — Pare impossibile ! — esclamava Cardenti. — Si direbbe che in questo paese il sole non ha sonno. Se la continua di questo passo, io finirò col non dormire più ! — Alla sera - sera per modo di dire - la Stélla■ Polare , che bruciava carbone senza risparmio, frettolosa di raggiungere le coste setten¬ trionali della Norvegia, navigava nelle acque di Christiansund, una bella eittaduzza costruita su di un isolotto cacciato fra le due isole maggiori di Averò e di Tuisteran. — Siamo già a buon punto, — disse il capitano Evensen, volgen¬ dosi verso l’ingegnere di macchina che passeggiava a prora, a fianco del tenente Querini. — Lo credo anch’ io, — rispose il signor Stokken. — Non siamo invece ancora a buon punto della vostra storia. — È vero, — rispose il capitano, sorridendo, — ma S. A. E. ha bisogno di me questa sera. Dobbiamo fare delle osservazioni me¬ teorologiche e magnetiche assieme ai suoi ufficiali. — Voi, forse, volevate raccontare l’avventura toccata al capitauo Namdali — chiese Andresen il quale li aveva raggiunti. — La conosco anch’ io, capitano, — disse il mastro. — Avevo un mio parente à bordo di quel legno. — Allora non perderete nulla, signor Stokken. Andresen è un buon narratore. — Adagio, signore. Avevo promesso — Vengano pure a udirla. — Faremo circolo sul castello di pr — Ed io vi regalerò i sigari per tul — E una bottiglia di ginepro, signe — Vada per la bottiglia. Orsù, spi' il mio quarto di guardia. — Capitolo 1 I giganti del Era una splendida serata. Il sole radeva l’orizzonte, quantunqt proiettando obliquamente i suoi raggi crebbe riuscire eccellente. — Bada con le tue zuppe!... S. A. B. ed i suoi compagni si lamen¬ tano della tua cucina, te ne avverto, cuoco infernale. — Ne parlerò al primo cuoco. — Avanti la storia, — dissero Hausen, il velaio di Laurvik, e Olanssen il carpentiere. — Giunto nei pressi dello Spitzbergen, — riprese il giovane no¬ stromo, — il capitano Namdftl aveva notato sull’ acqua del'inare delle grandi macchie oleose le quali indicavano il recente passaggio di grido: - Balena Il corpo della balena era perfettamente -visibile e lu un immenso fuso d’acciaio sotto i primi raggi del : l’orizzonte. Di quando in quando dagli sfiatatoi situati sul ver uscivano, con sordo rumore, due colonne di vapore quali s’alzavano di parecchi metri, disperdendosi sul contiuuò Andreseu. — Mio cugino mi affermò che era lunga di¬ ciotto metri e anche di più, ima massa veramente gigantesca. Le due scialuppe, nel più profondo silenzio, si erano scostate dal brigantino mentre vi si preparavano i cannoni da caccia. I due fiocinieri avevano impugnato i loro ramponi e si tenevano a prora, con un ginocchio fortemente incastrato in ima specie di scanalatura che si trova dietro l’asta, onde non perdere l’equilibrio Già le scialuppe erano giunte a trecento metri dal cetaceo, quando questi, accortosi forse della presenza di quei minuscoli, ma pur sempre pericolosi avversarli, lanciò una nota acuta, battendo la coda Malgrado le ondate, le due piccole baleniere non si erano fermate, anzi avevano raddoppiata la corsa, lasciando ormai da parte ogni prudenza. II brigantino le seguiva a breve distanza, pronto a cannoneggiare il cetaceo ed a portare soccorso alle scialuppe. , Attenzione!... » gridarono ad un tratto i mastri. Capitolo acato Il cetaceo stava pel’ muoversi. Battè le sue immense pinne pet¬ torali, descrisse un mezzo giro, presentando la testa ai nemici, poi affondò bruscamente formando un larg'o gorgo che attrasse, per parecchi metri, le due scialuppe baleniere. I cacciatori si affrettarono ad allargarsi attendendo con viva an¬ sietà la ricomparsa del gigante. Quantunque fossero tutti agguerriti contro simili pericoli e avessero latto tutti le loro prove, mio cugino mi confessò che erano tutti pallidissimi, soprattutto i fiocinieri. Si sarebbe detto che erano stati presi da quella strana paura che col¬ pisce sovente i balenieri quando si trovano a contatto con quei mo¬ stri ; paura che paralizza talvolta le loro forze, compromettendo la loro salvezza. D’improvviso, a circa sessanta braccia dalle due scialuppe, ap¬ parve sul mare un largo remolìo e poco dopo emerse un punto nerastro, l’estremità del muso del mammifero. Indi a poco si videro gli sfiatatoi, quindi la massa intera emerse quasi tutta d’un colpo, sollevando un’ ondata circolare, la quale andò a rompersi, con sordo fragore, contro le due barche, sballottandole violentemente. II cetaceo lanciò subito due colonne di vapore, dapprima denso, poi più chiaro, quindi immerse nuovamente la testa scivolando a fior d’acqua per trenta o quaranta secondi. Per otto o dieci minuti continuò ad immergersi ed alzarsi, poi tornò a galla, mettendosi a nuotare a babordo del brigantino. Pira il momento atteso dai balenieri per cominciare la tenibile lotta. Il capitano Namdal s’avvicinò al cannoncino di prora, mirò il cetaceo per alcuni istanti, poi diede fuoco al piccolo pezzo. La lancia partì sibilando e s’infisse profondamente nella grascia della balena, producendole una spaventevole ferita. Il cetaceo subito non se ne accorse, ma otto secondi dopo, poiché tanti ne occorrono prima che quei giganti provino il dolore, mandava una formidabile nota metallica e s’inabissava fragorosa- Le due scialuppe s’erano affrettate a portarsi innanzi per finire il mostro prima che prendesse il largo. Era tempo: la balena stava per riapparire, non più cetaceo man¬ sueto, beusl tremendo e pronto alla lotta. Capitolo — Johannesen!...— gridò il giovane mastro, mostrandogli il pugno. — Continuate, — dissero i marinai. — Lasciate andare quel cu¬ ciniere dell’ inferno. — La storia è finita, — disse Andresen. — Le dne scialuppe, che erano sfuggite al disastro, si salvarono nella baia della Recherche, dove rimasero quindici giorni, cioè fino all’arrivo d’uua nave ba¬ leniera la quale raccolse i superstiti. — E la balena? — chiese il carpentiere. — Andò a morire a circa quaranta miglia dalla baia, presso una spiaggia assai bassa, ove rimase arenata. Non occorre che vi dica che fu spogliata del suo grasso e dei suoi fanoni dai balenieri che raccolsero i naufraghi. — Un lungo silenzio accolse la chiusa di quella narrazione. Pareva che tutti fossero ancora in ascolto, tanto li aveva interessati quella drammatica storia. Solo il tenente si era alzato per guardare il mare, come se spe¬ rasse di veder sorgere improvvisamente qualche gigantesco mam- Perfino il secondo cuoco aveva dimenticate le sue pentole ed i suoi sarcasmi. — Uditemi, — disse ad un tratto Ditman Olaussen, il carpentiere. un’altra piti paurosa toccata al mio amico Norkel durante una sta¬ gione di pesca sulle coste meridionali della Groenlandia. — Il tuo amico Norkel è stato alla pesca delle balene?... — chiese — Ha fatto tre campagne, cuoco! — esclamò il carpentiere con tono offeso. — Il suo ultimo viaggio l’ha fatto a bordo del Win- Mump. — Quello che è tornato in Norvegia con tre soli uomini?...— chiese Andresen. — Si, — rispose Ditman Olansen, — e uno di quei tre era il mio Il mostro pareva in preda ad una viva eccitazione; si slanciava pii! che mezzo fuori delle onde, agitava furiosamente la sua pode¬ rosa coda bilobata e la grande natatoia dorsale, apriva la sua smi¬ surata bocca, e quindi la richiudeva con un fracasso assordante. « Cile sia ferito? » chiese il mio amico al capitano Sanders. «No, è innamorato,» questi rispose. «Siamo in primavera, ed è la stagione degli amori per quei bruti. riapparve mandando orla così spaventevoli da far rizzare i capelli allo stesso Sauders, il quale, ritto sul banco, seguiva ansiosamente le diverse fasi della caccia. I balenieri continuavano a prendere il largo onde evitare gli assalti del mostro, però la loro situazione diventava di momento in momento gravissima, poiché 1’ enorme cetaceo si gettava in tutte le direzioni con furore estremo, cercando di stritolarli. Tutto d’un tratto si trovò dinanzi alla seconda baleniera, la quale lentissime ondate. II mostro l’assalì con impeto terribile, poi voltandosi le vibrò un tale colpo di coda da lanciarla in aria sfracellata. Furono veduti gli uomini che la montavano roteare un istante nello spazio; poi precipitare negli abissi del mare. La coda del gigante li aveva uccisi sul colpo!... — Ohe forzai... — esclamò Hansen, il velaio di Laurvik. — La lotta non era però ancora finita; — riprese il carpentiere. — Il capodoglio, che portava sempre il rampone, infisso profonda¬ mente nel fianco, si scagliò addosso alla seconda baleniera. I balenieri erano terrorizzati dalla sventura toccata ai loro compa¬ gni, nondimeno il mastro potò evitare 1’ urto, mentre Mac-Bjorn lanciava contro il furibondo animale un secondo rampone, ferendolo in prossimità della testa. Subito virarono di bordo tentando di giungere al banco sul quale il povero capitano si trovava, impotente a portare ai suoi marinai qualsiasi soccorso. Per alcuni minuti' parve che il capodoglio non pensasse che al proprio dolore, il quale doveva aumentare di minuto in minuto, in causa delle continue scosse che faceva subire ai due ramponi. Ad un tratto tornò di nuovo alla carica. La scialuppa procedeva a stento, superando faticosamente le onde che l’assalivano da tutte Mac-Bjorn aveva afferrata una terza lancia, ma era pallido e pa¬ reva che avesse perduta ogni fiducia. « Ragazzi, » egli disse, « se Iddio non ci protegge, anche per. noi è finita !... » — Certamente, — rispose il capitano. — Bell’idea di andare a caccia nelle terre polari. — Questi prmcipi italiani hanno buon sangue nelle rene, signor Stokken. Nè il mare uè i pericoli fanno loro paura. — E sembra che nemmeno la principessa abbia paura nè dei ghiacci nè degli orsi bianchi. — CTn’ altra buona schiatta, signor Stokken. È figlia del principe Nikita del Montenegro, il piè valoroso soldato dell’Europa intera. — Noi però andremo ben piè lontani. — La uostra non è una gita di piacere, bensì ima vera spedizione. — Lo si spera. La stagione promette bene e dopo Arcangelo fa¬ remo una buona corsa fino alla Terra di Francesco Giuseppe. — Ditemi, capitano, credete possibile che si trovino delle tracce della spedizione di Andrée!...— Il capitano si era arrestato guardando fisso l’ingegnere, poi, dopo alcuni istanti, disse: — Siete anche voi uno di coloro che credono alla possibilità che Andrée sia ancora vivo!... — Ve ne sono tanti in Norvegia, compreso il fratello dell’esplo- — Conoscete tutti 1 particolari della spedizione? — Vagamente. In quell’epoca io mi trovavo molto lontano dalla Norvegia. — delincavano, un po’ confusamente, verso oriente, poi prendendo sotto il braccio l’ingegnere, gli disse: — Ascoltatemi e poi giudicherete se vi è qualche probabilità che Andrée sia vivo e che possiamo trovarlo sulla Terra di Francesco Giuseppe. — Vili nelle più fortunato di Oheyne, s’impadrc ipitali neoessarii alla grande impresa, fe e di sollevare tremila chilogrammi e di L’ 11 luglio dell’ anno seguente, Andrée riusciva nel suo intento e si elevava col suo Onien dalla baia di Virgo, una località perduta sulla costa settentrionale dell’isola dei Danesi, nell’arcipelago dello Spitzbergen. Lo accompagnavano altri due valorosi: Strindberg e Cosa è avvenuto dopo!... E all’ infuori dei due dispacci t Il 15 luglio, ossia quattro esploratori, la piccola nave Spitzbergen, incontra un pie tile si era posato su un penn ) nel 1899 e più nulla si è saputo, ,i e di un gavitello vuoto, ù dopo la partenza degli audaci i, incrociando nei paraggi dello : viaggiatore. Quel gentile vola- lel veliero per riposarsi. Un colpo di fucile lo fa cadere morto sulla coperta. Attaccato ad una zampetta portava un piccolo tubo chiuso all’estremità supe- Fuori portava la seguente iscrizione, ohe io ricordo benìssimo: « Dalla spedizione polare Andrée, al giornale AfUmibtadet di Stoc¬ colma. Aprite il tubetto e toglietene i due messaggi. Telegrafate quello in lingua comune all ’AfUynMadet e inviate l’altro cifrato allo stesso giornale col primo corriere. » Aperto il tubetto, sì trovò un solo messaggio scritto in lingua norvegese e del seguente tenore: « 13 luglio, mezzodì e 30 minuti. Latitudine 82° 2'; longit. 15° 5'. Buona rotta verno l’est, 10° sud. Tutto bene a bordo. Questo pic¬ cione è il terzo che invio.■ La scrittura era proprio di Andrée ed il piccione portava impresso sulle ali i segni distintivi della spedizione, quindi non si poteva du¬ bitare dell’autenticità del documento. Passarono altri due anni di penosa attesa. Gli scienziati s’erano di¬ visi in due campi : chi supponeva Andrée ancora vivo, chi ormai lo riteneva miseramente morto, o in pieno mare o fra i ghiacci del polo. Quante supposizioni, quante dicerie, quante discussioni in quel lungo tempo. Il 14 maggio del 1898, presso Kollafjord, sulla costa nord del- l’Islanda, si raccoglie un gavitello appartenente ad Andrée. L ’Orimi ne aveva dodici, muniti di tubi per mettervi dentro i dispacci, ed un altro pii! grande che doveva solamente lanciami al polo. Quel gavitello conteneva il seguente dispaccio: * Gavitello N. 7. - Questo gavitello fu gettato dal nostro pallone 1’ 11 luglio 1897, alle ore 10.55 di sera, ora media di Greenwich, sotto la latitudine di 82» nord, longitudine di 25» ovest. Oi libriamo ad un’ altezza di 600 metri. Tutto bene a bordo. - Andrée, Strindberg, Quel gavitello, scoperto dopo due anni, era stato lanciato il giorno stesso in cui VOrimi si era alzato, sette ore dopo la partenza. Poi un altro lungo silenzio. Dn mistero profondo regnava sulla sorte degli audaci che avevano spiccato il volo verso i ghiacci polari. Dna leggenda si andò però formando. Alcuni pescatori dichiara- rono di aver veduto ondeggiare sul mare l’ Omeri, in prossimità della penisola di Itola, ma ormai vuoto, e d’aver anche udito delle maestosamente al di sopra del Capo Quesnelle. Più tardi mi cacciatore di foche annuncia di aver scoperta una cassetta contenente un documento di Andrée ; degl’ indiani canadesi affermano poi d’aver veduto degli uomini scendere sulle loro terre insieme ad un pallone; la tribù esquimese degli Anglsaks, dice di aver udito fra le nubi dei colpi di fucile. Poi una notizia, che commuove l’Europa intera, giunge dalle de¬ solate plaghe della Siberia settentrionale. Certo Lajalin, cacciatore siberiano, asserisce di aver trovato, a enea centocinquanta verste da Crasnojarsk, fra i fiumi Pitt e Come, una capanna formata con pezzi di seta e cordami, contenente tre cadaveri. Il governo russo manda messi a Crasnojarsk, fa cercare Lajalin, e risulta che quella capanna non era esistita che nella fantasia di pessimi informatori. — Il capitano era rimasto silenzioso e i suoi sguardi si erano fissati appartenente agli intrepidi esploratori. — Che cosa pensate di tuttociò! — chiese ad un tratto, volgen¬ dosi verso l’ingegnere. — Credete ancora che Andrée dopo tanto tempo, sia vivo! — No, signor Evensen, — rispose Stokken. — Io ritengo che sia — Tale è anche la mia opinione. — Però anche il nostro Nansen stette parecchi anni senza dare — È vero, però Nansen aveva una nave ben fornita di viveri, mentre Andrée non ne possedeva che per sei mesi. — Che quegli audaci possano essere giunti al polo! — Io ne dubito assai, signor Stokken. A mio parere, a giudicare dai diversi luoghi in cui furono trovati 1 gavitelli e dalle contrad¬ dizioni riscontrate nei documenti, dico che l’ Ornen non deve essersi E forse non ha neanche pen: peratura che potevano, da un e far precipitare irremissibilme No, signor Stokken, Andrée i opinione, come pure è quella di lungo, giungerà al — Poi si cercherà di scoprire anche quello australe. — La scoperta del polo rappresenterà unicamente una grande vittoria dell’ uomo e della scienza, poiché lassù non vi saranno da raccogliere nè oro, nè diamanti ; eppure anche le vittorie infeconde giovano. Se non altro si scioglieranno tanti problemi rimasti finora insoluti. Si saprà almeno da cosa derivano le aurore boreali, quale attrazione produce il polo sugli aghi calamitati, ed infine si saprà cosa si trova ai due punti estremi del nostro globo. Signor Stòkken, la campana ci chiama a pranzo. Fra un bicchiere e l’altro conti¬ nueremo la conversazione assieme a S. A. R. il duca che è profondo conoscitore delle questioni polari, ed i suoi ufficiali. — La Stella Polare intanto, spinta anche da un vento favorevole, continuava la sua corsa verso il nord, tenendosi in vista della costa norvegese, avendo intenzione di cacciarsi presto fra i canali delle isole Vitken. Il tempo si manteneva costantemente bello e la temperatura non diventava fredda che alla sera, specialmente dopo la mezzanotte. Era però un freddo limitatissimo, che di rado scendeva sotto lo zero. Navi non se ne incontravano che pochissime in quei paraggi. Ab¬ bondavano invece gli uccelli marini, i quali venivano a volteggiare Per lo più erano gabbiani bianchi, volatili che hanno le piume candidissime, leggermente tinte di rosa presso l’addome, ed il becco giallo, e che sono assai paurosi perchè fuggono alla vista di qualsiasi altro volatile marino. Si trovano in grandi stormi sulle coste della Norvegia e anche presso le terre Artiche, vivendo di pesci che prendono assai de¬ stramente e anche di uova che vanno a succhiare alle urie ed alle Sono cosi paurosi, che quando si vedono inseguiti dai labbi, altri volatili delle regioni fredde, vomitano quello che hanno inghiottito pur di essere lasciati in pace. Oltre però a quegli uccelli, si vedevano anche apparirò non po¬ che procellarie e presso le spiagge deserte alcune coppie di edredon. alghe raccolte dirupate per fare il nido, il quale consiste in poche durante Pestate nei laghetti disseccati. Quando però hanno deposto le uova, la femmina si strappa dal petto la preziosa’ peluria, per conservarle calde, e se si allontana per andare in cerca di cibo, prima le ricopre con altre penne. I cacciatori norvegesi ed islandesi, aspettano precisamente la a malapena i profili di Varo e di Mosken, ma per udire i discorsi dell’ equipaggio. Il Maelstrom s’ è creato attorno a sè le più paurose leggende e non v’ è marinaio norvegese die non ne parli con profondo terrore. Si è molto esagerato, questo è vero, sulla potenza attrattiva di quel vortice, però è sempre temibile e le navi costrette a passare pel Vest Fjord, si guardano bene dàll’accostarvisi durante le tempeste ed i tempi nebbiosi. Quell’abisso girante si trova precisamente a 67“48' di latitudine nord ed a 9" 3C di longitudine est, fra le isole di Moskeniiso e quella di Mosken. Fra quelle terre v’ è una rapida corrente che va dal nord al sud per sei ore e dal sud al nord per altre sei, e sempre in opposizione Quando la cori-ente diventa rapida, il vortice prende la forma di una specie d’imbuto della profondità di sei metri, ma quando la marea è bassa e la corrente tranquilla, non vi ha vortice di sorta. Un abisso veramente non lo è, poiché la sua massima profondità non supera i dodici metri ed il suo fondo è composto solamente di rocce e di banchi di sabbia. Quando il mare è tranquillo i pescatori delle Lofoten vanno a sfidare impunemente il vortice, anzi vanno a pescare nelle sue acque, essendovi abbondanza di pesci. Tutt’al più i loro battelli vengono trascinati in giro, senza pericolo di venire inghiottiti, essendo allora facile tagliare la corrente. Quando però il vento del Nord soffia in opposizione alla marea, ed il mare è procelloso, allora il Maelstrom presenta uno spettacolo terribile. I suoi tremendi muggiti si'odono alla distanza di parecchie miglia e la corrente rotatoria si fa sentire fino alla distanza di quin¬ dici chilometri. Allora diventa veramente pericoloso e le navi che vengono prese dal vortice vanno a fracassarsi sul fondo roccioso, se non sono pronte a uscire dalla corrente. — Sta laggiù, — aveva detto il signor Stokken, indicando con la destra i lontani profili di Mosken e di Moskeniiso. — Ora sarà in calma non essendovi vento forte, nè in opposizione alla marea, che Capitolo L’oscurità era cosi profonda che gli uomini di prora non riusci¬ vano a scorgere l’albero maestro. Era d’inverno ed i ghiacci erano scesi al sud in gran numero, anzi la nave parecchie volte aveva dovuto aprirsi il passo a colpi Intatti, attraverso la nebbia, gli uomini di guardia vedevano sfi¬ lare, come tetri fantasmi, dei giganteschi ìce-bergs, i quali pareva seguissero, come funebre corteo, la povera nave votata ormai alla morte. Fra i cupi brontolìi del mare udivano cozzi sinistri, scric¬ chiolìi violentissimi e tonfi assordanti prodotti dal capitombolare La goletta però aveva continuata intrepidamente la sua corsa, frettolosa (li guadagnare il Vest Fjord, ma i ghiacci la perseguita- vano, minacciando di stringerla da tutte le parti. Ad un tratto gli uomini di guardia che erano a prora, vedono proprio dinanzi alla nave apparire un incerto bagliore e odono dei sordi scricchiolìi come se una massa enorme forzasse il passo attrae verso i piccoli ghiacci, gli streams ed i patlcs. Era un ice-berg che muoveva addosso alla nave. In causa di quale forza camminava incontro alla goletta mentre il vento soffiava dall’ovest? Sulle prime nessuno cercò la spiegazione, e fu un grave errore. La montagna di ghiaccio veniva spinta innanzi dai primi giri del Maelstrom. L capitano, ingannatosi sulla rotta esatta, invece di aver diretta la goletta al sud di Varo era andato a cacciarsi addosso a MOsken, passando presso Moskenaso. Il vortice era a pochi passi e nessuno se n’era ancora accorto, in causa del fragore delle onde e del nebbione. Il vento spingeva la nave attraverso la corrente circolare, la quale s’apriva dinanzi alla prora, non avendo molta forza verso i margiui Tutto d’un tratto la goletto deviò dalla sua linea, mettendosi at¬ traverso il vento. Era entrata nella zona pericolosa ed il gorgo la travolgeva in mezzo alle onde rotolanti in giro. Più nessuna manovra poteva salvarla. Il timone ormai non agiva più ed il vento non poteva vincere la forza irresistibile della corrente. Potete immaginarvi il terrore che colse quei disgraziati naviganti, ei paraggi del Maelstrom novre possibili furono nondimeno tentate per rompere la corrente circolare, ma invano. La povera nave ormai trabalzava in mezzo alle onde. Il Maelstrom muggiva formidabilmente e l’acqua turbinava intorno, accavallan¬ dosi, sempre più impetuosa, verso il centro del gorgo. Assieme alla nave, travolti nella medesima corea, correvano mon¬ tagne e banchi di ghiaccio, urtandosi e sfracellandosi e persino delle balene venivano attratte non ostante le loro formidabili code. Il terribile momento s’avvicinava a gran passi. Già la nave si sbandava e scendeva rapida attraverso la parete liquida, minacciando da un istante all’altro di rovesciarsi. L’orrenda descrizione che mi fece il marinaio, unico superstite di tutto l’equipaggio, non la dimenticherò mai, miei signori. Il capitano, smarrito il senno, paventando la catastrofe, in un mo¬ mento di disperazione s’era fatto saltare le cervella, mentre altri si erano precipitati fra le onde spumeggianti con la speranza di ve¬ nire gettati fuori dal gorgo. Quando la nave giunse quasi nel mezzo, si era già rovesciata sul tribordo, in modo che le estremità delle rande toccavano l’acqua. Oscillò un momento sull’ orlo dell’ immenso imbuto poi si sfracellò contro le rocce del fondo, sfasciandosi completamente. Cosa accadde dopo? Il mio marinaio non me lo seppe dire mai. Si ricordò vagamente di aver provato un principio d’asfissia, poi più nulla. Eppure non annegò. Chissà per quali fortunate circo¬ stanze, dopo una prolungata immersione si trovò fuori dal gorgo, aggrappato disperatamente ad un avanzo della soletta. Esso fu raccolto all’alba, a venti chilometri dal vortice, da una barca peschereccia di Mosken. Non aveva riportato gravi contu¬ sioni, ma i suoi capelli erano diventati bianchi come la neve e fu, per tre settimane, in preda ad un delirio terrìbile. Ecco l’istoria della Stom-Viwkl. — Tutti erano rimasti silenziosi, ma nessuno aveva staccati gii sguardi dalle due isole che ora apparivano più nettamente. Pareva che ognuno cercasse di scoprire, nell’ infinito orizzonte, il formida- Capitolo La Stélla Polare però, elle camminava con una velocità di sette nodi all’ ora, essendo validamente aiutata dal vento che soffiava dal sud-sud-ovest, non rimase a lungo in quei paraggi. Il grande fiord s’apriva dinanzi a essa, sgombro d’isole e senza pericoli e ne appro-. fittava per guadagnare via. A mezzodì essa si trovava già presso la strozzatura formata daL l’isola Tjeldo e la penisola d’Ofoten da una partee quella grande di Hindd. Essa passò rapidamente dinauzi a Lolingen, piccola borgata che si trova presso la punta meridionale di Tjeldo e si cacciò risoluta- mente nello stretto canale sboccando nel Vaags-fjord, il quale si prolunga fra Hindd e le isole dipendenti da una parte e quelle di Roldo e di Andorfo dall’altra, fino a toccare quella più settentrio¬ nale di Senjen. Anche colà splendide vedute si offrivano agli sguardi dei navi¬ ganti. Lungo le spiagge, specialmente entro le insenature, si vede¬ vano apparire improvvisamente graziosi gruppetti- di casettine di legno, alcune rosse col tetto grigiastro ed altre bianche col tetto d’un rosso brillante. A tutte le finestre si scorgevano candidissime tende e su tutti i davanzali vasi di fiori. È con vera passione che i norvegesi curano i loro fiori, facendo a gara a chi può avere i più belli ed i più odorosi. Non ostante i freddi intensi dell’inverno, con mille cure riescono a preservarli dal gelo e non è raro trovare, anche nelle regioni più nordiche, splendidi garofani, geranii, rose thè e fucsie. Bande di bambini biondi e rubicondi, con gli occhi d’un azzurro pal¬ lido, correvano attraverso le rocce o si trastullavano in fondo ai piccoli seni, montando i battelli dei loro padri o vegliavano alla stagionatura dei merluzzi esposti all’ aria ed al sole in grandissimo numero. Anche numerose barche da pesca si vedevano percorrere i canali, occupate a gettare delle lenze o delle reti lunghissime, essendo gli abitanti delle Lofoten abilissimi pescatori. Superato lo stretto di Hindo, la Stella Polare sboccò nel Vaags- fjord il quale si prolunga fino alla grande isola di Senjen, bagnando ad oriente il dipartimento di Tromso e ad occidente un gran numero di isole e (li scogliere. (lue isole che fanno, assieme a Vandii, argine all’ irrompere delle ondate dell’oceano Artico. La corea attraverso quelle isole fu rapida e anche felicissima, essendosi trovato il mare tranquillo, però al di là di Arno, oltre il Fuglo-fund, la Stella Polare, non più riparata dalle isole e dalle scogliere, dovette far fronte alle larghe ondate dell’oceano Antar¬ tico, le quali irrompevano con violenza contro le coste settentrio¬ nali della piccola Fugle, una delle più avanzate delle Lofoten. Il mare era deserto, però in aria volteggiavano stormi d’ uccelli marini, i quali venivano a salutare la nave con alte grida, soffer¬ mandosi talvolta sui pennoni di pappafico e di contropappaiìcò. Per lo più erano gabbiani, urie, gazze marine e strolaghe, però an¬ che qualche albatros si vedeva volteggiare sopra le onde. Questi vola¬ tili sono grossissimi, i più grandi degli uccelli di mare, di forme tozze, pesanti, con le penne bianche sul petto e sulle ali, e nere sul dorso, ed Le loro ali misurano talvolta, prese insieme, perfino cinque metri, sicché il volo di quegli uccelli è potente. Per delle giornate intere possono seguile le navi che si spingono al largo, e senza vederli, almeno di giorno, mai riposare. Però quantunque siano cosi grossi e bene armati, sono incre¬ dibilmente paurosi. Sovente bastano i gabbiani a metterli in fuga. n Capo No: 101 Quest’ isola ohe ha la fortuna (li possedere quel famoso Capo Nord, è una delle più settentrionali della Norvegia, Ha dei fjords nume¬ rosi, fra cui uno molto profondo, il Iiamofjord e tre piccoli villaggi, Giasvar, Helnas e Kjelvik, abitati da pescatori e da lapponi spor¬ cissimi, affetti sovente dalla lebbra. La Sulla Polare cominciava a venire vivamente sbattuta dalle ondate dell’oceano Artico. Cavalloni candidi di spuma la sollevavano di frequente, però il tempo si manteneva sereno, senza il menomo Malgrado quelle ondate, nessuno però aveva lasciato il ponte, quantunque le guide alpine si trovassero sempre a disagio fra quei trabbalzi causati dal rollìo. Superate le due Stappeno, due isolette perdute quasi all’estremità del mondo abitabile, il Capo Nord com¬ pare, profilandosi sul mare. Tutti i cannoccbiali si puntano sull’ estrema punta di Magero. An¬ che S. A. It. il duca degli Abruzzi guarda curiosamente. Perfino Grasso, il cane donato da Nansen, abbaia festosamente, scorazzando pel polite, nonostante i sagrati di Cardenti (1). lì un momento emozionante per tutti, ma che subito svanisce. Quanta faina rubata!... Quel Capo non è altro che il prolungamento d’una montagna di circa trecento metri d’altezza, tagliata a picco Essa non presenta alcun che di particolare degno di nota. Non vi sono altro che una casettina, che una volta serviva da ufficio tele¬ grafico, ed una colonna di granito messa là a ricordo della visita fatta al Capo da S. M. Oscar II re di Svezia e di Norvegia. — Beli’aflaiel... — esclama Cardenti. — Nella mia isola d’Elba vi sono dei Capi che valgono meglio di questo! — Superato il Capo, ad oriente, si delinea subito il Nord Kin, la punta più settentrionale della Norvegia, situata all’estremità della penisola di Tjorgoscli-Njarga, a 71” 6' di latitudine nord. Il anche questa una montagna arida, priva di qualsiasi vegetazione, alta ch-ca quattro- wm Che brutti tipi quei lapponi ! Quanto erano diversi dai norvegesi educati, istruiti e soprattutto puliti. Uomini e donne erano biondi, tozzi, coi capelli scarmigliati e così sporchi da far ribrezzo. I primi indossavano delle tuniche di panno azzurro cupo, sbrindellate e rattoppate in cento luoghi, eppur adorne di striscio di lana gialla e rossa e strette alla cintura da fascie rosse o nere. Avevano calzoni di fustagno pesante e spelato, berretti di pelle di renna e scarponi enormi, con la punta rialzata alla foggia chinese. Le donne per distintivo portavano certi scialli dalle tinte impossibili, stretti attorno alla testa, ed alle braccia avevano delle Sì gli uni che le altre avevano l’andatura'goffa, l’aspetto soffe¬ rente, la tinta giallastra dovuta iu parte alla sporcizia ed erano af¬ fetti da malattie agli occhi. È appunto fra questi miserabili che la lebbra sceglie le sue vittime. La Stella Polare si arrestò fino alla sera, facendo alcune provviste, poi riprese la corsa verso l’est per giungere nel mar* Bianco e Capitolo quindi ad Arcangelo, dove la attendevano per completare il carico e rinnovare la ormai quasi esausta riserva di carbone. — Ecco una città che si lascia senza rimpianto, — aveva detto il capitano Evensen al signor Stokken. — Vi è il pencolo, tratte¬ nendosi un po’ là dentro, di portarsi via dei brutti ricordi lapponi. — Enti-eremo nel Varange-fjord ? — chiese l’ingegnere che spin¬ geva i suoi sguardi verso l’ampia imboccatura che s’apriva al di — No, — rispose il capitano. — Guardate, abbiamo messa la prora verso quella punta che vedete delinearsi proprio dinanzi a noi. Sa¬ pete quale terra essa sia? — Deve esser terra russa, suppongo. — Sì, signor Stokken; è il capo Njemezki dell’isola di Ribatschi. — E quelle grandi macchie oleose che ondeggiano alia nostra de-, e che provengono dagli stabilimenti del signor Foin. — Del re dei balenieri? — SI, signor Stokken. Foin è precisamente il re dei balenieri e si deve a lui la fortuna di queste popolazioni. — Ho sentito parlare molto di quel signore. — È lui che ha inventato la pesca moderna dei giganti del mare. Come voi sapete, una volta i balenieri si accontentavano di pren¬ dere ai grandi cetacei la grascia ed i fanoni, abbandonando agli uccelli marini ed ai pesci-cani quei colossali corpacci. Il signor Foin, che durante la sua gioventù era stato un abile pescatore di balene, cercò il modo di utilizzare quegli ammassi di carne. Essendo diven¬ tato discretamente ricco, arma parecchi piccoli vapori e li manda al Capo Nord, luogo anche oggidì frequentato dai giganti del mare, ordinando ai suoi equipaggi di rimorchiare le prede a Vadsò, e fa innalzare in una isoletta deserta, un grandioso stabilimento per la fondita delle materie grasse. Da allora le balene non vengono più abbandonate allo onde. I piccoli vapori le trascinano dinanzi agli stabilimenti del signor Foin e vengono completamente distrutte. Gli enormi ammassi di carne vengono raccolti con cura e se ne fa ora un ottimo guano e perfino le ossa vengono utilizzate. Questa nuova che egli è il dieci o dodici uomini. Ucciso un cetaceo, si affrettano a rimorchiarlo fino allo stabilimento, poi riprendono subito il mare in cerca d’altri, — rispose il capitano. — Quanto può rendere una balena? — Un tempo catturando una balena la quale fosse ben sviluppata se ne potevano ricavare anche sessantamil'a lire; ma oggi gli olii Terre (V altronde quasi disabitate, con rarissime borgate marittime, una vera desolazione che rattrista gli sguardi dei naviganti abituati alle splendide pittoresche vedute delle coste settentrionali della vi- Su quelle vastissime pianure, spazzate dai gelidi venti della re¬ gione artica, non si trovano che poche tribii di lapponi, le quali altro non si occupano che dell’ allevamento delle renne. Questi abi¬ tanti hanno sempre dimostrato, al contrario dei loro fratelli esquimesi ed islandesi, una spiccata antipatia pel mare, e perciò di rado si spin¬ gono fino sulle sponde dell’oceano. Preferiscono piantare le loro tende di pelle lungo i corsi dei fiumi, che sono numerosissimi in quella regione, o nelle grandi pianure dove le loro mandrie di renne trovano abbondanti distese di muschi e di licheni. gono d’altronde poco socievoli, non vedono di buon occhio i russi che considerano come conquistatori e si tengono possibilmente lon¬ tani da tutti i centri popolati. Sono nomadi che levano sovente i loro attendamenti per andarsene ora verso il nord ed ora verso il sud, a seconda della stagione e dell’abbondanza o scarsità dei pascoli. La Stella Polare, lasciato Vardo, aveva messa la prora verso il nord-nord-est puntando verso il capo Niemezki, onde superare la grande penisola di Bibatschi, la quale si spinge molto innanzi nel¬ l’oceano Artico. Al di là del capo, contro l’aspettativa generale, il mare era affatto libero, una vera fortuna, poiché ordinariamente quelle coste sono battute dai ghiacci che la corrente siberiana spinge appunto da quelle parti. Cosa molto strana però, poiché al Capo Nord, che ha una lati¬ tudine molto elevata, è raro incontrarne durante la primavera od il principio dell’estate. Anche al largo il mare era tranquillo; solamente delle lunghe ondate, pochissimo alte, si spingevano ad intervalli, andando a rom¬ persi contro le coste dirupate della penisola con un sordo rimbombo che le caverne marine ripercuotevano a lungo. Nessun veliero o piroscafo si vedeva apparire sull’ azzurro-cupa superfìcie dell’oceano Artico. Quelle coste sono già generalmente detto il capitano Evensen. — I ghiacci non mancano mai in quei L’indomani la Stella Polare passava dinanzi alla foce del Wo- roqje, corso d’acqua che nasce nel lago di Lujawmrt e che bagna, presso la sua uscita in mare, un villaggio minuscolo, Gawriloka, abitato da pochi lapponi e da alcuni pescatori. — Quel fiume mi ricorda un tragico fatto, — disse il capitano Evensen, volgendosi verno l’ingegnere di macchina che stava discu¬ tendo con le guide alpine. — Qualche tremendo naufragio! — chiese il signor Stokken. — No, un assalto d’orsi bianchi. — Qui, su questa costa! — chiese l’ingegnere, con stupore. — Sì, signor Stokken. — Io non ho mai udito raccontare che vi siano orsi bianchi ih Lapponia. — Ed i ghiacci polari non li contate per nulla!... Voi sapete che durante l’inverno gli m-tergs scendono molto verso il sud, bloccando — Infatti la cosa non sembrerebbe impossibile, — disse l’inge¬ gnere. — E cos’è che quei feroci carnivori hanno assalito! Potete immaginarvi lo spavento dei due marinai, quando s’accor¬ sero dell’ avanzarsi di quei mostri. Non avendo riportato cbe delle ferite di poca entità, si affrettarono a battere in ritirata, rifugian¬ dosi nella camera di prora. Alle loro grida d’allarme, tutti gli altri si erano precipitati giù dalle amache. Informati del grave pericolo cbe correvano, chiusero prontamente il boccaporto, barricandolo internamente con parecchie I sei orsi, rimasti padroni della nave, si erano diretti verso poppa dove si trovava il capitano assieme ad un cane. Uno dei più grossi, con poche zampate rovesciò il boccaporto, cercando, ma invano, di scendere la scaletta. Lo spazio era troppo ristretto per quel corpac¬ cio e l’animale non poteva andare innanzi, non ostante i suoi sforzi. Il capitano, svegliato bruscamente dai latrati del cane, aveva subito cercato di salme in coperta. Immaginatevi il suo stupore nel tro¬ varsi viso a viso coll’orso! Retrocesse più che in fretta nella sua cabina e armatosi d’un paio di pistole, le sole armi da fuoco cbe v’ erano a bordo, aprì l’uscio di comunicazione con la stiva, rifugian¬ dosi nella camera comune dei marinai. II povero cane però non aveva potuto seguirlo. L’orso, cbe s’era cacciato nella scala, con un colpo di zampa l’aveva afferrato, trasci¬ nandolo sul ponte. La sua morte fu l’affare di pochi bocconi. Pa¬ droni del ponte, gli orsi si abbandonarono al saccheggio, senza più curarsi dei marinai, i quali d'altronde non osavano lasciare il loro rifugio. Alcuni barili contenenti del grasso di foca ed alcune pelli di morsa ancora fresche, furono divorate da quelle bestie affamate. Perfino dei cordami unti di recente con del sego, sparvero nel corpo degli abitanti polari. Quantunque ben pasciuti, non abbandonarono perù la nave. Porse contavano di saccheggiare anche il quadro di poppa cbe era rimasto senza difensori o di costringere 1 marinai a tentare ima disperata Si sdraiarono sulla tolda e digerirono placidamente quel primo bottino, in attesa d’uu altro più abbondante. L’indomani i marinai s’accorsero che gli orsi non avevano ancora abbandonata la nave. Quei bestioni passeggiavano gravemente pel metallo, disperdendosi lentamente per l’aria purissima, d’ima tra¬ sparenza incredibile, sfuggivano dai camini. Sul fiume però v’era già molto movimento. Di quando in quando la Stella Polare incontrava dei velieri diretti nel mar Bianco e nu¬ merose barche montate da contadini russi e cariche di pellicce e di derrate diverse acquistate ad Arcangelo. Il oapitano Evensen, a fianco del pilota che era già stato imbar¬ cato alla foce del fiume, dava spiegazione ai membri della spedi¬ zione italiana, senza però perdere di vista la carta del fiume che aveva spiegata dinanzi a sè. — Arcangelo è una città che ha un commercio immenso ma feb¬ brile, — diceva. — Bisogna che tutti approfittino dei pochi mesi in cui la città rimane sgombra dai ghiacci. — Ohe saranno pochissimi? — Ordinariameute lo sgelo comincia in giugno, però talvolta ri¬ tarda fino al luglio, con gravissimo danno del commercio e anche (1) Credo ohe quell» fotogiufl» fosse poi donato »1 coute Oldofredi. imperatori russi aveva mai avuto l’idea di farne una città commer¬ ciale, credendola di accesso troppo difficile per le navi provenienti dall’Europa. Un capitano inglese, Bichard Chancellor, nel cercare un passaggio pel Nord-Est, onde facilitare le comunicazioni fra l’Inghilterra e la China, nel 1553 vi approda e, sorpreso della bella posizione, ne informa l’imperatore russo Ivan IV, facendogli com¬ prendere l’utilità immensa che la Bussia avrebbe potuto ricavare da quel porto. Stipulato un trattato di commercio con la Bussia, torna in patria per formare una compagnia pei traffichi del ìuar Bianco. La città, per ordine di Ivan, sorge quasi d’incanto. Si scava un comodo porto, capace di ricevere centinaia di navi e intorno all’ antico ca¬ stello si innalzano caserme, chiese, fabbriche, e si fondano vasti can¬ tieri per.la marina militare e mercantile. Le speranze di Bichard Chancellor si realizzarono con rapidità pro¬ digiosa. La prosperità di Arcangelo fu davvero sorprendente, tanto anzi da far ingelosire Pietro il Grande, il quale mirava invece a concentrare tutto il commercio in Pietroburgo, città da lui fondata. Con un nlcase priva la città dei suoi privilegi e delle sue fran¬ chigie, dandole un colpo così fiero da farle perdere buona parte della sua prosperità, ma Caterina II nel 1762 restituisce ad Arcangelo i suoi diritti, dando un potente impulso ai commerci del mar Bianco. Da quell’ epoca Arcangelo non ha cessato dal prosperare, ed oggi si conta fra le città più ricche dell’ impero russo. Già numeroso scialuppe eransi staccate dalla riva per mettersi a disposizione dell’equipaggio. Le autorità s’erano recate a bordo a pre¬ sentare i saluti del governo russo, capitanate dal nostro ambasciatore a Pietroburgo, il generale Morra di Lavriano, dal colonnello Natali, addetto militare all’ ambasciata, da un segretario della Legazione e dal conte Oldofi-edi, gentiluomo di Corte, incaricato di portare al Duca l’ultimo saluto dei sovrani d’Italia. S. A. B. terminato il ricevimento, si era subito affrettato a re¬ carsi a terra per contraccambiare la visita alle autorità e anche per osservare il carico che aveva già ordinato si tenesse pronto per l’im¬ barco. Lo accompagnavano il suo stato maggiore, il Cagni, Que- rini ed il dottor Cavalli. Addio Europa! siano alti pifi di sessanta centimetri e tirano anche bene, essendo capaci di percorrere cinquanta chilometri al giorno portando, solar mente in dieci, un carico di ben quattrocento chilogrammi. Si ac¬ contentano anche di poco, essendo abituati a cacciare per loro conto, però, come si disse, sono d’una obbedienza molto dubbia. Essendo della razza dei lupi, e ne hanno anche le forme, non si affezionano mai ai padroni, anzi talvolta costituiscono un vero- pe¬ ricolo. Vanno, per paura della sferza, ma non sempre la temono e trascinano sovente le slitte attraverso a burroni e crepacci per cor¬ rere dietro a qualche volpe, senza curarsi della vita delle persone che conducono. Per di più vanno soggetti di frequente a una malattia contagiosa, ad una specie di cholera, che li distrugge completamente, lasciando l’esploratore nell’ impossibilitò di continuare la marcia o di ritor- II luogotenente Payer della marina austro-ungarica, l’eroe della leggendaria spedizione del Tajetthoff e poi scopritore della Terra di Francesco Giuseppe, fu il primo a rinunciare ai cani esquimesi, so¬ stituendoli coi danesi e con quelli di Terranova, però i risultati non sembra che siano stati tali da incoraggiarlo. Nansen ne volle seguire l’esempio, scegliendo invece quelli di razza siberiana, più atti a sfidare i grandi freddi della regione polare, e meglio addestrati al servizio delle slitte, e non ebbe a dolersene. Trontheim fu il fornitore, e quest’ uomo, per consiglio dei fortunato esploratore polare, doveva pur esser quello che doveva consegnare a S. A. E. il duca degli Abruzzi, i cani necessarii per la futura csplo- Un tipo molto curioso quell’allevatore di cani, tale anzi da me¬ ritare qualche cenno. Prima della famosa spedizione di Nansen, nessuno lo conosceva. Sepolto fra le nevi siberiane, non aveva nessuna notorietà, nè all’est nò all’ovest del grande impero russo. Quando l’esploratore norvegese, convinto della grande utilità di possedere buoni cani, cercò di provvedersene, aveva avuto la buona idea di rivolgersi al barone Edoardo Foli, di Pietroburgo, già no¬ tissimo pei suoi viaggi in Siberia. II viaggiatore siberiano stava allora allestendo una spedizione scientifica in Siberia. Desideroso di agevolare il Nansen, parte per Tiumen e coll’aiuto di un commerciante inglese, il signor Wardrsp- pers decide un noto allevatore, Aleksander lwan Trontheìm a con¬ durre un drappello di cani nello stretto di Jugor, dove attendevalo il Fruii». Il siberiano è uoyio di parola. Attraversa i deserti territori della Siberia settentrionale ed un bel giorno compatisce dinanzi alla pic¬ cola stazione di Kabarova. Sale in una barca e va a bordo del Pram, la nave di Nansen, con¬ ducendo con sè alcuni cani. Era partito con quarautatrè, però durante il viaggio ne aveva boscaglie clic, era stato costretto ad attraversare. Il viaggio era stato dei piti difficili e dei più pericolosi. Trontheim, per giungere in tempo all’ appuntamento, aveva dovuto chiedere l’aiuto ad una tribù di samojedi e caricarsi di trecento pmid di vi¬ veri pei cani, ossia di circa quattromila e ottocento chilogrammi Impiegò tre lunghi mesi a percorrere, assieme alla tribù, compo¬ sta anche di donne e di fanciulli, quelle deserte regioni della Si¬ beria settentrionale. Il suo viaggio fu una vera-peregrinazione da nomadi; nessuno andava diritto alla mèta; vagavano a capriccio, arrestandosi solamente là dove i licheni abbondavano. Avevano molte renne da mantenere, circa quattrocentocinquanta e bisognava, innanzi a tutto, pensare a non perderle. Attraversati i monti Urali, Trontheim e la tribù giungono final¬ mente sul fiume Usna, dove si rigosano due settimane presso una capanna abitata da un povero contadino, unica abitazione in un Tutti erano sfiniti, ma il bravo Trontheim non voleva mancare alla parola data al commerciante inglese. Si riposa due settimane, poi prosegue arditamente la marcia, incoraggiandosi con un po-ch acquavite comperata da uno zyriano. Alla fine di giugno, vedendo avvicinami il termine entro cui si Capitolo « Io, — racconta Nanseu, — m'appuntavo coi piedi e tiravo le re¬ dini qnanto potevo, ma inutilmente, e non fu se non impiegando le nostre forze unite, elle riuscimmo alfine a fermare, appunto quando si stava per entrar nell’acqua, e noi si continuava a gridare: ««ss/ sassi tanto elle rintronava tutto Kabarova. Facemmo prendere un’altra direzione ai cani, elle partirono di nuovo con tale abbrivo* che stentavo a tenermi saldo. Era proprio un mezzo di trazione stupefacente: e noi imparammo ad apprezzare la forza dei cani, avendo visto come potevano trascinare un paio di uomini su quel cattivo, per non dir pessimo, terreno. » Come aveva mantenuta la parola con Nansen, il bravo Trontheim non aveva voluto mancare a quella data a S. A. E. il duca degli Abruzzi, tanto piii che v’era stato di mezzo l’ordine del governo veri, aveva lasciato Tlumen, città della Siberia occidentale, situata sulla via che da Jecatenmburg va a Tobolsk, proprio sulla fron¬ tiera russo-siberiana, recandosi prima a Perm. Di là aveva proseguito a gran tratti verso il nord, ora serven¬ dosi delle barche, che solcano i grandi fiumi della Russia centrale, ed ora delle sue slitte, giungendo ad Arcangelo parecchio tempo .prima dell’arrivo della Stella Polare. Durante quel lunghissimo viaggio non aveva perduto un solo dei suoi cani, anzi era riuscito a condurli tutti a destinazione in buo¬ nissimo stato. Come quelli che aveva fornito a Nansen, non appartenevano tutti dal pelo lunghissimo e bianco, gli orecchi diritti, il muso appun- l’aspetto del nostri volpini, con grandi code villoso ed il pelame perfettamente bianco o macchiato. Belle bestie però, che dovevano rendere preziosi servigi agli audaci esploratori, dui-ante le loro corse attraverso i ghiacci polari. Trontheim, un bel tipo di siberiano, di statura media e robusta, dalla fisonomia aperta e bonaria, con barba rossiccia, aveva voluto consegnarli personalmente a S. A. E. il duca degli Abruzzi, però Addio Europa! prima di farli condurre a bordo, aveva voluto farglieli provare sotto le slitte, anche per insegnargli il modo di servirsene. Le prove erano riuscite soddisfacenti, malgrado la irrequietezza indiavolata di quelle bestie, un po’indocili e difficili a obbedire, sia alle briglie, sia alia frusta, sia alla voce dei padroni. Intanto a bordo s’erano preparati i canili per ricevere quei nu¬ merosi ospiti a quattro gambe. La cosa non era stata facile però, e S. A. R. ed i suoi aiutanti avevano dovuto sudare non poco ad allo- Tuttavia l’alloggio fu disposto in modo conveniente, sulla coperta della Stella Polare, non essendovi la possibilità di collocarlo sotto, in causa dell’ingombro del carico. Rei primi giorni regnò non poca confusione a bordo, con tanti animali. Quei poveri cani, non abituati a navigare, parevano spa¬ ventati di trovarsi su quella nave che subiva, anche in porto, delle ondulazioni, e si ribellavano ai marinai che volevano rinserrarli nei canili, scappando ora a prora ed ora a poppa. Imbarcati i cani, la Stella Polare rinnovò le sue provviste di car¬ bone, circa duecentocinquanta tonnellate e prese a bordo altre nu¬ merose casse, contenenti per lo piò vesti di pelle di foca e un gran numero di scatole inviate da S. M. la Regina e che dovevano ser¬ barsi per le grandi solennità. Inoltre furono imbarcate anche di- il gentile pensiero di donare allo Stato Maggiore una piccola Di¬ vina Commedia, ed ai marinai ed alle guide alpine dei libri di pre¬ ghiere. Gli ultimi preparativi venivano intanto spinti alacremente innanzi. A bordo tutti lavoravano febbrilmente, S. A. R. compreso, il quale non si faceva distinguere dagli altri, con grande stupore della po- La cosa pareva molto strana a quei buoni russi, abituati a vedere i loro principi a comandare e farsi obbedire, ma S. A. R, ne rideva di cuore ed a coloro che gli chiedevano come nou si limitasse a or¬ dinare, rispondeva bonariamente: — Cosa volete?... Io non ho un segretario! — S. A. R. dinante quei dodici giorni, aveva però fatte anche fre- quenti gite a terra* per esperimentare le sue macchine fotografiche e per dare anche un po’ di svago ai membri della spedizione, prima di dare un addio alle terre civili. Aveva dati e restituiti ricevimenti, e non aveva nemmeno rifiutata una partita di Imv-tennis offertagli da alcuni signori inglesi, ma si era mantenuto molto riservato intorno allo scopo della spedizione. S’era però limitato a far credere che il suo viaggio non era stato intra¬ preso per andare al Polo, bensì per esplorare le regioni settentrionali della Terra di Francesco Giuseppe non raggiunte da Jakson. Interrogato sul suo ritorno, aveva risposto sorridendo: — Ciò dipenderà interamente da quello che potremo fare. Se avremo buona fortuna e troveremo subito qualche cosa di buono, ci affretteremo a tornarcene a casa, se no.... — Egli si eia arrestato su quel no sibillino, non volendo forse com¬ pletare il suo pensiero, ma uno dei suoi compagni, come per dare soddisfazione a coloro che li interrogavano, aveva soggiunto: — Se no, dovremo rimanere là a raccogliere qualche cosa ! — Gli ultimi giorni furono occupati in ricevimenti. Le autorità di Arcangelo, l’ambasciatore italiano a Pietroburgo, col suo attaché militare ed il suo segretario, alcuni ufficiali italiani, parecchi notabili russi, molti inglesi e francesi furono ricevuti a bordo. Anche il granduca Wladimiro, ritornato allora dall’ inaugurazione del porto di Katerina, andò a complimentare S. A. B. facendogli i suoi augurii per la riuscita del viaggio. L’11 luglio, tutto era pronto per la partenza. La macchina, fin dal mattino, era sotto pressione ed a poppa era stata nuovamente spiegata la bandiera italiana e sull’albero mae- Una folla enorme s’era riversata sulle gettate, mentre i marinai delle numerose navi ancorate nel porto si erano disposti sui pennoni per gli urrà d’uso. Tutti erano commossi ; anche S. A. li. appariva un po’ nervoso. Il comando è dato. Le àncore vengono ritirate a bordo, la mac¬ china sbuffa e l’elica comincia a mordere le acque. Il Duca degli Abruzzi, ritto sul ponte, saluta la folla agitando il berretto. Presso di lui stanno Cagni, Querini, il dottor Cavalli- Addio Europa! Molinelli e, un po’in disparte, il conte Oldofredi Tàdini, gentiluomo di corte, il cav. Silvestri, il conte colonnello Nasalli-Eocca ed il conte Edoardo Eignon, capitano delle batterie a cavallo. A poppa segue una lancia a vapore, messa a disposizione del conte Oldofredi e dei suoi compagni dal principe Gortchacoff, gover¬ natore di Arcangelo. La Stélla Polare scende maestosamente il fiume, lanciando di tratto A qualche ora da Arcangelo si arresta per dare l’ultimo addio agli italiani ohe hanno voluto, con gentile pensiero, scortare il Duca. Si stringono affettuosamente le mani fra i più calorosi augurii, poi il conte Oldofredi scende nella scialuppa assieme al cav. Silve¬ stri, al colonnello Nasalli ed al capitano Eignon. S. À. E. il duca, ritto sul ponte di comando, in preda ad una commozione che non riesce a vincere, si leva il berretto e con voce — Vi™ il Ee!...— Tra il gorgoglìo delle acque rompentesi contro le rive ed i muggiti sordi del mare frangentesi contro la nave, quattro voci formidabili — Viva il Se !... — Sì, viva e viva l’Italia!... — grida Cardenti, che è diventato pallido. La Stélla Polare corre già sul mare, mentre a bordo della scialuppa a vapore il gentiluomo di corte ed i suoi compagni agitano i faz¬ zoletti in segno di saluto. Addio Europa!... Addio terre civili!... I campi di ghiaccio del polo, i pesanti nebbioni, le tempeste tremende dell’oceano Artico, l’ignoto pauroso, attendono gli audaci esploratori. Non importa!... Avanti Savoia!... Viva l’Italia!... La Stella Polare è già in mezzo ai ghiacci del mar Bianco. Gli urrà si sono spenti, la scialuppa a vapore sta per scomparire. Ormai, non è più che un punto nero appena visibile sulle acque del fiume, eppure sembra che iu aria, fra le gelide folate del vento nordico, una voce possente gridi ancora: PARTE SECONDA Capitolo I Le esplorazioni artiche del nord-ovest, al pari di quelle del nord-est, hanno tempi una vivissima curiosità ed hanno avuto an¬ ero infinito di eroi, come pure un numero infinito Le terre polari ■ destato in tutti i Due italiani, pei primi, danno nuovo impulso alle scoperte polari. I fratelli Zeno, veneziani, nel ISSO salpano pei mari del nord e scoprono una terra alla quale danno il nome di Frislandia. Cos’era quella terra? Si suppose che fosse l’Islanda, altri invece credono che fosse la Groenlandia. L’una o l’altra, i fratelli Zeno danno pei primi la spinta alle lunghe ed avventurose navigazioni nei mari nordici. Nel 1431 un altro italiano, messer Pietro Quii-ini salpa da Candia, esce dal Mediterraneo, una furiosa burrasca assale il suo vascello presso il capo Finisterre e gli spezza il timone. Col suo equipaggio si rifugia in due scialuppe, naviga per tren¬ totto giorni verso il settentrione e con quarantacinque compagni sbarca in una terra ignota, situata, sembra, presso il 67“ di lati¬ tudine. Una delle due scialuppe viene inghiottita dalle onde, ma egli rie¬ sce a toccare la Norvegia e dòpo lungo e periglioso viaggio ritorna a Venezia nel 1432. Nel 1491, un altro veneziano, trasferitosi in Inghilterra, Seba¬ stiano Caboto, intraprende numerosi viaggi nei mari settentrionali, ed il 24 giugno del 1494, mentre Cristoforo Colombo approdava in America, scopriva la Tierra de los Baccalaos, o meglio Terra Nuova, dando un nuovo impulso ai viaggi avventurosi. Ed ecco che dietro a questi quattro italiani, corrono numerosi al¬ tri, inoltrandosi audacemente nei mari polari. Eisalgono verso il nord dall’America e dall'Europa, cercando indefessamente il pas¬ saggio del nord-ovest che doveva condurli dall’Atlantico al Pacifico, e quello del nord-est che doveva spingerli fino al Giappone senza fare l’immenso giro del Capo di Buona Speranza e di tutte le terre Capitolo prw nore, comandata da Jalcman, scompare per sempre, nò più mai se ne potè avere notizie. Era stata fracassata dai ghiacci o le onde V ave¬ vano prima demolita e poi inghiottita! Mistero!... Nel 1594, altro audace s’iuoltra nel mare Polare. È William Parelitz, uno dei più fortunati navigatori dell’oceano settentrionale. Parte con tre navi, visita lo stretto di Matocliltin e percorre mille e settecento miglia fra i gliiaooi, spingendosi fino al TI" 33' di la- titudine. glio Nay, scopre alcune isole, visita le coste siberiane, studiando gli usi ed i costumi dei samoiedi, prende terra all’isoletta degli Stati dove gli orsi bianchi gli divorano alcuni marinai, e ritorna in Olanda il 18 novembre. Nel maggio 159G, questo instancabile esploratore, per incarico dei mercanti di Amsterdam, torna nei mari polari con due navi, scopre l’isola degl’Orsi a 74" 30' di latitudine, così chiamata per avervi colà ucciso un orso bianco di dimensioni mostruose, quindi spin¬ gendosi sempre più verso settentrione, si imbatte in una terra sco¬ nosciuta che chiama Spitzbergen. Ripresa la navigazione con una sola nave, avendo 1’ altra fatto ritorno in Europa, erra lungamente fra quei ghiacci, in preda a ura¬ gani spaventevoli, finché un ice-berg gli spezza il timone. Esausto, coll’ equipaggio ridotto a soli diciotto nomai, va a cer¬ care rifugio nella baia dei Ghiacci, una delle migliori dello Spitz- bergen, costruendo una capanna che sussiste ancora. L’inverno li sorprende quasi senza viveri. S’arrestano gli orologi e gelano perfino il vino, la birra e l’alcool. Parecchi marinai non possono sopportare quelle dure prove e soc- Finalmente il freddo scema, la buona stagione ritorna e l’equipag¬ gio, il 23 giugno del 1598, lascia quelle terre inospitali imbarcan¬ dosi su due scialuppe. Erano tutti ridotti in uno stato orribile pei lunghi patimenti. An¬ che la gagliarda fibra di Barentz è finalmente minata dallo scor- , fra le braccia dei Unto e l’ardito esploratore muore in pieno mare, suoi fedeli marmai, la mattina del 30 giugno. Nel 1607, Enrico Hudson, il fortunato scopritore della baia omo¬ nima, prima di tentare il passaggio del nord-ovest si rivolge a tinello del nord-est. S’imbarca su una piccolissima nave, montata da soli undici uomini e con un coraggio temerario spiega le vele pel sct- Tocca il 72“ 38' di latitudine, vede lo Spitzbergeu, perlustra il mare gerlo, dopo di essersi spinto più a settentrione dei suoi predeces¬ sori, ossia fino all’ 80° 23'. L’anno seguente riparte con quattordici uomini, tentando nuo¬ vamente di scoprire il passaggio del nord-est o di spingersi tino al polo, ma i ghiacci lo obbligano a ritornare. Si sa che questo navigatore doveva più tardi, nel cercare il pas- doti poi una morte orribile (1). Dopo questi primi esploratori, ecco venire i balenieri. . Il gran numero di balene, di focile e di trichechi trovati in quelle regioni, fanno nascere potenti società in Olanda e nell’Inghilterra, per ritrarre l’olio da quei mammiferi. Numerose navi salpano pei mari boreali, visitando successivamente le terre già scoperte e trovandone altre. Le coste dello Spitzbergeu sì delincano di già, poi quelle dell’isola di Jan Mayen, della Nuova Zembla e quindi quelle della Siberia La speranza di trovare più a settentrione maggior numero di ce¬ tacei, di foche e di morse, spinge sempre più innanzi i balenieri. Il mare, compreso fra lo Spitzbergeu e le spiagge settentrionali Le esplorazioni artiche rompere quei banchi di ghiaccio che gli ostacolano la mai-eia, corre il pericolo di farsi fracassare le navi, poi, scoraggiato rinuncia al- l’impresa, convinto dell’assoluta impossibilità di trovare un pas¬ saggio verso il polo. Quasi nell’istessa epoca, un’altro inglese, il capitano Robinson, tenta pure di giungere al polo per la via dello Spitzbergen e riusciva a spingersi fino all’81° 30' di latitudine, dove veniva arre¬ stato dai campi di ghiaccio, senza aver scoperta alcuna terra. Altri inglesi e olandesi si seguono con esito sempre negativo, poi vengono dei capitani russi, i quali non hanno miglior fortuna. Do¬ vunque la barriera di ghiaccio oppone un ostacolo assolutamente insuperabile. Nel 1827 è la volta di Parry, uno dei più audaci esploratori po¬ lari, che aveva già compiuti prima altri viaggi fortunati nei mari polari della Groenlandia e dell’America settentrionale. Credendosi più fortunato, parte con due navi bene equipaggiate, sale fino allo Spitzbergen e va ad ancorarsi nella baia di Hecla Cove, per sottrarsi alle tremende tempeste che minacciano d’inghiottire Fu di là che cominciò le sue escursioni terrestri, avanzandosi con delle barche-slitte in compagnia di due ufficiali e di due mai-mai. Procedendo attraverso ai campi di ghiaccio, in mezzo a continui pericoli e con fatiche immense e lottando con la deriva, che traspor¬ tava i banchi verso il sud, riesce a superare tutti i precedenti esplo- Aveva raggiunto l’S2° 45' latitudine che per parecchi anni ri¬ mase la più elevata, non ostante gli sforzi valorosi di molti altri non meno audaci navigatori che, se non superarla, avevano tentato almeno di raggiungerla. Il pessimo stato dei campi di ghiaccio e le correnti polari che trascinavano qucali stessi bauchi verso il sud, costrinsero Parry a pensare al ritorno. Verso la fine del settembre, Parry rivedeva l’Inghilterra, accolto con grandi onori dal governo e dai suoi compntriotti. Nel 1858 è il capitano Qnennershadt, che con una piccola nave s’avanza verso lo Spitzbergen, visitando quei fjords e le Mille Isole, Capitolo Una barca da pesca, sfuggita alle strette dei ghiacci, reca in Nor¬ vegia la notizia del pericolo che corre la spedizione. Si arma una nave, Batteri e si manda nei mari polari in aiuto dei pericolanti, ma deve retrocedere in causa di alcune gravi avarìe. Una seconda nave, Vlsbjorn, 1’ 8 gennaio del 1S73 si spinge verso il nord, ma si vede tagliata la via da immensi campi di ghiaccio che la costringono a tornarsene. Il comitato artico dì Brema, arma il Oroenland e lo manda in aiuto dei disgraziati esploratori, nonché di parecchi pescatori bale¬ nieri rimasti prigionieri al capo Graz quasi sprovvisti di viveri (1). Oltre lo Spitzbergen, nello stretto di Belt, i ghiacci lo arrestano e va a cacciare foche nell’Islanda, coll’intenzione di tornare alla ri¬ cerca degli esploratori nella buona stagione. Pareva però che un triste destino pesasse su Nordenskiold, poi¬ ché il comandante della nave di soccorso poco dopo moriva e l’equi¬ paggio, disanimato, faceva ritorno a Brema. Fortunatamente, dopo un inverno rigorosissimo, i ghiacci si spez¬ zano ed il Pollami, liberato finalmente, ritorna in Europa. Dopo quella di Nordenskiold altre poche ne succedono, fra le quali quella fortunata di Leight Smith coll’eira, che completa le scoperte latte da Bayer, poi ultima e pili importante viene quella di Nansen. Ecco le iregi oni clic la Stella Polare, al comando del giovane e valoroso Duca sabaudo stava per solcare, dopo la sua partenza da Arcangelo e la sua uscita dal mar Bianco. Capitolo II Gli orrori delle regioni polari Se gli sforzi costanti di audaci navigatori, sono riusciti, a poco a poco, non ostante gl’ immensi pericoli, i freddi intensi e le burra¬ sche spaventose che imperversano in quelle regioni, a conoscere un a tentoni, fra i ghiacci cozzanti sinistramente e che da un istante all’altro possono strapiombare. Poi si succedono gli uragani autunnali. L’oceano Artico si scon¬ volge e mugge cupamente al di sotto di quei nebbioni. Venti tremendi, gelidi, che fanno screpolare le carni ai disgra¬ ziati naviganti, passano con mille ruggiti, sulle onde scapigliate e sopra i banchi di ghiaccio. È il caos!... Il sole intanto si abbassa sempre e perde, a vista d’occhio, luce e calore. Appare sull’orizzonte, poi ridiscende sempre e finisce con lo scomparire. Ecco la notte polare elle si avanza con tutti i suoi orrori. Non più albe, non più crepuscoli, non più tramonti. Una notte nera, impenetrabile, piomba su quelle desolate regioni. Le terre diventano invisibili ; le onde sembrano tramutate in in¬ chiostro. Solamente i campi immensi di ghiaccio, proiettano ancora quella luce sinistra, pallida, cadaverica che si riflette fino sulle nubi e che i marinai chiamano Vice-Mini;. Ma quando alle tenebre si unisce anche la nebbia, allora tutto scompare: è l’immensità del buio, è il regno delle tenebre. Quali terrori devono aver provato i primi naviganti dei mari po¬ lari!... E quante angoscio proveranno tuttora gli audaci che vanno a sfidare i ghiacci dei due punti estremi del globo!... Eppure quanti, inconsapevoli di tali paurosi spettacoli, affrontano anche oggi, in¬ trepidamente, le regioni del gelo. L’inverno è giunto. Il termometro scende sempre: passa lo zero e continua ancora. Ecco le prime nevi ! Passano come trombe sopra gli sterminati campi di ghiaccio e sopra il mare rimasto ancora libero, travolte furiosamente dal vento che soffia sempre con ruggiti crescenti. I ghiacci si accumulano, si stringono, si rannodano, poi un brutto giorno quelle immense distese trepidano come se fossero animate. Mille urla salgono dal crepacci, nulle cupi boati corrono sopra le massicce crosto. La massa intera ondeggia, si gonfia, si contorce, poi si spezza, affamato, dimagrito dalle li i ranuncoli, le sassifraghe, scili, le all’influenza eli quei climi rigidi, devono aver subito delle notevoli modificazioni. La loro lingua, che chiamasi kamlit, è molto variata. Certi indi¬ geni delle isole nord americane non riuscirebbero a farsi compren- quei diversi dialetti un’origine comune. È d’altronde una lingua povera, ricca solamente nella forma di coniugazione e dominata da suoni duri e aspri. Vivendo quei popoli in regioni di perpetua sterilità, prive di grandi vegetali e dove la breve durata dell’estate non permette alla terra di produrre alcuna pianta nutritiva, essi traggono dal regno animale tutti i loro mezzi per nutrirsi, vestirsi e anche per navigare. Valenti cacciatori, e altrettanto abili pescatori, con semplici lance clic hanno per lo pifi la punta d’osso ben affilata, uccidono orsi bianchi, renne, foche, morse, narvali e osano perfino assalire le enormi balene. Con certe reti fatte con sottili striscio di cuoio ap¬ pese a dei lunghi bastoni, riescono anche a prendere gli uccelli che Soprattutto è la foca che fornisce all’esquimese quanto gli è di più necessario, cioè il nutrimento, il vestito, la luce, il letto e per¬ fino i vetri da porre nella sua capanna di ghiaccio, vetri per modo di dire, poiché sono costituiti dal ventricolo di quegli anfibi, molto Con le pelli delle focile si fabbrica calzoni e casacche, copre le sue barchette chiamate kayak*, rendendole impermeabili, coll’olio riempie la sua lampada di pietra, con le o.ssa si fabbrica manichi di coltrili. Le armi di questi uomini sono affatto primitive, eppure non sono meno micidiali. Hanno coltelli, lance, dardi con le punte di pietra o d’avorio e archi di corna di bue muschiato o di fanoni di balena, con frecce dalla punta d'osso. Munito di queste armi, l’esquimese non teme la grossa selvaggina. S’imbarca sul suo canotto, s’affida audacemente alle onde e va ad assalire 1 mammiferi che sono numerosi nelle sue regioni. Nell’inverno, quando il mare è gelato, si pone in agguato, per intere giornate, presso i crepacci, insensibile ai morsi del freddo intenso, alle bufere di neve, ai venti nordici, aspettando paziente- mente che le foche o le morse vengano alla superfìcie a respirare per ramponarle. L’inverno può essere lungo, ma il paziente cacciatore non man¬ cherà di cibo. D’altronde tutto è buono per lui : l’olio di foca, cosi nauseante, la volpe, il lupo, il pesce putrido, il grasso di balena, la carne cruda, perfino gl’intestini ed il sangue degli animali. È vorace, ma anche previdente e quando ha la fortuna di fare ima pesca od una caccia abbondante, la mette in serbo pei tempi peggióri, conservando la carne entro il grasso gelato delle foche. Nella costruzione delle loro abitazioni, questi figli del freddo spie¬ gano un’ abilità straordinaria. Secondo la regione in cui si trovano e secondo i materiali che hanno a loro portata, elevano delle abi¬ tazioni comode che li proteggono efficacemente. Nell’estate non hanno che delle tende o delle capannucce; d’in¬ verno invece si riparano entro cupole di neve e di ghiaccio che non hanno più di tre metri di elevazione, con una porta strettissima. Una lampada che arde continuamente, basta a riscaldare quei pic¬ coli ambienti e la temperatura là dentro è tollerabilissima, anche per chi non è abituato a quei freddi. Ma che profumi entro quelle casette ! Ben pochi europei potreb¬ bero resistere a quegli acuti odori di carne corrotta, d’olio rancido e di ammoniaca. In fatto di pulizia, gli esquimesi lasciano molto a desiderare. Na¬ scono e muoiono senza lavarsi una sola volta. Tutt’al più vengono lavati, q uando sono piccini, dalla lingua della loro madre! lano fra le arruffate capigliature di quei monelli ed a provvederli d’occhi di foca che divorano con grande appetito, convinti che la loro vista avrà molto da guadagnare. Brave madri che spingono la loro affezione fino ad allattare i loro figli fino ai dodici e talvolta persino ai quindici anni! Eppure questi esseri si reputano felici e sdegnano gli agi delle città europee. Trasportati alcuni a Londra, incredibile a direi, deperirono a tale punto da doverli ricondurre fra i loro ghiacci per non vederli Tutte queste tribù, disperse fra le ìsole polari, nou hanno stabile dimora, eccettuate quelle che si trovano nelle colonie danesi della Groenlandia. Quando la selvaggina diventa rara, emigrano su altre coste, risar lendo per lo più verso il nord. Alcune si sono spinte così innanzi, da vivere in un perfetto iso¬ lamento. Il capitano Boss, della marina britannica, durante il suo viaggio polare ue ha trovata una al 78° di latitudine boreale. Quel gruppetto di famiglie, da secoli e secoli viveva in un perfetto isolamento e si credeva l’imico popolo del mondo, la cui estensione per quegli abitanti era limitata ai banchi di ghiaccio che li circon- OiriTOLO III Il mar Bianco Nel mai- Bianco pochi ghiacci friabili, che non possono opporre la menoma resistenza. Il tempo è oscuro: le nubi che coprono la vòlta celeste dànno un senso di tristezza indefinito e tingono di grigio le acque del mare, con dei riflessi color dell’acciaio; ma il vento è buono e le onde che scendono dall'Artico non hanno la violenza che acquistano nelle burrasche. La Stella Polare s’avanza arditamente, coi flocchi e le gabbie al vento, mentre la macchina, ancora accesa, mugge sordamente, facendo gemere i fianchi di legno dell’antica baleniera. S. A. B. sulla tolda, guarda attentamente verso il nord; sembra che cerchi i ghiacci coi quali è ansioso di misurarsi. I suoi ufficiali gli stanno accanto, interrogando l’orizzonte coi can¬ nocchiali. Aneli’essi cercano i fantasmi bianchi della regione artica. A prora e a poppa, i marinai norvegesi, mescolati alle guide al¬ pine ed ai due marinai italiani, chiacchierano e discutono anima- — Quando si giungerà alla Terra di Francesco Giuseppe ì — Que- la è la domanda che corre su tutte le bocche. 169 Calcienti giura che vi giungeranno in quattro bordate a dispetto dei ghiacci ; Canepa, più calmo, più riflessivo, proluuga quelle bor¬ date alla durata d’una settimana, se tutto andrà bene. Andresen, il cicerone dell’ equipaggio, li ascolta, li guarda e sorride. — Tu che sei Stato ancora laggiù, di’ qualche cosa. — disse Olans- sen, il carpentiere. — Questa Terra di Francesco Giuseppe non sarà già al polo? — Tutto dipende dai ghiacci, miei cari, — rispose il giovane no¬ stromo. — Credete voi che non se ne debba incontrare? Certi anni anche in pieno luglio se ne trovano in gran numero molto prima di giungere alla Terra di Francesco Giuseppe. Conoscete voi la storia della Fraga? — Non so che cosa sia, — disse Olanssen. — Ve la racconterò più tardi, quaudo giungeremo in vista della — E cosa c’entra quella nave con noi? — chiese Torgrinsen, il socondo macchinista. — Perchè è stata presa dai ghiacci sulle coste di quelle isole e vi assicuro che l’inverno non era ancora sopraggiimto. — Tu dunque credi che i ghiacci ci arresteranno prima di giun¬ gere all’arcipelago Francesco Giuseppe! — chiese Olanssen. — Io non dico questo. Da una parte o dall’ altra, la Stalla Polare passerà, non dubitate. S. A. E. non è uomo da dare indietro ed il capitano Evensen non è un marinaio da aver paura dei ghiacci. — In conclusione quando credi che giungeremo al Capo Flora? — domandò il carpentiere. — Tu conosci quelle terre? — Come sono? — Splendide in estate, orribili d’inverno. — Ve ne sono molti. — E foche? — Non mancano. Capitolo — Allora faremo delle grandi cacce. Vi è nessuna baleniera sn quelle coste ? — Forse incontreremo la Cappella, partita qualche mese prima di noi per rintracciare una spedizione americana. — Quale? — Quella di AVellman. — Ne ho sentito parlare, — disse il carpentiere. — Si dice che quella spedizione avesse l’intenzione di spingersi verso il polo. — È già il secondo tentativo che fa il signor Wellmau, ma du¬ bito ohe vi riesca. Ad ogni modo, se non è morto, lo incontreremo di certo. — Si sa dove ha passato l’inverno ? — Al capo Tegetthof sembra, — rispose il nostromo. — E noi lo passeremo ? — chiese il secondo macchinista. — Oh !... A questo penserà il Duca. — E che cosa faremo al Capo Flora? — Al Capo si farà un deposito di viveri, poi avanti verno il nord. È lassù che si vuole andare e vivaddio, tutti noi faremo il possibile Mentre l’equipaggio chiacchierava, la Stella Polare continuava la sua corsa verso il nord, aiutandosi con le vele e col vapore. Il tempo si manteneva grigio, plumbeo, coperto da alti nebbioni, però una calma quasi completa regnava nelle alte sfere. Qualche ondata di quando in quando veniva a rompersi sulla prora della nave, frangendo dei ghiaccinoli poco consistenti e la sollevava bruscamente con poco piacere delle guide alpine, nemiche giurate dell’infido elemento. Numerosi uccelli marini venivano di tratto in tratto a volteg¬ giare sopra l’alberatura, salutando i naviganti con strida gioconde Alcuni si posavano perfino sui pennoni, guardando tranquilla¬ mente i marinai, poi riprendevano il loro veloce volo, radendo le onde o tuffandosi fra la spuma per pescare i granchiolini di mare. Erano sempre i soliti gabbiani e le solite procellarie, volatili che s’incontrano anche a delle distanze incredibili dalle coste. L’orizzonte appariva deserto. Solamente una nave, che fn rico- Infatti dal 1840 non fu possibile incontrarne più una in quel mare. In quelle epoche, fortunate per le nazioni marinaresche, vi erano perfino degli stabilimenti nello Spitzbergen, all’isola Cherie,a Juan Mayen, posseduti da tedeschi di Brema e d’Amburgo, da olandesi, da francesi, da danesi, da russi e perfino da spagnuoli. Si fondeva il grasso delle foche, allora numerosissime, delle morse, delle balene, si preparavano le pelli degli orsi bianchi, delle renne, delle volpi azzurre, delle lontre marine. Potenti società si erano costituite all’uopo, le quali mandavano marinai, cacciatori e pesca¬ tori, ma dopo il 1750 decaddero. Scomparse le balene, diminuite le foche e le lontre, a poco a poco del tutto dal frequentare quei paraggi, che avevano insanguinati per oltre duecento anni. Oggi, solo poche navi baleniere, quasi tutte norvegesi, frequen¬ tano il mare di Barentz, occupate a distruggere quel poco che hanno lasciato quelle potenti flotte. Il giorno seguente la Stella Polare, che aveva messo definitiva¬ mente la prora al nord, avvistava Colguev, isola Iperduta fra la costa russa e la Nuova Zembla, tutta rocce e nevi, frequentata sol¬ tanto da pochi pescatori ' russi, i quali vanno a cacciare le ultime Due giorni dopo la Stella Polare si trovava attraverso la Nuova Zembla, vasta terra divisa in due isole, che serve di barriera al mar Essa è divisa in due dallo stretto di Matokin ed è separata dalla costa russa da quello di Jugor, il quale bagna le coste d’una terza Questa terra è inospitale, poco nota, disabitata, non essendo vi¬ sitata che dai pescatori di foche, i quali vi soggiornano il meno possibile, in causa del freddo eccessivo che vi iregna e della furia del vento polare. Quantunque cosi vicina alle coste russe, in novembre il termo¬ metro scende perfino a 32" sotto lo zero nei pressi della baia di Seichelen e nel luglio a malapena risale a + 5". — Questi hummoka non sono elle le avanguardie delle vere mon¬ tagne, — rispose il primo macchinista. — Quando saliremo più al nord, vedrai dei massi di ghiaccio che ti faranno impallidire. — Vere montagne, avete detto?... — E di dimensioni enormi, mio caro Hansen. — È vero signore ? — chiese la guida Ollier, che aveva compreso, volgendosi verso il tenente Querini che gli si trovava a fianco, in¬ tento a osservare i ghiacci. — Il signor Stoklren ha ragione, — rispose l’ufficiale, il quale, al pari degli altri, cominciava a capire un po’ la lingua norvegese. — Più al nord noi troveremo un numero infinito di montagne gal¬ leggianti. — La cosa mi sembra molto strana, signore, — disse la guida. — E perchè, mio bravo Ollier ? — Che vi siano dei banchi di ghiaccio, immensi finché si vuole, lo comprendo; ma non so spiegarmi come in pieno mare si possano formare delle montagne. Porse che sono onde gelate istantaneo- — Credete voi che vi possano essere delle onde alte quattro o cinquecento metri 1 — chiese il tenente, sorridendo. — Sappiate, in¬ nanzi tutto, che ordinariamente le onde non hanno, anche durante le grandi tempeste, che una elevazione di undici a tredici metri. Solo al Capo Horn se ne sono osservate di quelle elle toccavano i trenta metri, ma sono eccezioni. — Allora come spiegate la formazione di montagne di ghiaccio d’una simile altezza? — chiese Ollier, che non riusciva a racca- pezzarsi. — Nelle vostre montagne non vi sono dei ghiacciai ? — Sì, signor tenente, ed in gran numero. — Ebbene, anche nelle terre polari ve ne sono e forse pifi immensi, poiché se ne sono veduti di quelli che misuravano perfino cento chi¬ lometri di larghezza, specialmente nella Groenlandia. — Altro che quelli delle nostre Alpi !... — esclamò la guida. — Sono quei fiumi di ghiaccio che vomitano in mare quelle enormi montagne, che poi le correnti ed i venti spingono verso il sud. Ghiacciai ve ne sono un po’ dappertutto : allo Spitzbergen, alla Nuova Zembla, alla Terra di Francesco Giuseppe, in Groenlandia e sulle isole siberiane, senza contare quelli che vi sono sulle isole set- tentrionali dell’America. — E queste montagne di ghiaccio scendono tutte verso il sud? — No, girano attorno al polo, andando da oriente ad occidente. — Credete che vi siano altre terre verso il polo, oltre quelle — Lo si suppone. I geografi ed i naviganti credono che intorno al polo si estenda una vasta terra, la quale separerebbe il bacino polare in due parti distìnte, di cui una, l’europea-asiatica, sar ebbe stata toccata dal -Frinii di Nauseo e l’altra, più isolata, più fredda, coperta di ghiacci più spessi, si estenderebbe al nord dell’America. — Sicché intorno al polo, dinante l’inverno non si avrebbe una — No, e la regione più gelida si troverebbe verso le isole del¬ l'America settentrionale, nell’arcipelago di Farry. — Credete, signor tenente, che questi ghiacci abbiano qualche influenza sui nostri inverni? — Certamente, — rispose l’ufficiale. — Dalla maggiore o minor quantità di ghiacci che scendono dal nord, dipendono i nostri in¬ verni, dolci quando i ghiacci sono pochi, rigorosi quando sono abbon¬ danti. Al di sopra di queste distese di ghiaccio, che coprono ima fredda, reso pesante un bicchiere. I venti fredda, strappandola Il naufragio della a Fraga» 179 — Storia vera? — interruppe Torgrinsen, ammiccando gli occhi. — Tutti i giornali della Norvegia e della Russia l’hanno ripor¬ tata e un mio carissimo amico si trovava a bordo di quel legno. — Come si chiamava ? — Otto Olsen, uno degli eroi di quel disgraziato equipaggio. An¬ che S. A. R. il duca, che conosce tutte le storie polari, sono certo conosce la storia della Fraga, — Udiamo!... Udiamo!... — esclamarono parecchi marinai che ave¬ vano fatto circolo attorno al nostromo. — Il naufragio che sto per narrarvi, è avvenuto nel 1872, a non molte miglia da qui. La Fraya era una bella e solida nave da pesca, destinata alla caccia delle foche, delle morse e degli orsi bianchi, ed era coman¬ data dal capitano Tobiesen, un nostro compatriotta, vero marinaio, che aveva già fatto numerosi viaggi in questi paraggi. Partita verso la fine di maggio, aveva raggiunte felicemente le coste settentrionali della Nuova Zembla raccogliendo molte foche e molti trichechi, mammiferi che erano ancora numerosi in quel- Già ben carica di olio e di pelli, si disponeva a tornarsene in Nor¬ vegia, quando un brutto giorno si trova circondata dai ghiacci. Aveva banchi dinauzi, montagne di ghiaccio a babordo ed a tribordo e la costa a poppa. Tutti gli sforzi tentati dall’ equipaggio riescono vani e la povera nave viene bloccata strettamente da tutte le parti e trascinata verso Come voi saprete, ordinariamente le navi da pesca non fanno grandi provviste, tornando in patria al principio dei primi freddi. altrettanto, 180 Capìtolo quarto pitano. La morte dunque si presentava certa, non avendo che così poche provviste. Fu allora che il mio amico Olseu ed Enric Nielseu, due bravi marinai, si fecero innanzi dichiarando che non avrebbero inai accon¬ sentito a privare il capitano e suo figlio dei pochi viveri che resta¬ vano a bordo c che avevano deciso di imbarcarsi su una scialuppa e di andare alla ventura. \ Gli altri, incoraggiati da quel nobile esempio, vollero condividere le peripezie a cui andavano incontro quei due bravi e risolsero di Pure partono fidenti nella loro buona stella, attraversano i ban¬ chi di ghiaccio, e trovato il mare libero gettano in acqua la loro massi di ghiaccio, superando crepacci in fondo ai quali mugge l’astuto animale afferrava la foca che spiava da parecchie ore, soffo¬ candola fra le villose zampacce. I due cacciatori non perdono tempo; mirano con la coscienza di uomini affamati e uccidono, con due palle bene aggiustate, quel re dei mari polari. Quelle prede ebbero un risultato doppiamente fortunato ; da ima parte procurarono ai naufraghi un nutrimento sostanzioso, senza il quale sarebbero certamente periti di fame, dall’altra rivelarono loro un mezzo di caccia che potevano utilizzare, spiando, come aveva I marinai, dopo quella fortunata cattura, riprendevano la navi- che sollevava turbini di neve dai banchi di ghiaccio. preciso il tempo, giacché non avevano alcun calendario. Dopo alcune settimane essi si trovavano ancora alle prese con la meno incontrato un volatile su quelle coste desolate. Quando Dio volle, riescono filialmente a toccare le rive meridio¬ nali della seconda isola. Uno di loro scorge due ammassi di ueve che rassomigliano vaga¬ mente a delle capanne. Approdano, mettono in salvo il battello per impedire ai ghiacci di stritolarlo, si trascinano fra le nevi ed i ghiacci e riescono a. scoprire infatti due capanne, ma erano vuote e deserte. Pili tardi seppero che erano state costruite da due russi recatisi colà a cacciare durante l’estate. Impotenti a tirare innanzi, sia pel freddo intenso, sia per la farne, che li aveva estremamente indeboliti, risolvono di fermarsi per dar tempo ai più ammalati di rimettersi in forze. Olsen e Nielsen, elle erano i migliori cacciatori, battono intanto i dintorni per cercare della selvaggina e sono così fortunati da uc- 182 Capitolo quarto cidcve prima ima foca, poi due volpi azzurre e più tardi quattro Questi ultimi animali appartenevano ai due russi che avevano passato colà la buona stagione. Quelle povere bestie, vedendo de¬ gli esseri umani, credettero che fossero i loro padroni e si acco : starono alle capanne senza diffidenza, permettendo così ai marinai di ucciderle facilmente. di una piccola slitta abbandonata dai russi, attraversano lo stretto di ICara, allora gelato, e passano sull’isola di Vaigatz.. Questa seconda parte del viaggio fu ancora più penosa della puma, giacché quei disgraziati, torturati dal freddo e dalla fame, si trovarono continuamente avvolti fra uragani di neve così violenti da impedire la marcia. Un giorno Olsen e Nielsen, partiti per la caccia, si smarriscono fra quei deserti di neve. Cercano di raggiungere i compagni ed in¬ vece se ne allontanano sempre più. Disgraziatamente i loro cinque compagni, convinti che i due cac¬ ciatori fossero periti, dopo aver tenuto un breve consiglio, ave¬ vano deciso di continuare la marcia. Di qui l’impossibilità di po- Olsen e Nielsen, quantunque sfiniti, non si perdono d’animo. De¬ liberano di far ritorno alle due capanne dei russi e attendervi colà la buona stagione. Per quattro giorni marciano in mezzo ai turbini di neve, vivendo con una libbra di carne, poi Olsen cade sfinito al suolo. Il suo compagno che non se ne è accorto, si trascina sempre più innanzi finché arriva alle capanne. Accende il fuoco, arrostisco l’ul¬ timo boccone di carne che gli rimane, poi cade svenuto presso la Intanto Olsen, dopo lunghi sforzi, era riuscito, a sollevarsi. Mastica la pelle di foca che gli serve da coperta e che era ancora sanguino¬ lenta, poi si trascina a sua volta verso le capanne, ma le forze lo tradiscono un’altea volta e va a ricoverarsi sotto la scialuppa che avevano abbandonata in quel luogo. I due disgraziati non si risvegliarono che all’ indomani. Convinti che i loro compagni fossero morti, presero possesso delle due ca^ panne. II freddo era intenso e gli uragani si succedevano con una fre¬ quenza spaventosa, impedendo ai due marinai di percorrere i dintorni. Sarebbero morti indubbiamente di fame se Olsen non avesse avuto l’idea di frugare la neve che attorniava le capanne. Trovarono colà dei brani di carne, delle ossa e dei visceri di renna che i russi avevano gettati via e che il freddo, bene o male, aveva Con quelle nauseanti provviste tirarono innanzi fino al giorno in cui ebbero la fortuna di uccidere una renna, ma quasi il destino corgono di non aver nemmeno uno zolfanello per accendere il fuoco. Fu ancora il mio amico che provvide alla salvezza d’entrambi con una felice ispirazione. Strappa dalla barca un po’ di corda, la sfilaccia, ne fa quindi imo stoppaccio che pone su della polvere. Ecco ottenuto il fuoco che di una delle due capanne. Giunto finalmente l’aprile, i due marinai lasciavano per sempre la capanna che li aveva ricoverati dm-ante la paurosa notte polare, e scendono lungo le coste meridionali della Nuova Zembla. Non ave¬ vano che tre cariche di polvere e pochissimi viveri. Alcuni giorni dopo scoprivano alcune capanne. S’avanzano in quella direzione e cadono fra le braccia dei loro compagni che ave¬ vano pianti per morti. — Quali? — chiese Torgrinsen. — Quelli che avevano continuato la marcia, credendo che i due — Si erano dunque salvati? — Avevano avuto questa fortuna. Come dissi, non si erano ai-re¬ stati per attendere Olsen e Nielsen. 184 Capitolo Quantunque non avessero armi da fuoco e fossero quasi a secco di viveri, avevano continuato a seguire le coste, ritornando verso la Nuova Zernbia. Di notte, per ripararsi dal freddo, così mi fu raccontato, erano costretti a scavarsi delle buche o cacciarsi in mezzo alla neve. Dopo sei giorni erano rimasti senza viveri. Al settimo uno di loro cadde morto di stenti e di freddo. Quei miseri si sentirono allora invadere dalla disperazione. Brano affamati, intirizziti dal freddo, ammalati e sfiniti. Non pensarono nemmeno a seppellire il loro compagno. Abban¬ donarono la slitta che non erano più capaci di trascinare e la maggior parte dei loro oggetti e fuggirono verso il sud. Dopo quattordici miglia cadevano tutti al suolo. Si erano già ras¬ segnati ad attendere la morte, allorquando uno di essi, che si era un po’ allontanato, tornò presso i compagni annunciando di aver sco¬ perto della legna e le tracce d’una slitta. Quelle liete notizie danno un po’ di vigore a quei disgraziati. Accendono il fuoco, si riscaldano, poi due di loro partono per cer¬ care qualche capanna. che si erano stabilite su quella terra desolata. Quelle povere genti si recarono tosto in cerca degli altri e li por¬ tarono alle proprie capanne, prodigando loro le più affettuose cure. Quei sei marinai, cosi miracolosamente salvati, passarono parte della primavera fra i samoiedi, poi costruitasi una scialuppa poterono raggiungere l’isola di Vaigatz, dove poi i russi li rimpatriarono. — E del capitano Tobiesen, cosa accadde ? — domandò il car- — 11 governo norvegese, avvertito del caso disgraziato, mandò una nave a cercarlo, ma tutte le indagini riuscirono vane. La Frmja ed i suoi disgraziati marinai erano stati, probabilmente, inghiottiti dall’Oceano polare. — Capitolo (/imi 188 Sul cielo, assai cupo, si distingueva ad intervalli una luce bian¬ chissima, quel chiarore che proiettano 1 banchi di ghiaccio. — È l’ ice-blink, — disse Andresen al velaio, che lo interrogava. — E indica la presenza di grossi ghiacci, — aggiunse il tenente Queriui, che già comiuciava a comprendere il norvegese. — Così presto ! — chiese il velaio. — Potete dire così tardi, — rispose il giovane nostromo. — Gli anni scorsi, in quest.’ epoca, non si poteva sempre avanzare. La Stella Polare ha avuto una bella fortuna finora. — Piccoli no di certo, mio caro. Domani la Stella Polare proverà la resistenza del suo scafo. — Credete che siano tali da arrestare la nostra corsa! — chiese 'il tenente Qnerini. — Non mi sorprenderei, signore. Tuttavia troveremo qualche pas¬ saggio, sia piii all'est o più all’ovest. — Eppure ci troviamo ancora lontani dalla Terra di Francesco Giuseppe. — Quattro o cinque giorni di navigazione, se questa tempesta non ci caccia fuori dalla rotta. — Conoscete il Capo Flora? — Sì, signor tenente. — Nansen ne ha dato una descrizione stupenda. È realmente pittoresco ? — Splendido, signore. — Credete che troveremo ancora le capanne degli inglesi e quelle di Jakson? — Le nevi non devono averle danneggiate. Non sono situate su banchi di ghiaccio, bensì a terra. — E vi troveremo ancora dei viveri ? — chiese il velaio. — Ed anche armi, istrumenti scientifici, libri, carte da giuoco, ed altro. Gl’inglesi che le hanno fatte costruire, perchè servissero di ri¬ fugio ai naufraghi od agli esploratori polari, non hanno lesinato. D’altronde erano ricchi signori. Orsù, il mare non pensa di volersi calmare. La nottata non sarà troppo buona. — Nottata di luce, — disse il tenente, sorridendo. Nei paraggi dello Spilzberger — Sì signori, — rispose, il nostromo. — Si ha sempre l’abitudine di chiamarla notte, mentre ha poco da invidiare al giorno. — Come aveva ben detto il giovane nostromo, il mare, lungi dal cal- Delle raffiche freddissime, capitavano addosso alla Stella Polare, a brevi intervalli, fischiando fta i mille cordami dell’attrezzatura e urlando stranamente fra i pennoni e l’alberatura. Vi erano dei momenti di calma, ma poi le folate si succedevano con maggior frequenza e con maggior forza, facendo crepitare per¬ fino i robusti alberi di vero pino norvegese. Le onde diventavano stranamente selvagge e avevano dei riflessi sinistri. Sferzate dalle raffiche rimbalzavano disordinatamente, si ac¬ cavallavano con rabbia estrema, polverizzando le loro creste e luta¬ vano poderosamente i fianchi della Stella Polare facendo gemere i corbetti ed i puntali delia coperta. Talvolta un nembo di spuma si slanciava fino sulle murate e si rovesciava sulla tolda, sfuggendo poi a fatica dagli ombrinali. I ghiacci aumentavano sempre, però non erano ancora tali da costituire qualsiasi pericolo. Si urtavano fra di loro con cozzi vio¬ lentissimi, mandando in aria schegge in gran numero; oscillavano sulle creste spumeggianti, scintillando ora come [diamanti ed ora come smeraldi, poi strapiombavano negli avvallamenti. Di quando in quando qualche pelle o qualche slream veniva ad in¬ frangerei contro i fianchi della nave e la stiva risuonava con cupo La Stella Polare però aveva provato ben altre tempeste che quella ! rabbia delle onde. Quantunque molto immersa per l’eccessivo carico, montava intre¬ pidamente i marosi; scuotendosi di dosso la spuma ohe avvolgeva acque ed i ghiacci col robusto sperone. Sul tardi le raffiche cominciarono a diventare meno frequenti e meno impetuose ed il cielo a romperei. Fra gli strappi delle nuvole appariva ad intervalli il sole di mez¬ zanotte, tingendo i vapori d’oro e di rame. — Abbondano su quelle coste ? — Se ne trovano ancora non poche, malgrado le stragi immense fatte dai nostri nonni. — È vero che ora quelle isole, ritenute quasi inaccessibili, sono molto frequentate ì — Le isole dello Spitzbergen sono diventate un paese da touristes, signor tenente. Una compagnia norvegese ha costituita una linea di navigazione e si è anche costruito un albergo pei visitatori. Ne volete saper di più ? Vi è pel-fino un ufficio postale e si sono stampati dei francobolli spitzbergensi. Nei paraggi dello Spitzbergen mente molto remoto, erano coperte di foreste che nulla avevano da invidiare a quelle africane. — È vero, — disse il tenente Querini. — Da osservazioni recenti fatte dal signor Carlo Bibol alle isole dello Spitzbergen risulterebbe che nelle epoche cretacee, giurassiche e terziarie, quelle terre erano coperte da una flora tropicale, poi subtropicale. Quello studioso ha potuto trovare molte piante fossili, avanzi di tigli, di platani, di cipressi e le impronte lasciate fra le rocce, di foglie e perfino di frutta. — Anche nella Groenlandia si sono trovate le tracce di foreste di palme, — disse il capitano Evensen. — Come sulle coste siberiane, nelle Tundras si sono trovati avanzi di mammouth, animali che non potevano vivere che nei climi cal¬ dissimi come i loro cugini gli elefanti. — Quale strano cambiamento ! — esclamò il macchinista, il quale ascoltava attentamente quella interessante descrizione. — Prima le palme tropicali ed ora i ghiacci eterni!... In seguito a quale spa¬ ventevole cataclisma è avvenuto questo cambiamento di tempe¬ ratura? — Niente cataclismi, — disse il tenente Querini. — Si deve esclu¬ sivamente al raffreddamento della terra, lento sì ma costante e che continuerà senza posa. — Voi dunque credete signore, che un tempo questi mari siano stati navigabili? — Certo. — E da quando si sono coperti di ghiacci? — È impossibile stabilirne l’epoca, però non si esclude che mille anni or sono fossero piò navigabili del giorno d’oggi. — È vero, — disse il capitano Evensen. — Quando i primi iseoto- danesi si spinsero alla conquista delle terre artiche, tra il 900 e il 1000, l’Oceano Artico non doveva essere ancora coperto di ghiacci cosi enormi come lo ò oggidì. In quelle lontane epoche la Groen¬ landia non era ancora un deserto di ghiaccio, diversamente Erik il Bosso, non l’avrebbe chiamato Terra Verde. E poi come avrebbero potuto vivere dei buoi nella Groenlandia ? Provate a portarne uno oggidì e siete certo che non camperebbe, mentre all’epoca.... Per sedici lunghissime ore la Stella Polare errò dinanzi alla mu¬ raglia, evitando destramente le strette dei ghiacci che la minaccia¬ vano a poppa, poi un vigoroso colpo di vento di ponente cominciò a sconvolgere le nebbie. Le masse di vapore ondeggiavano burrascosamente, alzandosi ed abbassandosi. S’apriva uno squarcio, poi si rinchiudeva, quindi tornava ad aprir¬ sene un altro piò lontano. Le raffiche di ponente che si succede¬ vano con maggior frequenza, incalzavano i vapori, aumentavano gli strappi. Finalmente quel velo pesante e umido, che opprimeva gli animi di tutti, cominciò ad alzarsi, fuggendo, in ondate immense, verso levante. I ghiacci, che fino allora si scorgevano vagamente, comparvero quasi tutti d’nn colpo. Dinanzi alla Stella Polare s’estendeva una massa enorme, un floe, ossia campo di ghiaccio formato dal congelarsi dell’acqua di mare. Le pressioni che doveva aver subito nelle regioni piò settentrionali dovevano averlo danneggiato assai, tuttavia presentava una fronte ancora troppo compatta per lo sperone della Stella Polare. ;esi ed anche agli inglesi. Vuoi piesti uomini, guidati dal Duca, jonti’o una pipata di tabacco. di tabacco, — disse Capitolo Il governo americano, inquieto per l’assenza completa di notizie da parte di quei valorosi esploratori, arma il Proteo ed anche questo, dopo una difficilissima navigazione, viene arrestato presso il Capo Sabine. I ghiacci gli si stringono addosso, lo accerchiano, lo schiacciano e l’oceano Artico lo inghiotte. II suo equipaggio viene salvato con molti stenti da una nave ba¬ leniera che incrociava in quei paraggi e ricondotto in patria. Quando il governo degli Stati Uniti apprese la notizia di quel disastro, la costernazione fu generale. Tutti ormai erano convinti della perdita totale dei membri della spedizione. era possibile rifornirli prima del ritorno della nuova stagione. L’anno seguente, appena lo stato dei ghiacci poteva permei terlo, due nuove navi vengono mandate: il Bear ed il Tlulis. Esse dopo molti sacrifìci riescono a raggiungere l’isola Littleton e trovano intatti i viveri sbarcati dal Nettuno. Greely non vi si era dunque recato. Si fanno delle esplorazioni lungo le spiagge dell’isola e si riesce a trovare in un cairn un rotolo di carte. Appartenevano a Greely e contenevano le note della spedizione fino al 21 ottobre del 1883. Le due navi stavano per abbandonare l’isola, essendo tutti con¬ vinti della morte degli esploratori, quando sulla cima d’nna rupe Le due navi s’arrestano e fanno segnali colle bandiere. Quell’ uomo scende penosamente la rupe agitando una piccola bandiera ameri¬ cana. Era così sfinito che ogni dieci passi cadeva a terra. Finalmente i marinai delle due navi lo raggiungono, lo sollevano e lo portano al capitano del Bear. Lo si opprime di domande e si viene a sapere che egli apparte¬ neva alla spedizione, e che sette persone erano sopravvissute ai ter¬ ribili freddi dell’inverno polare. Quell’ uomo era ridotto in uno stato compassionevole. Era un vero scheletro, e le sue mascelle, agitate da un tremito convulso, appena riuscivano ad aprirsi. «Vive Greely?... 207 «Nella tenda, ma la tenda è caduta!... è caduta!... è caduta. » E ripeteva macchinalmente questa frase. Pareva che la caduta della tenda fosse la sua principale preoc- II comandante ne sapeva perfino troppo. Organizza rapidamente una colonna di soccorso fornendola di viveri e di cordiali e corre in cerca di Greely. Dietro ad una rupe trovano la tenda. Era mezza caduta, non avendo per sostegno che un solo bastone. Si solleva la tela indurita dal freddo, la si taglia a colpi di coltello e-si trova presso l’entrata un cadavere colle gambe irrigidite, gli occhi vitrei e fissi nel vuoto, con ima mascella quasi staccata; più innanzi trovano un altro disgraziato senza mani e senza piedi, con un cucchiaio attaccato al moncone del braccio destro. Quest’ultimo per quanto in uno stato così spaventevole respirava ancora. In mezzo alla tenda vi erano altri tre uomini: due stavano ac¬ coccolati, tenendosi fra le mani la fronte; il terzo si teneva strette le ginocchia. Questi aveva la barba lunga e incolta, aveva gli occhi brillanti e spalancati e indossava una sucida veste da camera tutta a brandelli. « Chi siete voi ? » gli chiese il capitano. L’uomo dalla veste da camera lo guarda come inebetito, poi ri¬ sponde.: « II.... il.... maggiore.... Greely.... Sette di noi.... vivono ancora.... siamo qui.... morendo.... da uomini.... ho fatto quanto ho potuto.... » Poi ricadde esausto. Quei disgraziati furono portati a bordo ed a poco a poco si rieb¬ bero, ma su ventiquattro, diciassette, fra i quali il dottor Pavy, erano morti di fame e di stenti fra i ghiacci polari !... — Una catastrofe che fa riscontro, in piccole proporzioni, a quella di Franklin, — disse 11 tenente. — 0 meglio a quella della Jean nette, signore, — concluse il capi- Intanto la Stella Polare continuava la sua rapida marcia verso PARTE TERZA Capitolo I La scoperta della Terra di Francesco Giuseppe L’arcipelago Francesco Giuseppe è noto solamente da ventisette anni. Prima del 1873 nessuno aveva mai supposto che in quella di¬ rezione s’ estendessero vastissime isole, quantunque moltissimi ba- 214 Capitolo primo L’inverno fu terribile. La nave, stretta fra le tremende pressioni dei ghiacci, corre parecchie volte il pericolo di venire fracassata assieme a coloro che la montano, pure resiste vittoriosamente. La primavera del 1873 non apporta nessun felice cambiamento. Il Tegetthoff, sempre rinserrato nel walte, viene trasportato alla de¬ riva verso il nord-nord-ovest, descrivendo una specie di semicerchio interrotto da immensi angoli. L’estate s 5 avanzava ed i due comandanti, con vera angoscia si credevano destinati a tornarsene in patria senza nave e senza aver eseguito nessuna parte del loro programma, quando nel pomeriggio del 30 agosto, a 79” 43' di lat. ed a 59° 33' di long, i due coman¬ danti scorgono, verso il nord, attraverso le nuvole indorate dal sole, Payer e Weyprecht dapprima rimangono come sorpresi, come af¬ fascinati, non volendo credere ai loro occhi. Credevano d’aver dinanzi degli ice-hertjs, poi vedono delinearsi invece nn superbo rilievo alpestre. Non vi è più dubbio: una terra si alza ai confini dell’orizzonte. Un grido sfugge dai loro petti. . Quel grido fu tale, che in un attimo non vi fu nn solo amma¬ lato a bordo, — scrive Payer. — In un attimo la prodigiosa notizia si propaga in tutti gli angoli della nave e tutti si precipitano sul Era proprio vero. La deriva ed il banco di ghiaccio avevano fatto ciò che non ave¬ vano potuto ottenere il coraggio e la perseveranza di quegli audaci esploratori. paese magicamente uscito dal caos polare. Gli esploratori erano però nell’impossibilitò, almeno pel momento, di poter porre i piedi su quella terra che si delineava ormai distin- banco di ghiaccio. La deriva era forte e se alcuni dell’equipaggio avessero osato inoltrarsi attraverso i banchi, sarebbero probabilmente La scoperta di Francesco Giuseppe Tuttavia nel primo impeto di entusiasmo, quegli uomini si slan¬ ciano sui banchi di ghiaccio, come se avessero potuto raggiungere così facilmente quella terra che sempre più emergeva. Giunti all* estremità del moke s’accorgono che sono ancora a quin¬ dici miglia da quella costa. Non potendo andare più innanzi scalano una montagna di ghiac¬ cio per cercare di distinguere meglio la configurazione di quel mi¬ sterioso paese, di cui i navigatori non avevano mai sospettata l’esi- Fu dall’ alto di quell’ ioe-bmj che gli austro-ungarici battezzarono quelle terre col nome di Francesco Giuseppe in onore del loro sovrano. Dal Capo Tegetthoff, cosi chiamata la prima altezza scoperta, fino ai contorni indecisi che si prolungavano verso il nord-ovest, la fronte rilevata abbracciava non meno d’ un grado di latitudine ; ma poiché le parti più meridionali si trovavano molto lontane dalia nave, i membri della spedizione mancavano di elementi per determinare, anche approssimativamente, la configurazione topografica della terra scoperta. Intanto la deriva spingeva lentamente la nave fra quelle grandi isole che continuavano a delinearsi in varie direzioni. Il 31 ottobre il Tegetthoff si trovava a tre sole miglia da un pro¬ montorio assai basso. Era il momento atteso dagli esploratori per visitare quelle terre che da tanto tempo apparivano ai loro occhi senza poter porvi sopra Payer, seguito da alcuni compagni, scala gli hummoks che circon¬ dano la nave e si slancia, attraverso i banchi di ghiaccio, giungendo felicemente su quella costa tanto sospuata. « Il suolo su cui posammo il piede, — narra il fortunato esplora¬ tore, — ero composto di un miscuglio di neve, di roccia e di ghiaia d’ogni specie, insieme congelati, ed era il più orribile del mondo; ma per noi fu come un ridente vestibolo del paradiso. « Meravigliati dello nostra conquista, spingevamo lo sguardo cu¬ rioso in ogni crepaccio di rupe, toccavamo amorosamente ogni masso e senza lesinare, adulavamo ogni fenditura riempita di ghiaccio chia¬ mandola un ghiacciaio. Capitolo « La costituzione geologica del paese età identica a quella delle isole del Pendolo, che si trovano sulle coste occidentali della Groen¬ landia; qui come laggiù, la roccia era una dolerite. « Quanto alla vegetazione, in quel luogo ora d’una povertà incre¬ dibile, consistendo solo in alcuni umili licheni. « Non renne, non volpi; tutta l’isola, giacché questa prima terra da noi esplorata era un’isoietta, pareva assolutamente priva di esseri viventi. « Ascesa un’ alta scogliera, abbracciammo con lo sguardo, al sud, il panorama rigido del mare fino a parecchie leghe al di là della nave. ■ Quale grandioso spettacolo di desolazione!... E quanta attrattiva esercitava su noi quella specie d’escrescenza rocciosa dove eravamo approdati!... Nessun paesaggio soleggiato di Oeylau avrebbe prodotto su di noi un’impressione così poetica. -1 nostri cani sembravano dello stesso parere giacché galoppavano Wilctek. Giuseppe quindi l’isola Hohenloe, poi la Terra d’Austria della isola Rodolfo, spingendosi fino al Capo Fligety a 12° di lat. e creduto d’intrave¬ dere più al nord delle montagne chiamandole Terra di Petermaun e quindi altre ancora chiamate Terre del Re Oscar. Come si vedrà in seguito queste due terre non esistevano affatto e doveva spettare alla spedizione italiana accertare la loro inesi- Dopo Payer il signor De Bruyne, col Willuìlm Bemntis intrapren¬ deva l’esplorazione di quel vasto arcipelago, toccando l’isola North- brook il 7 settembre del 1879, isola sulla quale si trova il Capo Flora, prima mèta della Stella Polare. Quindi lo segue il signor Leight Smith, a bordo dell’atra, che in questo viaggio delinea meglio la Terra Alessandro e fa numerose raccolte zoologiche, botaniche e geologiche di molto interesse. Nel 1894 il signor Jackson sbarca al Capo Flora, dove costruisce due capanne provvedendole di viveri, di armi, di coperte, di carbone, e vi sverna, ma l’anno dopo è costretto a far ritorno in Norvegia, Nel 1896 a bordo del Windtconl ritorna alla Terra di.Francesco Giuseppe dietro preghiera del signor Harmsworth, per audace in cerca della spedizione di Nansen. Studia ed esplora tutto il bacino orientale completando le ricerche di Payer e di Leight Smith ed è così fortunato da raccogliere Nan¬ sen ed il suo compagno Joliansen. Ma molto ancora rimaneva da scoprire, e doveva toccare all’il¬ lustre norvegese. Questo ardito esploratore passò un inverno intero in quelle regioni, dopo il suo abbandono del Fremi, in compagnia del suo fedele Johan- sen, il quale divise con lui le fatiche, i patimenti ed i pericoli. Questi ultimi furono i veri Robinson della Terra di Francesco Giuseppe, sulla quale rimasero dal 26 agosto del 1895 al 19 maggio del 1896, ossia fino al loro incontro con la spedizione comandata da Capitolo II Il Capi Flora Mentre la spedizione austro-ungarica in quella stessa latitudine e quasi nello stesso mese aveva incontrato grandi banchi di ghiaccio dinanzi alle isole della Terra di Francesco Giuseppe, la Stella Po¬ lare, nel momento in cui avvistava il Capo Flora, trovava, per una fortuna veramente straordinaria, il mare quasi libero. Era un felice augurio, poiché l’assenza di quei grandi banchi ohe avevano impedito al Tet/etthoff di accostare la terra scoperta, la¬ sciava sperare una rapida e buona navigazione attraverso il'Canale Britannico, via scelta per spingersi più tardi verso il nord. Al grido di: — Terra!... Terra!... — tutti si erano precipitati verso prora, vol¬ gendo gli sguardi verso il nord, dove si vedevano biancheggiare alcuni picchi nevosi, semi-nascosti fra le brume che ondeggiavano Una viva emozione era dipinta su tutti i volti. I comandanti, i Era ben quella la terra che doveva servire di base d’operazione pel futuro viaggio verso il polo. Quegli audaci dovevano provare in quel momento la medesima emozione che aveva provata il grande navigatore genovese, veden¬ dosi apparire dinanzi agli occhi la prima isola americana, o quella, così vigorosamente descritta da Payer, quando gli si delineò dinanzi il Capo Tegetthoff. — È proprio terrai — chiese Ollier al tenente Querini. — A me paiono monti di ghiaccio. — Dinanzi a noi sta il Capo Flora dell’isola Northlirook. — E quando sbarcheremo? — Domani. — Sono ansioso di porre i piedi su quella costa, signor tenente. — Ed io non meno di voi. Abbiate pazienza e vi giungeremo. — Nessuno pensò a coricarsi, nemmeno 1 marmai norvegesi. Tutti Capitolo andare però questi fiori e occupiamoci dei trichechi, o quegli anfibi se ne andranno senza aver fatta la conoscenza coi nostri fucili. — E cerchiamo di non farci scorgere prima di essere a tiro, si¬ gnor tenente, — aggiunse Stokken, il quale parlava abbastanza cor¬ rentemente il francese. — To conosco molto bene quegli animali e so quanto sono diffidenti. — Li avete cacciati altre volte? — Si, signor tenente. Ho preso parte ad una spedizione all’isola Jean Mayen. — Allora vi daremo la carica di capo cacciatore, — disse il Que¬ ruli ridendo. I due anfibi non si erano ancora accorti della presenza dei loro nemici; continuavano ad avvoltolarsi fra la neve che copriva il banco di gbiaccio, godendosi i pallidi raggi del sole. Questi abitanti dei climi freddissimi si trovano ancora in gran numero sulle isole artiche ed anche sul continente antartico, nonostante la caccia fe¬ roce, spietata, che da tre secoli danno loro i pescatori inglesi, ame¬ ricani, russi, danesi e norvegesi. Dagl’ inglesi vengono chiamati cavalli marini, dai norvegesi ro¬ solar, dagli esquimesi aviak, ma sono meglio conosciuti sotto il nome di trichechi o di morse. Nel loro pieno sviluppo sono lunghi ordinariamente quattro metri e qualche volta anche di più, toccando non di rado anche i cinque, con una circonferenza di tre o quattro metri. Il loro peso varia fra i novecento ed i mille chilogrammi. Hanno la testa piccola in proporzione alla rotondità del corpo, con un muso corto e largo, il labbro’superiore assai carnoso e pili sporgente dell’ inferiore, baffi grossi e sempre irti come quelli di mi gatto in collera e gli occhi piccoli e brillantissimi. I loro denti canini, che sporgono fuori dalla mascella superiore, anfibi un aspetto formidabile. Sono di un avorio bellissimo, com¬ patto, con una grana più fina di quella degli elefanti e pesano cia¬ scuno perfino tre chilogrammi. La pelle di questi animali è sprovvista di peli, di colore grigio più o meno chiaro ed è rugosa, irta di promi¬ nenze che derivano da ferite, essendo di umore battagliero. 232 Capitolo terzo Già li credevano a portata dei loro vetterli, quando i due anfibi, che da qualche tempo davano segni d’inquietudine, si trascinarono frettolosamente sul margine del banco, lasciandosi cadere pesante- — Perduti! — esclamò il tenente. — Forse non ancora, — rispose il macchinista. — Possono essersi nascosti sotto il banco di ghiaccio e siccome hanno bisogno di tornare a galla per respirare, non è improbabile che si mostrino — Corriamo !... — Con passo veloce superarono la distanza che li divideva dalla spiaggia e si arrischiarono sul banco di ghiaccio il quale non ce¬ dette sotto i loro passi, quantunque crepitasse minacciosamente. distintamente un’ ombra gigantesca guizzare sotto i flutti, portan¬ dosi verso il largo. — Ah ! I bricconi ! — esclamò il macchinista. — Fuggono fuori dalla baiai... — Ecco che riappariscono per respirare, — disse il tenente. — Ma sono a cinquecento metri e non mostrano che il naso, — rispose il macchinista. — Che non si possa catturarne nemmeno uno! — Ne troveremo altri, signor tenente. Non diventano radi che all’avvicinarsi dell’inverno e siamo ancora lontani do quell’epoca. — Ditemi, signor Stokken, è vero che una volta i trichechi erano immensamente numerosi su queste terre 1 — Una volta sì, ma ora scarseggiano dovunque. Io so che due¬ cento anni or sono, nella sola isola degli Orsi se ne uccisero mille in una sola giornata. — Mille avete detto ! — esclamò il tenente. — Sì, signor Querini, mille, e quei cacciatori erano tutti norve¬ gesi. So pure che al principio del 1700 se neuccidevano ancora dai settecento agli ottocento in una stagione di caccia. Ora bisogna sudare molto e navigare a lungo per ucciderne due o trecento. Tuttavia i trichechi sono ancora numerosi sulle spiagge dello Spitz- bergen. Non vi era tempo da perdere. Spinti da una libecciata - s’accostavano rapidamente, minacciando d’imprigionare la Il capitano Evensen, accortosi del pericolo, richiamò les a bordo l’equipaggio, di cui una parte era a terra, occupat sporto dei viveri e si rimise alla vela per trovare un altro ani S. A. E. e Cagni erano già a bordo, a sorvegliare la n Il nuovo ancoraggio fu subito trovato, poche gomene più dietro una fila di scogliere, capaci di arrestare la minacele Capitolo Bisogna andare innanzi e s’andrà, a dispetto degli ostacoli e S. A. R., dal ponte di comando, a fianco di Cagni e di Evensen, comanda intrepidamente la manovra. Ha gii occhi a tutto e non cessa di dare comandi. — Macchinista, a tutta forza!... Attenti all’ urto !... Un altro ca¬ nale al nord!... Avanti!... — La Stella Polare s’avanza faticosamente, ma senza tregua. Quando il ghiaccio non cede all’urto, indietreggia, prende lo slancio, poi si avventa ferocemente addosso all’ ostacolo. Gli alberi tremano fino alla scassa, i madieri gemono, i pennoni oscillano, gli oggetti dispersi pel ponte trabalzano, gii uomini car dono, i cani mandano ululati lamentevoli, ma la voce limpida e squillante del giovane Duca risuona sempre eguale: — Sì avanti, sempre avanti Savoia ! — grida Oardenti, il bollente marinaio italiano. Un altro banco viene attaccato, sminuzzato e la Stella Polare gua¬ dagna un altro canale, filando a tutto vapore. — Ne avremo per un bel pezzo, — mormora Andresen. — Riu- — Non avete speranza? — chiese il tenente Querini, che s’era spinto fino al castello di prora per rendersi conto dello spessore dei ghiacci. — Temo, signore, che saremo costretti a tornare indietro. Vedo dei numerosi ice-bergs all’ orizzonte e quei colossi non cederanno allo sperone della nostra nave. — Lo dubito, signore, — rispose il giovane mastro. — Che siamo costretti a cercare un passaggio sulla Terra Ales- — Pur troppo. — Allora non incontreremo la Cappella. — Può darsi che quella nave a quest’ora si trovi prigioniera. — Credo che vi sia poco da sperare, tenente, — disse il capitano Capitolo quarto dolce splendore, mentre il sole si avvicinava al nord tuffandosi obli¬ quamente, essendo prossimo il tramonto. Un arco abbagliante, circondato da nuvolette rosse, brillava verso il settentrione, proiettando sul cielo riflessi d’oro e facendo scintil¬ lare le acque dei canali. 11 colore dei campi di ghiaccio e degli ice-hergs era meravigliosa¬ mente variato. Sul cielo smaltato d’oro dai riflessi del tramonto, essi spiccavano in violetto cupo ; a oriente e ad occidente erano color delle ametiste, degli zaffiri e degli smeraldi, tinte che a poco a poco illanguidivano Ano a diventare bianco-perlacee. A mezzodì invece, i ghiacci che si rinserravano dinanzi alla nave, come se avessero voluto impedirle il ritorno, parevano d’argento greggio con qualche venatura d’oro fuso. La Stella Polare, insensibile a quelle bellezze che solamente nelle regioni polari si possono ammirare, s’accaniva contro quegli ostacoli risplendenti delle più vaghe tinte che si possa immaginare. La sua prora percuoteva fieramente i banchi, con fragori assor¬ danti, spezzando, lacerando, sfondando. Staccava lastroni, li frantu¬ mava col proprio peso e )i ricacciava indietro dove l’elice, turbi¬ nante, finiva per sminuzzarli. Parte dell’equipaggio, stanco per quella lunga lotta, si era ritirato per prendere un po’ di sonno, molto difficile però, con quei continui colpi, a gustarsi, ma il giovane Duca ed i suoi ufficiali non avevano abbandonata la coperta. Il giovane animoso, fra Cagni ed Evensen, comandava la mano¬ vra, additando i canali che si dovevano raggiungere ed incoraggiando tutti con la voce e con l’esempio. Eppure, anche fra quelle pericolose manovre, si mostrava, come sempre, ilare, sereno, trovando il tempo di rivolgere una parola affa¬ bile a tutti, ad ufficiali ed a semplici marinai e ridendo di quei con¬ tinui trabalzi che mandavano a gambe levate uomini o cani. L’indomani la Stella Polare, ohe aveva rifatto il cammino peri¬ coloso, passando dinanzi al Capo Porbes ed alla baia di Batter che si apre sulle coste orientali della Terra Alessandra girava la punta Stephens muovendo verso quella di Grant, ohe è la più meridionale. Lotta coi ghiacci 249 — È almeno buona la carne? — Puah 1 — fece il macchinista. — È di color bruno e sa di pesce rancido e di salvatico. — Questi anfibi scemeranno rapidamente colle cacce accanite che fanno gli esquimesi. — Sono ancora molto numerosi, signor tenente. E poi non è già nella Groenlandia che si fanno i grandi massacri. Bisogna andare nelle isole del mare di Beheriug. Là si fanno delle stragi orrende, tali anzi che il governo americano ha dovuto porvi un argine con delle leggi severe. — Sono le foche orsine che si uccidono colà, è vero? — Sì, signor tenente e non si trovano che su poche isole, alle Prebytoff e su quelle del Comandante. Nè più al sud, nè più al nord capita di vederne. — È molto strano che quelle foche abbiano simili preferenze. — E ciò ad onta che tutti gli anni i cacciatori facciano dei mas¬ sacri spaventevoli. Quelle foche, che vengono anche chiamate gatti marini, si riuni¬ scono sulle spiagge di quelle isole verso la fine di maggio. Arrivano già precedentemente scelti da alcuni vecchi esploratori. Da quel momento ogni rumore deve cessare sulle isole: si proi¬ bisce agli abitanti di fare fuoco anche contro i volatili e le volpi, per non spaventare gli anfibi. Gli accampamenti sono assai curiosi a vedersi. I maschi più ro¬ busti prendono posto presso l’acqua, assieme alle loro femmine, più in alto, verso le rocce si radunano i giovani minori di tre armi, quindi più su ancora i vecchi che non hanno la forza dì difendere le proprie mogli. Era i primi, i secondi ed i terzi vi 'sono delle zone neutre che tutti possono percorrere, ma guai se uno entra nell’ accampamento dell’altro! Viene immediatamente assalito ed ucciso. La legge americana votata nel 1858 ha stabilito che si rispettino le femmine ed i maschi superiori ai quattro anni. I cacciatori quindi, giunta l’epoca delle stragi, si gettano fra le zone neutre, lasciano fuggire i maschi e le femmine del primo ac- non abituate a navigare. Non potendo prendere parte alla manovra, non riuscendo a distinguere un paterazzo da un semplice gherlino, avevano ricevuto ordini speciali. Alle sei e mezzo dovevano alzarsi, alle sette occuparsi dei cani, pulire i canili e dare da mangiare alle bestie, alle nove pulizia delle cabine destinate agli ufficiali, e degli abiti di questi, poi secondo Anche i pasti erano stati regolati dal Duca. Alle otto colazione, a mezzogiorno pranzo, alle sei e mezzo cena, e sempre pasti abbon¬ danti e variati, bene preparati dal cuoco italiano imbarcato ad Ar¬ cangelo in surrogazione del norvegese che non accomodava a nes¬ suno. Anzi lo avevano chiamato scherzando, V avvebnatore. Alla sera poi, a chi non toccava il quarto, era concesso di leggere, o scrivere e di giocare alla dama, ai tarocchi o al domino e le partite si se¬ guivano fino a che i giocatori venivano sorpresi dal sonno. Il 27 luglio la Stella Polare s’impegnava in mezzo ad immensi campi di ghiaccio, accumulatisi nel Canale Britannico. Fin dove giungeva lo sguardo non si scorgevano altro che am¬ massi di ghiaccio di forme irregolari, stretti attorno ad alcuni ice- bert/s fluttuanti pericolosamente. S’aprivano, poi si rinserravano, quindi tornavano a stringersi sotto le pressioni che esercitavano degli sforzi poderosi. Di quando in quando detonavano come se delle mine scoppias¬ sero nel loro seno, poi dei cumuli sì formavano qua e là alzandosi in forma di piramidi per poi sfasciarsi con cupi rimbombi. A tutti sembrava impossibile di dover forzare quelle barriere, ma il Duca la pensava diversamente. — Passeremo, — aveva detto al capitano Evensen. — I,o tenteremo, — aveva risposto il vecchio baleniere. B la Stella Polare s’era scagliata a tutto vapore in mezzo a quei banchi speronando furiosamente tutti gli ostacoli che incontrava. La spedizione giocava una carta pericolosissima, perchè la nave poteva venire, da un momento all’altro, imprigionata; ma tutti avevano cieca iìducia nell’esperienza del vecchio baleniere e nella calma audacia del giovane Duca e di Cagni. La lotta era cominciata con vero furore. La Stella Polare inve- — Siete proprio certo dell’ esistenza di questa corrente ? — Conoscete il disastro della Jeannette. signor tenente ? — SI, signor Evensen. — Ebbene cosa direste se yì dicessi che dei rottami di quella nave sono stati ritrovati sulle coste orientali della Norvegia?... Eppure voi sapete che la Jeannette è andata a picco presso l’isola Bennet, di fronte all’arcipelago delle Isole della Nuova Siberia. Dopo un tale fatto come si può dubitare della direzione della corrente che viene dalla Siberia! — Questo è vero, signor Evensen. Un .tremendo naufragio quello della Jeannette. — Una catastrofe che fa riscontro a quella dell’ Ertibns e del Terror comandate dall’ammiraglio Franklin. — La conoscete nei suoi particolari? — Sì, signor tenente, e mi ricordo dell’ emozione profonda pro¬ dotta ira tutti i naviganti artici. — Sono morti quasi tutti, è vero ? — Sì, signor tenente. La sfortuna perseguitava quei valorosi ame¬ ricani e divenne piò tremenda quando furono costretti ad abban- Le prime pressioni canali e quando riuscivano a scoprirne uno, lanciavano la nave in quella direzione per scorrerlo prima che le pressioni lo richiudessero. La lotta era dura, pure la speranza di poter varcare quegli osta¬ coli e guadagnare il mare libero, che supponevano ritrovare più a settentrione, sosteneva tutti. — Avanti!... Avanti ancora!... — era il comando che usciva in¬ cessantemente dalle labbra dell’ animoso principe. E la Stella Polare, non ostante l’aumentare dei ghiacci ed i pe¬ ricoli continui, avanzava sempre, passando di squarcio in isquarcio, di canale in canale. Il 1° agosto però, mentre si era cacciata in un canale, questo bruscamente si chiuse, rinserrando improvvisamente la nave e fa¬ cendola piegare su di nu fianco. Tutti gli altri banchi avevano seguito quel movimento strin¬ gendosi gli uni contro gli altri e facendo scomparire bruscamente gli spazi che poco prima li dividevano. Si era in tal modo formato un banco immenso, che pareva non avesse confini. Le pressioni si erano manifestate con una potenza incredibile. I ghiacci muggivano, tuonavano, sibilavano, scrosciavano con un bac¬ cano assordante e ondeggiavano sinistramente, imprimendo alla nave dèlie brusche oscillazioni da babordo a tribordo. Il fasciame, sotto quelle strette, crepitava ed i puntali s’inarca¬ vano: lo scafo gemeva come si lamentasse di quelle ruvide carezze. Fortunatamente i larghi fianchi della vecchia baleniera si solle¬ vavano gradatamente, sfuggendo così alla stretta. Diversamente i ghiacci avrebbero infallantemente sfondati i corbetti ed il ghiaccio avrebbe finito per cougiungersi attraverso la stiva. Però anche i margini del banco si sollevavano e giungevano fino ai bordi della nave, minacciando di rovesciarsi in coperta. A bordo ci fu un momento di grande ansietà. Guai se le pres¬ sioni avessero dovuto continuare: la nave forse non avrebbe potuto resistere a lungo. I cani, spaventati da quei muggiti e da quelle detonazioni, urla- 25(3 Capitolo sesto S. A. E., Cagni ed il capitano Bvensen, davano i ghiacci, portandosi ora a babord — 15 partito il 27 luglio dell’ anno scorso, con un seguito nu¬ meroso, sbarcando al Capo Tegetthoff, poi la sua nave fece ritorno — B non si è più saputo nulla ? — chiese il tenente. — Si sa che il Weilmann doveva svernare sul quel Capo per poi spingersi direttamente verso il polo nella prossima primavera. Che si sia spinto molto innanzi o che sia stata sfortunato, lo sapremo — Che si aprano i ghiacci? — Lo spero, signore. Il vento, presto o tardi, li spingerà altrove. Guardate lassù, verso il nord non vedete come l’orizzonte è az¬ zurro? Ciò indica che là vi è il mare libero. Armiamoci di pazienza e aspettiamo. — L’indomani la Stella Polare, avendo trovato un canale, potè inoltrarsi di alcune miglia, con molta fatica però e anche con molto pericolo. La Cappella dal canto suo era riuscita a guadagnare il mar libero, ma prima di riprendere la rotta verso il sud voleva attendere la Stella Polare per ricevere la corrispondenza. A mezzo di bandiere aveva già segnalato di rimanere in panna in attesa che la nave del Duca potesse liberarsi dai banchi di ghiaccio, ed aveva pure se¬ gnalato di aver a bordo la spedizione Weilmann. Non fu che il 6 agosto, all’una pomeridiana, che la Stella Polare, dopo d’aver assalito vigorosamente gli ultimi banchi di ghiaccio, potè finalmente raggiungere il mare libero, abbordare la Cappella e salutare i superstiti della spedizione Weilmann. Capitolo VII L’incontro con la « Cappella » La spedizione Weilmann, raccolta dalla nave baleniera, aveva avuto un tale rovescio da non incoraggiare certo i membri della spedi¬ zione italiana. Bitomava in pessimo stato, con un uomo di meno e senz’esser riuscita nel suo intento di raggiungerò il polo. Come abbiamo detto, il signor Wellmann, un americano già pra¬ tico delle regioni polari, era partito dalla Norvegia Tanno piece- dente, sbarcando al Capo TegetthofF il 30 luglio, dove piantava i suoi quartieri d’inverno, mentre la nave che lo aveva trasportato fino a quel luogo, s’affrettava a tornare in patria. Aveva per compagni tre americani, tre scienziati, il naturalista De Hoffman, il fìsico Harline ed il meteorologo e botanico luogote¬ nente Baldwin, più cinque marinai norvegesi. Stabiliti i quartieri d’inverno, il Wellman, approfittando della buona stagione, si era subito spinto fino all’ 80° di latitudine nord, costruendo una casupola sulla costa orientale della terra di Wilczek. Quella stazione fu chiamata pomposamente col nome di forte Mac-Kinley, in onore del presidente degli Stati Uniti, e vi furono messi a guardia due marmai norvegesi Paolo Bjorvig e Bemt Bentzen. Quest’ultimo era già stato compagno di Nansen durante la deriva del Fram. Per quale motivo i due norvegesi erano stati lasciati soli nella capanna 1 ? Lo si ignora. Certo fu una imprevidenza che quei due disgraziati dovevano pagare ben cara. Mentre i due marinai rimanevano soli su quella spiaggia deserta, alle prese coi terribili freddi della regione artica e cogli orsi bianchi, la spedizione era ritornata al Capo Tegetthoff per svernare. Verso la metà di febbraio del nuovo anno, il signor Wellmann ed i suoi compagni lasciavano i quartieri d’inverno per spingersi verso il nord e rilevare i due marinai norv egesi. Giunti al forte Mac-Kinley, come era da prevedersi, non trova¬ rono vivo che il Bjonvìg. Il povero Bentzen era morto due mesi dell’inverno accanto al suo disgraziato compagno, che non'era riu¬ scito a seppellire!... ^ ^ imata la sua corsa verso il nord, con la speranza di poter giungere, con una rapida marcia, se non al polo, almeno nelle sue vicinanze e di sorpassare la latitudine toccata da ÌSansen. Raggiunse felicemente i’82" di latitudine, scoprendo al nord di [l’incontro cogli ùx-Jklds inattaccabili, ossia lente, andava sempre più abbuiandosi e : Cappella > — Chi può dirlo?... Queste terre non sono conosciute. Solamente Nansen le ha percorse in gran fretta. — È in questi paraggi che ha svernato assieme a Johansen? — Sì, signor tenente. Si rimane ancora meravigliati nel pensare come quei due uomini soli, senza viveri, abbiano potuto passare l’inverno polare in queste regioni. — Dove hanno precisamente svernato ?... — A 81° 13' di latitudine nord ed a 55° l / 2 di longitudine est. Quasi alla nostra stessa latitudine. — Devono aver sofferto molto durante quei lunghi mesi. — Non troppo, signore. Altri sarebbero forse morti, ma quei due — È del signor Nansen che si parla? — chiese Ollier avvicinan¬ dosi al tenente, mentre il capitano Evensen si dirigeva verso prora per osservare i ghiacci. — Si, — rispose Querini. — Il capitano mi diceva che il famoso esploratore aveva svernato in questa latitudine. — Aveva molti compagni, signor tenente. — Uno solo, mio caro Ollier. — B la sua nave? — L’aveva abbandonata per cercare di spingersi verso il polo. Essendo stata rinchiusa dai ghiacci e trasportata verso F ovest, Nan¬ sen l’aveva lasciata. — E hanno passato l’inverno fra queste terre in due soli? — E quello che è peggio senza viveri, avendo consumati quelli che avevano portato dalla nave, durante la loro corea verso il nord. — Raccontate, signor tenente. Come hanno potuto sopravvivere ? — Mercè una gran dose di energia veramente sovrumana e di un coraggio straordinario. Dopo d’aver toccato 1’ 86° grado, superan¬ dolo anzi di aieime miglia, Nansen era stato costretto a ritornare per mancanza di viveri ed in causa della deriva dei ghiacci, i quali lo portavano indietro non ostante le sue lunghe marce. Così vennero a cercare rifugio su questa terra per passare l’ìuverno polare. — Era ormai molto lontana. I ghiacci F avevano spinta verso l’ ovest, in direzione dello Spitzbergen, quindi non potevano con- fagiolo tettw tare in nessun modo su di essa. Quei due coraggiosi però non si smarrirono. Non avendo viveri ed approssimandosi l’inverno, dettero una caccia spietata alle foche ed agli orsi bianchi per avere cibo e combustibile durante i grandi freddi. Raccolte le provviste, si fabbri¬ carono una capanna con pietre, terra e muschi, pelli di foche e con alcuni pezzi di legno trovati sulle spiagge, probabilmente trasportati dalle correnti marine. Non mancarono di costruirsi perfino il ca¬ mino, adoperando, in mancanza di pietre adatte.... neve e ghiaccio 1... — E cosa bruciavano per riscaldarsi f... — Il grasso delle foche e degli orsi bianchi. — E che cosa mangiavano ? — Alla sera si friggevano un pezzo di foca in una padella d’al¬ luminio, e al mattino si preparavano un bollito di carne d’orso. — Frittura di foca!... Puah!... — La fame non ragiona, mio caro Ollier, — disse il tenente. — E si erano preparati anche dei letti? — Uno, composto d’un sacco di pelle d’orso entro cui si caccia¬ vano insieme per mantenersi più caldi : di sotto avevano messo uno strato di pietre più o meno levigate. — Dovevano dormire molto male. — Lo hanno confessato poi. La loro occupazione principale du¬ rante tutto l’inverno, fu infatti quella di cambiare le pietre per me¬ glio livellarle, senza però, riuscirvi. — E come passavano il loro tempo? — Mangiando e dormendo, non potendo uscire dalla loro capanna in causa del freddo intenso e della neve che la bloccava. — Sarà stata almeno comoda, signor tenente. — Non aveva che tre metri di lunghezza e poco più di uno e mezzo di larghezza, — rispose il tenente. — Una vera cella da prigionieri. E non avevano alcuna occupa¬ zione per ingannare il tempo? — Sì, una: quella di scegliere il ghiaccio migliore per fonderlo onde poter avere sempre acqua da bere. — Potevano mangiarlo senza scioglierlo. — Con quei freddi il ghiaccio, messo in bocca, produce delle in¬ fiammazioni pericolose. 272 Capitolo ottavo La Stella Polare adunque, sebbene faticosamente, riprese la sua corsa, seguendo la via percorsa da Nansen e da Johansen nel loro Potò cosi avvistare il Capo Hugli Mill, le coste della Tei Alessandro ancora appena delineata, quindi raggiungere del Principe Rodolfo, la più settentrionale dell’Arcipelago, ] . Carlo Ohimè! Quella corsa non doveva durare a lungo. Dopo d’aver costeggiata la frarte settentrionale dell’isola del Principe Rodolfo, girando il Capo Fligely, agli ultimi di agosto si trovava dinanzi a tale massa di ghiacci da larle perdere ogni spe¬ ranza di spingersi più a settentrione. Era giunta allora all’82° 14' di latitudine boreale, toccando quasi il punto raggiunto da Parry, settantun anno prima, dopo una lunga e fati¬ cosa corsa con le slitte attraverso i campi di ghiaccio dello Spitzbergen Capitolo Vili La baia di Teplitz L’immensa ed impenetrabile barriera di ghiaecio che aveva ar¬ restato tante spedizioni anche molto più al sud, stava di fronte alla Stella Polare, risoluta a non aprirsi dinanzi alla sua prora. Erano ghiacci vecchi, forse ghiacci eterni mai sciolti dai tepidi raggi della breve* estate : erano masse enormi, bastioni colossali dalle fronti smisurate, montagne di forme strane, piramidi, cupole semi-sfondate, guglie, comignoli, punte acute: una vera selva di ostacoli assolutamente inattaccabili, resistenti all’assalto (lei ferro, Era insomma il caos polare, il principio dell’ immensa calotta di ghiaccio che da migliaia di secoli forse, tiene prigioniero il polo. Non un canale su quelle immense distese di ghiacci, nemmeno un semplice crepaccio. banchi 1}aia di Teplitz fielda, biancheggiava stranamente pel riflesso di quelle masse enormi. Era 1 ’m-Winlt che scintillava in tutta la sua purezza, luco strana, abbagliante, che nemmeno i pesanti nebbioni possono offuscare eom- In alto volteggiavano pochi uccelli marini. Andavano, tornavano, s’alzavano o s’abbassavano senza mai dare uno strido, come se an- ■ che la loro voce si fosse gelata. Sui banchi invece poche macchie brune, che spiccavano vivamente su quel candore, indicavano delle foche. Stavano accanto ai loro buchi, aperti pazientemente da esse per potersi tuffare e quindi venire a respirare. — È finita, — aveva detto il capitano Evensen. — Per di qui non — E dove trovare una baia? — fu chiesto dai membri della spe¬ dizione. — Se S. A. E. vuole un consiglio, gli direi di tornare verso il sud e cercare rifugio nella baia di Teplitz, — rispose il capitano. — Forse è la migliore, nè saprei davvero trovarne altre che facciano per noi. D’altronde la Stella Polare ha avuto persino troppa fortuna, ed ha toccato ima latitudine che io temevo di non raggiungere. Signori, ritorniamo prima che i ghiacci ci blocchino qui. — Il consiglio del vecchio lupo di mare fu accolto all’unanimità, avendo tutti somma fiducia nella sua esperienza. D’altronde ogni passaggio era chiuso e non rimaneva che di tornare indietro e senza perdere tempo. Poteva avvenire un movimento fra i ghiacci che rinchiudesse la Stella Polare e forse per sempre. Prima però di decidersi, la nave percorse un lungo tratto di quella fronte massiccia, con la speranza di trovare più lontano qualche pas¬ saggio, poi, veduto che nou vi era alcuna probabilità, S. A. E. diede il comando di mettere la prora verso il sud-est. Anche il ritorno però non era facile. Un movimento era avvenuto anche più al sud, ed i ghiacci si erano accumulati verso l’est rendendo lo navigazione penosa. Ad ogni istaute la Stella Polare doveva prendere la rincorso e lavorare di sperone per aprirsi il passo. sarebbe (letto che i ghiacci del polo vo- L’8 settembre, alle il fornello, un urto formidabile, tremendo, scuotè la Stella Polare fa¬ cendo accorrere sul ponte comandanti, ufficiali, marinai e guide. Un enorme banco di ghiaccio aveva urtato la nave con tale im¬ peto, da farla traballare. Subito le pressioni ricominciarono con forza estrema. I ghiacci si strinsero addosso alla nave, scrollandola furiosamente. I fianchi scricchiolano sotto le crescenti strette, i puntali s’in¬ curvano, la tolda minaccia di spezzarsi. Alcuni madieri cedono e Un grido formidabile s’alza: Pur troppo la notizia era vera. Le pressioni avevano sfondato al¬ cune tavole alla linea di galleggiamento e l’acqua entrava a tor¬ renti inondando la stiva e la sala delle macchine. Il signor Stokken si era precipitato sul ponte, gridando: — Alle pompe!... I fuochi delle caldaie stanno per spegnersi!... — Il momento era terribile: la Stella Polare stava per affondare. In mezzo alla confusione cagionata da quella catastrofe inattesa, il Duca, Cagni, Evensen, Querini e lo stesso dottor Cavalli non ave¬ vano, per buona fortuna, perduto il loro sangue freddo. — Alle pompe : marinai !... — aveva comandato S. A. E. con voce energica. — Le guide e gli altri nella stiva a salvare il carico!... — Non vi era un momento da esitare: l’avaria poteva essere grave e causare la perdita della nave. Era quindi cosa urgente portare a terra quante provvigioni si potevano e soprattutto i cani, se non si voleva troncare d’nn sol colpo la futura marcia Verso il polo. Mentre alcuni marinai forzavano la porta della camera comune per sfuggire all’acqua che invadeva rapidamente la cabina, e altri si precipitavano alle pompe, le guide con Cardenti e Canepa s’erano precipitate nella stiva per gettar fuori il carico. 282 Capitolo Ed infatti poche ore dopo la Stella Polare tornava ad abbassarsi, imbarcando nuovamente acqua. Per ventiquattro ore gli esploratori lavorarono alle pompe con accanimento, con la.speranza di poter salvare la nave, mentre alcuni di loro continuavano a portare a terra viveri, ai-mi, coperte, tende ed istrumenti, passando di banco in banco. Finalmente fu dato l’ordine di abbandonare la nave. La Stella Polare, dopo d’aver vittoriosamente vinti i ghiacci, pa¬ reva ormai irremissibilmente destinata a soccombere. Fu con vero dolore che ufficiali e marmai diedero un addio alla valorosa nave. S. A. E. scese per l’ultimo col capitano Cagni e con Evensen. Era pallido e aveva il cuore stretto e non meno commossi erano Un’ ora dopo, italiani e norvegesi si accampavano sulla desolata costa della baia di Teplitz. Capitolo IX Accampamento a terra Contrariamente a tutte le previsioni, l’ultima ora della Stella Po¬ lare non era ancora sonata. Quando tutti ormai la piangevano come perduta, fu veduta la valo¬ rosa nave alzarsi nuovamente sotto la spinta dei ghiacci che si erano accumulati sui suoi fianchi e navigare lentamente verso, la costa. Camminava coi ghiacci i quali la sorreggevano da tutte le parti, come immensi gavitelli, impedendole di riempirsi d’ acqua e di af¬ fondare. Essa andò ad incastrarsi fra la riva ed i banchi, dove ri¬ mase finalmente bloccata in tale modo, da non avere più speranza di poterla liberare fino al nuovo anno. Cosa importava? Era salva almeno pel momento e l’equipaggio poteva ancora salvare una infinita quantità di casse, di barili e di vuote, gli alloggi pei cani, scegliendoli secondo i loro umori e le loro simpatie onde non si mordessero, come pur troppo avevano sempre fatto dal giorno del loro imbarco. Il primo a prepararsi l’alloggio fu naturalmente il cuoco. Bravo uomo quel canavesano, attivo, intelligente e di umore sempre lieto. E poi, figuratevi ! Era stato bersagliere nel nono reggimento sotto il comando del colonnello Manassii... Come non poteva essere un uomo allegro ?... La sua abilità poi come cuoco era indiscutibile e aveva soddi¬ sfatto tatti. Si ricordava sempre di essere stato il capo ranciere del gnalato come un cuoco modello. Aveva subito piantati i suoi fornelli e messe in ordine le sue Capitolo Brano stati perfino eretti dei gabinetti scientifici per le osservazioni. All’ intorno, la neve era stata spazzata via e la terra spianata alla meglio. Le guide avevano costruito perfino delle stradicciuole. — Non ci manca che un giardino, — disse un giorno Canepa. S. A. E. prese la palla di rimbalzo. — Perchè non si potrebbe seminare qualche fiore ! — chiese a Savoi. — Si potrebbe tentare, Altezza, — rispose la guida. Ed il brav’ uomo, felice di accontentare il Duca, si mise subito all’opera dissodando un pezzo di terra che era meglio esposta al sole e aiutato dal dottor Cavalli, il botanico della spedizione, se¬ minò.... con poca speranza di raccogliere. Assicurata la Stella Polare e disarmatala, e preparato l’accampa¬ mento, con tutto il confortabile possibile, gli esploratori, in attesa dei gTaudi freddi, cominciarono a spingersi verso l’interno per co¬ noscere un po’ la terra sulla quale avevano deciso (li svernare e anche per dar la caccia alla selvaggina che si mostrava abbastanza numerosa. Si erano notate tracce di orsi bianchi, di volpi bianche e si erano vedute numerose foche e morse lungo le coste. Mentre le guide ed i marinai facevano lunghe coree, conducendo con loro anche i cani onde allenarli, S. A. E. e Cagni facevano os- di gravità per mezzo delle oscillazioni del pendolo, adoperando quello di Torino sotto la guida del dottor Amonetti. Non ostante quelle molteplici occupazioni, non dimenticavano nemmeno essi la caccia, inseguendo le foche e le morse o facendo strage di uccelli marini. Così catturarono un giorno una foca bellissima sull’orlo d’un banco di ghiaccio, mentre le compagne s’inabissavano precipitosa- Orsi bianchi non ne erano ancora comparsi nei dintorni, però le guide ed i marinai avevano scoperte numerose tracce di quei for¬ midabili plantigradi, in direzione del Capo Germania, alla base delle montagne che s’innalzano lungo quella costa. da poter provare le slitte, ma sufficientemente per provare gli sky cosi tanto vantati dai norvegesi. S. A. E. ne aveva acquistati parecchi in Norvegia, quindi diede ordine di metterli alla prova, non essendo cosa facile addestrarsi a quei pattini. 287 Gl’ italiani ed i norvegesi ricorrevano a tutte le astuzie per man¬ dare qualche buona palla nella testa degli orsi, e sovente riuscivano ad abbatterne. Anche il Duca prendeva parte attiva alla caccia assieme ai suoi ufficiali, ed essendo un abilissimo tiratore, quasi mai mancava ai Un giorno anzi che s’era allontanato dall’accampamento in com- derne tre in pochi minuti. Quella splendida cattura però poco mancò non costasse la vita ai suoi compagni di caccia. S. A. R. dopo abbattute le fiere era ritornato all’ accampamento a chiamare altri uomini perchè aiutassero le guide a trascinare gli orsi nelle tende. Mentre i suoi compagni attendevano il suo ritorno, un quarto orso, di statura enorme, era improvvisamente comparso dietro un rialzo del terreno, mettendosi poi a correre addosso ai cacciatori. Il pericolo era grave, poiché i tre uomini non avevano che un solo fucile. Il norvegese, spaventato, se 1’ era data a gambe fuggendo in di¬ rezione dell’accampamento, ma i due italiani erauo rimasti fermi al loro posto. — Mira bene, — disse colui che non aveva il fucile. — Se sbagli, la morte è sicura. — Il suo compagno fortunatamente non era un uomo impressiona¬ bile e sapeva maneggiar bene il fucile. Mira attentamente, e a venti metri fa fuoco, abbattendo di colpo la fiera. Come si disse, era uno dei più grossi, e S. A. R. fu lieto di quella nuova cattura, ma lo fu maggiormente il cuoco, il quale con quella carne regalò alla spedizione dei piatti squisiti. Maglie islandesi, berretti di lana o di pelle foderati di pellicce, grossi calzettoni di lana, guanti di feltro o di lana a dita riunite e che giungono fino al gomito; amara,le, che sono specie di giacche che s’infilano per la testa, secondo l’uso esquimese, fabbricate con grosso panno e fornite di cappuccio ed i polsi orlati di pelle di lupo, e stivaloni di pelle di foca o di renna con grosse calze di lana, furono messi a disposizione di tutti. Poco dopo, le nevicate cominciarono con rabbia estrema, mentre la luce diminuiva sempre. Addio partite di caccia, addio passeg¬ giate, addio osservazioni! La prigionia stava per incominciare, una prigionia di tre e forse di quattro mesi ininterrotti. Fortunatamente il Duca aveva regolate le cose in modo dà ban¬ dire la noia, questo nemico pericolosissimo degli esploratori artici. Al mattino sgombro generale della neve, che gli uragani inces¬ santi accumulavano attorno all’accampamento; poi pulizia delle vesti e loro disgelo e pasto ai cani; quindi lavori diversi per preparare la futura spedizione ; alla sera lettura, o musica, o danza, o giuochi di carte, di domino, di dama e dell’oca. L’effetto che producevano i pezzi di musica sonati dal piano melodico sistema Bacca, o cantati dal grafofano,. mentre al di fuori muggiva 1’ uragano e la neve cadeva a larghe falde, era dei più strani. Mefistofele, Cavalieria, Rujolelto, eco., alternate a ballabili svariati. — Gli orsi devono divertirsi aneli’ essi, — diceva Carienti. E forse non aveva torto, poiché durante quelle allegre serate non era raro di veder ronzare, nei dintorni dell’accampamento, qualche coppia d’orsi bianchi affamati. Che amassero la musica come gli ippopotami del Nilo o che cer¬ cassero le costolette dei sonatori? Nessuno lo seppe mai dire con precisione, nemmeno il cuoco che pretendeva conoscere quei be¬ stioni.... perchè li cucinava alla perfezione!... Nou ostante quei continui lavori e quei passatempi, il freddo, che aumentava rapidamente, specie quando soffiava il vento del nord, non mancava di produrre i suoi effetti sn tutti. L’energia veniva meno, i lavori sembravano eccessivamente pe¬ santi a tutti, ed una specie di torpore invadeva di quando in quando i membri della spedizione. Però la temperatura si manteneva abbastanza elevata, soprattutto nella grande tenda, anzi talvolta era necessario lasciar entrare un All’ esterno invece la temperatura oscillava fra i trenta ed i qua¬ ranta gradi sotto lo zero, e quando gli esploratori erano costretti a uscire per sbarazzare la neve o per recarsi ai magazzini a far carbone, tornavano con le vesti coperte da uno strato di ghiaccio. Era quello il momento terribile pel cuoco, poiché quelle vesti, per sgelarle, venivano senz’altro appese sopra il fornello della cucina, Zini sagrava come un turco e protestava fieramente, gridando che la sua cucina non era un asciugatoio e nemmeno un armadio, e che le sue pentole nulla avevano da fare colle vesti, ma poi finiva in una allegra risata. Il suo buon umore non veniva mai meno. Quando il tempo lo permetteva, gli esploratori uscivano ad am- mh'are gli splendori dell’ aurora boreale. Ormai la luce era completamente scomparsa e al di fuori regnava una notte così buia, da non poter distinguere un oggetto a dieci passi di distanza. Quando poi scendeva la nebbia, non si poteva nemmeno scorgere la punta del naso. Quella cupa tenebra però di quando in quando veniva rotta dalle aurore polari. Quali splendori allora !... Quale abbondanza di luce !... Era quello lo spettacolo che più colpiva la fantasia delle guide e dei due marinai italiani. Talvolta appariva verso ponente, vicino all’orizzonte. Cominciava con una massa luminosa formante un immenso drappo pieghettato, poi una striscia gigantesca, una specie di nastro, s’innalzava gra¬ datamente fino allo zenit. Pareva formato d’un pulviscolo luminoso, a tinte svariate e aveva delle contrazioni rapidissime. Dopo quel primo nastro altri ne succedevano, correndo con ve¬ locità straordinaria da ponente a levante ed invadendo tutta la volta celeste. Ora invece correvano in senso contrario, con continue vi¬ brazioni che ferivano gli sguardi. Le tinte cangiavano e tutti i colori dell’ iride si succedevano, si o. Era lanciava verso il cielo fasci di luce tremolanti, che impallidivano, a poco a poco, verso le loro estremità superiori. Lo spettacolo era allora più imponente. I ghiacci riflettevano tutte le tinte, apparendo ora come immensi rubini, o topazi, o smeraldi, od opali immersi in un bagno di sangue. Anche le nevi che coprivano l’isola scintillavano di mille colori, mentre la luna, quasi vergognosa, impallidiva tanto da non potersi Quei fenomeni non duravano molto, ma quanta meraviglia desta¬ vano in tutti I... Il freddo non tratteneva gli esploratori sotto le tende quando si manifestavano. Talvolta invece, se il vento del nord non soffiava troppo impe¬ tuoso e la neve non cadeva, i membri della spedizione si recavano a visitare la Stella Polare per accertarsi che le pressioni non la guastavano al punto da non poter più servirsene. La povera nave, inclinata su di un fianco, coi suoi madieri sfon¬ dati, la sua stiva e la sala delle macchine ingombra di ghiaccio e la coperta piena di neve, offriva un ben triste spettacolo. Pure, la sua fodera o cintura da ghiaccio che consiste in un fa¬ sciame di greenkeart, legno resistentissimo ed. elastico nel tempo stesso, destinato a proteggere l’opera viva delle navi baleniere, aveva resistito vittoriosamente alle pressioni. Anche la sua prora, rivestita di travi, con traverse di puntellaniento e riempita, di legname in modo da formale un blocco solo dello spessore di quattro metri, Si era alzata gradatamente, sfuggendo alle strette dei ghiacci, ma dere un lungo lavoro per renderla "navigabile. Ed intanto il freddo aumentava sempre e gii uragani di neve si succedevano con violenza estrema. Era stato a tutti rigorosamente proibito di toccare gli oggetti di metallo per non riportare delle scot¬ tature dolorose e di servirsi di bicchieri dì vetro per non correre il pericolo di lasciare la pelle delle labbra attaccata agli orli. Perfino i, la temperatili Olitolo decimo I cani, nella loro pazza corea, erano precipitati giù da un dirupo da un’altezza di sette od otto metri trascinando con loro la slitta Prima che questi avesse potuto alzarsi e dare il segnale di peri¬ colo anche la slitta montata dal Duca precipitava e fu un vero mi¬ racolo se non gli cadde addosso. Rimasero un momento intontiti, poi cercarono di uscire da quella specie di trappola, non avendo riportato che delle escoriazioni di La neve cadeva allora con rabbia estrema ed il freddo era diven¬ tato così intenso da costituire un vero pericolo. Un cane era morto, Fortunatamente le guide non erano lontane e riuscirono a trarli dal cattivo passo. Intanto gli uomini rimasti al campo, vedendo la tormenta aumen¬ tare, si erano messi in moto sonando le campane e accendendo delle fiaccole. Quando gli esploratori giunsero alla tenda fu constatato che e Cagni l’indice della mano destra. Fu subito tentata, dal dottor Cavalli, la scongelazione, ma i rimedi a nulla valsero pel Duca. La carne ormai era diventata come morta ed il sangue non arrivava più fino alle estremità delle Le due falangi furono di necessità amputate, operazione che il Duca subì con calma stoica, rimanendo a letto un solo giorno. Ciò non impedì però che la festa di Natale fosse solennizzata con grande sfarzo: banchetto poco meno che luculliano, innaffiato da eccellenti bottiglie di champagne, musica e fuochi d’artificio. Quanti augurii in quel giorno e quanti evviva all'Italia, al Re e alla buona Regina che, come nelle altre occasioni, si era ricordata di quei bravi marinai, regalando loro delle scatolette contenenti sva^ riati doni di valore, sino allora gelosamente custoditi dal Duca. Capitolo midi mando Ai Cagni, si compone di dodici persone. Querini, Cavalli, le quattro guide, Cardanti, Canepa e tre norvegesi. Tutti sono di buon umore e risoluti a spingersi verso il polo con una marcia rapida. I cani latrano giocondamente. Gli addii sono commoventi. S. A. R. stringe vigorosamente la mano a tutti, rammentando loro che si tratta dell’ onore italiano ed inci¬ tandoli a fare il loro dovere ed essere obbedienti al capo della spe¬ dizione. Passa in rivista gli nomini, i cani e le slitte e dà, con voce com¬ mossa, il segnale della partenza. Le fruste scoppiettano, i cani abbaiano e la carovana si mette in marcia fra gli urrà dei norvegesi che rimangono a guardia del campo e della Stella Polare. Quel primo tentativo non doveva avere felice successo. Porse era ancora troppo rigido il clima per poterlo sfidare e per poter dor¬ mire sotto piccole tende appena riscaldate da lampade. La spedizione non è ancora giunta all’ altezza del Capo Germania che scoppia un furioso uragano di neve. È una tormenta formida¬ bile che non si può sfidare impunemente e che accieca e soffoca I termografi a minimo segnavano sui palla — 52°, il che non pro¬ vava che quella fosse la temperatura più bassa, poiché gli appa¬ recchi non potevano indicare di più. Come resistere a simili tem- Per maggior disgrazia i cani, che non sanno più trovare i pas¬ saggi migliori fra quel turbinio di neve, spezzano le slitte contro le asperità dei ghiacci. Il disastro è completo e la spedizione, impotente a reggere a quei freddi tenibili, non ostante la sua energia ed il suo buon volere, si vede costretta, due giorni dopo la sua partenza, a ritornare all’ ac¬ campamento da cui era partita così piena di speranze. Quella decisione fu certamente saggia e probabilmente salvò la spedizione da una morte certa, poiché le burrasche di neve dopo quell’ epoca si successero costantemente e con tanta furia da met¬ tere in serio pericolo perfino gli accampati. Vi fu anzi un giorno che la neve cadde in tanta copia da sep- ima via fra tanti ostacoli. Ora erano costretti a