I NAUFRAGHI DELLO SPITZBERG CAPITOLO I. Il disastro delle navi baleniere. Nel pomeriggio del 29 settembre 1875, un’insolita animazione regnava nei vasti e famosi stabilimenti dell’isoletta di Vadso, di proprietà del signor Foyn, il celebre pescatore di balene e ricchissimo armatore del Varangefiord. Ogni lavoro era stato sospeso sotto le immense tettoie che si estendevano, in tutti i versi, da una estremità all’altra delle sponde dell’isoletta; i fonditori di grascia avevano abbandonate le gigantesche caldaie ove ribolliva, spandendo all’intorno nubi di fumo nero e nauseabondo, il lardo delle gigantesche balene; gli squartatori avevano lasciate le loro scuri e le loro pale taglienti, luride di grasso e di sangue, e più non si occupavano di scarnare le enormi teste dei cetacei; i facchini più non si occupavano di regolare le battute degli immani pestelli destinati a ridurre in polvere costole di dimensioni paurose; i garzoni avevano lasciati i loro carri carichi di brandelli di carnaccia sanguinolente, che dovevano servire alla fabbricazione dei concimi, e perfino i marinai ed i fiocinieri avevano abbandonate le piccole navi ancorate nel canale, scendendo a terra. Gruppi di persone si erano radunati entro e fuori delle tettoie, e tutti quei norvegiani, ordinariamente così tranquilli e flemmatici, discutevano con calore, incrociando domande e risposte. — Ma che sia vero? chiedevano gli uni, con una viva ansietà. — Sì, sì rispondevano gli altri. — E sono rimasti presi dai ghiacci? — Così si dice. — Ma dove? — All’isola degli Orsi. — No, alla Nova Semlia. — Mai più! Allo Spitzberg. — Ma volevano andare al polo?... Si trovano balene anche sulle coste del Finmark, senza andarle a cercare così lontano. — Una bella pazzia!... — Che costerà cara al signor Foyn. — Lui!... Eh via, ha dei milioni lui!... — Ma si parla di due navi. — Di tre. — Di mezza flotta! — Che disastro!... — E sono tutti morti? — No, sono naufragati. — Ma sì, i ghiacci hanno fracassate le navi. — Ma chi ha recata la notizia? — Un capitano baleniere l’ha mandata ad Hammerfest. — E non verrà qui lui? — Giungerà fra pochi minuti, col piroscafo costiero. — Che si vede già, disse un fiociniere, il quale, essendo più alto di tutti, poteva scorgere la costa norvegiana meglio degli altri. Ecco il Grimsey che entra nel Varangefiord a tutto vapore. — Ma no, mi pare un piroscafo inglese, dissero alcuni. — No, è il Grimsey di Hammerfest e si dirige precisamente qui, gridarono gli altri. — Ecco il signor Foyn che si reca allo scalo. — Andiamo a vedere, gridarono tutti, dirigendosi confusamente verso la sponda. Il signor Foyn li aveva preceduti e passeggiava sulla gettata con una certa impazienza, senza staccare gli sguardi dal Grimsey, uno svelto e rapido steamer che filava a tutto vapore nel largo canale del Varangefiord. Il ricco proprietario di quelle grandiose officine aveva in quell’epoca quarantacinque o quarant’otto anni. Era un uomo alto quanto un granatiere, di forme massicce, con braccia e gambe muscolose, spalle larghissime, colla testa coperta d’una capigliatura folta e ruvida, il viso energico, coi lineamenti un po’ angolosi, gli occhi d’un azzurro profondo e una barba tagliata a becco, un poco brizzolata. Nativo della Norvegia meridionale, nella sua gioventù era stato un povero diavolo. Aveva fatto dapprima il mozzo, poi il marinaio, quindi il fiociniere, più tardi il pescatore per proprio conto, ed a trentacinque anni aveva accumulati parecchi milioni ed aveva avuto l’onore di farsi visitare da Oscar II, durante il viaggio intrapreso da questo re lungo le coste del Finmark. La sua fortuna l’aveva dovuta alla pesca della balena, e soprattutto ai miglioramenti introdotti nella pesca di quei giganti del mare. Era stato il primo ad abbandonare il secolare rampone, arma eccellente sì, ma pericolosa contro quei cetacei poderosi e non sempre fortunata, per adottare i proiettili esplosivi ed a punta. Avendo ottenuto dei successi meravigliosi, e arricchitosi rapidamente, aveva abbandonata la sua pericolosa carriera per dedicarsi ad una industria che doveva renderlo celebre in tutta la Norvegia e fra tutti i pescatori di balene del globo. Egli aveva a lungo rimpiante le carcasse delle balene che aveva dovuto abbandonare in mare, dopo di averle spogliate del grasso. Egli aveva presto compreso che da quegli ammassi di carne e di ossa poteva trarre ancora delle ricchezze pari a quelle che davano l’olio, se si avesse potuto rimorchiarle a terra, e si era dato corpo ed anima a cercare il mezzo per realizzare i suoi progetti. Stabilitosi in una isoletta situata di fronte a Vadso, l’ultima del Varangefiord, aveva fatto innalzare quei grandiosi stabilimenti che anche oggi sono invidiati da tutti i pescatori di balene e che rendono, al suo proprietario, parecchi milioni all’anno. Ormai più nulla va perduto dei giganteschi corpi delle balene, pescate dalle rapide navi del signor Foyn, nei mari del nord. Un piano inclinato, scavato nella roccia, riceve l’enorme corpo del cetaceo. Appena la bassa marea lo lascia allo scoperto, un centinaio di squartatori lo circonda e lo priva del grasso destinato a venire fuso nelle grandi caldaie che si trovano collocate sotto delle tettoie. Tosto il carcame viene sezionato. Le ossa mostruose vengono portate nella sala dei piloni, ridotte in polvere e quindi convertite in nerofumo; le carni vengono portate in buche profonde, lasciate marcire, e convertite in un guano eccellente destinato a fertilizzare i campi; i tendini e certe parti molli vengono sottoposte a processi speciali e quindi messe in commercio sotto forma di colla. Il signor Foyn in tal modo aveva raddoppiato i guadagni che ricavava dalla presa dei giganti del mare, perchè ormai tutto utilizzava: il lardo, la carne, i tendini e perfino le ossa Una scialuppa, staccatasi dai fianchi dello steamer segnalato e montata da quattro marinai e da un timoniere, in pochi minuti aveva attraversato il canale approdando dinanzi alla piccola gettata, sulla quale si trovava il signor Foyn. L’uomo che fino allora aveva tenuta la barra del timone, balzò agilmente a terra, quantunque portasse il pesante capotto da mare e calzasse lunghi e grossi stivali. Per altezza e per forme poteva gareggiare col ricco baleniere di Vadsò, ma doveva essere più giovane di qualche mezza dozzina d’anni. Era un bell’uomo dai lineamenti un po’ duri però, dalla pelle bianchissima come hanno in generale i popoli nordici e specialmente i norvegiani delle alte coste, cogli occhi di un azzurro cupo che tradivano un’audacia non comune, colle labbra sottili, ombreggiate da baffi biondi e una folta capigliatura pure bionda. Vestiva come un marinaio, ma sul capo portava un berretto adorno di un gallone d’oro, distintivo di comandante. – Il signor Foyn? – chiese, toccandosi il berretto. – Sono io – rispose il proprietario degli stabilimenti. I due uomini si guardarono qualche istante con reciproca curiosità, poi il primo continuò: – Avete ricevuto il mio dispaccio da Hammerfest? – Sì, signor Tompson, e vi ringrazio di essere venuto ma vi pagherò largamente il tempo che avete perduto per me. – Avevo terminato lo scarico, signor Foyn, e più nulla mi tratteneva ad Hammerfest. La stagione della pesca è quasi terminata e non contavo di riprendere il mare per le regioni del nord. – Volete seguirmi nel mio alloggio? Parleremo meglio. – Sono a vostra disposizione. Il ricco proprietario si diresse verso una piccola abitazione colle pareti dipinte in rosso, che sorgeva all’estremità della gettata, e introdusse il signor Tompson in un gabinetto arredato elegantemente e adorno di ramponi artisticamente raggruppati e di trofei di ossa e di barbigli di balene. Lo fece sedere in una comoda poltrona, poi colmati due bicchieri di ginepro, si sedette, dicendo con una certa emozione che invano cercava di nascondere: – Parlate, signor Tompson. È vero adunque? Tutti perduti? – Che siano tutti perduti, io non lo so, ma che una disgrazia sia accaduta è ormai cosa certa, perchè il rottame da me trovato era un pezzo di fasciame della poppa e vi si leggeva nettamente il nome. – Narratemi tutto, signor Tompson. – Una parola prima, signor Foyn. – Parlate. – Il Gotheborg faceva parte della flotta dei vostri balenieri? – Sì. – Ma... non è tornata alcuna nave della vostra flotta? – Solamente la prima squadra che si era recata nell’isola degli Orsi; ma non la seconda che si era diretta alle Spitzberg. – Di quali navi si componeva la seconda? – Di due: la Tornea ed il Gotheborg. – Quanti uomini montavano quelle navi? – Sessantasette. – Diavolo!... Erano navi a vapore? – No, entrambe a vela. Le navi a vapore le tengo presso di me, essendo incaricate della pesca lungo le coste del Finmark e del Varangefiord per poter utilizzare le carcasse dei cetacei. Quest’anno le balene s’erano mostrate scarse sulle nostre coste, ed ho avuto la poco fortunata idea di mandare i miei velieri molto al nord, essendo stato informato che i cetacei abbondavano fra l’isola degli Orsi e le Spitzberg. – E vi avevano informato bene, signor Foyn. Mi sono diretto anch’io verso l’isola degli Orsi e in sei settimane ho potuto completare il mio carico. – Venite al fatto, signor Tompson, vi prego. – L’incontro del rottame l’ho fatto ventisette giorni or sono, alle undici del mattino, a quaranta miglia dall’isola degli Orsi, coste settentrionali. Come vi dissi, ritornavo con carico completo, frettoloso di abbandonare quei paraggi che cominciavano a diventare pericolosi. Dalle Spitzberg si staccavano delle montagne di ghiaccio navigando verso il sud, e così in grande numero, da temere di venir preso in mezzo e costretto a svernare in mezzo all’oceano. Il 5 agosto, mentre il mio skooner veleggiava fra due file di ice-bergs, urtava contro un ostacolo. Credetti che la prora avesse incontrato uno di quei ghiacci che si tengono a fior d’acqua, e che noi chiamiamo palk, ma vedendo sfuggire qualche cosa di nero lungo il tribordo, comandai ai miei marinai d’imbrogliare le vele e di cercare di mettere la nave in panna. M’accorsi subito che avevamo urtato contro il rottame di una nave. Feci calare in mare la piccola baleniera e mi recai ad abbordarlo. Come vi dissi, era un pezzo di poppa di una nave, una parte della murata, un pezzo di ponte e tutta la parte posteriore del quadro, col timone ancora appeso ai cardini, ma spezzato a metà. Sul fasciame, in lettere dorate, si leggeva Gotheborg-Vadsö. Sospettai subito che dovesse essere una delle vostre navi, ed esaminai accuratamente quell’avanzo per cercare di sapere se la nave era stata fracassata dalla caduta di qualche ice-berg o se si era spezzata su qualche costa. Le mie indagini non riuscirono infruttuose: oggi ho la certezza che il Gotheborg si è fracassato su qualche spiaggia, probabilmente su qualche isola delle Spitzberg. – Ma come avete potuto saperlo? – chiese il signor Foyn, con stupore. – In modo facilissimo, signore. Tutta la fasciatura e perfino parte della murata erano ancora incrostate di fango. Come potete ben capire, quel rottame non sarebbe stato così lordo, se il Gotheborg fosse stato fracassato dalla caduta di qualche colossale ice-berg. – È vero – disse il signor Foyn, che erasi fatto pensieroso. Ditemi, signor Tompson, durante le vostre pesche avete sofferto delle burrasche? – Sì, molte e terribili. Dalle Spitzberg venivano delle immense ondate, e temo che lassù il mare sia stato assai tempestoso. – Credete che le mie due navi si siano perdute? – Ordinariamente, quando ritornano le vostre flottiglie? – Verso la metà del mese d’agosto. – Sempre? – Sempre, signor Tompson. – Brutto indizio, se quelle due navi non sono ancora qui. Il Gotheborg, ormai lo sappiamo, è andato perduto, ma la Tornea!... Signor Foyn, volete un consiglio? – Parlate. – Se vi preme salvare i vostri equipaggi, fate armare una delle vostre migliori navi e mandatela alle Spitzberg senza perdere tempo. Potrebbe giungere su quelle isole prima che i grandi banchi di ghiaccio blocchino quelle coste. – È vero, ma chi oserà lanciarsi verso il nord, ai primi di settembre? Alle Spitzberg è già cominciato l’inverno. – Chi?... disse il capitano baleniere, accarezzandosi il mento e guardando fisso il signor Foyn. Io ho terminate le mie faccende, condotto la mia nave ad Hammerfest, fattala mettere in cantiere per le riparazioni necessarie; ho venduto i miei spermaceti e sono perciò assolutamente libero. Volete?... Non ho paura del freddo, nè mi spiacerebbe passare un inverno alle Spitzberg. Mi hanno detto che lassù le renne sono numerose e che le foche ed i trichechi abbondano e penso che vi farei un piacere e che farei contemporaneamente i miei interessi. Cosa ne dite, signor Foyn?... CAPITOLO II. A bordo della “Torpa„. Il signor Foyn udendo quella proposta che non s’aspettava di certo, non ignorando che una simile spedizione sul principiare dell’inverno, poichè in quelle alte latitudini l’autunno non esiste, poteva costare la vita a quell’audace baleniere, aveva steso rapidamente la destra, dicendo con viva emozione: – Grazie, signor Tompson. – Di cosa? – rispose il baleniere. – Io faccio i miei affari, rendendovi un piccolo servigio e nient’altro. – Siete un uomo che ha del coraggio da vendere. – Sono un uomo di mare, come lo siete stato voi. – Ma avete pensato ai pericoli che dovete affrontare, signor Tompson? – Io ed i ghiacci siamo vecchi amici. – Sì, ma vi bloccheranno. – Lo so, ed io svernerò alle Spitzberg coi vostri disgraziati equipaggi. Avrò il tempo di fare un bel carico di olio di foche e di trichechi. – Vi darò una delle mie migliori navi e tutto il carico che riuscirete a raccogliere sarà vostro, di più vi pagherò uno stipendio che sarà doppio di quello dei miei capitani. — Lasciate andare, signor Foyn. Mi accontento del carico e sarò lietissimo di ricondurvi gli equipaggi naufragati. — Ditemi, signor Tompson, conoscete le Spitzberg? — Sì, avendo approdato già due volte. — E contate proprio di svernare fra quelle isole? — Prevedo che i ghiacci non mi permetteranno il ritorno, ma non temete. Ho svernato ancora all’isola Jan Mayen ed a quella degli Orsi. — Quanti uomini volete? — Mi basteranno venticinque o trenta. — Vi aggiungerò quattro balenieri. Potete incontrare dei cetacei e farà meglio i vostri affari. — Non li rifiuterò di certo, disse Tompson, sorridendo. — Allora non perdiamo tempo... ma... — Che cosa? — Accettereste un mio amico? — Volentieri, signore. Mi terrà compagnia. — È uno scienziato di Halmstad, un bravo giovanotto che è qui venuto per fare delle osservazioni sui ghiacci e sulle aurore boreali. Sarà ben lieto di accompagnarvi alle Spitzberg. — Troverà in me un buon compagno, signor Foyn. — Andiamo a scegliere la nave. Domani, se vorrete, potrete prendere il largo. — Meglio così. Non bisogna aspettare che i ghiacci scendano al sud. Vuotarono i bicchieri e usciti dalla casetta, si diressero verso i bacini, dinanzi ai quali si trovavano ancorate le navi destinate alla pesca dei colossali cetacei. Vedendo i suoi uomini raggruppati dinanzi all’abitazione, il signor Foyn si rivolse a loro salutandoli colle mani, dicendo poi: — Tornate pure alle vostre occupazioni, ragazzi miei. La flottiglia delle Spitzberg è naufragata, ma stiamo organizzando una spedizione. Non temete: se Dio ci aiuta, rivedrete ancora i vostri amici. La flotta del signor Foyn era numerosissima e non vi era bisogno di perdere troppo tempo nella scelta. Contava parecchie navi a vapore di piccola portata, ma dotate di una grande rapidità, incaricate di pescare e di rimorchiare i cetacei che si mostravano lungo le sponde del Finmark e del Varangefiord, poi molte navi a vela, brick, brigantini e skooner destinati alle pesche lontane, alle Spitzberg, alla Nova Semlia e all’isola degli Orsi. Tutta avevano le loro scialuppe baleniere sospese alle grue e portavano due cannoncini o meglio due grosse ma corte spingarde, pel lancio delle palle esplodenti o delle palle a punta. Il capitano baleniere, con un solo sguardo abbracciò tutte quelle navi di varia portata e di forme diverse e arrestò gli occhi su di uno skooner di forme arrotondate e massicce e con un’alberatura altissima. — Ecco una nave che somiglia alla mia, diss’egli, indicandola al signor Foyn. I fianchi larghi sono da preferirsi contro le strette dei ghiacci. — Vi accomoda quello skooner? — Sì, signor Foyn. — Avete un buon occhio, mio caro Tompson. La Torpa è infatti una buona nave che i miei capitani si disputano. Ha uno sperone solido e quantunque abbia forme assai arrotondate, fila i suoi sette od otto nodi all’ora, senza affaticarsi. – Porta? – Trecentoventi tonnellate. – È armata? – Completamente, essendo ritornata la settimana scorsa. Signor Tompson, andiamo a far colazione, mentre i miei uomini cominceranno l’imbarco dei viveri e di tutti gli oggetti necessari per una lunga campagna nei mari del nord. Fece chiamare il mastro d’equipaggio dalla nave scelta dal baleniere e gli diede gli ordini necessari, onde la Torpa fosse pronta per le prime ore dell’indomani, poi passò amichevolmente il suo braccio sotto quello di Tompson, e si diresse verso la sua abitazione che sorgeva a cinquecento passi dagli stabilimenti. Era una casa costruita tutto in legno di larice, a due piani, col tetto molto aguzzo e adorna di fregi come i châlet svizzeri, tutta dipinta in rosso vivo, colle finestre e colle porte doppie per non lasciar sfuggire il calore interno, durante il lungo e rigorosissimo inverno. Un piccolo giardino, dove fiorivano stentatamente alcune piante dei climi temperati, ma che erano destinate a perire alle prime nevicate e dove s’alzavano dei pittoreschi gruppi di abeti e di betulle, la circondava. Non mancava nemmeno una piccola serra, attraverso i cui vetri si vedevano delle stufe di dimensioni mostruose e delle piante dei climi caldi, ma mezze intisichite non ostante il calore infernale che doveva regnare là dentro. Il signor Foyn introdusse il baleniere in un salotto ammobiliato semplicemente, ma elegantemente, con grandi poltrone imbottite e foderate di pelle d’orso, con tende pesanti che dovevano riparare dai più lievi soffi d’aria, con lampade di metallo dorato, con grandi carte geografiche delle regioni nordiche e con artistici trofei di ramponi, di scuri, di coltellacci, di fiocine e d’arnesi strani che dovevano essere stati acquistati dagli Esquimesi e dai Samoiedi. Il pavimento poi spariva interamente sotto quattro superbe pelliccie di orsi bianchi, che dovevano aver avuto delle dimensioni gigantesche. La tavola, che occupava il centro del salotto, era già imbandita e il capitano baleniere, che sentiva una punta d’appetito, fece un gesto di sodisfazione, scorgendo dei tondi ricolmi di caviale di Russia, di salmoni del Tana, delle aringhe all’olio, dei gamberetti del lago Enara, dei filetti di delfini e una allegra fila di bottiglie polverose che erano celebri: Bordeaux, Reno, Laland. – Francia, Germania e Danimarca, disse sorridendo. Signor Foyn, volete brindare alla spedizione con dei vini di prima qualità? Sarà un buon augurio. – Speriamolo, signor Tompson. Accomodatevi e lavorate di denti, come foste a bordo della vostra nave. – L’appetito non fa difetto, a noi balenieri. – Ah!... Dimenticavo il mio amico scienziato. Premette un campanello elettrico tre volte e poco dopo entrava un uomo sui trent’anni, alto, magro, con una barbetta bionda e due occhi cerulei coperti da occhiali, ma coi lineamenti accentuati che avevano un non so che di ardito e di risoluto. Pareva che fosse appena allora ritornato da qualche esplorazione nei dintorni dell’isola, poichè aveva ancora indosso la giacca di pelle di foca, il cappello di tela cerata e calzava i pesanti e lunghi stivali di mare. – Lasciate che vi presenti il mio amico professore Oscar Benstorp, caro signor Tompson, disse Foyn. Ecco un uomo che vi terrà buona compagnia alle Spitzberg. Il baleniere e lo scienziato si strinsero vigorosamente la mano. – Sarete il benvenuto sulla Torpa, signore, disse Tompson. Procurerò di non farvi annoiare. – Ma... come?... si parte? – chiese il professore, con sorpresa. – Il signor Tompson si reca alle Spitzberg, in soccorso della mia flottiglia. – Ma dunque è proprio perduta? – Tutto lo indica. – È un disastro per te, Foyn. – Più pei miei poveri marinai che per me, Oscar. Ma speriamo che voi possiate giungere in tempo per salvarli. – Temi che non abbiano salvato dei viveri? – Chi può saperlo? – Fortunatamente alle Spitzberg la selvaggina abbonda. – Sì, ma se non avessero potuto salvare le armi? – È vero, Foyn, e quei poveri marinai possono correre il pericolo di morire di fame e anche di freddo. Gl’inverni alle Spitzberg sono terribili. – Accetti di seguire il signor Tompson? – È una fortuna che non mi lascerò sfuggire. – Allora mangiamo e poi andremo a sorvegliare l’imbarco dei viveri. Mezz’ora dopo, accese le pipe, il signor Foyn ed i suoi compagni si recavano dinanzi ai bacini. La Torpa era stata rimorchiata sotto lo scalo e una quarantina di marinai lavoravano alacremente sotto la direzione di alcuni mastri d’equipaggio e d’un capitano baleniere. Vere valanghe di provviste d’ogni specie venivano precipitate nella stiva dello skooner, essendo ormai tutti convinti che la spedizione sarebbe stata costretta a svernare alle Spitzberg in causa della stagione che era troppo avanzata. Balle di thè, di pesce secco, di pemmican, di vesti d’ogni specie, di pellicce; casse di biscotti, di conserve alimentari, di farina, di frutta secche; barili di carne salata, di caffè, di cioccolato, di vegetali in aceto, di succo di limone per combattere lo scorbuto, di pomi di terra, e tonnellate di carbone passavano dai magazzini di rifornimento alla nave, la quale si abbassava a vista d’occhio. Mentre i marinai ed i facchini si occupavano del carico, alcuni carpentieri visitavano le cabine, la stiva, l’alberatura e perfino la sentina, rinforzando i puntali per meglio consolidare le costole della nave e porla in grado di resistere alle tremende pressioni dei ghiacci, rinforzando i paterazzi e le sartie, o cambiando alcuni pennoni. Quel lavoro febbrile continuò anche durante tutta la notte, non tramontando il sole che dopo le undici, per tornare a risplendere alle due del mattino. Alle sei tutto era pronto. La Torpa poteva riprendere il mare col rimontare della marea, la cui massima piena doveva avvenire alle otto del mattino. – A bordo – disse Tompson, che non aveva abbandonata la gittata durante l’intera notte, in compagnia di Foyn e dello scienziato, per assicurarsi che nulla mancasse. Il vento fresca dal sud-est e prenderemo il largo rapidamente. Signor Foyn, le vostre ultime istruzioni? – Credo che non sia necessario darvene altre. Voi sapete meglio di me cosa dovete fare. – Spero di ricondurvi tutti i vostri uomini. – Mi dimenticava di avvertirvi d’una cosa. – E quale, signore? – Ho fatto imbarcare due dei miei edredon addomesticati. Il capitano baleniere lo guardò con stupore. – Volete procurarmi delle penne pel mio materasso, forse? Vi assicuro che non ne ho bisogno. – Lo credo; ma invece quegli uccelli vi serviranno meglio. Avete udito a parlare dei colombi messaggieri? – Sì, qualche volta. – Ebbene i miei edredon vi serviranno per darmi vostre notizie. Così, in caso di pericolo, colla nuova stagione potrò organizzare una nuova spedizione di soccorso. – Ecco un’idea davvero ammirabile. Non dubitate, vi darò mie notizie. – Partite e buon viaggio. Buona fortuna, amico Oscar. Il capitano e lo scienziato strinsero vigorosamente la mano al signor Foyn e salirono sulla Torpa, mentre gli uomini degli stabilimenti, che si erano raggruppati sulla gettata, lanciavano tre formidabili hurrà! Tompson salì sul ponte di comando e rizzando il robusto corpo, gridò con voce tuonante: – Giù gli ormeggi!... La prora al nord! Pochi minuti dopo lo skooner abbandonava l’isolotto, uscendo a gonfie vele dal Varangefiord. CAPITOLO III. In rotta pel Nord. Il capitano Tompson non si era ingannato sulla scelta della Torpa. Era una nave di piccolo tonnellaggio, poichè, come dicemmo, non stazzava che trecentoventi tonnellate, ma era il veliero più adatto per un’ardita spedizione nei mari polari. Era corta ma larga di fianchi, la forma migliore per sopportare le pressioni irresistibili dei campi di ghiaccio e che permette il sollevamento evitando così di correre il pericolo di farsi schiacciare; era salda di costole con doppio fasciame e doppi puntali rinforzati presso i bagli e le murate alte per proteggere meglio l’equipaggio dai colpi di mare. La sua prora, quasi ad angolo retto, come in generale hanno le navi da pesca norvegiane, era munita da un largo sperone di ferro che le permetteva d’investire i ghiacci, per aprirsi il passo attraverso i palks, gli streams e gli ice-field. La sua alberatura era poi altissima e le sue vele avevano uno sviluppo enorme, per poter approfittare delle più leggere brezze. Le vele quadre del trinchetto, la randa e contro-randa dell’albero maestro ed i flocchi del bompresso erano stati cambiati di recente e la loro tela, che era grossa assai, poteva sopportare, senza tema di lacerarsi, i più tremendi venti polari. L’equipaggio, scelto con cura dal signor Foyn, valeva la nave. Erano tutti bei pezzi di giovanotti, colle membra robuste, le braccia potenti, già tutti abituati alle fredde regioni del nord e alle pericolose campagne dei balenieri. Solamente il pilota dei ghiacci o ice-master, era un po’ attempato, ma i suoi cinquant’anni non gli pesavano di certo sulle spalle e manovrava come un giovine. – Buona nave e bravi marinai, disse Tompson allo scienziato, che gli si era seduto accanto, su di una corcoma di gòmene. Con questa gente giungeremo alle Spitzberg malgrado i campi di ghiaccio ed i nebbioni. – Credete che incontreremo presto i ghiacci? – La stagione è assai inoltrata per queste regioni e al di là del capo Nord troveremo di certo qualche ice-berg, e quelle montagne sono le avanguardie degli ice-fields, ossia dei grandi campi. – Ma passeremo egualmente? – Per bacco! Se sarà necessario lavoreremo di sperone, ma andremo innanzi. – Quando sperate di giungere alle Spitzberg? – Fra due settimane, se il diavolo non ci mette la coda o se non ci arrestiamo a cannoneggiare qualche balena. Sono curioso di provare le palle del signor Foyn. – Adoperate ancora il rampone voi? – Sì, professore. Le palle che si adoperano ora saranno buone, efficaci, ma io preferisco ancora la vecchia arma dei nostri valenti balenieri. La caccia col rampone è più emozionante, e se è più pericolosa, di rado però fallisce. – Avete ramponate molte balene? – In quindici anni ne ho prese almeno centocinquanta, oltre una sessantina di capodogli. – Che terribile distruzione fanno i balenieri. Se questa caccia spietata continua, distruggeranno ben presto tutti i giganti del mare. – È vero, signore, e le balene cominciano a scarseggiare. Mi ricordo che nella mia gioventù se ne vedevano alcune entrare perfino nei fiord, ma ora si tengono lontane e di rado si accostano alle sponde della Norvegia. Continuano a ritirarsi nelle regioni dei ghiacci eterni e fra qualche ventina d’anni bisognerà andarle a cercare presso il polo. Anche in Islanda, una volta erano così numerose, ma ora cominciano a diventare rare, anzi certi anni non se ne trovano affatto. – Ma l’allontanamento delle balene dalle coste d’Islanda è dovuto ad una causa, disse il professore. – A quale? – Allo spostamento delle correnti marine avvenuto nel 1868. Prima di quell’epoca, le correnti equatoriali e polari s’incontravano con grande forza presso le coste orientali dell’Islanda, accumulando in quei paraggi il cibo ordinario delle balene, ma poi deviarono verso il nord e nord-est, tenendosi lontane dalle coste islandesi e perciò i cetacei si allontanarono pure. – Deve essere vero, professore, poichè in quell’epoca io mi trovavo precisamente sulle coste d’Islanda, imbarcato su di una nave a vapore olandese ed in tre mesi non ho potuto ramponare che una sola balena. – Avete conosciuto Hammer di Copenaghen? – Sì, professore. È uno dei più famosi lupi di mare ed uno dei più audaci balenieri che vanti la Danimarca. – Ebbene, fu lui che s’accorse dello spostamento della corrente e delle balene. Era partito con una vera flotta di navi a vapore pieno di speranza, sapendo che su quelle coste i cetacei abbondavano, ma non ne trovò che pochi assai e così inquieti che non si lasciavano avvicinare e fu a grande fatica che potè ramponarne sei durante tutta la stagione. – Tanto pochi da non coprire le spese. – Lo credo. Certo, le balene erano furibonde per non aver trovato il loro solito cibo che le correnti avevano trascinato altrove. – Quello spostamento però è tornato vantaggioso al vostro amico Foyn. – È vero, poichè mi dissero che in quell’anno pescò una trentina di balene. – Oh! Oh! – fece in quell’istante Tompson, alzando vivamente il capo. – Cosa avete? – Temo che alle Spitzberg sia già cominciato l’inverno. – E da cosa lo arguite? – Vedete in alto quelle schiere di uccelli bianchi che fuggono verso il sud? – Sì,... signor Tompson. – Vanno a svernare sulle rive dell’Ural e del Volga. – Sono pellicani, forse? – Sì, professore, e la fuga di quegli uccelli in questa stagione che non è ancora fredda, indica che nelle isole dello Spitzberg sono già cadute le prime nevi, ma bah!... Se il vento si mantiene così fresco, giungeremo presto a destinazione. Signor professore, andiamo a far colazione intanto. Mentre il capitano ed il signor Oscar scendevano nel quadro, la Torpa navigava a tutte vele spiegate verso le regioni boreali, filando senza fatica i suoi sette nodi all’ora, colle mure a babordo. Già le alte coste della Norvegia co’ suoi fiords profondi e le sue montagne ancora coperte di neve verso le cime, erano quasi scomparse e solamente verso l’ovest si delineavano ancora, ma confusamente, le ultime coste che vanno ad appoggiarsi al capo Nord. Il mare era tranquillo e spumeggiava solamente dinanzi alla prora del buon veliero e la temperatura dolce, tiepida, mentre il cielo aveva quella tinta azzurra così splendida, così vaporosa, che solamente si ammira nei mari delle coste italiane. — Qualche procellaria e qualche gabbianello solcavano l’aria, tuffandosi di quando in quando in mare per prendere i pesciolini, mentre dalla scia spumeggiante e candida della Torpa emergevano di tratto in tratto le teste d’una coppia di delfini. L’equipaggio, disperso sul ponte, chiacchierava e discuteva sull’esito della spedizione, mostrandosi fiducioso dell’audacia del suo nuovo capitano. A quei bravi e valenti uomini di mare aveva bastato uno sguardo per giudicare il signor Tompson ed erano più che certi di non essersi ingannati sulle buone qualità di quel lupo di mare. Durante quella prima giornata, la Torpa s’avanzò verso il nord mantenendo una velocità che variava fra i quattro e sette nodi all’ora, senza fare alcun incontro, quantunque il capitano avesse dato ordine di esaminare attentamente l’orizzonte, premendogli di mettersi in comunicazione con qualche nave proveniente dai mari del nord, per sapere se il gelo era già cominciato nei dintorni dello Spitzberg. Verso le otto di sera – sera per modo di dire, poichè il sole non tramontava che verso le 11 – una calma quasi assoluta venne ad imprigionare la nave baleniera, a meno di settanta miglia dalle coste della Norvegia. Quel brusco interrompersi della brezza, parve che suscitasse delle inquietudini nel signor Tompson. Il suo sguardo acuto interrogava con una certa ansietà l’orizzonte settentrionale e la sua faccia tradiva un vivo malumore. – Bah!... – disse il professore, che si era accorto della irrequietezza del baleniere. Il vento non ritarderà a soffiare, e poi un giorno perduto non porterà grande disgrazia ai pescatori del signor Foyn. – Non è questa immobilità che m’importuna – disse Tompson. Temo che il vento giri al nord e ci trascini addosso quelle terribili flottiglie di ice-bergs, che navigano costantemente dinanzi all’isola degli Orsi. – Si trovano sempre barriere di ghiacci, dinanzi a quella terra? – Sì, professore, specialmente verso la fine dell’estate. – Allora dinanzi alle Spitzberg troveremo i grandi campi di ghiaccio? – Non sempre, signore. – Questa è strana, trovandosi quelle isole molto più al nord. – Pare, professore, che le barriere di ghiacci siano capricciose poichè non tengono tutte una linea identica. Ve ne sono di quelle che scendono molto verso sud e altre che lasciano delle profonde aperture o che marciano verso l’est. – E mai verso l’ovest? – No, signore. La corrente ed i venti dominanti dell’ovest, spingono sempre quelle masse galleggianti verso la Siberia. – E voi mi dite che non scendono tutti sulla stessa latitudine? – No, ed io sono in caso di saperlo meglio di qualunque altro, avendo pescato sulle coste della Groenlandia, dell’Islanda, di Jan Mayen, delle Spitzberg e della Nova Semlia. Nello stretto di Danimarca, per esempio, fra l’Islanda e la costa meridionale della Groenlandia, le barriere di ghiaccio scendono fino al 69° parallelo e qualche volta più al sud ancora, al 68° e anche al 67°. Di là salgono descrivendo un’immensa linea obliqua che va ad appoggiarsi alle coste meridionali delle Spitzberg. – È la grande barriera che ha arrestato l’Hansa della spedizione germanica del 1869, disse Oscar. – In nessun altro luogo si trovano gli ice-bergs ad una così bassa latitudine, continuò Tompson. Si ritrovano verso il 70° parallelo, all’est dell’isola di Jan Mayen, poi risalgono fino al 75°: ridiscendono dinanzi all’isola degli Orsi, poi tornano ad inalzarsi formando una grande barriera, quasi insuperabile, che pare si estenda dinanzi ad una terra che alcuni balenieri hanno scorta molto più al nord delle Spitzberg1, va ad appoggiarsi al capo Mauritius della Nova Semlia e quindi s’ingolfa nel mar di Kara, accumulandosi dinanzi alla grande penisola di Jalmal. – Ditemi, signor Tompson, credete voi che dietro le Spitzberg si accumulino sempre dei grandi campi? – Non parrebbe, professore. – Pure, Parry nella spedizione del 1827 ha dovuto arrestarsi dinanzi a degli ice-fields che avevano delle estensioni enormi, e se volle avanzare, fu costretto a procedere colle slitte spingendosi, con una rara audacia, fino all’82° 45 di latitudine. – Non tutti gl’inverni sono uguali, signore, e poi dipende anche dalla direzione dei venti. Io so che dei balenieri hanno potuto spingersi, e senza difficoltà, a sessanta ed anche a cento miglia a nord delle Spitzberg. – E non hanno incontrato altre terre, al nord di quelle isole? – No, il mare era libero. – Allora qualche nave potrebbe tentare di giungere al polo, tenendosi sui meridiani delle Spitzberg. – Potrebbe, ma chi dice che più al nord non esistano delle terre? Come vi ho detto, all’est dell’arcipelago, fra il 40° ed il 70° meridiano e l’80° di latitudine, i balenieri hanno veduto delle terre ed io sospetto che al di là dell’80° si estenda un vasto continente che potrebbe unirsi alle coste occidentali della Groenlandia. – Lo credete?... – Non lo credo positivamente, ma lo sospetto. – Può essere, signor Tompson, disse il professore che era diventato pensieroso. Nessun esploratore ha potuto sapere fin dove si spingono le coste orientali della Groenlandia, ma pare che invece di seguire il 20° meridiano, tendano appunto ad allargarsi in direzione delle Spitzberg. Ah! Come sarei contento se potessi avere una nave a mia disposizione per tentare di sciogliere il grande problema dei passaggi che conducono al polo! Vi verreste, signor Tompson? – Sì, professore, ma purchè ci fossero molte balene da pescare, rispose il capitano, sorridendo. Se potrete organizzare una spedizione, pensate pure a me e vedrete che io vi condurrò bene innanzi, fra i ghiacci del polo. CAPITOLO IV. I primi ghiacci. La Torpa nei giorni seguenti continuò la sua corsa verso le gelide regioni polari, ma con una velocità moderata in causa della irregolarità dei venti, i quali ora soffiavano dal nord-ovest, ed ora dal sud-ovest, provocando delle contro-ondate che ostacolavano, e non poco, l’avanzarsi della nave. Quelle due correnti d’aria non dovevano tardare a produrre un grave perturbamento, che il baleniere aveva già previsto. Da qualche giorno dei nuvoloni si formavano ora al nord-ovest ed ora al sud-ovest, tendendo a riunirsi, e delle nebbie calavano sul mare, specialmente verso sera. Anche la temperatura diventava rapidamente fredda di miglio in miglio che la Torpa si allontanava dalle coste norvegiane. Il termometro aveva già segnato due volte – 2° centigradi verso le prime ore del mattino, e quel brusco abbassamento doveva indicare la vicinanza dei primi ghiacci. Fu il 3 ottobre che lo schooner fece l’incontro del primo ghiaccio. Era una specie di zattera di forma allungata, un palk come vengono chiamati dai naviganti artici, di trenta a quaranta metri di estensione. Alcuni uccelli marini, delle strolaghe (colimbus articus), bei volatili col becco ed il petto nero, il dorso pure nero, le ali macchiate di bianco e le parti inferiori candidissime, lo montavano, lasciandosi tranquillamente portare verso il sud. Lo stesso giorno altri palks furono segnalati, poi degli hummoks, monticelli formati da frammenti di ghiacci e qualche streams, ghiacci di forma circolare. Su uno di quei piccoli banchi furono vedute anche due foche, ma appena s’accorsero della presenza della nave, s’affrettarono a inabissarsi. Durante la notte altri ghiacci continuarono a sfilare, dirigendosi verso il sud-est. Di tratto in tratto si cozzavano fra di loro, e capitombolavano, sollevando piccole ondate. Quegli hummoks, quei palks e quegli streams non erano pericolosi e cedevano facilmente sotto lo sperone della Torpa, ma indicavano la vicinanza degli ice-bergs, ossia delle montagne di ghiaccio e dei campi di ghiaccio e fors’anche degli ice-fields, ossia i grandi campi. Il capitano, vedendo aumentare d’ora in ora quei massi diventava sempre più inquieto. Quell’uomo che aveva passato lunghi anni in quelle regioni dei geli, prevedeva un inverno molto precoce e assai freddo. Ad avvalorare i suoi timori concorreva la ritirata precipitosa degli uccelli marini, verso le regioni del sud. Ad ogni istante grandi bande di volatili apparivano sull’orizzonte settentrionale e filavano rapidamente, come se avessero paura di venire sorprese dagli uragani di neve. Erano stormi di gabbiani dalle candide ali, di urie dalle penne nere ma le ali biancastre, di strolaghe, di oche bernicle, di labbi dal volo potente e fulmineo, di procellarie e di eider dalle penne preziose. Il 5 ottobre, a circa duecento miglia dall’isola degli Orsi, la Torpa incontrava il primo ice-berg. Era una montagna di ghiaccio in forma di piramide, con una base di quattrocento metri e un’altezza di ottanta o novanta, un vero colosso che con un solo urto avrebbe schiacciato la più potente nave del mondo. S’avanzava superbamente, senza scuotersi sotto gli assalti delle onde, scintillante come un enorme diamante verso la cima, rosso come se fosse infuocato al centro, e candido verso la base. Il sole, che lo colpiva in pieno, faceva sprizzare, dagli angoli, fasci di luce che si tingevano dei colori dell’arcobaleno. — Brutto segno — disse Tompson — gettando uno sguardo corrucciato sul gigante polare. — Temo, professore, che avremo molto da fare per approdare alle Spitzberg. — Verremo arrestati prima di giungervi? — chiese Oscar. — Se i ghiacci si mostrano qui, chissà quanti ne troveremo al di là dell’isola degli Orsi. — Che siamo costretti a ritornare? — Ritornare!... Oh no, professore! — esclamò il baleniere, con vivacità. — Tompson non ritorna e dovessi aprirmi il passo a colpi di sperone o colle mine, io andrò alle Spitzberg. Ho promesso al signor Foyn di salvare gli equipaggi delle sue due navi, ed io non cesserò di lottare finchè non li avrò raccolti. — Ma se i ghiacci imprigionassero la Torpa! — Avanzeremo colle nostre gambe, professore. Se Parry ha potuto spingersi fino all’82° 45 di latitudine, procedendo attraverso i campi di ghiaccio, si potrà più facilmente avanzare fino alle isole. – Ma credete che siano tutti vivi, i naufraghi? – Se non tutti, spero che alcuni saranno riusciti a salvarsi. – Quale isola esploreremo prima? – Tutto dipende dai ghiacci. Dove troverò un passaggio, lancerò la Torpa. – Ma contate di svernare fra le isole? – Vi sarò forzato, poichè non potrò di certo ritrovare la via libera per ritornare. – E dove contate di svernare? – Possibilmente nell’Eis-fiord. Se riesco a cacciare là dentro la Torpa, non avremo da temere l’urto dei grandi banchi scendenti dal nord, e poi so che laggiù si radunano ordinariamente numerosissime foche e conto di non rimanere inoperoso durante lo svernamento. – Signor Tompson, non vi sembra che si prepari una burrasca? – Sì, professore. Il vento del nord-ovest ha sopraffatto quello del sud-est e avremo delle raffiche e delle forti ondate. Sarà bene prendere le nostre precauzioni per tempo. Il baleniere non s’ingannava. Poco dopo il mezzodì, mentre la Torpa navigava fra due lunghissime file di hummoks che parevano si fossero staccati dai ghiacciai o dagli ice-bergs dell’isola degli Orsi, il tempo, che fino allora si era mantenuto abbastanza buono, cambiò bruscamente. Il vento del nord-ovest spingeva innanzi le pesanti e fosche nebbie polari, stendendole sull’oceano artico con rapidità straordinaria, fantastica. In meno di un quarto d’ora tutto l’orizzonte settentrionale erasi già coperto e da quei vapori, gravidi di neve, irrompevano violenti raffiche, le quali cominciavano a sollevare delle ondate spumeggianti. Il baleniere si era però affrettato a prendere le sue precauzioni. Aveva fatto raddoppiare le funi delle scialuppe e assicurare maggiormente le grue; rinforzare paterazzi e sartie; tendere funi lungo le murate per impedire alle onde di travolgere fuori dai bordi i marinai; imbrogliare il pappafico e il contropappafico e terzaruolare il trinchetto, il parrochetto e la randa. Aveva inoltre fatti portare in coperta i buttafuori, per poter respingere i ghiacci che le onde potevano scagliare attraverso la prora del veliero. Il cielo intanto continuava ad oscurarsi ed il nebbione, che il vento travolgeva, sbatteva in tutti i sensi e lacerava, minacciava di abbassarsi, rendendo pericolosa la marcia della Torpa. Grandi ondate si formavano qua e là e correvano verso il sud-est, accavallandosi le une colle altre e sfasciandosi con dei lunghi ed assordanti muggiti. Numerosi ghiacci, ma fortunatamente di piccole dimensioni, oscillavano sulle creste spumeggianti o scendevano precipitosamente negli avallamenti. Di tratto in tratto s’incontravano e allora si frantumavano, come se nel loro centro scoppiasse una mina di grande potenza. La Torpa, colle sue vele terzaruolate, affrontava coraggiosamente il mare, pareva anzi che si ridesse delle onde e dei ghiacci. Sormontava, agile come un delfino, i marosi, scendeva, quasi senza inclinarsi, negli abissi mobili e quando qualche ghiaccio si trovava dinanzi al suo solido sperone, lo frantumava senza subire alcun contraccolpo. – Buona veliera – ripeteva Tompson, che teneva la ribolla del timone. – Con questa nave mi sentirei capace di lanciarmi sulla via che conduce al polo. Alle quattro del pomeriggio, il nebbione calò bruscamente sull’oceano, mentre il vento trasportava alcuni .... si trovarono avvolti in un nembo di schiuma. (Pag. 34). fiocchi di neve. L’oscurità divenne profonda e la navigazione difficile, in causa dei ghiacci che aumentavano sempre. Il baleniere non indugiò a far imbrogliare anche il parrochetto ed a far prendere un’altra mano di terzaruoli sulle altre vele, per diminuire la velocità del veliero. Un urto poteva accadere da un istante all’altro e se la Torpa avesse investito con quella foga, avrebbe potuto subire delle avarie gravi e forse irreparabili. – A posto l’ice-master!1 gridò Tompson. Marinai a prora sul bompresso!... Ai bracci delle vele, gli altri!... – Potranno scorgere a tempo i ghiacci? gli chiese Oscar, che gli stava presso. – Gli ice-bergs di certo, se la nebbia non diventa più fitta. Ordinariamente si scorge attorno a quelle montagne un po’ d’ice-blink2, rispose il baleniere. – Allora un urto non è probabile. – Tutt’altro, professore. Possiamo venire presi fra tre o quattro ice-bergs e nel virare di bordo andare addosso a qualcuno. Ma non sono i ghiacci che pel momento mi preoccupano. – E cosa?... Le onde forse? – No, l’isola degli Orsi. Temo di trovarmi, da un’ora all’altra, addosso alle scogliere che la circondano e che questa nebbia del malanno m’impedirà di scorgere. – Diavolo!... Siamo già così vicini? – Sì, professore, ma se gli occhi non potranno vedere, i miei orecchi sono ancora buoni e li tenderò per bene onde raccogliere i fragori della risacca. – Un po’ difficile a distinguersi però, fra i muggiti delle onde ed i fischi del vento. – Per voi, ma non per un marinaio. Tenetevi saldo, professore!... Un’onda gigantesca, assalendo la Torpa di traverso, aveva superata la murata di babordo e si era scagliata attraverso la tolda, correndo verso poppa. Il baleniere ed il professore si trovarono avvolti in un nembo di spuma e si sentirono sollevare e trascinare verso il bordo, ma ebbero il tempo d’aggrapparsi alla ribolla del timone. – Questo si chiama un vero colpo di mare — disse Tompson, scuotendosi di dosso l’acqua. — Fortunatamente non gela ancora. – Ma minacciava di fracassarci le costole, capitano — rispose Oscar. – Bah!... Cercheremo di evitare gli urti e prenderemo le onde di prora — disse il baleniere, cacciando all’orza la ribolla. È vero che... Si era arrestato di colpo, udendo in alto la voce dell’ice-master a gridare: – Ohe!... L’ice-blink a babordo!... – Tuoni di Vardò!... — esclamò Tompson. — Ecco un incontro che non mi aspettavo così presto. Ehi, master, a quante miglia? – È impossibile saperlo, con questa nebbia, capitano. – Non puoi scorgere i ghiacci? – Non vedo che l’ice-blink. – Sta bene, ci terremo in guardia. – Indica i grandi campi, capitano? — chiese Oscar. – Gli ice-fields, professore, e ciò mi fa supporre che l’isola degli Orsi non sia molto lontana. Speriamo di trovare un passaggio fra la costa ed i campi di ghiaccio. Ohe!... Sul bompresso i gabbieri e voi altri, pronti a virare e che nessuno lasci le braccia delle manovre. In quell’istante la Torpa subì un urto violento che si ripercosse nella stiva, seguìto da un lungo stridío. – Banco a fior d’acqua – gridò una voce a prora. – Sperono – rispose semplicemente il baleniere – mantenendo ferma la ribolla del timone. La Torpa si era arrestata un istante, ma un’onda la sollevò e la spinse innanzi. Il banco, stritolato dall’enorme peso di quella massa che cadeva, fu spaccato e la nave passò oltre, speronando i frammenti. Oscar guardava fisso il baleniere, ma questi era tranquillo e nemmeno le sue sopracciglia si erano aggrottate, nel momento in cui la Torpa cadeva sul banco. – Vi ammiro, capitano – diss’egli. – E perchè, professore? – chiese il baleniere, sorridendo. – Perchè voi siete un uomo adatto per una spedizione così pericolosa. – Bah!... Io ed i ghiacci siamo vecchi conoscenti e poi qualunque altro baleniere avrebbe fatto altrettanto e avrebbe accettato l’incarico. Signor professore, vi avverto che stiamo per passare una brutta notte e vi consiglierei di ritirarvi nella vostra cabina. – No, capitano. – Ebbene, professore, lasciate che dica anch’io a voi che vi ammiro. Volete tenermi compagnia?... Sta bene: vi mostrerò uno spettacolo che forse mai dimenticherete!... Poi rizzando l’alta statura tuonò: – Ai buttafuori gli uomini di prora!... I campi ci stanno vicini!... CAPITOLO V. Una notte angosciosa. La notte infatti prometteva di essere cattivissima, con quel mare che si dibatteva con rabbia selvaggia, con quei ghiacci che da un istante all’altro potevano comparire dinanzi allo sperone della nave e con quel cupo nebbione che impediva di scorgere il pericolo. La Torpa fuggiva sempre, incalzata dalle onde che la percuotevano furiosamente e che la circondavano da prora a poppa, ma senza sapere dove andasse, perchè le raffiche che balzavano dal nord-est al nord-ovest la gettavano di frequente fuori di via, non ostante gli sforzi di Tompson. Filava come un gabbiano spaventato, fendendo coi suoi alberi il pesante nebbione e speronando con rabbia i ghiacci, che i marosi spingevano dinanzi ad essa. I marinai parte affollati a prora coi buttafuori e parte disposti ai bracci delle manovre, si tenevano pronti a respingere i ghiacci che potevano apparire a tribordo ed a babordo od a virare al primo comando del baleniere. Quantunque la nave corresse dei gravi pericoli, da veri norvegiani, conservavano un sangue freddo ed una calma ammirabile. D’altronde avevano piena fiducia nel loro comandante, sapendo da quale valente e ardito marinaio eran guidati. La notte era scesa, accrescendo l’oscurità del nebbione. A malapena si distinguevano le onde e gli uomini di poppa faticavano assai a distinguere i loro compagni che si trovavano a prora. Dovevano essere le dieci, quando a babordo si vide apparire una luce biancastra, madreperlacea, ma che ora diventava intensa e che ora s’indeboliva al punto da non poterla quasi più distinguere. Quasi subito, senza transazione, la temperatura, che fino allora si era mantenuta sopportabile, divenne rigidissima. Pareva che dal seno di quella luce biancastra irrompesse una corrente d’aria satura di cristalli di ghiaccio e di neve. – L’ice-blink! – urlarono gli uomini di prora. – Banchi a babordo! tuonò l’ice-master, che non aveva abbandonato il suo posto d’osservazione, non ostante le tremende scosse che subiva l’alberatura. – Braccia a tribordo!... gridò Tompson, forzando la ribolla. Apri bene gli occhi, master!... La Torpa virò di bordo rapidamente, malgrado le onde che l’assalivano, ma aveva percorso appena una gòmena, quando si udì ancora la voce dell'ice-master: – Ice-berg a babordo! ... – Tuoni di Vardò!... esclamò il capitano. Prudenza e sangue freddo, o andremo a fracassarci. Guardò alla sua sinistra, e attraverso alla nebbia, gli parve di scorgere una massa enorme capeggiare fra i marosi. Tese gli orecchi e udì degli scricchiolii sordi. Comprese che una montagna di ghiaccio si apriva il passo attraverso i palks e gli streams. – Vedi nulla dinanzi a noi, master? – No, capitano. – Alla fortuna allora e che Dio ci aiuti!... Senza sostare lanciò la Torpa verso il nord-nord-ovest. Stretto dall’ice-berg e dai grandi campi di ghiaccio, cercava tentarsi un passaggio che gli permettesse di sfuggire alla stretta. La nave correva salendo e scendendo i cavalloni, frantumando, con uno scricchiolìo sonoro, i piccoli ghiacci. Passò sotto l’ice-berg, la cui massa imponente si distingueva confusamente fra il nebbione, toccandolo colle estremità dei pennoni di trinchetto, poi passò oltre colla rapidità del lampo. Non aveva percorso ancora dieci gòmene, quando si udì una serie di detonazioni spaventevoli, seguite da sordi fragori, poi un tonfo orribile. Un’onda immane balzò in aria come se fosse stata sollevata dallo scoppio di cento torpedini, e si distese sull’oceano con impeto irresistibile, scuotendo furiosamente il veliero. – È caduto!... – gridò Tompson. Un minuto ancora, e venivamo schiacciati!... – L’ice-berg? chiese Oscar. – Sì, professore ed è caduto pochi secondi dopo il nostro passaggio. Il diavolo se lo porti!... – Ma... – Zitto, professore!... Tompson si era curvato innanzi e pareva che ascoltasse con profonda attenzione. Ad un tratto si rialzò e per la prima volta Oscar lo vide col viso alterato. – Cosa succede, signor Tompson? chiese. – La risacca, rispose il baleniere. Siamo addosso all’isola degli Orsi. – Ma dove la udite? – Alla nostra destra, se non m’inganno. Ice-master? – Capitano. – Vedi nulla dinanzi a noi? – Nulla: la nebbia scende sempre a ondate più fitte. – Odi la risacca?... Ascolta bene!... Trascorsero alcuni istanti d’angosciosa aspettativa, poi la voce della vedetta echeggiò ancora sull’alto del trinchetto. – Sì, la risacca a tribordo! Tompson abbandonò la ribolla ad un timoniere e si slanciò a prora seguito da Oscar. Salì sulla murata avanzandosi sul bompresso, cercando di discernere qualche cosa attraverso la caligine che correva disordinatamente rasentando le onde, ma invano. Tese gli orecchi ascoltando a lungo e gli parve di udire uno scrosciare d’acqua, ben diverso da quello che producono le onde nell’incontrarsi. – La risacca, ripetè. La barra a poggia, tutta, timoniere. Pronti a virare!... La Torpa avanzava sempre, ma non più colla prora al nord. Deviava verso il nord-nord-ovest, per evitare l’isola degli Orsi che doveva starle quasi dinanzi. Il baleniere, aggrappato al bompresso per non farsi portar via dalle onde, ascoltava sempre e regolava la rotta della nave a seconda che udiva frangersi più o meno fortemente la risacca. Ormai si udivano distintamente i muggiti delle onde, rompendosi contro le dirupate spiagge dell’isola. Per un’ora la Torpa navigò colla prora al nord-nord-ovest, oscillando spaventosamente fra le ondate di fondo causate dalla ripidità delle coste dell’isola segnalata, poi si trovò in un tratto di mare meno irato. Il baleniere emise un lungo sospiro di sollievo e riguadagnò il castello di prora. – Dio ci protegge, professore, disse a Oscar. – Non corriamo più alcun pericolo? – Non dico questo, ma non andremo più a urtare contro i frangenti, poichè l’isola degli Orsi si trova ora a poppa della Torpa. Vi assicuro però, che ho passata un’ora fra una continua angoscia, e non so se avrei il coraggio di tentare una seconda volta il passaggio, così vicino a quelle scogliere ed in mezzo a simile nebbione. – Corriamo ora verso lo Spitzberg? – Sì, professore. – I ghiacci non arresteranno la nostra corsa? – È probabile. – Però mi sembra che questo tratto di mare sia sgombro. Non odo lo sperone urtare i ghiacci. – Perchè ci troviamo nella scia delle Spitzberg. Quelle isole coprono quella degli Orsi, cioè le servono di barriera contro i ghiacci scendenti direttamente dal nord. Ecco anche il motivo per cui noi qui siamo meno battuti dalle lunghe ondate dell’oceano artico. – Infatti la Torpa rolla e beccheggia molto meno di prima e le raffiche sono meno impetuose. Quando sperate d’avvistare l’arcipelago? – Domani, prima del tramonto del sole, se il vento non gira al nord. – Così presto? – Non vi sono che centocinquanta miglia fra l’isola degli Orsi e lo Spitzberg. – È vero, signor Tompson. Quale rotta terrete?... Puntate verso il capo sud o sull’isola di Hope? – Sul capo Sud, poichè, come vi dissi, mi preme mettere al sicuro la Torpa nel profondo Eis-fiord. Professore, ritiratevi nella vostra cabina e dormite tranquillo. – Approfitto – rispose Oscar. – E voi? – Non lascerò la ribolla finchè non vedrò il capo Sud. – Buona notte, capitano. Tompson aveva però detto troppo presto, che non vi era ormai più alcun pericolo. La Torpa veleggiava con maggior stabilità, essendo le onde meno irate in quel tratto di mare riparato dal vasto arcipelago delle Spitzberg, ma i ghiacci tornavano a mostrarsi, trascinati colà dal vento del nord-ovest e prima accumulati da quello del sud-est. Ad ogni istante l’ice-master segnalava degli ice-bergs mostruosi che ondeggiavano pesantemente e che potevano, con un solo urto, fracassare la nave malgrado la robustezza dei corbetti e del fasciame. Quei colossi si vedevano sfilare in mezzo al nebbione, tramandando sprazzi di luce biancastra e si udivano cozzi violenti, sorde detonazioni, poi capitomboli i quali producevano delle ondate mostruose che si rovesciavano improvvisamente sulla nave. Fortunatamente la nebbia, continuamente lacerata dalla furia del vento, pareva che si decidesse ad alzarsi. Infatti di quando in quando l’oscurità scemava e talvolta si scorgeva in alto una luce pallida che doveva essere proiettata dalla luna. Anche il vento, spazzato forse dalla grande barriera dell’arcipelago, soffiava meno violento e accennava a diventare più regolare. Verso le sei del mattino, nel momento in cui la nebbia cominciava a diradarsi, si udì l’ice-master a gridare: – Ice-field a babordo. – Di già! – esclamò Tompson, aggrottando la fronte. – Ecco una sorpresa che non mi aspettava così presto. Abbandonò la ribolla ad un timoniere e salì lesto le griselle dell’albero di trinchetto, fermandosi sotto le crocette sostenenti la botte dell’ice-master. Con sua grande sorpresa si trovò fuori dal nebbione addensato sul mare. In alto scintillavano gli astri e la luna, la quale pareva un disco di metallo battuto, circondato da un gran cerchio di vapori e sotto, fino all’altezza della coffa dell’albero di trinchetto, si stendeva la nebbia sovrapposta a strati irrequieti, i quali si rigonfiavano qua e là sotto i soffi del vento. Da quei vapori emergevano i due alberi della nave e le punte di numerosi ice-bergs ondeggianti sul mare, e verso il nord si vedevano erigersi dei picchi numerosi i quali proiettavano in aria quella luce scintillante, bianca come quella delle lampade elettriche, chiamata ice-blink. Quelle guglie di ghiaccio avevano una estensione immensa e si succedevano senza interruzione fin dove potevano giungere gli sguardi. Il baleniere comprese, con un solo sguardo, che sotto quella selva di picchi doveva estendersi uno di quei campi immensi chiamati ice-fields. – La via del nord è chiusa, è vero, ice-master? – disse. – Sì, capitano – rispose il pilota dei ghiacci. – Credi che troveremo degli altri banchi di tale specie, sulle coste occidentali dello Spitzberg? – È probabile, se non ci affrettiamo. – Scorgi alcuna vetta all’orizzonte? – Ho puntato or ora il cannocchiale e mi è sembrato di aver veduto una macchia oscura. – È il capo Sud della grande isola, pilota. – Lo credo anch’io, capitano. – Hai scorto l’ice-blink, in quella direzione? – No, signor Tompson. – Buon segno: spero di poter approdare. Ridiscese in coperta passando attraverso l’umido strato dei vapori e riprese la ribolla del timone, tenendo gli sguardi fissi sulla bussola. Due ore dopo, mentre gli ultimi strati del nebbione si dileguavano fuggendo verso il sud-est, si udì l'ice-master a gridare: – Terra a prora!... – Siamo allo Spitzberg? chiese una voce. – Sì, professore, rispose il baleniere, volgendosi verso Oscar che era allora comparso in coperta. Avremo però da veleggiare parecchie ore ancora prima di giungervi. – È libero il mare? – Sembra, ma lo sapremo più tardi. – Sono impaziente di giungere a quelle isole, signor Tompson. – Lo credo, professore, ed io non lo sono meno di voi. – Si può dire che la nostra missione sta per finire, capitano. – O per cominciare?... Non sarà così facile trovare i naufraghi delle due navi e chissà quando potremo pensare al ritorno e se lo potremo. – Ho fiducia nella vostra esperienza. – Ma i ghiacci se ne ridono dell’esperienza, professore, e possono prepararci qualche sorpresa ben brutta. – Speriamo. – O meglio confidiamo in Dio, concluse il baleniere. CAPITOLO VI. L'arcipelago delle Spitzberg. L’arcipelago delle Spitzberg o Spitzberghen, si trova, si può dire, ai confini del mondo abitabile. È situato fra il 77° e l’88° di latitudine nord, ma non si conosce ancora esattamente la sua estensione, perchè non è stato completamente esplorato e si ignora se la Terra del Re Carlo, che si trova verso l’est, termini al 31° di longitudine o si prolunghi in direzione della Terra di Zichy ultimamente scoperta dal tenente Payer, e più tardi riveduta da Leight Smith durante la spedizione polare del 1880. Per lungo tempo si è creduto che lo Spitzberg fosse un’isola sola o tutt’al più formata da due isole collegate da un immenso banco di ghiaccio, ma dopo le esplorazioni di Parry, si sa invece che forma un vero arcipelago. Spitzberg è l’isola maggiore, tutta frastagliata da baie e da fiord che s’inoltrano entro terra per parecchie leghe, con catene di montagne assai elevate, con ghiacciai immensi che di anno in anno aumentano di spessore e che, cosa strana, invece di essere di forma concava come tutti gli altri, sono invece di forma convessa. È ricca di buoni ancoraggi, specialmente sulle coste occidentali dove si apre il profondo Eis-fiord, riparato da tutti i venti e così vasto da contenere una flotta delle più numerose; e sulle coste settentrionali ove trovasi la baia della Maddalena, cinta da montagne di granito alte 1500 e perfino 1800 piedi. È l’ultimo ancoraggio possibile per le navi di grossa portata e si trova a sole duecento cinquanta leghe dal polo. Dopo lo Spitzberg vengono la Terra del Nord-est, la più settentrionale e poco conosciuta; l’isola Edge pure di ragguardevole estensione con una baia al sud-ovest, la Terra del Re Carlo, la più orientale di tutte e la meno esplorata; le isole Barentz, del Principe Carlo, di Hope e le Sette Isole. Quell’arcipelago, che appartiene alla Russia, non è abitato da alcuna creatura umana, però abbondano le renne che vivono allo stato selvaggio, gli orsi bianchi, i trichechi e le foche. Numerosissimi poi sono gli uccelli marini. L’inverno dura quasi dieci mesi in quelle terre desolate, rendendo il soggiorno penosissimo. Nevicate furiose cadono senza posa per parecchi mesi; pesanti e densi nebbioni coprono costantemente le montagne e immensi banchi di ghiaccio si accumulano attorno alle spiagge. Anche durante la breve stagione estiva, la vegetazione è quasi nulla. Solamente i licheni spuntano e pochi muschi e poche sassifraghe. La Torpa avvistato il capo Sud, che è il più meridionale, affrettava la marcia, per poter giungere nell’Eis-fiord prima che i ghiacci lo sbarrassero. Tompson aveva fatto sciogliere i terzaruoli e spiegare il pappafico, il contropappafico e perfino la controranda, per accelerare la corsa. Il capo Sud era ormai visibile, anche senza l’aiuto del cannocchiale. S’avanzava sull’oceano come uno sperone di dimensioni gigantesche, coperto di nevi e chiuso fra due campi di ghiaccio che si erano arenati alla sua base. Dietro quell’aguzzo promontorio si vedevano elevarsi delle montagne, le cui vette bianche erano coperte di nebbie e più sotto si vedevano scintillare dei vasti ghiacciai, quei lenti ma eterni vomitatori di ice-bergs. Il capitano scrutava attentamente il promontorio con un forte cannocchiale, osservando specialmente le scogliere che emergevano fra i due campi di ghiaccio. Pareva che cercasse qualche indizio, del passaggio delle navi del signor Foyn. Ad un tratto trasalì e abbassò bruscamente l’istrumento. – Cosa avete, signor Tompson? – chiese Oscar. – Ho scorto un segnale – rispose il baleniere, con voce commossa. – Un segnale! – Sì, professore: guardate ai piedi del promontorio, là dove si apre un piccolo seno sgombro dai ghiacci, un po’ all’ovest. Oscar afferrò vivamente il cannocchiale che gli veniva sporto, e guardò nella direzione indicata. – Cosa vedete? – chiese il baleniere. – Un’asta con due bandiere spiegate ma... quelle bandiere non portano i colori della Svezia e Norvegia. – Che importa! Forse che fra la confusione d’un naufragio si ha il tempo per la scelta dei colori? I naufraghi avranno trovato sottomano una bandiera inglese ed una americana e l’avranno spiegata. – È vero, signor Tompson. – Prepariamo il gran canotto. I marinai, che avevano pure scorto le due bandiere, che ormai si distinguevano anche senza cannocchiale, s’affrettarono ad allestire l’imbarcazione ed a calarla in mare. La Torpa si trovava allora a mezzo miglio dal capo Sud e non poteva più avvicinarsi, in causa dei banchi di ghiaccio. Ad un comando del capitano si mise in panna, imbrogliando gran parte delle vele. – Mi accompagnate, professore? – chiese Tompson. – Sì, capitano. Si armarono di carabine, non essendo prudente avventurarsi inermi su quelle coste che potevano essere abitate dagli orsi bianchi, e scesero nel gran canotto in compagnia di sei marinai e d’un timoniere. Una specie di canale era aperto attraverso i banchi e terminava dinanzi alla piccola cala, la quale appariva sgombra di ghiacci. La scialuppa, abilmente diretta, vi si cacciò dentro e dopo un quarto d’ora giungeva ai piedi delle rocce che si elevavano intorno al bacino. Le due bandiere, spiegate su un’antenna piantata nella cima di una rupe, non erano lontane che poche diecine di passi. Tompson ed il professore sbarcarono, gettando un lungo sguardo su quella costa. Videro subito che nessun altro segnale vi era e che quelle rupi erano disabitate. Solamente degli uccelli marini, urie, gabbiani, procellarie e strolaghe, svolazzavano sopra i ghiacci e sopra le spiagge. Il baleniere ed il suo compagno s’affrettarono a dirigersi verso l’antenna. Era questa un pezzo di pennone di parrocchetto e all’altezza d’un uomo portava delle rozze incisioni, che parevano fatte colla punta d’un coltello. Tomson si alzò sulle punte de’ piedi e potè leggere le seguenti parole scritte in norvegiano ed in inglese: «Scavate qui sotto». – Lo avevo sospettato, diss’egli con voce giuliva. – Ma che siano stati i naufraghi della Tornea e del Gotheborg? chiese Oscar. – Ora lo sapremo, professore, rispose Tompson, impugnando un largo e acuminato coltello da caccia. Spezzò dapprima la crosta di neve gelata, poi si mise a scavare il terreno con lena febbrile, gettando a destra ed a sinistra i ciottoli che strappava. Aveva già fatta una buca profonda trenta centimetri, quando la punta dell’arma incontrò un corpo duro che diede un suono metallico. – Ci siamo, disse il baleniere. Allargò la buca e mise le mani su di una scatola di latta, simile a quelle che servono per racchiudervi il tonno. Con un colpo di coltello lacerò a metà il coperchio ed estrasse una carta un po’ umida, piegata in quattro, coperta da alcune linee d’una calligrafia grossa. Vi gettò sopra avidamente gli sguardi e lesse: «Da consegnarsi al Sig. W. Foyn, armatore di Vadsö». E più sotto: «La squadra N. 2 si è completamente perduta nei paraggi del Capo Sud. La Tornea, investita da un ice-berg, è stata schiacciata la notte del 14 agosto 1875, durante un denso nebbione, ed il Gotheborg è andato a picco il 15 sulle scogliere del capo, trascinatovi da una tempesta tremenda. «Il capitano Dikson è morto. Ho raccolto i superstiti che ammontano a ventidue marinai e sette fiocinieri e cerco di giungere all'Eis-fiord, colle scialuppe salvate. Avremo viveri fino alla fine di settembre, ma manchiamo di vesti e di combustibile e prevedo una catastrofe completa se non veniamo salvati prima dell’inverno. Provvedete o considerateci morti. – Ecco una fortuna che tocca di rado ai naufraghi! – esclamò Tompson, col viso raggiante. Ormai possono considerarsi salvi, perchè io entrerò nell'Eis-fiord dovessi aprirmi il passo attraverso i banchi di ghiaccio. – Speriamo che la selvaggina non sia a loro mancata. – Sì, se avranno potuto salvare delle armi da fuoco. A bordo! A bordo! Scesero precipitosamente le rocce e balzarono nella scialuppa, portando con loro il documento. Dieci minuti dopo si trovavano sulla Torpa ed informavano l’equipaggio della fortunata scoperta. Nell’apprendere che i loro compagni non erano tutti morti e che si trovavano così vicini, un grido solo irruppe dal petto di quei bravi marinai. – Salviamo i camerati! Le vele furono rapidamente sciolte e la Torpa dopo d’aver costeggiato il banco che si estendeva ad ovest del promontorio, si slanciò verso il nord, mantenendosi a circa tre miglia dalla costa dell’isola. Il vento che aveva cambiata direzione, soffiando dal sud-ovest, favoriva la corsa della nave, la quale si avanzava con una velocità media di sei nodi all’ora. Anche il mare a poco a poco si era calmato, ma lungo le coste l’ondulazione si manteneva ancor viva, disgregando i ghiacci che si erano formati dinanzi ai promotorii ed ai piccoli fiords. Alcuni ice-bergs ondeggiavano al largo tendendo a serrarsi contro le spiagge, ma non erano ancora così tanti da riuscire pericolosi e la Torpa poteva facilmente evitarli, ora che il nebbione erasi completamente dileguato. Tompson intanto non cessava di esaminare la costa con un buon cannocchiale, sperando di scoprire altri segnali od i rottami di una o dell’altra nave. Si era stabilito nella botte dell’ice-master in compagnia di Oscar per poter, da quell’altezza, meglio dominare le spiagge, ma nulla appariva. Quelle coste, già coperte di neve, erano deserte. Perfino gli uccelli erano rari e si vedevano appollaiati tristamente sulla punta delle rocce, senza mandare le loro festose ed assordanti grida. Quella parte dell’isola pareva la più selvaggia, la più desolata. Le sponde scendevano dovunque a picco, rendendo l’approdo quasi impossibile; i fiords erano stretti, tortuosi, di aspetto tetro e seminati di tali rocce che impedivano l’accesso non solo alle navi ma anche alle scialuppe; i promontorii alti, dirupati, terminanti in punte aguzze che parevano fatte appositamente per sventrare le navi. In lontananza invece, ben dentro la terra, si vedevano ergersi alte montagne tagliate pure a picco, rivestite di ghiacci e di nevi eterne e nelle loro vallate scintillavano immensi ghiacciai. Verso le sei di sera un brusco salto di vento arrestò la Torpa. Tornava a soffiare il vento polare spingendo innanzi a sè nuvoloni gravidi di neve e fosche cortine di nebbia. Tompson però non volle cercare un ancoraggio sotto la costa e comandò di avanzare correndo bordate, manovra faticosa, ma che i marinai, ansiosi di accorrere in aiuto dei loro camerati, non rifiutarono, quantunque la notte promettesse di essere tutt’altro che buona. Alle 10 di sera il nebbione tornava a calare sull’oceano, mentre il freddo aumentava rapidamente. Alcuni fiocchi di neve cominciavano già a cadere. Tompson, che era diventato inquieto, si era messo alla ribolla del timone. Non voleva lasciare ad altri, in quei momenti, la direzione della nave. L’aveva condotta fino a quel punto con fortuna insperata, sfidando i ghiacci, le nebbie e le onde, e voleva compire l’opera, spingendola al sicuro nell’Eis-fiord. Aveva raccorciato le bordate, per paura di andare a urtare contro i frangenti che potevano trovarsi in vicinanza di quelle spiagge a loro poco note, e tendeva costantemente gli orecchi per raccogliere i fragori della risacca. A mezzanotte nevicava copiosamente ed il mare cominciava a diventare cattivo. La tolda, le murate, gli attrezzi s’imbiancavano rapidamente ed il freddo era diventato così acuto, che la spuma delle onde gelava sul ponte e attorno agli ombrinali di sfogo. Al largo si udivano i ghiacci a cozzarsi gli uni contro gli altri con sorde detonazioni, e si udivano a capitombolare con grande fracasso. Pareva che una grande flottiglia scendesse dal nord, navigando parallelamente alle coste delle Spitzberg. Tompson continuava a stringere le bordate: si trovava stretto fra due pericoli e voleva evitarli. All’est aveva la costa forse senza rifugi e irta forse di scogliere, e all’ovest la flottiglia dei ghiacci. Se urtava contro l’una o contro l’altra, la Torpa era perduta. Verso le tre del mattino avvenne un urto che arrestò bruscamente la nave. Pareva che lo sperone avesse urtato contro qualche banco, che i marinai di guardia non avevano potuto scorgere. Quella fermata durò però pochi secondi. La Torpa, spinta innanzi dal vento, tornò a urtare sfondando col suo acuto sperone altri ostacoli, poi riprese la corsa. Pareva però che filasse fra due flottiglie di ghiacci, poichè attraverso alla nebbia si vedevano apparire a babordo ed a tribordo degli sprazzi di luce biancastra. Ad un tratto avvenne un secondo cozzo e questa volta così violento, che tutta la membratura della nave scricchiolò lugubramente. Quasi nel medesimo istante si udì l’ice-master a gridare: – La via è sbarrata!... Vira a babordo e imbroglia o andremo a fracassarci!... Capitolo VII. La “Torpa„ prigioniera. Udendo quel grido lanciato a pieni polmoni e con un tono che non ammetteva replica, il capitano baleniere aveva cacciato violentemente la barra a poggia, mentre i marinai bracciavano rapidamente le vele ed i gabbieri si slanciavano sulle griselle, lesti come scoiattoli, per imbrogliare le vele di pappafico e di contropappafico. La Torpa virò di bordo quasi sul posto, tanto era stata fulminea la manovra, e andò a urtare il fianco di tribordo contro un ostacolo che doveva essere senza dubbio un banco di ghiaccio. Tompson si era subito precipitato a prora, dove si erano già radunati alcuni marinai coll’ice-master. – Cosa succede, pilota? – chiese. – Succede, signore, che noi abbiamo davanti un banco immenso, che lo sperone della Torpa non può intaccare. – È sgombro il mare a babordo ed a tribordo? – Lo dubito, signore. Dall’alto delle crocette, ho scorto delle punte di ghiaccio estendersi sui nostri fianchi e per un lungo tratto. – Credete che non si possa tentare il passaggio? – Con questo nebbione io non l’oserei. Potreste andare a cozzare contro qualche ice-berg male equilibrato e far schiacciare la Torpa. – Ma rimanendo qui, corriamo il pericolo di farci imprigionare dai ghiacci. – È vero, capitano. – Tentiamo il ritorno. Chissà!... Forse la via è ancora libera. Pochi momenti dopo la Torpa riprendeva la corsa, ma verso il sud. Il baleniere aveva però fatte serrare le vele alte e prendere terzaruoli sulla randa, sulla gabbia e sulla vela di trinchetto, volendo avanzarsi con velocità limitata per non urtare con troppa violenza. Oscar, che era stato svegliato da quei due urti, aveva raggiunto il baleniere, il quale aveva ripresa la ribolla, volendo assumersi tutta la responsabilità di quell’audace manovra che poteva costare la vita all’intero equipaggio. La Torpa ritornava sul proprio cammino con estrema prudenza, percorrendo appena due nodi all’ora. I marinai tenevano i bracci delle manovre per essere pronti a virare di bordo ed altri si erano disposti sul castello di prora, armati di buttafuori, mentre l’ice-master si era spinto fino all’estremità del bompresso per meglio distinguere i ghiacci che potevano, da un istante all’altro, arrestare la ritirata. Il mare era sgombro sulla via percorsa dalla nave, ma attraverso alla nebbia si scorgevano sempre, a babordo ed a tribordo, degli sprazzi d’ice-blink, i quali indicavano la vicinanza dei ghiacci di enormi dimensioni. Tompson era diventato nervoso ed irrequieto. Batteva con impazienza i piedi, si tormentava la barba, si alzava il cappuccio e aggrottava la fronte. Se quell’uomo non era più tranquillo, ciò significava che la Torpa stava per affrontare qualche gravissimo pericolo. Erano trascorsi otto o dieci minuti, quando sul bompresso echeggiò improvvisamente la voce del pilota dei ghiacci. – Vira!... Ghiacci dinanzi a noi!... ice-bergs e campi!... Questa volta Tompson lanciò un’imprecazione. La Torpa virò di bordo con rapidità fantastica, mettendosi attraverso il vento e rimanendo quasi immobile. – Arrestati? – chiese Oscar. – E forse peggio, professore, rispose Tompson con voce sorda. – Cosa volete dire? – Che forse siamo rimasti prigionieri. – Lavoreremo di sperone. – Temo, professore, che ci troviamo in un canale od in un bacino aperto fra i banchi. Guardate: intorno a noi comincia a scintillare l’ice-blink. – Cosa farete? – Attenderò che si alzi la nebbia. – Ma se siamo entrati in un canale, troveremo l’uscita che ci ha permesso d’inoltrarci. – E se quell’uscita fosse stata chiusa dagli ice-bergs, dopo la nostra entrata?... Ho tenuto una linea rigorosamente diretta nel ritorno, la rotta precisa poco prima percorsa e voi vedete che ci troviamo dinanzi a dei ghiacci che prima non esistevano. Sì, professore, temo che la Torpa sia stata rinchiusa in mezzo ad un wacke che può avere delle gigantesche dimensioni. – Cos’è un wacke? – Un campo di ghiaccio contenente nel mezzo un bacino d’acqua marina. Tra poco però sapremo se siamo ancora liberi o prigionieri, poichè la nebbia comincia ad alzarsi. Il baleniere non s’ingannava. Come il giorno innanzi, all’avvicinarsi del mattino il nebbione cominciava a dileguarsi. S’alzava a ondate, ma a poco a poco, quasi di mala voglia, lasciando il posto alla neve che cadeva in maggior copia. Fra un quarto d’ora o mezz’ora, si poteva sperare di conoscere la situazione della nave. Tompson si era portato a prora, e di là guardava attentamente i ghiacci che cominciavano ad apparire a breve distanza. Un vigoroso colpo di vento spazzò finalmente la nebbia, spingendola verso il sud-ovest. Con un solo sguardo, il baleniere aveva subito compresa la gravità della situazione. La Torpa, come aveva sospettato, era stata rinchiusa nel mezzo d’un wacke, che aveva una estensione di quattro o cinque miglia. Era entrata nel bacino d’acqua che si allungava in forma d’un canale, abbastanza largo per permettere ad una nave di correre delle bordate di due o trecento metri, credendo di navigare liberamente, finchè era andata a urtare contro l’estremità. Durante quella breve navigazione, il grande banco aveva incontrato degli ice-bergs di dimensioni enormi e questi, spinti dal vento, si erano cacciati nel canale chiudendo l’uscita. Quei colossi non dovevano ormai più staccarsi, poichè altri ghiacci si erano accumulati dietro di loro ed avevano formato una massa sola, saldandosi al banco. – Lo vedete? chiese Tompson, al professore. Non mi ero ingannato. – Lo vedo – rispose Oscar, con voce sorda. – Siamo prigionieri. – Lo avevo sospettato. Fortunatamente spero che l’Eis-fiord non sia lontano. Fra poco la nebbia si alzerà anche sulla costa e sapremo dove ci troviamo. – E credete che non riusciremo più a liberarci da questi ghiacci? – Chi lo sa!... Bisognerebbe che questo wacke incontrasse qualche vasto campo di ghiaccio e che nell’urto s’infrangesse. – E colle mine, non si potrebbero far saltare quegli ice-bergs che c’impediscono di lasciare questo bacino? – Ci vorrebbero delle tonnellate di dinamite e noi ne possediamo pochi chilogrammi. – Che sia immobile questo wacke? – No, va alla deriva verso il sud, ne sono certo. – Allora ci trascinerà verso la Norvegia. – Non ditelo così presto, professore. Può unirsi alla costa della Spitzberg e tenerci prigionieri fino all’estate ventura. – Costringendoci a svernare? – Sì, signor Oscar, ma noi siamo pronti a passare fra i ghiacci il lungo inverno polare. Ero certo di non poter ritornare quest’anno e... Ah!... La nebbia se ne va e comincio a scorgere le coste della Spitzberg. – Ci sono vicine, signor Tompson. – Non sono che a tre miglia. Ehi, timoniere, dammi il tuo cannocchiale; vedo una profonda apertura nella costa e spero molto. Lo afferrò vivamente e lo puntò verso la costa. Un grido di gioia gli irruppe dalle labbra. Proprio di fronte al grande banco di ghiaccio, s’apriva una specie di golfo assai profondo e molto largo, circondato da alte montagne e fiancheggiato, verso il sud, da un ghiacciaio. Su di un isolotto formato di rocce sovrapposte, che aveva una circonferenza di tre o quattrocento metri, il baleniere aveva scorto un’antenna, sulla quale ondeggiava una bandiera norvegiana che il vento polare sbatteva vivamente. – L’Eis-fiord!... – gridò Tompson. – Marinai, i vostri camerati sono là!... Andiamo a salvarli!... Un urlo immenso irruppe dai petti dei norvegiani: – Viva il nostro capitano!... Alla costa!... Alla costa!... Il baleniere aveva già prima osservato che il campo di ghiaccio si estendeva fino a trecento passi dai banchi che chiudevano l’entrata dell’Eis-fiord. Con pochi colpi di remo, si poteva attraversare quel braccio di mare e raggiungere l’isolotto e anche la spiaggia della grande isola. Due imbarcazioni furono subito calate in acqua mettendovi dentro due slitte, viveri d’ogni specie, armi, vesti, coperte e andarono a sbarcare tutti quegli oggetti sul margine interno del wacke. Le slitte furono tosto caricate e due squadre di marinai, attaccatisi alle corde, le trascinarono fino al canale. Un’altra squadra aveva intanto issate le due scialuppe sul banco e le spingeva verso la spiaggia estrema, per poter trasbordare gli uomini scelti per la spedizione e tutto il carico. Tompson, il professore e quindici marinai più robusti, dovevano attraversare il canale; gli altri dovevano rimanere a guardia della Torpa, sotto il comando dell’ice-master. Il trasbordo sui banchi di ghiaccio dell’isola si effettuò rapidamente e senza incidenti, quantunque il mare fosse agitato e la neve continuasse a cadere così fitta, da non poter quasi più distinguere la costa. Il sole, che aveva fatto una breve comparsa, erasi nuovamente nascosto e la nebbia, appena alzatasi, era tornata a scendere più fitta che mai. Il baleniere però non era uomo d’arrestarsi. Temendo che le correnti trascinassero il wacke verso il sud e sapendo che i naufraghi delle due navi erano ormai da parecchi giorni alle prese colla fame, voleva raggiungere l’isolotto su cui sventolava la bandiera. Era certo di trovare ai piedi dell’antenna, qualche altra preziosa indicazione. Scandagliò dapprima il ghiaccio dei banchi per essere certo che poteva reggere il peso delle due slitte e degli uomini, fece accendere delle lampade per non smarrirsi nel nebbione che continuava ad addensarsi e per non cadere in qualche crepaccio e diede il segnale di partire. I quindici uomini, attaccatisi alle slitte, si misero in cammino attraverso la neve che cadeva vorticosamente, accumulandosi sui banchi e sulla costa. L’isolotto, su cui ondeggiava la bandiera, non si scorgeva più, ma Tompson e Oscar avevano ormai rilevata la sua esatta posizione e tenendo le bussole in mano, erano certi di non smarrirsi. D’altronde la distanza da percorrere era breve assai; non doveva superare il miglio. Scandagliando attentamente i ghiacci per non cadere nei crepacci, aprendosi il passo attraverso i cumuli di neve e spingendo e trascinando le due slitte, in capo a mezz’ora i due drappelli giungevano presso le prime rocce dell’isolotto, le quali si estendevano verso la punta meridionale dell’Eis-fiord. – Fermatevi qui, sotto quella rupe – disse Tompson ai marinai. – È inutile spingere le slitte attraverso questi pendii. – Credete che non vi sia alcuno su quest’isolotto? chiese Oscar. – Non lo credo, professore. Questo lembo di terra non può offrire alcuna risorsa a naufraghi affamati. – Ma può servire d’osservatorio, signor Tompson. – È vero, quantunque nessuna nave passi in vista di queste coste, dopo il mese d’agosto. Venite professore: spero di trovare dei documenti al piede dell’antenna. Si gettarono i fucili a tracolla e impugnati dei bastoni ferrati che avevano portati con loro per servirsene nelle ascensioni, si misero ad arrampicarsi su per le rocce, facendo intrepidamente fronte ai turbini di neve. Si erano già innalzati parecchi metri, quando il baleniere afferrò bruscamente il professore per un braccio. – Cosa volete, signor Tompson? chiese Oscar, sorpreso per quell’atto. – Avete udito? chiese il capitano. – No. – Quest’isolotto è abitato, professore. Ascoltate!... Ascoltate!... CAPITOLO VIII. I naufraghi della “Tornea„. Oscar ed il baleniere si erano arrestati contro una roccia che li proteggeva dai turbini di neve e curvi innanzi, coi cappucci calati, ascoltavano attentamente cercando di distinguere, fra i sibili del vento, le voci umane. Ad un tratto Oscar si rialzò rapidamente, esclamando: – Ma sì, capitano, degli uomini parlano lassù: – Vedete che non mi ero ingannato, rispose Tompson. – Che siano i marinai delle due navi?... – Lo credo, professore. Alle Spitzberg non vi sono abitanti. – Ma noi non abbiamo veduta alcuna casa su queste rocce, prima che la nebbia scendesse. – Può trovarsi in qualche avallamento o dietro a qualche rupe. Saliamo, professore. – Sì, sì, saliamo!... Ripresero la marcia fra i turbini di neve, scalando le rocce con grande slancio, spinti dalla speranza di poter in breve trovarsi dinanzi ai disgraziati naufraghi della Tornea e del Gotheborg. Fra i fischi del vento si udivano sempre delle voci che scendevano dall’alto, ma non si potevano ancora afferrare le parole. Pareva però che gli uomini che parlavano fossero parecchi. Il baleniere, impaziente di sapere con quali persone stava per incontrarsi, si mise a gridare con voce tuonante: – Ohe!... Ohe!... Chi parla lassù?... Le voci per un istante si tacquero, poi si udì un uomo a gridare in norvegiano: – Che un orso bianco mi mangi vivo, se questa non è la voce d’un marinaio!... – È uno scherzo del vento, disse un altro. – No, del vento, tuonò Tompson. È una voce che viene da Vadsò!... – Vadsò!... Vadsò!... urlarono parecchie voci: Chi parla di Vadsò?... In nome di Dio, parlate!... – Sono il baleniere Tompson e mi manda da voi il signor Foyn. – Il signor Foyn!... hurràh!... Siamo salvi!... hurràh!... Attraverso alla nebbia e alla neve, il baleniere ed il professore videro delle forme umane scendere a precipizio le rupi e poco dopo si trovavano stretti fra venti braccia, sollevati e trasportati in alto prima ancora che avessero potuto pronunciare una sola parola o vedere in viso quei naufraghi. Quando si sentirono liberi, si trovarono nell’interno di una capannuccia costruita coi rottami di una nave, di vele e di massi di ghiaccio, illuminata da due strane lampade formate da due grasse procellarie nelle cui gole era stato introdotto un lucignolo incatramato. Dieci uomini li circondavano, pallidi, cogli occhi infossati, le guance ed il naso gonfi pel freddo, le labbra screpolate e sanguinanti pei gelidi soffi del vento polare, sparuti e colle vesti lacere. – Chi siete voi? chiese Tompson, gettando su quei disgraziati uno sguardo compassionevole. – Noi siamo i superstiti della Tornea, dissero sei di costoro, facendosi innanzi. – E noi naufraghi del Gotheborg, risposero gli altri quattro. – Ed io sono il capitano Tompson qui mandato a salvarvi, rispose il baleniere. – Capitano, disse il più vecchio dei marinai. Noi vi ringraziamo di essere venuto in nostro soccorso e di esservi spinto fino su queste isole in una stagione, in cui tutte le navi fuggono verso il sud. – Sì, signore, tutti vi ringraziamo, ripeterono gli altri. – È il signor Foyn che mi ha mandato, disse Tompson. – Un vero marinaio di cuore, dissero i naufraghi. – Ma... siete voi soli? chiese Tompson. – Non vi eravate salvati in trenta? – Sì, capitano, rispose il vecchio marinaio. – Dove sono adunque gli altri? – Nell’Eis-fiord. – Tutti vivi? – Tutti, ma sono alle prese colla fame. Quando noi li lasciammo, sei giorni or sono, per metterci in osservazione su quest’isolotto, essendo certi che il signor Foyn non avrebbe mancato di mandare qualche nave in nostro soccorso, non possedevamo che pochi chilogrammi di biscotti e mezza foca, che era stata uccisa il giorno innanzi dal capitano Jansey. – È ancora vivo il capitano Jansey? – Sì, signore. – Sono lontani i vostri compagni? – Mezz’ora di canotto. – Avete una scialuppa voi? – Sì, ma l’interno dell’Eis-fiord è ormai tutto gelato e non potrà più servirci. – Non importa: ho quindici marinai e due slitte. Bisogna affrettarsi o la mia nave verrà trascinata lontana da queste coste. Avete fame? – Ieri sera abbiamo divorato due procellarie e una gazza marina, dopo quaranta ore di digiuno. – Disgraziati! mormorò Oscar. Tompson uscì dalla capanna e formando colle mani una specie di portavoce, tuonò: – Ohe! marinai della Torpa!... Dei viveri quassù!... Lasciate le slitte sul banco. Pochi minuti dopo, dieci marinai carichi di viveri, giungevano nella capanna ed abbracciavano i loro camerati, che avevano già creduti morti di fame e di freddo su quelle coste inospitali. Tompson fece distribuire dei biscotti, del cioccolato e dei liquori, poi fece fare ai naufraghi un thè bollente e quando li vide un po’ rinvigoriti, diede il segnale della partenza. Sarebbe stato ben contento di accordare ai disgraziati superstiti delle due navi naufragate un paio d’ore onde si allestissero una colazione calda, ma un ritardo poteva diventare fatale a tutti. Il vento del nord cominciava a soffiare ed il banco che teneva prigioniera la Torpa, poteva venire trascinato al largo. Nevicava sempre abbondantemente, ma la nebbia si era un po’ dileguata e la luce era tornata. Si poteva quindi procedere con maggior lestezza ed evitare più facilmente i pericoli. I ventisei uomini, radunatisi alla base dell’isola rocciosa, si misero animosamente in marcia inoltrandosi nell’Eis-fiord, il quale era ormai tutto coperto di ghiaccio. Il vecchio marinaio guidava i due drappelli in compagnia del baleniere e di Oscar. Essendo i banchi quasi lisci e ben uniti, la marcia non presentava difficoltà, ma la neve rendeva malagevole l’avanzarsi delle slitte, quantunque Tompson avesse prima fatti spalmare i pattini con un miscuglio di zolfo e di grasso. Mentre procedevano attraverso ai ghiacci, il vecchio marinaio raccontava al capitano e ad Oscar la storia della doppia catastrofe, che aveva costato la vita ad uno dei due comandanti ed a trentasette uomini. La Tornea ed il Gotheborg avevano navigato assieme fino nei pressi delle coste meridionali delle Spitzberg, seguendo le tracce delle balene. Avendo osservato che in quei paraggi abbondavano i banchi di boete,1 cibo prediletto dei giganti del mare, si erano spinti fino a quelle alte latitudini. Il 24 agosto avevano già preso due balene, quando le due navi si videro assalite da un furioso uragano che veniva dal nord, il quale spingeva innanzi a sè gran numero di ice-bergs, di palks e di streams. La Tornea, dopo una notte orribile, era stata imprigionata fra i ghiacci. Avendo cercato di rompere il cerchio che la stringeva sempre più, era andata a dare di cozzo contro un ice-berg male equilibrato. Il colosso si era tosto rovesciato addosso alla nave con impeto irresistibile, sfracellandola. La catastrofe era stata così rapida, che solamente undici uomini erano riusciti a salvarsi su alcuni rottami. Il mare era però così burrascoso, che di quando in quando strappava qualche naufrago. Il capitano Dikson, che era fra i superstiti, investito da un’onda in prossimità del capo sud, era stato pure trascinato via. Per alcuni istanti era stato veduto dibattersi fra i cavalloni e le scogliere, poi era stato inghiottito. Per quarantadue ore i naufraghi, ridotti a sei soli, avevano errato sul mare tempestoso, aggrappati disperatamente ai rottami della Tornea, finchè le onde li avevano spinti sulla costa meridionale delle Spitzberg, in prossimità del capo sud. Intanto il Gotheborg, disalberato dalla furia dell’uragano, era stato trascinato verso la costa e si era fracassato sulle scogliere, pure nei paraggi del capo sud, perdendo un terzo dell’equipaggio. I naufraghi delle due navi si erano incontrati due giorni dopo ai piedi del promontorio. Avendo potuto salvare due scialuppe baleniere e dei viveri e alcuni fucili, avevano deciso di rifugiarsi nell’Eis-fiord, sapendo che colà vi era una capanna costruita due anni prima da alcuni balenieri, e che in quei dintorni abbondavano le renne selvagge. Rizzata un’antenna sormontata da due bandiere e sepolta una scatola contenente un documento, si erano imbarcati e dopo sette giorni avevano potuto rifugiarsi nell’Eis-fiord e prendere possesso della capanna. Fino agli ultimi di settembre erano vissuti alla meno peggio, ma poi i viveri erano cominciati a mancare essendo la selvaggina assai scarsa. In trenta giorni non avevano potuto abbattere che due renne, tre foche, una morsa ed un orso bianco. Avevano ormai perduto ogni speranza di ricevere dei soccorsi da parte del signor Foyn e si erano già rassegnati a morire, certi che il tremendo inverno non li avrebbe risparmiati. – Il signor Foyn non vi avrebbe lasciati su queste isole senza risorse, disse Tompson. Appena lo avvertii dell’incontro da me fatto del rottame del Gotheborg, aveva messo a mia disposizione i suoi equipaggi e le sue navi. – Ma avete incontrato un pezzo del Gotheborg? chiese il vecchio marinaio, con stupore. – Sì, al sud dell’isola degli Orsi. – È stata una grande fortuna. – Lo credo, poichè senza quel rottame, il signor Foyn avrebbe tardata la spedizione di soccorso e forse nessuna nave avrebbe poi potuto aprirsi il passo attraverso la barriera dei ghiacci. – È vero, capitano. Ma sperate di poterci condurre a Vadsö, senza svernare su queste coste? – Lo tenterò, ma ne dubito. La Torpa è stata bloccata dai ghiacci la scorsa notte. – E non si potrà liberare più? – Lo temo, ma non inquietatevi. Abbiamo viveri per un anno e carbone in tale quantità, da sfidare i più intensi freddi. – Alto!... Siamo vicini e le slitte non potranno salire la costa. – È lassù la capanna? chiese Tompson, indicando un’alta sponda, che si distingueva confusamente fra la neve e la nebbia. – Sì, capitano. Il baleniere comandò ai suoi uomini di arrestarsi, ne scelse dodici dei più robusti facendo a loro prendere delle provviste e dei liquori, e si diresse verso la costa guidato da due naufraghi della Tornea. Giunto a mezzo pendio, armò il fucile e scaricò in aria due colpi. Pochi istanti dopo alcuni spari, che venivano dall’alto, vi risposero. – Chi s’avanza? gridarono parecchie voci. – Il capitano Tompson coll’equipaggio della Torpa! M’invia il signor Foyn!... Un grido immenso, lanciato da venti voci, rispose: – Salvi!... Siamo salvi!... CAPITOLO IX. Il ritorno. Pochi minuti dopo, Tompson, Oscar ed i marinai della Torpa, si trovavano fra le braccia del capitano Jansey e dei superstiti del Gotheborg. Quei disgraziati piangevano e ridevano ad un tempo, avendo ormai perduta ogni speranza di venire salvati. Erano ridotti in più deplorevoli condizioni dei superstiti della Tornea. Erano sfiniti per le privazioni e pel freddo, magri, pallidi, stracciati ed alcuni erano stati già presi dallo scorbuto, in causa dei lunghi digiuni, dell’umidità e delle sofferenze d’ogni specie. Da trenta ore avevano divorato i loro ultimi biscotti e si erano coricati nell’interno della capanna, una catapecchia mezza rovinata, aperta ai venti ed alle nevi, attendendo la morte. Tompson fece distribuire i soccorsi portati dai suoi marinai, poi informò i naufraghi della necessità di abbandonare subito l'Eis-fiord. Cominciava già ad essere inquieto, temendo che la Torpa fosse stata trascinata al largo. Con alcuni pezzi di legno strappati dalle pareti formarono alla meglio alcune barelle, vi si collocarono coloro che lo scorbuto aveva ridotto in uno stato di debolezza da non potersi sorreggere, poi tutti scesero la costa abbandonando, senza rimpianto, quell’abituro meschino che doveva diventare la tomba degli ultimi superstiti del Gotheborg. Sui banchi, il numeroso drappello si unì agli altri cinque marinai della Torpa ed ai naufraghi della Tornea, quindi tutti si misero in marcia verso lo sbocco dell'Eis-fiord, tirando e spingendo le due slitte e portando gli ammalati. La neve non era cessata, anzi cadeva con maggior rabbia, volteggiando vorticosamente sotto le raffiche del vento polare, ed il freddo era così acuto, che l’alito di quegli uomini si gelava attorno ai baffi e alle barbe in forma di sottilissimi aghi. I ghiacci non erano più tranquilli. Quel rapido abbassamento di temperatura aumentava il loro volume, producendo delle pressioni irresistibili. Tuonavano sordamente sotto i piedi dei marinai, poi muggivano come sotto di essi soffiasse un vento formidabile, scricchiolavano, si fendevano, poi si riunivano rialzando i margini. Talora invece su quei banchi si formavano delle screpolature concentriche e poco dopo si aprivano sbalzando in aria blocchi di ghiaccio, si slanciavano fuori colonne o piramidi che subito precipitavano con cupi rimbombi. Tompson, le cui inquietudini crescevano, incoraggiava tutti ad affrettare la marcia. – Presto presto, ripeteva, o non potremo più giungere alla Torpa. Erano già giunti presso l’isolotto su cui erano stati raccolti i primi naufraghi, quando verso il mare si udì a echeggiare una fragorosa detonazione. – Il cannone da caccia delle balene! esclamarono i marinai della Torpa. – Sì, disse Tompson. Ci segnala di affrettare il ritorno. Professore, capitano Jansey, seguitemi, e voi altri marciate più rapidamente che potete. I tre uomini si slanciarono fra i turbini di neve, cercando di dirigersi verso il margine dei banchi. Il cannone da caccia delle balene continuava a tuonare, ad intervalli di cinque in cinque minuti. La Torpa doveva correre qualche pericolo, perchè il suo equipaggio richiamasse a bordo il comandante. Probabilmente il wacke si era messo in movimento, trascinando la nave al largo. Dopo una corsa di un quarto d’ora, Tompson ed i suoi due compagni giungevano presso il mare, là dove erano state lasciate le scialuppe. Una baleniera, montata da un fiociniere e da sei marinai, stava allora approdando. – Cosa succede? disse Tompson a quegli uomini. – Capitano, disse il fiociniere. Il vento spinge il wacke verso il sud ed il mare diventa cattivo. Se non vi affrettate, non potremo più raggiungere la nave. Tompson lanciò un rapido sguardo sul mare, ma la neve e la nebbia impedivano di scorgere la Torpa. Il grande banco di ghiaccio però scintillava a circa tre miglia dalla costa. – Saremo a bordo prima che si allontani troppo, disse. I miei uomini e i naufraghi stanno per giungere. Intanto avvertiamo l’ice-master del nostro ritorno. Armò il fucile e lo scaricò tre volte in aria. Quel segnale era stato stabilito per avvertire l’equipaggio del ritorno della spedizione, nel caso che la nebbia avesse impedito di scorgersi vicendevolmente. Uno sparo del pezzo da caccia fu la risposta, seguìta poco dopo da una salva di fucilate. – Tutto va bene, disse Tompson. Ci aspetteranno sul margine esterno del wacke. L’avanguardia dei naufraghi cominciava a comparire fra i turbini di neve. Furono gettate in acqua le due scialuppe, che erano state issate sui banchi per tema che le onde le fracassassero contro i ghiacci, o che i palks e gli streams le danneggiassero, poi cominciò l’imbarco. Diciotto uomini presero posto nella scialuppa maggiore, quattordici nella seconda e gli altri si accomodarono nella baleniera. Il mare era sconvolto, spazzato da cavalloni spumeggianti che trascinavano con loro pezzi di ghiaccio strappati ai banchi, ma il tragitto era breve. Arrancando con lena disperata e cercando di evitare le onde troppo elevate, le due scialuppe e la baleniera poterono guadagnare il wacke, sulle cui sponde le attendevano alcuni marinai della Torpa guidati dall’ice-master. – A bordo, capitano disse questi a Tompson. Il wacke va alla deriva ed il bacino minaccia di gelare tutto e di restringersi sotto le pressioni. – Ormai me ne rido dei ghiacci, delle pressioni e delle derive rispose Tompson, che era in preda ad una viva allegria. La mia missione è finita felicemente e non temo più nulla. – Sì, mercè la vostra audacia e la vostra abilità, disse il capitano Jansey. Signor Tompson, lasciate ora che vi ringrazi a nome di tutti i miei marinai che avete strappati ad una morte certa. – Un abbraccio, camerata, e non si parli più di ringraziamenti rispose il baleniere. Gli uomini di mare, voi lo sapete, non vogliono sentirne. I due uomini si precipitarono l’un fra le braccia dell’altro, mentre i marinai urlavano a piena voce: – Viva il capitano Tompson!... – Silenzio, ragazzi miei, a bordo! disse il baleniere, cercando, ma invano, di vincere la commozione. Ognuno abbiamo fatto il nostro dovere e basta. Le scialuppe e la baleniera furono issate sul wacke ed il numeroso equipaggio, portando gli ammalati, sostenendo i più esausti e spingendo le imbarcazioni, attraversò il banco, mentre i marinai rimasti a bordo della Torpa lanciavano fragorosi urràh! Il bacino stava per gelare, ma il ghiaccio fu spezzato a colpi di remi e le tre scialuppe poterono giungere felicemente presso la nave. Quando i naufraghi della Tornea e del Gotheborg si trovarono fra i loro vecchi camerati, diedero libero corso alla loro gioia che fino allora, durante quella ritirata precipitosa, avevano dovuto soffocare. Ridevano, piangevano, si abbracciavano gli uni gli altri, balzavano al collo dei marinai della Torpa e acclamavano a piena gola il bravo ed audace baleniere che aveva sfidato i ghiacci polari, le nebbie e gli uragani, per andarli a raccogliere su quelle terre della desolazione. Quando quello scoppio di gioia e di entusiasmo si fu calmato e che i naufraghi furono condotti sotto coperta per rimettersi in forza con un pranzo, Tompson, il capitano Jansey, Oscar e l’ice-master si raccolsero a consiglio per decidere sul da farsi. La Torpa, provvista come era di viveri d’ogni specie e di carbone, poteva affrontare uno svernamento in quelle alte latitudini, ma se poteva liberarsi da quel cerchio formidabile di ghiaccio, che minacciava di rinserrarla come una morsa, e fare rotta verso le coste della Norvegia, era ben da preferirsi. Riparati in una baia o dentro un fiord, lo svernamento è noioso ma non pericoloso, ma in mezzo ad un banco diventa difficilissimo e la nave può venire stritolata dalle pressioni. Avevano poca speranza di aprirsi il passo, pure vollero accertarsi se rimaneva qualche probabilità, visitando accuratamente il wacke. Si fecero condurre sul banco e procedettero a una serie di scandagli minuziosi, per assicurarsi dello spessore del ghiaccio. Speravano di trovare qualche parte debole o qualche spaccatura che permettesse loro di aprire un canale colle mine, colle seghe e coi picconi. Il wacke fu percorso in tutti i versi, fu traforato in due o trecento punti ma senza speranza. Il ghiaccio aveva dappertutto uno spessore così enorme, che le aste di ferro, lunghe perfino cinque metri, non riuscivano a traforarlo ed era compatto, senza la più piccola fenditura. Visitarono l’uscita del canale che era stata chiusa dagli ice-bergs, ma dovettero convincersi che anche da quella parte la ritirata era assolutamente impossibile. Quattro montagne di ghiaccio di dimensioni colossali, vi si erano cacciate dentro, l’una dietro l’altra e ormai formavano un blocco solo col wacke. Ci sarebbero occorsi almeno dieci quintali di polvere, per farle saltare. – Tutto è inutile, disse Tompson. Noi siamo prigionieri e non riacquisteremo la libertà, se questo banco non si frantuma contro qualche ice-field o non si scioglie. – È vero rispose Jansey. Ogni tentativo per aprire il passo alla Torpa, sarebbe inutile. – Dunque siamo forzati a svernare qui, disse Oscar. – Sì, professore, rispose Tompson. – Ma il banco mi pare che scenda verso il sud. – La corrente ed i venti lo spingono in direzione dell’isola degli Orsi. – Ed in sei ore ci siamo allontanati dall’Eis-fiord di quattro miglia aggiunse l’ice-master. – Che una corrente scenda lungo le coste occidentali delle Spitzberg? chiese Oscar. – Sì, signore, disse Jansey. L’ho notata anche l’anno scorso, durante la stagione della pesca. – E avete rilevata la sua direzione? – Sì, professore. Si dirige verso il sud-sud-ovest, e sarei certo di non ingannarmi nell’affermare che va a rompersi verso le coste occidentali della Norvegia. – Buono disse Tompson. Se il wacke non viene arrestato da altri banchi o non viene spezzato, andremo a finire sulle coste della Norvegia. Sarebbe un ritorno molto lento, è vero, ma sempre da preferirsi ad uno svernamento alle Spitzberg. – Purchè le pressioni non ci guastino la nave, disse Jansey. Non c’è da fidarsi dei ghiacci. – Cercheremo di mantenere libero il bacino, finchè lo potremo. Intanto prenderemo le misure necessarie per lo svernamento, perchè prevedo che la nostra prigionia sarà ben lunga e che i grandi freddi non tarderanno a giungere. Quest’anno la stagione buona si è prolungata fin troppo e l’inverno prenderà la sua rivincita senza misericordia per noi. – Comincia già ora il tempo mettersi a male, disse Oscar. In dodici ore il termometro è disceso di dieci gradi. – A bordo, signori, disse Tompson. Prima che il bacino del wacke geli, bisogna che la nave sia in grado di poter resistere alle pressioni. S’imbarcarono e fecero ritorno alla Torpa, mentre la neve, che era cessata per pochi minuti, tornava a cadere in maggior copia ed il vento del nord aumentava di violenza, sconvolgendo il mare. I marinai, avvertiti che si dovevano prendere le misure necessarie per lo svernamento, si misero febbrilmente al lavoro sotto la direzione dei due capitani e dell’ice-master. Innanzi a tutto si procedette alla costruzione di un magazzino che doveva erigersi sul banco di ghiaccio, in un posto elevato, precauzione necessaria, potendo la nave venire schiacciata dalle pressioni prima che l’equipaggio avesse il tempo necessario di porre in salvo le provviste occorrenti per così tanti uomini. Formata una specie di piattaforma sulla cima di un’altura che si trovava a circa duecento passi dal bacino, fu eretta una grande capanna formata di blocchi di ghiaccio rinforzati con travi e tanto vasta da poter riparare, all’occorrenza, tutto l’equipaggio. Dentro vi accumularono provviste d’ogni qualità, sufficienti per nutrire tutti quei marinai per due mesi, poi coperte, vele, attrezzi, carbone, una stufa e le due più grandi scialuppe. Attorno furono erette delle muraglie di neve e di ghiaccio per difendere la costruzione dalle copiose nevicate e si coprirono di tettoie, onde i marinai potessero passeggiare a loro comodo, senza esporsi alle intemperie. Eretto il magazzino, i due capitani rivolsero le loro cure alla nave. L’ancorarono solidamente al margine del bacino per impedire che il vento non la spingesse contro le pareti di ghiaccio, poi immersero attorno alla carena numerose e grosse travi disposte obliquamente, in modo che i ghiacci stringendosi, sollevassero la Torpa invece di comprimerle i fianchi. In tale modo potevano, in parte, evitare le tremende pressioni. Furono poi levate le vele, calati gli alberetti del trinchetto e dell’albero maestro, ma non vennero levate le manovre, per essere più pronti, nel caso che il banco si aprisse, a prendere il largo. Fu coperto il ponte con un tetto di tavole, rivestito di carta incatramata, a due tetti pioventi, in modo da ottenere una sala spaziosa, riparata accuratamente dai freddi esterni. Quattro finestre furono aperte per la luce e per la ventilazione. La stiva fu accuratamente raschiata, lavata con acqua mescolata a calce e convertita in un dormitorio per l’equipaggio e anche per sala da pranzo. Furono finalmente collocate a posto le stufe, fornite di lunghi tubi assai curvi per impedire la dispersione del calore, una nel quadro di poppa, l’altra nel dormitorio. A ognuna era stato aggiunto un grande recipiente di lamiera galvanizzata, destinato a sciogliere la neve per avere l’acqua necessaria alla cucina e per la pulizia dei marinai. Per ultimo fu sparsa sul ponte della sabbia e della cenere per impedire le incrostazioni di ghiaccio e per assorbire l’umidità, nemica formidabile in quei climi, causa d’infiniti malanni per la salute degli equipaggi. Il 12 ottobre quei diversi lavori erano terminati e l’equipaggio e la valorosa nave, si trovavano pronti a sfidare i terribili geli dell’inverno polare. CAPITOLO X. Trascinati al Sud. Il wacke, spinto dal vento e trascinato dalla corrente, continuava ad allontanarsi dalle Spitzberg, seco trascinando la Torpa, la quale ormai non poteva più liberarsi da quella stretta. Il tempo continuava a mantenersi cattivissimo ed il freddo aumentava sempre. Le nebbie coprivano il cielo facendo delle frequenti discese, la neve cominciava a cadere senza posa aumentando considerevolmente il volume del grande banco ed il mare era sempre agitatissimo. Enormi ondate correvano dal nord-nord-est al sud sud-ovest, sgominando le barriere dei piccoli ghiacci e trascinando con loro degli ice-bergs di dimensioni colossali, ma il wacke non si scuoteva nemmeno e sfidava intrepidamente i furori dell’Oceano Artico. S’avanzava tranquillo, abbattendo colla sua massa, tutti gli ostacoli che incontrava, senza arrestarsi un solo istante. I suoi margini, che dovevano avere uno spessore di molti metri, rovesciavano ogni cosa: ice-bergs, palks, stream, palck, hummoks tutti crollavano, tutti si sminuzzavano sotto quegli urti poderosi, irresistibili. Pel momento non vi era da sperare che si aprisse, anzi la sua estensione aumentava sempre, saldandosi ai rottami dei colossi polari. Aveva già una circonferenza di sette od otto miglia e ogni giorno sempre più ingigantiva. Il freddo concorreva ad aumentarne il volume. L’acqua gelava presso i margini e anche nel bacino erasi condensata, obbligando i marinai ad adoperare le seghe da ghiaccio ed i picconi per mantenere un po’ libera la nave. Tre volte il termometro, in sole quarant’otto ore, aveva segnato -20 centigradi e un mattino perfino -28. Durante quei bruschi abbassamenti di temperatura, le stufe avevano bruciato senza posa nel dormitorio e nel quadro di poppa. L’equipaggio della Torpa e delle due navi naufragate, abituati già a quei climi freddi, non soffrivano affatto. D’altronde erano ben riparati e si trovavano benissimo nella sala costruita sopra il ponte, dove si radunavano per chiacchierare, per leggere e per giuocare. Sola cosa che lamentavano, era la mancanza della carne fresca, ma con quel ventaccio e con quei turbini di neve, non era prudente avventurarsi sul banco per dare la caccia agli uccelli marini che si mostravano numerosi. Il 14 ottobre, il cielo, che fino allora si era mantenuto così fosco e così gravido di neve, si rischiarò ed il sole, dopo tanti giorni di assenza, apparve sull’orizzonte lanciando obliquamente i suoi deboli raggi. Soffiava però sempre il vento del nord, causando continui abbassamenti di temperatura. Tompson, Jansey e il professore ne approfittarono per visitare il wacke, mentre i marinai davano la caccia agli uccelli marini. Fatto a mezzogiorno il punto, constatarono che il banco in cinque giorni era sceso verso il sud quarantasei miglia scostandosi dalle Spitzberg diciassette miglia verso il sud-est. – È una bella discesa, disse Tompson. Se continua sempre così, fra qualche mese ci troveremo a due o trecento miglia dalle coste settentrionali della Norvegia. Speriamo che il wacke si decida poco a poco a sciogliersi. – Purchè non incontri dei grandi banchi presso l’isola degli Orsi disse Oscar. – Credo che passeremo al largo di quell’isola, professore. – Ma sperate che il wacke non venga arrestato? – Ho questa opinione. È vasto e potrà aprirsi il passo anche attraverso le barriere di ghiaccio, che i venti e le correnti staccano dalle coste della Groenlandia, spingendole verso l’est. – Anch’io ho questa speranza, disse Jansey. Il nostro wacke forma una massa imponente e difficilmente potrà venire arrestato. Vi è però il pericolo che modifichi la sua marcia e che vada ad arenarsi presso l’isola degli Orsi. – Ah! Se si potesse spiegare delle vele e accelerare la sua corsa! esclamò Oscar. – L’idea è buona, professore, disse Tompson, sorridendo, ma disgraziatamente ci vorrebbero delle migliaia di metri quadrati di tela e delle centinaia d’antenne, e noi non abbiamo nè gli uni, nè le altre. Andiamo ad esplorare il banco, signori. Si misero in cammino per vedere se il ghiaccio, in causa di quei continui urti, si fosse in qualche luogo spaccato, specialmente verso la fronte meridionale, ma dovettero convincersi che fino allora si era mantenuto compatto. La speranza di poter trovare un luogo ove si poteva aprire un canale svaniva sempre più. Quando ritornarono a bordo, furono testimoni d’uno dei più belli fenomeni che se si ammirano nei deserti ardenti dell’Africa, non sono rari nemmeno sotto i rigidi climi delle regioni polari. Era uno splendido miraggio, prodotto dalla rifrazione della luce. Le Torpa, che si trovava in mezzo al bacino, veniva riflettuta fra i ghiacci che galleggiavano dinanzi alla fronte settentrionale del banco, ma per una strana illusione ottica, pareva che avesse tre alberi, invece di due, e le vele spiegate. Dapprima apparve una sola nave, poi due, quattro e finalmente altrettante, ma che sembravano sospese in aria, naviganti in mezzo ad una leggera nebbia. Il fenomeno durò un quarto d’ora, poi essendosi il sole nascosto dietro un nuvolone, le otto navi scomparvero con fantastica rapidità. L’indomani il tempo tornò a cambiarsi. Invece del sole scese la nebbia che si ostinava a non abbandonare i paraggi delle Spitzberg, ed il vento polare ricominciò a soffiare con molta foga, risollevando il mare. Alle 4 pom. il bacino per la quarta volta gelò e la crosta divenne così grossa, che i marinai faticarono non poco a mantenere un po’ d’acqua libera attorno la carena della nave. Nella notte il wacke per la prima volta provò le prime strette del ghiaccio e vibrò per più di mezz’ora. Anche durante la notte del 15 le pressioni si fecero sentire. Il ghiaccio tuonava fragorosamente, scricchiolava, poi muggiva sordamente, come se sotto il wacke corressero delle macchine a vapore. Il ghiaccio del bacino fu replicatamente spezzato lasciando irrompere l’acqua del mare e la Torpa oscillò più volte e si piegò lievemente sul tribordo, rimanendo poi in quella posa. Quelle pressioni, fino allora leggere, furono però innocue per la nave, la quale, in causa delle travi, invece di lasciarsi stringere, si sollevava sfuggendo agli urti. Anche il magazzino non soffrì alcun danno. Solamente una muraglia di ghiaccio si fendette, ma il freddo non tardò a riunirla. La sera del 16, essendosi il cielo sgombrato dalla nebbia, i prigionieri del banco assistettero ad una splendida aurora boreale, la prima della stagione invernale. Tutto d’un tratto l’orizzonte settentrionale, che era oscurissimo, s’illuminò d’una luce intensa, purpurea, disposta a larghe fasce le quali, a poco a poco, formarono un grand’arco mobilissimo che saliva verso il cielo, proiettando riflessi sanguigni sui ghiacci galleggianti e sull’oceano. Poco dopo ecco irrompere da quell’arco fiammeggiante immensi getti di luci variopinte, che s’allungavano e si accorciavano capricciosamente. Erano raggi giallo-dorati o giallo-pallidi, fasci di luce azzurra che parevano proiettati da potenti lampade elettriche, bagliori di fuoco che s’incrociavano, che si mescolavano, che si fondevano colle altre luci, mentre il grand’arco subiva delle strane vibrazioni, come se un vento impetuoso, irresistibile, lo scuotesse. Tutto l’orizzonte meridionale, per un tratto immenso, fiammeggiava: pareva che al polo ardesse un incendio gigantesco o che cento vulcani eruttassero contemporaneamente. Gli ice-bergs parevano tramutati in enormi rubini galleggianti su di un mare di sangue, mentre le vette dello Spitzberg, ancora visibili, si tingevano d’una viva luce azzurrina che poi si tramutava in giallastra, poi in rosso cupo. Il fenomeno durò due ore, poi i fasci di luce impallidirono, si raccorciarono, il grand’arco, dopo nuove e più violenti vibrazioni, si spezzò e l’oscurità tornò a piombare sul mare e sui ghiacci. Il 17 le montagne dello Spitzberg scomparivano dall’orizzonte. Il wacke, che aveva continuato il suo spostamento verso il sud-sud est, si trovava allora a circa quaranta miglia dal capo Sud e continuava la sua discesa mantenendosi fra il 12° e il 13° meridiano. La sua marcia però, che nei giorni precedenti era oscillata fra le 26 e le 30 miglia ogni ventiquattro ore, era diventata più lenta, in causa forse dei numerosi ghiacci che parevano provenissero dalle coste orientali della Groenlandia. Ad ogni istante avvenivano urti formidabili, che si ripercuotevano perfino nel bacino. Ora il wacke urtava contro degli ice-berg alti come montagne e che avevano una circonferenza di cinquecento, di ottocento e perfino di mille metri, faticando non poco a respingerli; ora invece andava a dar di cozzo contro dei vasti floe (banchi formati d’acqua marina gelata) riportando dei guasti considerevoli sulla sua fronte meridionale. Talvolta invece veniva preso in mezzo da vere flottiglie di ghiacci che si rovesciavano sui suoi margini con detonazioni spaventevoli, producendo delle enormi spaccature, ma che il freddo acuto si affrettava a riparare. Tompson, Oscar e Jansey ogni giorno si spingevano fino alle sponde del wacke, sperando sempre che si aprisse qualche larga fenditura, ma erano gite affatto inutili. La massa centrale del banco non cedeva e rimaneva sempre compatta. L’equipaggio però non soffriva per quella prigionia prolungata, nè rimaneva inattivo. Tutte le mattine bande di cacciatori scorazzavano il banco cacciando le urie, le strolaghe, le oche bernide e le procellarie e tornavano sempre a bordo carichi di uccelli. Mancava però sempre la grossa selvaggina. Quando il tempo impediva di lasciare la nave, organizzavano delle feste nella sala del ponte e ballavano allegramente infischiandosene del freddo, delle nevi, dei ghiacci e anche dell’oscurità che aumentava sempre, diventando più brevi le comparse del sole. Allo Spitzberg doveva già essere cominciata la lunga notte polare. Il 19 i cacciatori poterono finalmente catturare un grosso anfibio. Avevano sorpresa una morsa di forme gigantesche, nascosta dietro alcuni hummoks, in prossimità delle sponde, mentre stava scaldandosi ai raggi del sole. L’anfibio non aveva avuto il tempo di riguadagnare il mare, ed era stato ucciso con quattro colpi di fucile. Quella morsa era così pesante, che si dovette farla trascinare da dodici marinai. Gli stessi cacciatori cercarono pure d’impadronirsi di alcune foche che erano state vedute comparire su di un pack il quale navigava assieme al wacke, tenendosi ad una distanza di circa un miglio verso l’est. Trascinarono la baleniera, che era l’imbarcazione più leggera, fino all’orlo del campo di ghiaccio, ed approfittando della tranquillità del mare, attraversarono il canale e sbarcarono sul pack che aveva una circonferenza di cinque o seicento metri, ma quelle foche erano eccessivamente prudenti e si affrettarono a rifugiarsi nei loro buchi scavati attraverso il ghiaccio ed a tuffarsi. I cacciatori però presero la rivincita sugli uccelli marini e ne atterrarono tanti, che la baleniera tornò al wacke così carica da correre pericolo di affondare. Quei volatili, sapientemente preparati dal cuoco di bordo, conditi con una salsa speciale che toglieva alle loro carni lo sgradevole sapore di olio rancido, servirono da cena per parecchie sere al numeroso equipaggio. CAPITOLO XI. L’urto del wacke. Il 21 ottobre il wacke, che aveva continuata la sua marcia verso il sud-sud-est si trovava a sole quaranta miglia dall’isola degli Orsi. Tompson con un buon cannocchiale, dall’alto dell’osservatorio dell’ice-master, aveva potuto scorgere le vette nevose delle montagne. Se la corrente non cambiava direzione o qualche tempesta non spingeva il wacke fuori dalla retta fino allora seguita, la Torpa doveva passare all’est dell’isola, ad una breve distanza. Era però probabile che il campo di ghiaccio dovesse interrompere per qualche tempo la sua marcia, poichè verso il sud si scorgevano delle vere flotte di ice-bergs e di packs estesissimi, le quali formavano una specie di semicircolo, le cui estremità si dirigevano l’una verso l’est e l’altra verso il nord-ovest. – Chissà disse Tompson, che osservava quei ghiacci in compagnia di Oscar. Spero che succeda qualche grave avvenimento, ma che ci dia il mezzo di poter lasciare questo bacino. – Contate su qualche urto formidabile? – Sì, professore. Quella barriera a poco a poco andrà ad appoggiarsi contro i banchi che si sono formati attorno all’isola e terrà testa al nostro wacke senza retrocedere. – Ma la nostra nave, nello sconquasso che subirà il wacke, non verrà schiacciata? – Non credo, poichè il ghiaccio del bacino non è ancora tanto grosso da poter resistere ad una improvvisa compressione. Si spezzerà subito e la Torpa tornerà a galleggiare. – E potremo poi uscire, fra tanti ghiacci spezzati? – Lo tenteremo, professore. Forzeremo il passo a gran colpi di sperone, ed il nostro equipaggio, che è così numeroso, aiuterà la Torpa colle seghe, coi picconi e colle mine. – Che bella sorpresa pel signor Foyn, se fra un paio di settimane ci vedesse ritornare a Vadsò! – Lo credo. To'... cosa vedo laggiù? – Dove? – Sui banchi dell’isola degli Orsi, disse Tompson, che aveva puntato il cannocchiale. – Qualche nave forse? – No, un grande numero di punti neri. O io m’inganno di molto o quei punti neri sono trichechi o foche. – Sono molti? – Moltissimi, professore. Ah!... – Cosa avete? – Guardate!... Guardate fra quegli ice-bergs, professore! esclamò Tompson, che erasi alzato sulla punta dei piedi per meglio vedere. Mille boccaporti!... Ed essere qui imprigionati, mentre laggiù ci sarebbe da guadagnare una fortuna!... Oscar guardò nella direzione che il baleniere indicava e, con suo grande stupore, vide degli enormi cetacei nuotare maestosamente fra i ghiacci. Erano sei capidogli grandi come le balene e fors’anche di più, poichè alcuni misuravano perfino venti o ventidue metri di lunghezza, con una circonferenza che non doveva essere inferiore ai quindici o sedici metri. Questi colossi del mare appartengono all’ordine dei cetacei, come le balene, ma sono diversi nella conformazione e differiscono un po’ anche dai capidogli comuni o fiseteri micropi che abitano gli altri mari. Quelli che si trovano nell’Oceano polare sono per lo più maggiormente sviluppati; possiedono una spina dorsale diritta e acuta e la loro testa non è un terzo del corpo, ma la metà! Figuratevi che bocca quando si apre, e quando si pensi che è armata di denti conici che pesano ognuno un paio di chilogrammi! Questi mostri sono più vivaci delle balene, più pericolosi, più brutali, più battaglieri. Si scagliano indistintamente contro tutti gli abitanti del mare e assalgono specialmente le balene, le quali cadono sotto i terribili morsi di quelle bocche enormi. – Che masse! esclamò Oscar, che non si stancava di guardarli. Io non so comprendere come l’uomo osi assalire, con dei semplici ramponi, simili colossi. – Eppure, professore, si uccidono, disse Tompson. – Ne avete catturati molti? – Una dozzina almeno. Quando si ha la fortuna d’incontrarli non si lasciano fuggire, perchè i capidogli dànno maggior profitto delle balene. – Non lo credevo, capitano. – In media si ricavano dal loro grasso circa cento tonnellate d’olio, le quali rappresentano un valore di 25,000 lire, vendendosi a circa 250 lire la tonnellata. Aggiungete poi lo spermaceti, ossia quell’olio bianco, brillante, perlaceo che si trova nella testa dei capidogli, racchiuso in un canale allungato che formano le ossa del cranio nella loro unione con quelle del muso e che si paga assai caro, adoperandosi nella fabbricazione delle candele di lusso e dei saponi finissimi. – Se ne trova molto di quell’olio? – Circa tremila chilogrammi. – E l’ambra grigia?... – Non sempre i capidogli ne hanno, professore. Una volta, però, in uno ne ho trovato un pezzo che pesava dieci chilogrammi. – Ditemi, signor Tompson, dove si trova quell’ambra grigia? – Nel canale intestinale dei capidogli e per lo più in forma di quattro o cinque pallottole o di pezzetti irregolari che pesano ordinariamente quattro o cinquecento grammi. Si paga bene, quella materia, molto bene. – Lo credo. – Io vorrei però sapere come quella materia così preziosa si trova in quei colossi. – Non lo sapete? – No, davvero, professore. – Allora vi dirò, caro capitano, che quell’ambra non è altro che un escremento alterato, modificato e solidificato, una parte infine di alimento digerito incompletamente. – Oh diavolo!... E acquista un profumo così delicato!... Mille boccaporti!... I capidogli se ne vanno verso il sud!... Quale sarà però il fortunato baleniere che li incontrerà?... Se non mi trovassi prigioniero fra questi dannati ghiacci, a quest’ora qualcuno sarebbe caduto sotto il mio rampone. – Un pericolo evitato, capitano. – Non dico di no, perchè quei giganti son ben più temibili delle balene. Quando sono feriti non fuggono; invece si avventano contro le scialuppe baleniere e talvolta perfino contro le navi. – Anche contro le navi?... – Più d’una è stata mandata a picco da un furioso colpo di testa e mi ricordo che... – Che cosa? – chiese Oscar, non udendo più la voce di Tompson. Non ricevendo risposta, si volse verso il compagno e lo vide curvo sul bordo della nave, colla fronte aggrottata, gli sguardi fissi verso l’isola degli Orsi, che ormai era perfettamente visibile senza l’aiuto del cannocchiale. – Cosa avete, signor Tompson? – chiese. – Ho... che stiamo per urtare!... Poi senza aggiungere altro si slanciò sul ponte, gridando: – Tutti in coperta!... Il wacke, infatti, stava per cozzare contro la grande flottiglia di ghiacci che si appoggiava contro i banchi formatisi intorno all’isola degli Orsi. La corrente lo portava ed il vento, che soffiava sempre dal nord con una certa violenza, lo spingeva in quella direzione. Il cozzo doveva essere tremendo. Il capitano Jansey e tutti i marinai erano saliti in coperta per tenersi pronti a qualsiasi evento. I due comandanti si consigliarono brevemente sul da farsi, onde la Torpa, nell’urto, non subisse delle gravi avarie. – Non vi è che una sola cosa da fare, disse Tompson. – Sì, fare spezzare il ghiaccio attorno alla Torpa, rispose Jansey. – È vero, soggiunse il baleniere. – Non perdiamo tempo, signor Tompson. Trenta marinai, guidati dall’ice-master e armati di seghe da ghiaccio, di picconi e di scuri, scesero precipitosamente sulla superficie gelata del bacino e si misero febbrilmente all’opera, picchiando e segando. Tompson e Jansey, dall’alto della botte dell’ice-master, seguivano attentamente l’avanzarsi del wacke, pronti a richiamare a bordo i loro marinai prima che l’urto avvenisse. Il banco era lontano un miglio dalla barriera degli ice-bergs e si dirigeva verso la costa occidentale dell’isola degli Orsi. Se si manteneva su quella retta, era probabile che scivolasse lungo le spiagge senza arrestarsi, nel caso che fosse riuscito ad aprirsi il passo attraverso a tutti quegli ostacoli. A mezzogiorno il wacke non si trovava che a dieci miglia dall’isola ed a soli duecento passi dagli ice-bergs. Pareva che presso quelle coste la corrente si facesse sentire più forte, poichè la distanza scemava con una certa rapidità. Fra dieci minuti doveva avvenire il cozzo. – A bordo! gridò Tompson ai marinai che si trovavano sul banco. I marinai abbandonarono il banco e s’arrampicarono lestamente sulla Torpa. In mezz’ora avevano già fatto un lavoro straordinario: la nave era stata liberata dai ghiacci che la stringevano e galleggiava in un bacino che aveva una circonferenza di trecento metri. – Sciogliete le vele, continuò Tompson. In alto i gabbieri!... In meno di cinque minuti le vele furono liberate dalle loro fodere di tela cerata e spiegate. La Torpa si trovava ormai pronta a partire ed a speronare. Ad un tratto avvenne l’urto. La fronte meridionale del banco si era incontrata cogli ice-bergs. Parve che un terremoto formidabile scuotesse furiosamente il wacke. Le piramidi, le guglie, i picchi, gli ice-bergs capitombolavano con un fragore inaudito, assordante, sfondando il banco in cento luoghi. L’acqua irrompeva, spumeggiando, dai crepacci, dalle fessure, dai buchi, correndo come una immensa ondata, attraverso ai ghiacci. Il ghiaccio del bacino, compresso da quell’urto, scoppiò come se sotto di esso fosse stata accesa una mina, lanciando in aria blocchi di dimensioni non piccole, mentre le sponde franavano, si aprivano e si rinchiudevano con orrendi scrosci. Per alcuni istanti parve che il grande banco dovesse sminuzzarsi, polverizzarsi, ma furono solamente i suoi margini che si sfracellarono sotto la caduta degli ice-bergs squilibrati dal cozzo. La massa centrale si screpolò, si aprì in più luoghi formando qua e là dei canali ma che tosto si rinchiusero e il cerchio di ghiaccio non fu spezzato. – La Torpa, scossa furiosamente dalle ondate formatesi nel bacino, fu quasi spinta addosso le sponde, ma il vento la ricacciò nel mezzo, dove si trovò quasi subito asserragliata dai pezzi di ghiaccio staccatisi dai margini del wacke. Tompson e Jansey, avevano seguito, cogli sguardi ansiosi, col cuore palpitante di speranza, la formidabile convulsione del banco. Quando videro che la fuga era impossibile, un urlo di rabbia irruppe dai loro petti. – Ma è adunque di macigno questo dannato wacke? gridò Tompson, con ira. – È più solido di quanto credevamo, disse Jansey, che si tormentava nervosamente la barba. Non potremo più lasciarlo. – Ma se ha resistito agli urti dei ghiacci, non resisterà alle acque più tiepide delle regioni del sud. – Se non si arenerà sulle coste dell’isola degli Orsi. – Se si congiungerà ai ghiacci dell’isola, lo staccherò colle mine, Jansey. La polvere abbonda a bordo. – Deviamo?... – Sì, il banco tende a portarsi al largo. – Andremo a cozzare ancora. – È vero. Vedo laggiù altri ghiacci. – Chissà che questi incessanti urti lo demoliscano. Intanto il wacke continuava a scendere verso il sud, avvicinandosi sempre più all’isola degli Orsi. La grande barriera era stata sfondata dal colosso, ma altri ice-bergs di gran mole si trovavano dispersi qua e là, arrestati dai banchi. Gli urti continuavano sulla fronte meridionale del wacke. Ad ogni istante una montagna di ghiaccio, squilibrata dal cozzo, strapiombava con fracasso assordante, sfondando i margini del colosso polare, ma la massa centrale resisteva sempre e non s’apriva per dare il passo alla Torpa. Talora invece incontrava qualche pack o qualche floe, ma nemmeno quei banchi riuscivano a produrre un guasto grave. Diroccavano un po’ i margini, ma a loro volta si frantumavano, si disorganizzavano e lasciavano la via libera. Anzi i frammenti si univano al wacke e subito si saldavano in causa del freddo che oscillava sempre fra i -15° ed i -21° centigradi. Alle due, il wacke si trovava a poche gomene dai banchi dell’isola, ma procedeva lentamente e non era da sperarsi che urtasse con violenza. Alle tre toccò. Un tratto di duecento metri della fronte orientale si staccò e le piramidi e le guglie che erano ancora rimaste in piedi diroccarono, ma nient’altro. Il wacke, trovandosi dinanzi all’isola, girò lentamente su se stesso, poi andò a incastrarsi fra i banchi della costa e un floe di grandi dimensioni che pareva si fosse arenato su di un bassofondo o su di una scogliera subacqua, rimanendo immobile. Tompson guardò Jansey, dicendo: – Cosa ne dite?... – Che se una tempesta non ci caccia di qui, saremo costretti a svernare presso quest’isola. Mi consolo però, pensando che dalle Spitzberg siamo discesi oltre il 75° parallelo e che le coste della Norvegia non sono più tanto lontane. – È vero Jansey, rispose il baleniere. Ma spero che non si tratti di una vera fermata, ma di una breve sosta e che riprenderemo ben presto la marcia verso il sud. Il cielo si oscura al nord, e la tempesta non tarderà a sgominare questi dannati ghiacci. CAPITOLO XII. Le pressioni dei ghiacci. La tempesta invocata dal baleniere, brontolava sull’orizzonte settentrionale, ma non scoppiava ancora. Dense masse di vapori si accumulavano in direzione delle Spitzberg, pronte a lanciarsi attraverso l’Oceano artico ai primi soffi del freddo vento polare, ma tre giorni erano già trascorsi da che il wacke era stato imprigionato fra il banco e le coste dell’isola degli Orsi, senza che il mare si accavallasse e rompesse, coi suoi formidabili urti, le barriere dei ghiacci. L’equipaggio però non aveva perduto il suo tempo. Approfittando della vicinanza dell’isola, tutte le mattine bande di cacciatori raggiungevano la costa o col mezzo della baleniera, che era stata trascinata sul margine esterno del wacke, o passando attraverso ai banchi, facevano le fucilate contro gli uccelli marini, contro le foche e le morse che si mostravano numerose in quei paraggi. In tal modo la carne fresca non mancava a bordo, con grande vantaggio della salute di tutti. La mattina del quarto giorno, cioè del 25 ottobre, il wacke, pressato forse dai banchi che lo circondavano e che il freddo intenso dilatava, subì delle violenti oscillazioni ed il ghiaccio del bacino, che si era nuovamente formato, si sollevò attorno alla nave. Nel pomeriggio, mentre le nebbie accumulate sull’orizzonte settentrionale cominciavano a coprire l’isola degli Orsi, il campo cominciò a crepitare, a tuonare ed a muggire. Qua e là si sollevavano dei grandi crostoni di ghiaccio, irrompevano dei blocchi di grossa mole, oscillavano le piramidi che si erano nuovamente formate, si aprivano buchi e crepacci. La Torpa, stretta dai ghiacci del bacino che continuavano a sollevarsi, gemeva, si spostava, oscillava tutta ed i suoi puntali e le traverse del frapponte pareva che si piegassero ad arco, sotto una pressione irresistibile. Tutto l’equipaggio era salito precipitosamente in coperta, ma si trovava impotente a combattere quel formidabile nemico, che da un istante all’altro poteva sfondare i fianchi della nave. Tutti si erano muniti del loro sacco da viaggio, di provviste e del fucile per essere pronti ad abbandonare il legno ed a salvarsi nei magazzini dove si trovavano le scialuppe. Tompson e Jansey, l’uno a prora e l’altro a poppa, osservavano attentamente le convulsioni del wacke, mentre l’ice-master, aiutato da una dozzina di marinai, s’affannava a rinforzare frettolosamente le traverse ed i puntali. Le pressioni continuarono parecchie ore con poche interruzioni, sollevando la Torpa specialmente a poppa ed a tribordo, poi le vibrazioni del banco a poco a poco cessarono, gli scricchiolii s’indebolirono e la calma tornò. – Nessun danno alla stiva? chiese Tompson all’ice-master, che era salito sul ponte. – No, capitano, rispose il pilota. La Torpa ha resistito meravigliosamente alla terribile prova. – Ma temo che siano rimasti danneggiati i magazzini, disse Jansey, che li aveva raggiunti. Da quella parte il ghiaccio si sollevava impetuosamente. – Prima che la nebbia cali sul banco, andremo a vedere, disse Tompson. Mi preme che le nostre provviste non vadano perdute. – Andrò io, capitano, disse il pilota. Si armò di un bastone colla punta ferrata per scandagliare i crepacci e senza chiedere l’aiuto di nessuno, si avventurò sul ghiaccio del bacino che si era ancora rinchiuso attorno alla Torpa. Osservò dapprima i fianchi della nave per vedere se avevano sofferto, poi si diresse verso il margine interno del bacino, evitando con cura i crepacci. Il banco non tuonava più, però sotto la crosta si udivano ancora dei sordi fremiti i quali annunciavano nuove pressioni. – Temo che passeremo una brutta notte, mormorò il vecchio pilota. Giunto presso i magazzini, constatò che le muraglie di ghiaccio delle tettoie erano state gravemente danneggiate, ma che il fabbricato centrale aveva resistito. Solamente una parete si era screpolata, ma si poteva facilmente riparare. Avendo osservato che al di là dei magazzini si apriva un canale, si spinse verso quella direzione per vedere fin dove si prolungava, ma aveva percorsi appena duecento passi, quando si sentì atterrare da una massa biancastra slanciatasi giù da un hummok. Mandò un urlo acuto: in quella massa, che gli si era brutalmente scagliata addosso, aveva riconosciuto un orso bianco. Colla rapidità del lampo, si sottrasse alla stretta mortale strisciando sul ghiaccio e cercò di rimettersi in piedi per fuggire verso la nave, ma l’orso con un colpo di zampa lo fece cadere. – Aiuto!... urlò il disgraziato. Poi radunando tutte le sue forze, si mise a lottare con disperata energia contro quel pericoloso e affamato avversario. Era riuscito ad impugnare il bastone colla punta ferrata e colpire furiosamente, all’impazzata, ma non era un’arma adatta per ottenere la vittoria. L’animale pareva che nemmeno s’accorgesse di quei colpi di punta che appena attraversavano la sua folta pelliccia e avventava zampate per squarciare il cranio od il petto del pilota. Già la casacca di pelle di foca era stata lacerata sopra la spalla destra e gli unghioni avevano intaccate le carni, quando si udirono due voci a gridare: – Coraggio, ice-master! Due uomini correvano attraverso il banco: erano Tompson e Jansey. Essi avevano udito il grido di soccorso, avevano scorto confusamente, fra la nebbia, l’orso bianco che assaliva il povero pilota e si erano precipitati sul ghiaccio del bacino, l’uno armato di fucile e l’altro di una scure, senza attendere i marinai che erano saliti frettolosamente in coperta. A quaranta passi, Tompson puntò il fucile e fece fuoco. L’orso, colpito in una spalla, cadde emettendo un urlo di furore, ma si rialzò ben presto e si fece addosso al baleniere. Questi però non era uomo da spaventarsi: mancandogli il tempo di prendere una cartuccia, afferrò l’arma per la canna e servendosi a guisa di mazza, si mise a tempestare l’avversario con un vigore sovrumano e con una rapidità fulminea, mirando a colpirlo sul muso. Quell’abile manovra diede tempo a Jansey di giungere sul campo della lotta. Il capitano del Gotheborg non era da meno di Tompson e non era alle sue prime armi. Vedendo il compagno in pericolo, assalì l’orso a tergo e con due colpi di scure ben assestati riescì ad abbatterlo e per sempre. – Grazie, Jansey, disse Tompson. Se tardavate ancora un po’, mi si spezzava il fucile. – Lo credo, Tompson, rispose il capitano del Gotheborg. Poi tutti e due si slanciarono verso il pilota che era rimasto sdraiato fra la neve. Il povero uomo era stato male conciato da quell’improvviso assalto. La sua giubba di pelle di foca era stata lacerata e gli artigli della belva gli avevano prodotte due profonde ferite alle spalle. – Imprudente, gli disse Tompson. È stata una vera pazzìa scendere sul banco senz’armi. – Non si era mai veduto un orso prima d’oggi, capitano, rispose il pilota. – Ma voi sapete che quei furfanti, nascosti fra le nevi, attendono le prede per delle intere settimane. – Bah!... Non mi ha poi divorato. – Ma se tardavamo a giungere, quel birbante vi schiacciava il cranio come fosse un biscotto. Fortunatamente le vostre ferite non sono gravi e fra una settimana o due potrete riprendere le vostre funzioni. I marinai della Torpa, giungevano allora da tutte le parti. Quattro di loro presero il pilota e lo trasportarono a bordo, mentre gli altri trascinavano via l’orso che prometteva degli squisiti arrosti. Durante il resto della notte le pressioni si fecero sentire ancora, ma debolmente. Verso le due del mattino però, il wacke subì una stretta violentissima che produsse altre spaccature e che fece crollare buona parte delle tettoie e la facciata del magazzino. Anche la Torpa fu sollevata a poppa con impeto e la catena di babordo del timone fu spezzata. Il 26 ottobre il wacke, sotto le continue pressioni dei banchi della costa, del floe e degli ice-bergs che si accumulavano dietro di lui, cominciò a spostarsi. Il vento del nord soffiava con grande violenza sollevando grosse ondate e raddoppiava la velocità della corrente; quelle spinte continue, irresistibili e gli urti degli ice-bergs dovevano finire col farlo trionfare. Infatti i banchi a poco a poco si disgregavano ed il floe, percosso lungo i suoi margini, diminuiva a vista d’occhio e cedeva sotto gli sforzi del wacke, il quale tentava di aprirsi il passo per riprendere la sua discesa verso il sud. A mezzodì il wacke tornò a spostarsi con lunghi crepitìi e nello sforzo che faceva, esercitava delle pressioni violentissime sul bacino, il cui ghiaccio non aveva che poco spessore. I margini interni del grande banco tendevano a restringersi sempre ed a riunirsi prendendo in mezzo la Torpa. – La faccenda diventa seria, disse Tompson a Oscar, che osservava l’avvicinarsi dei margini interni. Noi resteremo senza il bacino. – Ma il wacke riprenderà la sua libertà e si rimetterà in marcia verso il sud, capitano, rispose il professore. – È vero, ma la Torpa corre il pericolo di rimanere schiacciata. Se viene presa fra i margini del wacke, che devono avere uno spessore enorme, non potrà resistere. – La nave però tende sempre a sollevarsi. – È vero, professore, ma correrà anche il pericolo di rovesciarsi. – Riprenderà più tardi il suo appiombo. – Purchè non le manchi poi il tempo e invece s’inabissi. Tò!... Il wacke si sposta ancora. – E sempre verso il sud, signor Tompson. Vuole lasciare l’isola degli Orsi e condurci gentilmente in Norvegia. – Farei a meno della sua compagnia, professore. Se poi... Una serie di detonazioni formidabili gli troncò la frase. I margini esterni del wacke che stringevano il floe ed i banchi della costa, diroccavano con grande fracasso, mentre i margini interni del bacino, compressi da una spinta irresistibile, s’avanzavano gli uni contro gli altri, frantumando il debole ghiaccio formatosi alla superficie del mare. Tutto l’equipaggio erasi radunato in coperta e guardava, con ansietà, l’avanzarsi dei ghiacci. Perfino gli ice-bergs che avevano ostruito il canale del bacino si erano messi in moto e marciavano, tutto fracassando dinanzi a loro, in direzione della Torpa. Se il wacke non riusciva a riacquistare la sua libertà ed a sfuggire a quelle strette, per la nave stava per suonare la sua ultima ora. Grida di terrore e domande angosciose s’alzavano tra i marinai: – Stiamo per venire schiacciati!... – Ai magazzini!... – Si salvi chi può!... – Capitano Tompson!... Fuggiamo!... Capitano Jansey!... – Calma, ragazzi!... tuonavano i due comandanti, i quali, anche in mezzo a quel grave pericolo, conservavano una calma ammirabile. Attendiamo alcuni istanti ancora!... I margini continuavano a restringersi minacciosamente attorno alla Torpa, mentre l’intero wacke oscillava, si screpolava, muggiva e tremava. Lo sforzo che esercitava sui banchi e contro il floe doveva essere tremendo, poichè si vedevano perfino degli ice-bergs stritolarsi, come se fossero rinchiusi in una morsa di ferro di potenza incalcolabile. Guai se la Torpa si fosse trovata in mezzo a quelle pressioni: sarebbe stata schiacciata come una semplice nocciuola. Il pericolo aumentava sempre con rapidità spaventevole. Già i margini interni non erano lontani che pochi metri e stavano per far scomparire tutto il bacino, quando si udì una detonazione così orribile, che parve che tutto il banco fosse saltato in aria sotto la spinta di una polveriera in fiamme. Un istante dopo, fra il diroccare dei ghiacci, si udì il capitano Jansey a gridare: – Siamo salvi!... Il wacke è libero e deriva al sud! CAPITOLO XIII. Alla deriva. Il wacke era riuscito ad aprirsi il passo fra il floe arenato ed i banchi della costa, ed ora continuava la sua discesa verso il sud-sud-ovest, completamente libero. Era però uscito assai malconcio da quella formidabile lotta. I suoi margini esterni diroccavano continuamente e larghi pezzi di ghiaccio si staccavano ad ogni istante e sulla vasta superficie si vedevano numerosi crepacci, ammonticchiamenti di rottami, ice-bergs decapitati o semirovesciati, piramidi tronche e dovunque sollevamenti. Si era sbarazzato dei vicini in buon punto però, poichè se tardava ancora, la Torpa sarebbe rimasta schiacciata. L’equipaggio poteva ben essere soddisfatto di essere sfuggito a quel pericolo che avrebbe avuto, più tardi, delle conseguenze incalcolabili. I magazzini però avevano subìto dei gravi danni: le pareti delle tettoie erano cadute, i tetti erano crollati, parte della costruzione centrale era stata rovesciata e una baleniera era stata fracassata dalla caduta dei blocchi di ghiaccio. Poco però importava, poichè ormai non erano più necessarii. Il wacke, avendo ripreso la sua marcia attraverso l’oceano, non doveva più provare le pressioni, poichè i banchi galleggianti non dovevano tardare a diventare rari. La Torpa, sfuggita incolume all’ultima stretta, non correva alcun pericolo e poteva attendere tranquillamente lo scioglimento del grande banco e l’ora della liberazione. Pareva che la corrente, al di sotto dell’isola degli Orsi, avesse acquistata maggior velocità, poichè il wacke si allontanava dalle sponde a vista d’occhio. Alle sei di sera era già lontano circa quattro miglia dal floe arenato e continuava la marcia, spostandosi però lievemente verso l’est. Se avesse dovuto continuare quella rotta, sarebbe andato a infrangersi sulle coste occidentali della Norvegia e più probabilmente contro l’arcipelago delle Loffoden. – Tutto va bene, disse Tompson, che osservava il mare munito d’un cannocchiale. Mio caro professore, se il diavolo non ci mette la coda, fra due o tre settimane noi avvisteremo le coste della Norvegia, e fra quattro o cinque avremo il piacere di stringere la mano a quel bravo signor Foyn. – Il quale sarà molto contento di rivederci, capitano, rispose Oscar. – Lo credo, disse il baleniere, ridendo. Rimarrà molto sorpreso nel vedere rientrare in porto la Torpa, proprio nel colmo dell’inverno. – Siete un uomo fortunato, voi. – Comincio a crederlo, professore. Non avrei mai creduto di ritornare prima dello scioglimento dei ghiacci. – Non siamo però ancora a Vadsò, capitano. – Non vi sono più pericoli ormai. Di passo in passo che scenderemo al sud, i banchi di ghiaccio diventeranno più radi ed il nostro wacke, incontrando acque più tiepide, comincerà a sciogliersi. – So però, che degli ice-bergs soventi si spingono fino alle coste occidentali della Norvegia. Se ne sono veduti perfino dinanzi ai fiords di Christiansund e perfino dinanzi al Soque-fiord. – Lo so, professore, ma appena scorgeremo le montagne della Norvegia farò minare il banco e lo farò saltare pezzo a pezzo. Quando saremo giunti laggiù, non sarà più nè così grande, nè così solido come lo vediamo ora. – Tornerete poi ad Hammerfest? – Ho lasciato laggiù la mia nave in cantiere. – Ritornerete in queste regioni nell’estate? – Sì, professore. Verrò a pescare i giganti del mare in questi paraggi. – Con quale piacere vi terrei compagnia. – Il piacere sarebbe mio, professore, e se vorrete vi offro una cabina e una tavola che non sarà cattiva. Accettate?... – È probabile, signor Tompson. – Conto sulla vostra promessa. Vi farò vedere come si uccidono quei colossi a colpi di rampone. Professore, andiamo a cenare: questo freddo mette indosso una fame da lupi. All’indomani il wacke era tanto lontano dall’isola degli Orsi, che appena appena si distinguevano i profili delle montagne. Ormai navigava in un mare quasi sgombro di ghiacci, poichè non si vedevano che pochi ice-bergs e pochi palks andare alla deriva. Anche il freddo era notevolmente scemato e oscillava fra i -9° ed i -4° centigradi. Il sole però saliva ancora poco sopra l’orizzonte, ma di miglio in miglio che il wacke scendeva al sud, doveva prolungare sempre più le sue fermate e allungare le giornate. Alle Spitzberg doveva già essere cominciata la notte polare. Il 1° novembre il banco si trovava a oltre sessanta miglia al sud-sud-est dell’isola degli Orsi. Le acque, non più gelate, avevano cominciato a minare le sue sponde. I margini si assottigliavano lentamente sì, ma costantemente e l’acqua del bacino pareva pronta a irrompere attraverso la superficie gelata. Anche delle grandi fessure si erano manifestate ed una si era spinta fino sotto la poppa della Torpa. Numerosi uccelli continuavano ad accorrere sul banco, volteggiando in grandi stormi chiassosi attorno alla nave. Labbi, urie, gazze, eider, oche bernide e procellarie passavano e ripassavano senza posa e alla sera si schieravano sui margini del ghiaccione. Il 3 novembre avendo il wacke incontrato un floe di vaste dimensioni, su cui si erano scorti numerosi trichechi, Tompson, Oscar, Jansey, dieci dei più valenti cacciatori, approfittando del mare calmo, s’imbarcarono su una baleniera e li abbordarono. I grossi anfibi, sorpresi mentre stavano godendosi i limpidi raggi del sole, furono facilmente circondati dai cacciatori, impedendo loro di potersi trascinare al mare. Sei dei più grossi caddero sotto i colpi di rampone e le palle e vennero rimorchiati fino al banco e quindi trascinati a bordo della Torpa. Furono anche vedute parecchie foche che si lasciavano trasportare dai ream, piccoli banchi, ma erano troppo lontane per pensare ad inseguirle ed a raggiungerle prima che avessero il tempo di tuffarsi. Il 6 novembre, a circa centoventi miglia dall’isola degli Orsi, il wacke faceva l’incontro d’una flottiglia numerosa di ghiacci. Era il principio di quella grande barriera, che tutti gli anni s’incontra in quei paraggi, e che pareva provenisse dalle coste orientali della Groenlandia che sono così ricche di ghiacciai. Però fra quegli ice-bergs, quei palks e quei floe vi erano dei passaggi assai larghi ed il wacke non correva alcun pericolo di venire un’altra volta arrestato. Tutt’al più poteva urtare e perdere una parte della sua superficie e fors’anche spaccarsi a metà e lasciare finalmente libera la Torpa. Su quei ghiacci che andavano lentamente alla deriva, si scorgevano numerose foche e morse, ed Oscar vide, non senza stupore, perfino una coppia di orsi bianchi. – Finiranno coll’annegarsi disse a Jansey, che guardava quei feroci animali con occhi ardenti. – Oh, non credetelo, professore rispose il capitano. Gli orsi bianchi sono valenti nuotatori. Io ne ho veduti alcuni ad una distanza di trenta chilometri dalle coste più vicine. – Nuotano agilmente? – Quanto le foche, anzi talora spiccano certi salti, da uscire quasi completamente dalle onde. – È vero, capitano, che amano poco inoltrarsi entro le terre. – Verissimo, vi dirò anzi che di rado s’incontrano a sessanta o settanta chilometri dalle coste. Qualche volta però si vedono anche a centocinquanta chilometri dal mare, ma lungo i fiumi che risalgono pescando e per nutrirsi delle bacche rosse di certi cespuglietti che crescono presso i corsi d’acqua dolce. – Sono anche le femmine amanti dell’acqua? – Molto meno dei maschi, e si allontanano poco dalle spiagge. Quando poi sanno di avere piccini, si cacciano nella neve e stanno là sotto tutto l’inverno, non uscendo che ai primi raggi della primavera. È quella la stagione per dare alla luce i due orsacchiotti. – E si lasciano coprire dalla neve e dal ghiaccio? – Sì, professore, ma pare che non soffrano. – Usciranno però magre da quel lungo letargo. – Non tanto, ma si svegliano molto affamate, ed allora assalgono qualunque gruppo di cacciatori. – Ma non si soffocano in quella tana di ghiaccio? – No, poichè la loro respirazione ed il calore del corpo bastano per produrre delle piccole fessure sufficienti a lasciare il passaggio all’aria. Professore, andiamo a urtare contro gli ice-bergs della barriera. – Ormai non abbiamo nulla da paventare. – Anzi tutto da guadagnare; ma vedrete che questo wacke non ci lascerà ancora liberi. Ha uno spessore enorme e ci trascinerà ben lontani prima di scioglierci. – Va sempre al sud sud-est, signor Jansey? – Sì, e temo che vada a finire in un brutto vortice. – Cosa volete dire? – O m’inganno assai o la corrente che ci trasporta ha uno zampino nel movimento rotatorio del Maëlstrom. – Il Maëlstrom, avete detto? – chiese Oscar, impallidendo. – Sì, professore. – E credete che il wacke vada a inabissarsi in quel vortice?... – Lo temo, ma non vi è motivo di spaventarsi, professore. Quando il mare è tranquillo e non soffia il vento del nord, non è così pericoloso come si dice, e una nave può attraversarlo impunemente. – Ma durante l’inverno il mare è quasi sempre tempestoso intorno all’isola di Moskenoesoe. – È vero, ma speriamo che la fortuna ci protegga ancora. Tocchiamo, professore, tenetevi stretto al bordo. Il wacke cozzava allora contro gli ice-bergs della barriera. Contrariamente però alle previsioni di tutti, l’urto fu così formidabile, che perfino i margini interni del bacino diroccarono e la superficie gelata, pel contraccolpo, fu spezzata. Due ice-bergs, squilibrati dal cozzo, strapiombarono sul wacke con indicibile fracasso, staccandone un tratto di tre o quattrocento metri quadrati e aprendo un canale largo parecchie gomene. La Torpa, che era stata sollevata dalle ultime pressioni, cadde in acqua sollevando uno sprazzo gigantesco, e dalle contro-ondate fu spinta contro i margini del bacino con tale violenza, che la stiva rintuonò tutta ed i corbetti scricchiolarono sinistramente. – Mille balene! esclamò Tompson. Un altro urto come questo e la Torpa si potrebbe mandare in cantiere per un paio di mesi. Fortunatamente è a prova di scoglio. – È stata l’ultima prova disse Jansey. Addio ghiacci polari! Era vero. Al di là di quelle barriere non si vedevano nè ice-bergs, nè palks, nè floe, nemmeno degli streams, nemmeno i piccoli hummoks. Il mare era perfettamente libero e solamente il wacke, forse in causa della sua grande estensione e fors’anche perchè si trovava nel mezzo della corrente, scendeva verso le latitudini meridionali. Alcuni ice-bergs però, che dovevano trovarsi nel filo della corrente, lo seguivano, ma ad una grande distanza, essendo contrariati dal vento dell’est che urtava contro le loro alte creste. Già i marinai si rallegravano, credendo ormai di non dover affrontare alcun pericolo, quando Tompson, che era salito sul barile dell'ice-master per meglio osservare l’orizzonte meridionale, fu veduto scendere precipitosamente. – Cosa avete? chiese Oscar, muovendogli incontro. – Ho che il nostro wacke, poco prima deserto, si è popolato di abitanti assai incomodi. – Di abitanti? chiese il professore, con stupore. – Sì, ma a quattro gambe. – Degli orsi forse? – Sì, professore, ve ne sono almeno due dozzine. – Ma da dove sono sbucati? – Io non saprei dirvelo, ma dovevano trovarsi sui quei due ice-bergs piombati sul nostro wacke. – Brutti compagni, signor Tompson. – I birboni devono essere affamati e contano di banchettare colle nostre cosce, ma ci affretteremo a sbarazzarci di loro. Ohe, in coperta i cacciatori!... Vi è abbondanza di carne fresca, sul banco. – Andate a cacciarli, signor Tompson? – E senza ritardo, o alla prima notte nebbiosa faranno la loro comparsa sul ponte della Torpa. Volete venire? – Con vostro permesso, subito. – In caccia, allora. Avremo da lavorare, ma ci sbarazzeremo di quei pericolosi vicini. CAPITOLO XIV. Una storia d'orsi bianchi. Era necessario sbarazzarsi di quei voraci ed incomodi compagni di viaggio, perchè non avrebbero tardato a gettarsi sui magazzini ed a vuotarli. Inoltre la loro presenza rendeva impossibile ogni esplorazione del banco ed impediva ai marinai di fare le loro passeggiate. Avendo scorta la nave, avevano senza dubbio abbandonati gli ice-bergs sui quali si erano imbarcati e spinti dalla fame, si erano affrettati ad approdare sul grande campo di ghiaccio, contando di pascersi colle carni dell’equipaggio. Se fossero stati due o tre, Tompson non si sarebbe molto inquietato, ma erano una ventina e conoscendo la loro audacia, il baleniere voleva ricacciarli in acqua o distruggerli. Dodici marinai, noti per la loro valentìa nel maneggio delle carabine, furono scelti per la grande caccia, mentre altri dodici dovevano mettersi a guardia dei magazzini per impedire il saccheggio dei viveri. Quei due drappelli, guidati da Tompson e da Jansey, ai quali si era pure unito anche Oscar, attraversarono il bacino e si concentrarono attorno ai depositi. Avendo il wacke una circonferenza di sei o sette miglia, ed essendo stato notato che gli orsi si erano dispersi parte sulle coste settentrionali e parte su quelle meridionali, i cacciatori decisero di dividersi in due drappelli, l’uno al comando di Jansey e l’altro del capitano baleniere. – In marcia, giovanotti disse Tompson. Mirate con calma e guadagneremo delle belle pellicce e dei buoni arrosti. Si mise alla testa di sei cacciatori e si diresse verso le coste meridionali in compagnia di Oscar, mentre Jansey, cogli altri, s’incamminava verso quelle settentrionali. Gli orsi si vedevano distintamente, essendosi alzato il sole. Andavano e venivano lungo i margini del wacke a gruppi di due o tre, non osando ancora accostarsi alla Torpa, la cui massa giganteggiava in mezzo al bacino. Probabilmente attendevano qualche notte oscura o nebbiosa, per tentare un assalto generale. – Li vedete, professore? chiese Tompson a Oscar. – Sì, capitano, rispose questi, e mi pare che siano inquieti. – Lo credo. Ci hanno già fiutati e prevedono un attacco. – Credete che riusciremo a catturarli? – Certo, ma ci saranno necessari parecchi giorni. Non tutti ci faranno fronte e quando si vedranno stretti da vicino, si getteranno in acqua ma per ritornare poi più tardi. Sono bravi nuotatori e possono resistere molte ore. – Avete ancora veduto tanti orsi radunati su di un banco di ghiaccio? – Ordinariamente vivono isolati, o a due od a tre, ma in alto mare, ad una grande distanza dalle coste ne vidi parecchi raccolti su dei packs. Avendo l’abitudine d’imbarcarsi sugli ice-bergs, quando questi si sciolgono, si affrettano a raggiungere altri ghiacci e continuano così se ve ne sono. Sugli ultimi banchi si trovano allora riuniti in grosso numero. – E quando si sciolgono anche gli ultimi ghiacci? – Si annegano, se non trovano qualche isola o qualche costa rispose Tompson. Una volta ho pescato due orsi a duecento miglia dalle spiagge dell’isola Jan Mayen. – Alcuni riescono a sbarcare anche sulle coste d’Europa? – Sulla penisola di Kola, sulle spiagge del Mar Bianco e anche su quelle che si estendono fino al mar di Kara. Anche in Islanda ne sbarcano sovente, anzi nella mia gioventù mi è toccata un’avventura che mi fa ancora rizzare i capelli tutte le volte che mi torna alla memoria. – Narrate, capitano, i nostri orsi sono ancora lontani. – Mi trovavo sulle coste occidentali dell’Islanda. La nave che allora montavo in qualità di terz’ufficiale, avendo riportata una grave avaria in causa d’un urto contro un grande ice-berg, aveva dovuto poggiare nel golfo di Breda e chiedere soccorsi ad Asgasdur. In cantiere doveva subìre delle lunghe riparazioni e non potendo riprendere il mare prima di tre settimane, avevo chiesto il permesso di recarmi a cacciare nei fiords del Shagestrand, dove mi avevano detto che le foche, le morse e gli eiders erano numerosi. «Avevo fatto conoscenza con un valente cacciatore di foche, il danese Wicke, il quale si era costruita una capanna all’estremità d’un profondo fiord. «Andavamo a caccia insieme molto di frequente, e m’insegnava tutte le astuzie per impadronirmi delle prede marine e terrestri. «Una domenica ci accordammo per cacciare delle foche che si erano mostrate in buon numero nei dintorni del suo fiord. «Al mattino, per tempissimo, abbandonai il villaggio che mi ospitava e mi diressi verso la capanna del mio danese, che era lontana sette od otto miglia. «Eravamo nel colmo dell’inverno. I ghiacci avevano bloccate tutte le coste ed altri continuavano a scendere dalle coste meridionali della Groenlandia, mentre un altissimo strato di neve copriva la terra. «Il freddo era diventato così acuto, che toccando un oggetto di ferro faceva l’effetto d’una dolorosa bruciatura. Il termometro aveva segnato -37° centigradi. «Avevo percorso già sette miglia e cominciavo a distinguere la capanna di Wicke che era mezzo sepolta fra la neve, quando volgendo gli sguardi verso il mare scorsi un enorme ice-berg che s’avanzava verso la costa. «Dapprima non vi feci caso, essendo cosa comunissima in quella stagione, ma osservando meglio, vidi sei masse biancastre agitarsi sul fianco del ghiaccione. «Aguzzai gli sguardi e immaginatevi quale fu il mio terrore nello scorgere sette od otto orsi bianchi che mi guardavano con ardente bramosìa, pronti a gettarsi in acqua ed assalirmi. «Non vi era da dubitare. Si erano imbarcati su quell’ice-berg staccatosi dalle coste della Groenlandia, per lasciarsi trasportare verso il sud, sperando di trovare delle prede più abbondanti. «Dovendo noi cacciare le foche, mi ero munito d’un solo arpione, arma da preferirsi al fucile contro quegli anfibî, ma poco utile contro gli orsi. Non potendo quindi far fronte a quei formidabili nemici, mi misi a correre come un pazzo e giunsi alla capanna nel momento che le belve sbarcavano. «Wicke era un uomo coraggioso. Informato dell’avvicinarsi di quei pericolosi avversari, m’invitò a seguirlo. Si era armato d’un vecchio e pesante fucile e d’una scure. «A poche centinaia di metri si era arrestata un’orsa che era accompagnata da due orsacchiotti. «Wicke, senza pensare al pericolo a cui si esponeva, fece fuoco e abbattè la madre, ma quasi subito vedemmo correrci addosso cinque maschi di statura gigantesca. «Ebbimo appena il tempo di fuggire e di rinchiuderci nella capanna. Poco dopo gli orsi ci assediarono strettamente, impedendoci qualunque uscita. «Wicke cercò di respingerli a colpi di fucile, ma quando volle far uso dell’arma, s’accorse che si era guastato il grilletto. «La nostra situazione minacciava di diventare disperata. Non potevamo contare su alcun soccorso, poichè la capanna si trovava isolata e non vi era un solo abitante in un raggio di sei miglia. Uscire ed affrontare gli orsi colle scuri e colle fiocine sarebbe stata un pazzia, un voler farsi uccidere. «Non ci restava che di armarci di pazienza e attendere che gli assedianti si stancassero; magra speranza, poichè sapevamo che gli orsi sono testardi. Avevamo in prospettiva la fame, essendo la capanna quasi sprovvista di viveri, ed un furioso assalto. «Intanto le belve continuavano a ronzare attorno alla nostra dimora, emettendo sordi urli. Le loro formidabili unghie stridevano sulla neve gelata e di quando in quando intaccavano le pareti di legno, cercando di aprirsi un passaggio. «Per un’ora gli assedianti s’accontentarono di girare e rigirare, poi non li udimmo più. Ci nacque allora il sospetto che cercassero di scavare una galleria. «Passammo parecchie ore in angosciosa aspettativa. Era scesa la nebbia e l’oscurità era diventata profonda, quando Wicke mi disse: – Presto, alzatevi e coraggio. Stiamo per venir assaliti. «Aveva udito un sordo rumore che veniva dalla parete destra. Pareva che qualcuno grattasse la terra, cercando di passare sotto i pali della capanna. «Non vi era da ingannarsi. Gli orsi avevano scavata una galleria e stavano per sollevare il pavimento di neve battuta. «Afferrammo i ramponi e le scuri e ci tenemmo pronti a difenderci disperatamente. Ad un tratto mi sentii mancare il terreno sotto i piedi ed una parte del pavimento crollò, mentre due pali si spostavano. «Udii un ruggito da far gelare il sangue all’uomo più intrepido, ed in mezzo ai rottami vidi apparire la testaccia d’un orso coperta di neve e di frammenti di ghiaccio. «Il danese era rimasto in piedi mentre io ero caduto. Lo vidi alzare la scure e abbassarla con rapidità fulminea. «Udii un colpo sordo, come s’infrangesse qualche cosa di duro, poi un rauco urlo e sentii delle gocce di materia calda balzarmi in viso. «Il pavimento si livellò e l’apertura si turò, ma a fior di terra era rimasta la testa dell’orso colla bocca sbarrata ed il cranio aperto da un colpo di scure. «— È morto, mi disse il danese. La galleria è chiusa dal corpo di questo bestione e per ora nulla abbiamo da temere. «All’esterno si udivano gli altri orsi a urlare. Essendo il loro compagno rimasto nella galleria, erano stati costretti a tornare indietro. «Resi furiosi per quello scacco, si gettarono contro le pareti della capanna cercando di aprire un’altra breccia, ma i pali che erano solidamente uniti, resistettero ai loro sforzi ed ai loro artigli. «Tutta la notte si aggirarono attorno alla nostra dimora tentando sempre di atterrare le pareti. Noi, in preda a continue angosce, correvamo or qua ed or là pronti a respingere l’assalto. «All’alba la situazione non era cambiata. Verso le dieci del mattino, però, udimmo delle grida e dei colpi di fucile. «Una barca montata da alcuni pescatori s’avvicinava alla spiaggia e avendo veduto gli orsi, quei bravi uomini avevano aperto un vivo fuoco. «Pochi momenti dopo le fiere scomparivano fra i ghiacci e noi ci trovavamo fra le braccia dei salvatori.» – Una terribile avventura, in fede mia disse Oscar, che l’aveva ascoltata con vivo interesse. – Che mi ha fatto scombussolare il sangue per due settimane, rispose Tompson, ridendo. Vi assicuro che non sono più tornato in quel fiord. Ah! Ecco laggiù un orso che ci guarda sospettosamente. Professore, mirate bene e cercate di colpire la testa. CAPITOLO XV. Il Maëlstrom. Un vecchio maschio, riconoscibile per tale dalla sua pelliccia che aveva delle sfumature giallastre, era comparso presso l’orlo d’un bacino che si trovava a circa trecento passi dal mare. Pareva però che fosse più curioso che inquieto. Seduto sulle zampe deretane, dondolava comicamente la sua testaccia villosa ed appuntita, guardando i cacciatori che si disponevano a circondarlo per impedirgli di raggiungere la costa del wacke. Doveva essere molto affamato, forse digiuno da parecchie settimane, perchè era assai magro; era quindi probabile che non cercasse di fuggire. Tompson armò flemmaticamente la carabina, mentre Oscar e gli altri si allargavano rapidamente, e mosse risolutamente incontro alla fiera. A quindici passi fece fuoco. L’animale cadde piroettando su se stesso, ma fu pronto a rialzarsi e con una agilità sorprendente. Si rizzò sulle zampe posteriori e si precipitò addosso al cacciatore che lo aspettava a piede fermo, con un rampone in mano. Lanciava delle urla acute, sbatteva le zampe anteriori come fosse già dietro a lacerare l’avversario e digrignava i denti. Una grande macchia di sangue si dilatava sulla sua pelliccia, un po’ sotto la spalla destra. I marinai e Oscar però avevano puntato rapidamente i fucili, e per mirare meglio si erano inginocchiati. Sette spari rintronarono formando quasi una sola detonazione. L’orso, crivellato di ferite, fece un balzo innanzi e andò a cadere quasi ai piedi di Tompson, il quale fu pronto a dargli il colpo di grazia, cacciandogli il rampone attraverso il corpo. Incoraggiati da quel primo successo, i cacciatori s’affrettarono a raggiungere le sponde del wacke e si misero a scalare gli avanzi degli ice-bergs saldatisi al banco. Dopo mezz’ora di marcia, un altro orso fu scoperto in fondo ad una spaccatura. Si era affondato nella neve così bene, che per poco un marinaio non vi cadde sopra. La belva non ebbe il tempo di balzare fuori dalla buca e di mettersi sulle difese. Quattro palle tiratele contro, quasi a bruciapelo, la freddarono. Dopo il mezzodì un terzo fu sorpreso mentre cercava di gettarsi in acqua. Raggiunto da Tompson e da Oscar presso la sponda, sebbene doppiamente ferito, tentò di caricarli, ma vedendo accorrere i marinai, in tre balzi raggiunse il margine del wacke e si precipitò fra le onde. Ricomparso a galla a trenta passi dal banco, fu bersagliato e andò a picco con parecchie palle nel cranio. Il resto della giornata la passarono in vani inseguimenti. I carnivori, spaventati da quelle continue detonazioni, non si lasciavano più avvicinare e appena fiutati i cacciatori si affrettavano a gettarsi in mare, allontanandosi rapidamente. Alla sera Tompson ed i suoi compagni tornarono a bordo trascinando le loro prede e trovarono l’altra squadra comandata dal capitano Jansey, che aveva già rimorchiati al bacino tre altri orsi. All’indomani la caccia fu ripresa con molto vigore e con maggior numero di uomini. I carnivori erano già ritornati sul wacke ed alcuni, durante la notte, avevano avuto l’audacia di ronzare attorno ai magazzini. Altri sette furono abbattuti in quella seconda giornata e senza che i marinai riportassero alcuna ferita, poi altri due il 10 novembre. L’11 le cacce furono sospese, essendo sceso sul mare un denso nebbione, il quale durò tre giorni quasi senza interruzione, ma il 15 altri quattro orsi furono uccisi. Da quel giorno non ne furono più veduti. Avendo il wacke incontrati alcuni banchi che andavano pure alla deriva, probabilmente i superstiti li avevano raggiunti. Intanto la Torpa continuava a essere trascinata verso il sud, mantenendosi tra il 18° e 20° meridiano. La temperatura diventava di giorno in giorno meno aspra, ed il sole si alzava sempre più sull’orizzonte, cominciando a sciogliere l’acqua del bacino e anche la superficie del grande banco. L’acqua marina, che diventava sempre meno fredda, aveva già prodotto dei guasti rilevanti nei margini. Ad ogni istante un tratto di sponda franava, od un pezzo d’ice-berg si staccava o s’aprivano dei grandi crepacci. La prigionia non doveva durare ancora molto; ancora alcune settimane e la Torpa avrebbe finalmente potuto sciogliere le vele e dirigersi verso le coste della Norvegia. Il 24 novembre, Tompson e Jansey, fatto il punto, s’accorsero di aver sorpassato la latitudine del capo Nord. – Mille balene! esclamò il comandante della Torpa. Saremo adunque costretti a rimontare verso il nord, per far ritorno a Vadsò? Se questo dannato banco fosse disceso lungo il 31° meridiano, fra ventiquattro o quarant’otto ore ci saremmo trovati dinanzi al Varangefiord. – Ed invece andremo a dar di cozzo contro le isole Loffoden disse Jansey. – Lo credete? – La corrente non accenna a deviare e temo che vada a terminare nel Maëlstrom... Io sono certo che deve formare quel grande gorgo. – È probabile, rispose Tompson, che si era fatto oscuro in viso, l’acqua continua a rodere il banco e può spezzarlo prima; oggi anzi sgombreremo i magazzini e faremo imbarcare le provviste e le baleniere. Potremo anche rendere la libertà ai due eider datemi dal signor Foyn mettendo sotto le loro ali qualche lettera. Auguriamoci che giungano a destinazione. Il 24 novembre il wacke si trovava al 68° di latitudine. La corrente pareva che fosse diventata più rapida, poichè il grande banco si avvicinava rapidamente alle coste della Norvegia. Fu quello l’ultimo giorno che i due comandanti poterono rilevare la latitudine e la longitudine, poichè il 30 il cielo si coperse di nebbie così fitte che impedivano qualsiasi osservazione. Il mare era diventato cattivo e si rompeva con furore contro i margini già rôsi del banco e soffiava impetuoso il vento del nord. Il wacke aumentava sempre la sua marcia, quasi fosse impaziente di frantumarsi contro le coste norvegiane, ma scemava anche a vista d’occhio. A poco a poco si disgregava e solamente il nucleo centrale mantenevasi ancora compatto, impedendo alla Torpa di approfittare delle numerose squarciature che si producevano. Di miglio in miglio che scemava la distanza che li separava dalle coste, Tompson e Jansey diventavano più irrequieti. Dove sarebbero andati a finire? Avrebbe potuto la Torpa resistere all’ultimo cozzo del banco? Avrebbero potuto sfuggire il gran vortice che doveva essere diventato terribile con quel mare tempestoso e quelle furiose raffiche che scendevano dal nord?... Il Maëlstrom!... Quel nome li faceva impallidire e suonava ai loro orecchi come una campana funebre. Il 1° dicembre l’urto non era ancora avvenuto, ma tutti sentivano che la terra era vicina. Il nebbione però impediva di scorgerla ed il mare continuava a mantenersi cattivo. Verso le 11 p. Tompson stava per scendere nel quadro onde riposarsi qualche ora, quando i suoi orecchi furono colpiti da lontani muggiti. Si sarebbe detto che il mare si rompeva con grande rabbia contro una costa. – Le Lofoden?... gli chiese Oscar, che aveva pure uditi quei muggiti. Tompson non rispose. Ascoltava con profonda attenzione, in preda ad una visibile ansietà. Ad un tratto si alzò col viso contratto e gli sguardi smarriti. – Gran Dio!... esclamò. – Ice-master!... È sempre al sud la prora?... – Ma no, capitano! rispose il pilota, guardando le bussole. Il banco vira di bordo! – Jansey!... Il capitano del Gotheborg, che si trovava di quarto a prora, accorse. – Seguitemi, disse il baleniere. La nebbia si rompe e di lassù potremo vedere qualche cosa. Si slanciarono sulle griselle e salirono nella botte del pilota. Attraverso alla nebbia che si lacerava sotto le raffiche, scorsero attorno al banco un candido lenzuolo di spuma che ondeggiava in tutte le direzioni, e udirono di lassù, dei boati confusi, degli scricchiolìi, dei tonfi e delle urla che parevano emesse da creature umane. Gli equipaggi si erano allora pure accorti che il banco cominciava a roteare e che stava per essere assorbito dal vortice gigante. Urla di terrore risuonavano sul ponte, a prora ed a poppa. I due comandanti si lasciarono scivolare in coperta tuonando: – In alto i gabbieri!... Tutte le vele al vento!... Calma ragazzi!... Il wacke intanto cominciava a girare sui margini del vortice. Era ormai stato afferrato fra le sue spire e correva disordinatamente, trabalzando sulle onde e scricchiolando, trascinato da una forza irresistibile. Attorno ad esso galoppavano altri ghiacci, strappati forse dalle spiagge di Moskenoesoe, rottami d’antichi vascelli che il gorgo spingeva a galla e che poi ringhiottiva, e si dibattevano, colla forza della disperazione i narvali dal lungo corno, le grasse focene, i voraci pescicani, le foche ed i trichechi emettendo muggiti e sospiri potenti paragonabili al tuono udito in lontananza. Il vortice trascinava tutti nella sua foga circolare muggendo spaventosamente, sconvolgendo per ogni dove le acque, ed aspirando nell’imbuto mostruoso perfino le nebbie. Tutte le vele erano state spiegate, quando avvenne un cozzo spaventoso. Il wacke, fracassato contro qualche roccia o contro qualche ammasso di ghiacci, si era aperto. Un immenso urlo di gioia s’alzò sul ponte della Torpa seguìto subito dopo da una voce che tuonava: – Al sud la prora!... A tutto vento in poppa!... Lo schooner, ritornando libero, investito dal vento che soffiava impetuosamente dal nord, balzava attraverso le onde, spezzando la corrente circolare del gorgo. Speronava i ghiacci, speronava i rottami, urtava, frantumava ma andava innanzi trascinato dall’uragano. Un quarto d’ora dopo avveniva un urto violentissimo e la nave s’arrestava di colpo, mentre l’equipaggio stramazzava in coperta. – Mille balene!... Cosa è avvenuto?... urlò Tompson. – Siamo arenati dinanzi alla costa norvegiana, gridò Jansey. – Piuttosto che venire inghiottiti dal Maëlstrom, preferisco un arenamento disse il baleniere. Speriamo di essere finalmente salvi!... CONCLUSIONE La Torpa era andata ad urtare su di un grande banco di sabbia, che si prolungava dinanzi all’isola di Moskenoesoe. Non avendo incontrato alcuna roccia, non aveva riportato che delle lievi avarìe alla carena, ma era necessario l’aiuto dei rimorchiatori per disincagliarlo. Era quindi necessario andare a chiedere aiuto a Tromsò, ma essendo il mare cattivissimo, nessun pescatore di Moskenoesoe ardiva recarsi fino a quel luogo, per paura di venire travolto ed inghiottito dal Maëlstrom. Tompsom e Jansey, temendo che la nave venisse demolita dalle onde, si fecero sbarcare sulla costa più vicina ed insieme a Oscar e ad alcuni marinai si portarono in un villaggio, dove sapevano esservi numerose renne. Il 3 dicembre, noleggiate tre slitte tirate da quei rapidi animali, partirono alla volta di Tromsò, seguendo la costa. Appena giunti in quella città marittima, loro primo pensiero fu quello di telegrafare al signor Foyn il felice esito della spedizione, poi di noleggiare dei rimorchiatori. Due giorni dopo la Torpa veniva disincagliata e subìte alcune riparazioni ritenute necessarie si rimetteva in viaggio verso il nord. Il 20 dicembre, dopo una felice navigazione, rientrava finalmente nel Varangefiord e gettava l’àncora dinanzi all’isoletta del signor Foyn. Rinunciamo a descrivere le accoglienze entusiastiche fatte all’intrepido e fortunato baleniere ed ai suoi valorosi marinai da parte di tutti i balenieri e lavoranti, i quali erano stati già informati dell’esito felice della spedizione, prima dai due eider, poi dal dispaccio. Il signor Foyn, riconoscente, compensò largamente tutti e specialmente il bravo Tompson, il quale ora non naviga più per conto suo. Egli è il comandante in capo delle squadre pescatrici del celebre proprietario dell’isoletta di Vadsò. I CACCIATORI DI FOCHE DELLA BAIA DI BAFFIN CAPITOLO I. Attraverso i ghiacci della baia di Baffin. La grande baia di Baffin da parecchi giorni aveva ripreso il suo triste e pauroso aspetto invernale. Il sole, già senza calore, scolorito come se fosse ammalato, penava assai a lanciare i suoi ultimi raggi su quelle terre perdute al di là del circolo polare, sulle quali stava per piombare la lunga e cupa notte. Pesanti nebbioni coprivano le coste della lontana Groenlandia, della terra di Baffin, della penisola di Cumberland, di Devon e di Lincoln, scendendo attraverso lo stretto di Smith e ingolfandosi verso quelli di Davis, di Lancaster e di Jones. Enormi ice-bergs, le cui punte aguzze raccoglievano un po’ di luce solare, tingendosi di riflessi purpurei o giallastri, erravano a capriccio su quelle acque azzurro-cupe, serpeggiando lentamente sotto i soffi della gelida tramontana, sospinti dai grandi banchi, dagli ice-fields mai contaminati da alcuna orma umana, immacolati come nel primo giorno della loro creazione e da miriadi di ghiacciuoli, di palks e di streams splendidi come diamanti o venati o incrostati di tinte indefinibili che avevano i bagliori degli zaffiri e degli smeraldi. Fuggivano verso le regioni del sud i gabbiani dalle candide ali, i piedi neri ed il becco giallo, frettolosi di guadagnare climi più miti; volteggiavano sopra le flottiglie gelide i grandi albatros, gettando le loro rauche grida che suonavano come un addio a quelle tristi regioni dalle nevi eterne; poi sfilavano grandi bande di gazze marine facendo un baccano indiavolato, le grosse oche bernide, le urie dalle penne nere ma colle ali bianche, le rapide strolaghe pure nere ma colle ali picchiettate di bianco e le procellarie fulmar, quelle assidue compagne delle terribili bufere. Tutti fuggivano, tutti abbandonavano quella grande baia che stava per coprirsi di ghiacci, di nevi e di nebbie; che stava per tramutarsi in un immenso deserto di gelo, assolutamente inabitabile sia per gli uccelli marini, sia per gli animali e tanto meno per gli uomini; pure vi erano ancora alcuni che non retrocedevano dinanzi alla terribile discesa dei ghiacci polari. Una grande barca, una di quelle grosse barche da pesca dal ventre assai rigonfio, di forme massiccie, munita di due soli alberi, sostenenti due vele latine di dimensioni enormi che vengono usate dai pescatori canadesi, s’avanzava intrepidamente incontro al nebbione ed ai ghiacci. Sei uomini di forme robuste, coperti di vesti di pelle di foca, col cappuccio calato sul viso, con pesanti stivali da mare pure di pelle di foca e grossi guanti, stavano a prora intenti a respingere, con accanimento febbrile, i ghiacci che minacciavano di sfondare le costole della loro barca, adoperando dei lunghi buttafuori muniti di grosse punte di ferro. Erano tutti giovani, poichè non superavano i trenta anni, ma si capiva, anche a prima vista e dal modo con cui adoperavano le aste e dalla loro abilità nel rovesciare od allontanare i ghiacci con dei colpi robusti e ben assestati, che dovevano aver percorso ancora quelle regioni del gelo e che ben altre lotte dovevano aver impegnate cogli ostacoli dei mari polari. A poppa invece, ritto dinanzi al timone, stava un uomo di statura imponente, un vero gigante, poichè doveva misurar quasi sei piedi, ossia poco meno di due metri. Era il più attempato di tutti, anzi doveva aver varcato la cinquantina da qualche anno, poichè la sua barba ed i suoi capelli erano ormai grigiastri. Aveva un petto da atleta, le spalle larghissime, le braccia muscolose, formidabili ancora malgrado l’età, poichè maneggiavano la pesante ribolla del timone come fosse un semplice fuscello di paglia. Il suo viso, seminascosto da un grande cappuccio di grosso panno azzurro-cupo, era solcato di rughe ben marcate e la sua pelle era assai abbronzata, ma i suoi occhi, di un nero profondo, avevano ancora qualche cosa di giovanile e di tratto in tratto mandavano vivi lampi. Quantunque il freddo fosse assai pungente, quel colosso non aveva, come i suoi compagni, ancora indossate le pesanti vesti d’inverno. Aveva calzati bensì i guanti di pelle di foca, ma portava ancora una casacca di grossa tela da vele come usano i pescatori di merluzzi di Terranuova e quelli del Labrador, i calzoni di panno e uose di tela strette attorno ai muscolosi polpacci e alle pesanti scarpe ferrate. Poco discosto da lui, accovacciato su di un rotolo di cordami, stava uno di quei grossi cani di Terranuova, dal folto pelame, dalla lunga coda villosa, valenti animali da caccia e abilissimi nuotatori. Il grosso collare di ferro, irto di punte assai aguzze, indicava chiaramente come venisse impiegato nelle pericolose cacce contro i formidabili orsi bianchi delle regioni nordiche. Il colosso, quantunque non abbandonasse la ribolla del timone per non compromettere la sicurezza della barca, non stava però un istante fermo. Si curvava a destra ed a sinistra per guardare i ghiacci e la sua voce poderosa echeggiava senza posa. – Forza, ragazzi! Attento a babordo Grinnell!... Bada al tuo buttafuori, Charchot!... Giù un buon colpo, mio bravo Tylson! Credi d’aver in mano il fucile tu? Non sono nè alci, nè buoi muschiati, ma ghiacciai che ci assalgono!... Ohe!... Guardate a babordo, voi altri!... Vi dico che passeremo, parola di Tyndhall!... – Ma per centomila corna di caribou!... tuonò colui che si chiamava Charchot. Non la finiremo più, mastro Tyndhall?... Ne ho abbastanza dei ghiacci e della vostra baia di Baffin!... Fulmini dell’equatore!... Sono tre giorni che si continua questa dannata manovra e vi dico che... – Taci!... Bada a quello stream che sta per guastarci la prora. – All’inferno tutti i ghiacci! – Se potessi mandarveli non esiterei a farlo, Charchot, certo che a casa di messer Belzebù si liquefarebbero ben presto. – Mastro... basta!... dissero i marinai. Non ne possiamo più. – Un ultimo sforzo, ragazzi. – Siamo affranti, padrone Tyndhall. – Pochi colpi ancora, fino a quel pack, poi vi accorderò mezz’ora di riposo. Il vento ci spinge e può girare al nord da un momento all’altro e ricacciarci nello stretto di Davis. Il piccolo veliero, che s’avanzava stentatamente attraverso i ghiacci della baia di Baffin, correva allora il pericolo di venire imprigionato da una vera flottiglia di streams, di packs e di hummoks che gli ice-bergs spingevano verso il sud-est. Ve n’erano di tutte le forme e di tutte le dimensioni: delle montagnole che rizzavano le loro punte aguzze come lame; dei blocchi perfettamente circolari che roteavano su di loro stessi, come si agitassero in mezzo a dei gorghi; delle zattere di forma allungata, ma con certi speroni così acuti, da temere che sfondassero le coste del veliero e finalmente dei piccoli banchi sormontati da un caos di obelischi, di colonne bizzarre, alcune alte assai ed altre spezzate, e arcate, e cupole semidiroccate e accatastamenti di blocchi enormi che parevano si mantenessero ritti per un miracolo d’equilibrio. Dietro a quei piccoli ghiacci s’avanzavano gli ice-bergs, le montagne giganti che le correnti trascinavano verso lo stretto di Davis e verso le lontane coste della Groenlandia. Quei colossi che ondeggiavano lievemente, ma che si urtavano fra di loro con un fracasso formidabile producendo delle detonazioni paragonabili allo scoppio dei pezzi d’artiglieria, facevano veramente paura. Guai se uno fosse andato a urtare il piccolo veliero! Per quanto fosse robusto, sarebbe stato schiacciato come una semplice barca. L’equipaggio aveva ripresa la lotta contro le flottiglie che si stringevano attorno alla barca. Respingevano con furore gli streams, i packs e gli hummoks, allontanando or questi ed or quelli con poderosi colpi di sbarra, frantumando i meno solidi a colpi di punta, rovesciando con spinte irresistibili quelli che colle loro punte toccavano la bordatura o che minacciavano le trinche dell’albero di bompresso, ma si capiva che erano gli ultimi sforzi e che proprio non ne potevano più. Malgrado il freddo acuto, i marinai cominciavano a sudare ed erano stati costretti a lasciar ricadere i cappucci che ormai erano diventati troppo pesanti ed insopportabili. Fortunatamente il pack, segnalato da mastro Tyndhall, non era lontano che poche gòmene. Era un grande banco di ghiaccio, coperto da un alto strato di neve perfettamente liscia e senza dubbio mai calcata da piede umano, contornato da un gran numero di piccoli ice-bergs che si erano cementati ai suoi margini. Solamente dinanzi a quel banco i naviganti potevano sperare di trovare un po’ di riposo, poichè colla sua massa poteva riparare la piccola nave dagli urti di tutti gli altri. – Coraggio!... tuonò un’ultima volta il vecchio Tyndhall, spostando bruscamente la ribolla del timone. Pochi colpi ancora e saremo al sicuro. Spingi, Tylson!... Urta, Mac-Chanty!... Sfonda quello stream, Charchot!... Là, così va bene, ragazzi... Su, ci siamo!... Attenti all’urto!... La Shannon ha le costole dure, ma i ghiacci sono più duri ancora!... Il veliero era giunto addosso al banco. Mastro Tyndhall, con un vigoroso colpo di barra, lo fece virare sul trabordo, poi balzando attraverso la tolda, come fosse un giovane gabbiere, lasciò andare le scotte delle due grandi vele, mentre due dei suoi uomini saltavano sul pack trascinando una grossa fune legata alla murata proviera. La Shannon, spinta dal vento, andò a urtare col tribordo contro il margine del banco e s’incrostò. – Legate bene! gridò Tyndhall. – Non temete, mastro, risposero i due marinai. A pochi passi da loro s’alzava un’enorme colonna di ghiaccio, spezzata a metà. Si diressero a quella volta per legare la gomena, ma ad un tratto s’arrestarono, lasciandola cadere sul banco. – Oh!... aveva esclamato uno dei due. Hai udito, Charchot?... – Sì, Mac-Chanty. – Un orso bianco?... – Bell’incontro, dopo tante ore di lotta!... Un urlo, che rassomigliava al nitrito d’un mulo, ma più sordo e meno prolungato, echeggiò dietro l’enorme colonna di ghiaccio. – Alla barca! urlarono in coro i due marinai, girando rapidamente sui talloni. – Ohe!... Pesci‐cani d’acqua dolce! tuonò mastro Tyndhall, vedendoli abbandonare precipitosamente la gomena. Per mille tempeste!... Volete far fracassare la Shannon? – Padrone Tyndhall, disse Charchot, ch’era già giunto sull’orlo del pack. Se credete, vi è un amico che vi aspetta, ma vi avverto che pare che abbia molta fame e che possiede zanne e artigli. – Cosa vuoi dire, cacciatore d’oche?... – Che vi è un orso laggiù. – Ah!... La è così?... Credevo che tu avessi avuto paura di qualche oca!... Ehi, Grinnell, lancia un rampone sul pack; per qualche minuto spero che terrà fermo. Ciò detto prese un fucile a due canne che stava appoggiato alla murata di babordo, lo esaminò con attenzione per accertarsi se era carico, si passò nella larga cintura di pelle di renna, che stringevagli la casacca, uno di quei terribili coltellacci che gli americani del nord chiamano bowie-knife e balzò sul banco, dicendo con voce tranquilla: – Attendetemi, giovanotti. – Ma ci siamo anche noi, padron Tyndhall, dissero alcuni marinai. – Ed i cacciatori di foche della baia di Baffin non hanno mai avuto paura degli orsi bianchi, aggiunse Grinnell. – Voleva lasciarvi in riposo, amici miei. So bene che siete tutti coraggiosi e se non lo foste, parola di Tyndhall che non vi avrei arruolati per una così pericolosa spedizione. Se volete venire, non vi rifiuterò siate certi. – Vi accompagneremo, padrone. Gli orsi bianchi, voi lo sapete, sono formidabili. – Non venite tutti!... La Shannon può venire portata al largo. Mac-Chanty, Charchot e Grinnell si precipitarono nella camera di prora e poco dopo ricomparivano armati di pesanti carabine e di ramponi, armi queste che potevano surrogare, e forse vantaggiosamente, le fiocine degli esquimesi. – Il vecchio Tyndhall li aveva già preceduti e si accostava lentamente alla grossa colonna di ghiaccio, cercando di tenersi sottovento. Già non distava che una diecina di passi, quando vide la neve del campo agitarsi, rigonfiarsi bruscamente, poi aprirsi e comparire un orso bianco di statura mostruosa. Quell’animalaccio, che fino allora si era mantenuto nascosto sotto la neve in una tana scavatasi per dormire tranquillo, misurava almeno due metri e mezzo dalla punta del muso alla radice della coda. Pareva che fosse un vecchio maschio, poichè la sua pelliccia non era più bianco-argentea, ma un po’ gialliccia. Vedendo quell’uomo che gli muoveva incontro col fucile puntato, l’orso si rizzò sulle zampe posteriori emettendo un sordo urlo e alzate le zampacce armate di formidabili artigli, lo attese a piè fermo. Il vecchio Tyndhall, niente spaventato da quella posa aggressiva, puntò flemmaticamente il fucile e lasciò partire i due colpi, ma proprio in quel momento la neve cedette sotto i suoi piedi, e perduto l’equilibrio, cadde all’indietro gettando un grido di terrore. L’orso, sfuggito miracolosamente alla doppia scarica, balzò innanzi per sventrare la sua vittima. CAPITOLO II. Gli orsi bianchi. I tre marinai della Shannon, vedendo cadere il loro vecchio mastro e l’orso precipitarsi innanzi, si erano coraggiosamente lanciati in soccorso del pover’uomo. Vedendo però che non potevano giungere in tempo in causa della neve che non si era ancora indurita e che imprigionava i loro piedi, scaricarono le loro carabine, colla speranza di abbattere il formidabile avversario. La belva, toccata da qualche palla, infatti cadde, ma si rialzò prontamente. La sua pelliccia era macchiata di sangue un po’ sotto la spalla destra, ma forse quella ferita non era mortale, possedendo quei mostri dei ghiacci eterni una vitalità veramente prodigiosa, pari a quella degli orsi grigi delle Montagne Rocciose. Quel momento di sosta era bastato pel vecchio Tyndhall. Con un’agilità sorprendente pei suoi cinquant’anni, il gigante si era rialzato. Aveva lasciato nella neve il fucile, arma ormai inutile quanto un bastone, ma aveva impugnato il bowie-knife. Vedendo l’orso venirgli addosso, invece di attenderlo lo caricò con grande furia, a corpo perduto, puntandogli un ginocchio nel ventre per non farsi stritolare le ossa o soffocare fra la folta pelliccia, poi colla mano armata vibrò una coltellata così violenta che la lama intera si immerse. Quantunque nuovamente ferito, e forse mortalmente, la belva non cadde. Aveva strette le zampacce attorno all’avversario e cercava di soffocarlo con una potente stretta, mentre colle mascelle tentava di stritolargli il cranio; ma mastro Tyndhall non era alla sua prima lotta e mentre abbassava sempre più il capo, col ginocchio puntava con sovrumano vigore. – Tenete fermo, padrone! gridarono i marinai, che avevano impugnati i ramponi. – Non temete, rispose il mastro, che non abbandonava il manico del coltello. Cacciate un rampone nel corpo di questo vecchio birbone! Charchot, che già si trovava vicino, alzò la terribile arma, munita di un ferro di lancia in forma di V, ma coi margini interni assai grossi, e vibrò un colpo disperato. La lama scomparve tutta intera nel dorso dell’orso troncandogli la spina dorsale e vi rimase infissa. Quel colpo, vibrato con grande destrezza, era mortale. Tyndhall sentì la stretta allentarsi, poi vide il colosso piombare a terra, agitato da furiose convulsioni. – Al diavolo il vecchio dal pelo bianco! gridò il mastro. Ancora un poco e mi sgretolava il cranio come fosse un semplice biscotto. – Siete ferito, mastro? chiesero i marinai. – No, ma se Charchot tardava un po’, la mia grossa casacca di tela non mi avrebbe salvato dagli artigli di quel... Oh!... – Lampi!... – Corna di caribou!... – Alla barca!... Alla barca!... Quelle diverse grida erano state strappate dalla improvvisa comparsa di due altri orsi; una grande femmina ed un orsacchiotto, ma che era già abbastanza sviluppato ed in grado di far uso dei suoi denti e dei suoi artigli. Senza dubbio erano stati attirati dagli spari ed accorrevano, se non più per aiutare, almeno per vendicare il vecchio maschio. Prima ancora che il mastro ed i marinai potessero battere in ritirata, l’orsa, che pareva furiosa, si era gettata su di loro, emettendo rauche urla. Ai marinai mancava il tempo di ricaricare le armi e per fuggire era troppo tardi, poichè quelle belve dei ghiacci eterni, sebbene siano grosse e pesanti, corrono molto più rapidamente degli uomini. Bisognava accettare il combattimento o soccombere. – Coraggio, ragazzi! tuonò mastro Tyndhall, strappando un rampone a Grinnell. Io vi do l’esempio. E senza attendere i compagni assalì coraggiosamente l’orsa, mentre Charchot e Mac-Chanty si gettavano sull’orsacchiotto che accorreva in aiuto della madre, e Grinnell afferrava precipitosamente la scure che portava appesa alla cintola. I tre marinai rimasti a bordo della Shannon, vedendo i loro compagni in pericolo, s’affrettarono a balzare sul pack; e mentre uno di loro teneva la gomena per impedire che la barca si allontanasse, gli altri si slanciarono verso il luogo della lotta seguiti dal grosso cane di Terranuova. Intanto mastro Tyndhall, niente affatto spaventato dalle urla dell’orsa, tentava di colpirla mortalmente. Già le aveva vibrato un colpo in pieno petto producendole una larga ferita dalla quale sgorgava il sangue in grande copia, ma non era mortale. La belva balzava a destra ed a sinistra con rapidità sorprendente, sfuggendo ai colpi di rampone ed ai colpi di scure che Grinnell le vibrava. Ad un tratto il grosso cane di Terranuova entrò in campo abbaiando con furore. Senza badare al pericolo, balzò contro l’animale mordendolo ferocemente ai garretti. Mastro Tyndhall vedendo l’orsa curvarsi per difendersi da quel nuovo avversario, vibrò un ultimo e più tremendo colpo di rampone. L’arma acuta e tagliente, diretta da quel braccio formidabile, entrò più di mezza nella carne. Un colpo di scure di Grinnell, assestato sul cranio della fiera, bastò per completare la vittoria. L’orsacchiotto, vedendo cadere la madre, fuggì di galoppo verso un accatastamento di hummoks, scomparendo agli sguardi dei marinai. – Per centomila foche! tuonò il mastro. Speriamo che la sia finita con queste dannate bestiacce!... Presto, ragazzi, assicurate la gomena della Shannon. – È fatto, mastro, risposero i due marinai che erano accorsi in aiuto dei compagni. – I ghiacci urteranno la barca?... – No, mastro Tyndhall. Siamo perfettamente riparati e non corriamo alcun pericolo. – Allora possiamo gustare un po’ di riposo. – E dare un colpo di dente ad un arrosto d’orso, disse Charchot. Un po’ di carne fresca la desideravo davvero. – Ne abbiamo per tre settimane, mio bravo cacciatore. È una provvista preziosa guadagnata con poca fatica e che terrà lontano lo scorbuto. Mac-Chanty, tu che sei il più abile, puoi scuoiare le nostre due bestie. – Sì, mastro. – Tu, Grinnell; che vai pazzo per gli arrosti, t’incaricherai della cucina. Quando avremo mangiato discorreremo, amici miei. – Sul viaggio? chiesero i marinai, vivamente. – Sì, ragazzi. Vi dirò il motivo per cui vi ho guidati in mezzo ai ghiacci della baia di Baffin in una stagione così inoltrata, mentre tutte le altre navi fuggono ormai al sud a vele sciolte. – Era tempo, mastro, disse Charchot. Se continuavate a rimanere muto, come un pesce, io non vi avrei seguìto per molto tempo, diamine!... Salire verso il nord al principiare dell’inverno polare, è una pazzia. – Ma che il governo dell’Unione paga bene, rispose Tyndhall. Vi ho arruolati con una paga che nemmeno un capitano di corvetta può guadagnare. Vieni, Charchot. Intanto che i nostri compagni scorticano gli orsi, noi andremo a dare uno sguardo ai ghiacci della baia. Spero di trovare qualche passaggio libero verso l’ovest. Mastro Tyndhall ricaricò con grande cura il suo fucile onde trovarsi pronto nel caso che l’orsacchiotto cercasse di assalirlo e si diresse verso un altissimo ice-berg che si era incrostato al campo di ghiaccio. Charchot lo aveva seguito portando due ramponi, armi di difesa, ma anche validissime in una ascensione sulle montagne di ghiaccio. Giunti alla base dell'ice-berg, s’arrestarono alcuni istanti per cercare dei crepacci che permettessero a loro d’intraprendere la difficile salita e trovato una specie d’incavo che pareva fosse stato prodotto dalla fusione delle più alte cime del colosso, aiutandosi l’un l’altro e piantando profondamente i ramponi, cominciarono ad elevarsi lentamente. L’ascensione era faticosa e anche pericolosa su quei pendii così lisci e così sdrucciolevoli; ma quei due uomini ne avevano compite ben altre sulle coste del Labrador e su quelle della Terra di Baffin, e dopo mezz’ora riuscivano a raggiungere le più alte cime. Mastro Tyndhall gettò un lungo sguardo all’intorno, riparandosi gli occhi colle mani per vincere quella luce bianca, acciecante, prodotta dal rifrangersi della luce sui grandi campi di ghiaccio e che i naviganti delle regioni polari chiamano ice-blink. L’ampia baia di Baffin era quasi tutta coperta di packs, di streams, di ice-bergs e di hummoks che la corrente trascinava confusamente verso lo stretto di Davis e verso le coste occidentali della lontana Groenlandia. Qua e là però si vedevano degli spazi liberi e dei vasti canali, ma che ad ogni istante cambiavano dimensioni pel continuo agitarsi di quei bianchi figli del gelido polo. Nessuna nave, nessuna barca si vedevano navigare fra quegli spazi liberi e nemmeno alcuna costa si scorgeva sul fosco e ormai nebbioso orizzonte. Solamente pochi uccelli, dei gabbiani, qualche oca bernida e qualche procellaria volavano silenziosamente sui ghiacci, dirigendosi verso il sud. Mastro Tyndhall fissò l’acuto sguardo verso l’ovest, rimanendo immobile parecchi minuti. Pareva che in quella direzione cercasse di discernere qualche costa, che il nebbione aveva ormai reso invisibile. – Eppure non dobbiamo essere lontani, mormorò, crollando il capo. Poi volgendosi verso il compagno, gli chiese: – Charchot, vedi nessuna terra verso l’ovest? – Non vedo che nebbia e ghiacci, rispose il marinaio, dopo d’aver guardato con grande attenzione. – Allora abbiamo camminato come i granchi o poco meno, disse il mastro. Sono già due buone settimane che abbiamo lasciata Discko. – Quindici giorni precisi, mastro. – Mi sembra strano che non si possa ancora vedere la costa di Cumberland. – Ma ditemi, mastro, dove andiamo noi? Sono quindici giorni che ve lo domandiamo senza che vi si possa strappare una risposta. – Oggi ve lo dirò. – Finalmente!... Comprenderete, mastro, che avventurarsi agli ultimi di settembre fra i ghiacci del polo, in così piccolo numero, su di una barca solida sì, ma sempre troppo piccola per un lungo svernamento, e senza sapere dove si vada, non è una grande bella cosa. Ci avete arruolati con delle paghe straordinarie, è vero, ma ci va di mezzo la pelle. – È vero, rispose il mastro, sorridendo, ma ti ho detto che oggi parlerò. – E saremo ben lieti. Voi sapete che noi siamo uomini da seguirvi anche al polo. – Lo vedremo, Charchot. – Diavolo! esclamò il marinaio. Ho detto di seguirvi fino al polo, ma spero che non avrete l’idea di condurci fino là. – No, ma ben lontani di certo, ed è per la tema di un rifiuto da parte vostra che finora non ho parlato. Andiamo a far colazione, amico Charchot, e fra due bottiglie di gin e di whisky apprenderai lo scopo del nostro viaggio. CAPITOLO III. La scomparsa del “Polaris„ Quando giunsero sull’orlo del pack, trovarono i loro compagni a bordo della Shannon, occupati ad arrostire un zampone d’orso, il quale spandeva all’intorno un profumo appetitoso. I due animalacci erano stati già fatti a pezzi ed i loro quarti sanguinanti, appesi alle griselle, cominciavano già a gelare sotto i soffi freddissimi del vento polare, mentre le loro grandi pellicce, bagnate e salate, ornavano la murata di tribordo. Mastro Tyndhall accertatosi che la gomena era stata legata solidamente e che il piccolo veliero non correva alcun pericolo, essendo riparato da ambe le parti da due lunghi promontori di ghiaccio, salì a bordo dicendo: – Siamo pronti? – L’arrosto è cucinato a puntino, rispose Grinnell. Non si aspettava che voi. – Allora, Charchot, puoi scendere nella dispensa e prendere un paio di bottiglie di gin. Un buon sorso farà bene, con questo freddo cane. – Che lusso, mastro Tyndhall! esclamarono i marinai, messi in buon umore da quell’ordine. – Ve le siete meritate quelle due bottiglie, ragazzi miei, e poi abbiamo da discorrere e quando si chiacchiera bisogna bagnare la lingua. – Ben detto, mastro. Si parla meglio e la lingua si sgela. I sei marinai ed il mastro, senza occuparsi dei ghiacci che si fracassavano vicendevolmente con interminabili fragori, con cupi boati o con mille scricchiolii, nè del vento polare che tagliava gli orecchi, nè del freddo acuto, s’accomodarono sul cassero dinanzi al fumante arrosto, divorando con una voracità da pescicani e come uomini che non sono certi di poter fare all’indomani un nuovo pasto. Mastro Tyndhall dava l’esempio, ma pur lavorando di mascelle, non perdeva di vista i ghiacci e soprattutto il nebbione che si avanzava nel mezzo della baia di Baffin, oscurando la pallida luce del sole ed i riflessi scintillanti dell’ice-blink. Pareva anzi che le sue inquietudini aumentassero, poichè crollava di quando in quando il capo e tra un boccone e l’altro borbottava. Sturate le due bottiglie, ingollò tutto d’un fiato una grande tazza, come se quell’ardente liquore fosse semplice acqua, poi caricò flemmaticamente una grande pipa annerita, l’accese, e accomodandosi meglio che potè fra un mucchio di cordami, disse: – Con questo nebbione non potremo lasciare questo pack protettore: possiamo quindi chiacchierare a nostro agio. – Stavo per invitarvi ad aprire il becco, mastro, disse Charchot. La lingua è bagnata e comincia a scaldarsi. – Ditemi, nessuno di voi ha indovinato lo scopo della spedizione? – No, mastro Tyndhall, risposero tutti. – Nessuno vi ha detto nulla a Discko? – Nulla. – Avete udito parlare del Polaris? – Comandato dal capitano Hall? chiese Mac-Chanty. Io so che è partito l’anno scorso per le regioni polari, ma niente di più. – Anch’io ho udito parlare di quella spedizione, disse Grinnell. A Terranuova, sul grande banco, si diceva che quella nave era andata al nord della Groenlandia. – Ma cosa c’entra il Polaris con noi cacciatori di foche della baia di Baffin? chiese Charchot. – Ora lo saprai, disse Tyndhall. Vuotò un altro bicchiere, gettò in aria un buffo di fumo, poi riprese: – Giacchè non sapete dove andava il Polaris e cosa sia accaduto dei superstiti ed il motivo per cui noi siamo venuti qui, vi racconterò tutto. Sappiate adunque che il Polaris, comandato dal capitano Hall, uno dei più valenti marinai, già pratico delle regioni polari, era salpato da Brooklyn l’anno scorso verso la fine del giugno. Hall voleva tentare di giungere al polo seguendo la costa occidentale della Groenlandia, passando per lo stretto di Smith. La fortuna arrideva a quei valenti marinai, poichè si seppe più tardi che il Polaris era riuscito a superare, di cinquanta leghe, le più alte latitudini fino allora toccate dalle navi che lo avevano preceduto in quelle deserte regioni del gelo. A quanto si è potuto sapere dai superstiti della spedizione, aveva raggiunta una vasta baia che fu poi chiamata Polaris e più oltre un canale chiamato di Robeson, in direzione diretta del polo. L’inverno polare costrinse quei valorosi a retrocedere, per svernare nella baia prima scoperta. Sembra che non soffrissero molto durante la lunga notte polare, ma ai primi sgeli il capitano Hall, in causa dei lunghi disagi sopportati durante le esplorazioni in slitta, cessava di vivere. Nell’agosto del 1872 il Polaris, liberato dai ghiacci che lo stringevano, tenta il ritorno, ma aveva già sofferto gravi avarie. Il 15 ottobre una montagna di ghiaccio lo urta, la carena cede e l’acqua entra invadendo le cabine. Si tenta il salvataggio prima che la nave affondi. Il luogotenente Tyson sbarca su di un campo di ghiaccio assieme a otto marinai e nove esquimesi, fra i quali due donne e cinque fanciulli. Mentre cercano di mettere in salvo i viveri, la nave, che le onde investivano, spezza le funi e si allontana trascinata dall’uragano, prima ancora che i marinai rimasti a bordo potessero mettersi in salvo. Il Polaris, spinto dal vento e dalle ondate, fuggiva verso il nord-ovest. – Ma non affondava ancora? chiesero i marinai, che ascoltavano con viva curiosità, senza perdere una sillaba. – Pare che l’avaria fosse meno grave di quello che si credeva, poichè il Polaris fu riveduto a navigare. Ma lasciamo ora la nave e occupiamoci del luogotenente Tyson e dei suoi compagni. Come vi dissi erano in diciotto; vi erano due donne e cinque fanciulli, anzi uno era lattante, poichè era nato a bordo del Polaris durante lo svernamento. «Avevano salvate due scialuppe, ma che erano ridotte in cattivo stato, undici sacchi di pane, quattordici scatole di pemmican, dodici scatole di carne conservata, quattordici prosciutti, venti libbre di zucchero mescolato con cioccolato e alcuni pomi di terra. Tyson non si perde d’animo. Rincuora i suoi compagni di sventura e cerca di mettere in acqua le scialuppe per raggiungere un campo di ghiaccio più grande, ma non vi riesce in causa del mare che era assai cattivo. L’indomani riappare il Polaris: navigava a vele spiegate verso il nord-ovest. Tyson ed i suoi compagni, in preda ad una gioia indescrivibile, mandano grida di gioia, sparano colpi di fucile, fanno segnali, ma invano. L’equipaggio della nave non li aveva scorti, nè uditi, ed il Polaris per la seconda volta scomparve agli occhi di quei disgraziati. Ahimè!... Non dovevano più rivederlo! Ed ecco che comincia l’odissea di quei diciotto uomini, perduti fra i ghiacci della baia di Baffin. Le correnti trascinavano il banco verso il sud, allontanandolo però sempre più dalle coste groenlandesi. Incontrando acque meno fredde, a poco a poco si scioglieva, minacciando di subissare coloro che lo montavano. Per maggior sventura i viveri scemavano rapidamente ed i marinai più non obbedivano a Tyson. Parlavano nientemeno che di mangiare gli esquimesi e prima di tutti il bambino nato a bordo del Polaris. – Corna di caribou!... esclamò Charchot, rabbrividendo. Ecco una storia che fa venire la pelle d’oca! – Gli esquimesi invece, proseguì mastro Tyndhall, si facevano in venti per aiutare gli uomini bianchi e cacciavano giorno e notte, spiando le foche e assalendo gli orsi bianchi con coraggio disperato. Un giorno, i naufraghi, vedendo il loro banco impicciolire sempre più, riuscirono a passare su di un altro, ma perdendo parte delle loro provviste e perfino le armi da fuoco. Su quel nuovo banco continuarono la discesa verso il sud, fra mille sofferenze e sempre alle prese colla fame. Il 29 aprile una nave fu scorta. Fecero segnali, gridarono, ma non furono veduti. Ormai avevano perduto ogni speranza e si erano rassegnati a morire, quando ne videro un’altra. Era la Tigresse, comandata dal capitano Bartlett e quei poveri marinai, dopo essere rimasti centonovantasette giorni prigionieri sui due banchi, vennero salvati e condotti a San Giovanni di Terranuova. – Tutti? chiesero i marinai. – Tutti, rispose mastro Tyndhall. – Ecco degli uomini fortunati, disse Grinnell. – Ma il Polaris? chiese Charchot. Si è salvato od è andato a picco?... – Ecco quello che noi cercheremo di chiarire, rispose Tyndhall. – Noi! esclamarono i marinai, con stupore. – Noi, ragazzi miei. Il governo dell’Unione, impressionato della mancanza di notizie del Polaris, appena fu informato dell’odissea del luogotenente Tyson e dei suoi compagni, ha fatto appello ai cacciatori di foche della baia di Baffin per fare delle ricerche verso le coste di Baffin, la penisola di Cumberland e nello stretto di Lancaster, non badando a spese. Il governatore danese di Discko ci ha chiamati tutti per cercare d’indurci a partire, ma nessun mastro ha voluto accettare, essendo ormai la stagione troppo avanzata per avventurarsi attraverso i banchi di ghiaccio della baia. – E voi invece avete accettato? chiesero i marinai. – Sì, ma temendo di non trovare dei compagni per un viaggio così pericoloso, ho creduto bene di tacervi fino ad oggi lo scopo della nostra corsa attraverso la baia. Scommetterei che non mi avreste seguìto. – È probabile, disse Charchot, quantunque vi fosse triplice paga. Questa è una stagione tutt’altro che propizia per tentare delle ricerche. – Ma spero che ora non avrete l’intenzione di far ritorno a Discko. – Sarebbe troppo tardi ormai, risposero i marinai. – E poi, aggiunse Mac-Chanty, abbiamo promesso di seguirvi e vi terremo compagnia fin dove vorrete condurci. Se gli altri hanno avuto paura, noi mostreremo al governo dell’Unione che vi sono dei cacciatori di foche che non temono di affrontare, anche in pieno inverno, i ghiacci della baia di Baffin. – Bravo Mac-Chanty! esclamarono in coro i marinai. – Grazie, miei valorosi, disse mastro Tyndhall. Noi mostreremo come i cacciatori della baia di Baffin abbiano del buon sangue nelle vene e del buon cuore. Con voi sono certo dell’impresa. – Una parola, mastro, disse Charchot. – Parla. – Ma si sa dove abbia naufragato il Polaris? – Ecco: il governatore di Discko mi ha detto che si crede sia andato a naufragare nello stretto di Lancaster o sulle coste settentrionali della Terra di Baffin o su quelle del Devon settentrionale. – Ma da cosa lo si arguisce? Ne sapeva nulla il luogotenente Tyson? – No, ma un baleniere che ha approdato a Upernawick, ventisei giorni or sono, ha avvertito di aver incontrato, durante una furiosa bufera, una nave disalberata dinanzi allo stretto di Lancaster e che rassomigliava al Polaris. Dunque noi dirigeremo le nostre ricerche verso quel canale. – Avete speranza di raccogliere i naufraghi? – Se non i superstiti, almeno delle reliquie della nave. A me bastano per guadagnare il premio vistoso promesso dal governo dell’Unione, ma faremo delle attive ricerche, nè lascieremo quelle terre senza aver prima la certezza della morte dell’intero equipaggio. La stagione è molto avanzata, poichè siamo ormai alla metà di settembre e fra non molto tutta la baia sarà gelata, ma spero di giungere allo stretto prima della discesa dei grandi banchi e di trovare un luogo acconcio per svernare. La nostra barca non è grande, ma non manca di nulla; i viveri sono abbondanti, il carbone per le stufe occupa buona parte della stiva, non mancano nemmeno delle slitte per le esplorazioni, adatte al nostro cane. Ho pensato a tutto e non avremo da soffrire durante la lunga notte polare. – Quanto credete che distiamo dalla Terra di Baffin? chiese Charchot. – Domani spero di avvistarla. – Ripartiamo? – Non vale la pena di abbandonare ora questo banco, che ci protegge così bene. Il nebbione si avanza di galoppo e fra un’ora avrà coperta tutta la baia ed il vento cresce di violenza minacciando di sconvolgere i ghiacci. La notte si prepara brutta e faremo bene a legare solidamente la Shannon. Se domani il tempo sarà buono, ci apriremo il passo attraverso la baia ed i ghiacci. Orsù, amici miei, prepariamo altre gomene e le àncore. CAPITOLO IV. La baia di Baffin. Mastro Tyndhall aveva troppa pratica di quelle regioni per ingannarsi. La baia di Baffin stava per diventare assai pericolosa e si preparava una vera cattiva notte. Il denso nebbione, che fino dal mattino si era addensato all’uscita dello stretto di Smith e di quello di Jones, s’avanzava rapidamente verso le regioni meridionali, oscurando la pallida luce del sole. Scendeva a ondate, alzandosi ed abbassandosi burrascosamente come un immenso telone grigiastro sbattuto dal vento, ma che ora si lacerava ed ora si riuniva con fantastica rapidità. Le cupe acque della baia, che parevano fossero diventate più oscure fra le linee scintillanti dei ghiacci, si alzavano in lunghe ondate sotto i primi soffi della gelida tramontana, scuotendo gli ice-bergs, gli streams, i packs e gli hummoks, i quali si urtavano confusamente con sorde detonazioni e con mille scricchiolìi. Si vedevano delle montagne candide perdere bruscamente l’equilibrio e strapiombare nelle onde con muggiti spaventevoli, sollevando numerosi sprazzi di spuma e poi risorgere bruscamente, con un salto repentino, mostrando altre creste ed altre punte; poi delle colonne di dimensioni enormi, delle torri colossali cappeggiare un istante e quindi capitombolare, con mille boati, sui vicini campi di ghiaccio che s’aprivano sotto quegli urti irresistibili; o frantumare delle intere flottiglie di ghiacci minori o dei ghiaccioni che avevano l’apparenza di castelli smantellati irti di bastioni strani, di cupole, di arcate, di punte, di guglie, sfasciarsi improvvisamente come sotto una brusca, potente, irresistibile scossa di terremoto. Mastro Tyndhall ed i suoi sei marinai si erano affrettati ad assicurare la Shannon al grande banco con due altre gomene, le cui àncore erano state profondamente infisse nelle spaccature del ghiaccio. Trovandosi in una specie di piccolo fiord difeso da due bastioni di ghiaccio, formati da colossali ice-bergs, solidamente cementati fra di loro e completamente al riparo dai furiosi soffi della gelida tramontana, pel momento non correvano pericolo alcuno, ma vi era da temere che il vento cangiasse bruscamente, girando al sud e che accumulandosi i ghiacci galleggianti dinanzi a quella specie di porticino, restasse imprigionata la barca. Alle sette il nebbione era piombato sulla baia, avvolgendo il mare, i ghiacci, la Shannon ed il banco che la proteggeva. Era così fitto, che dalla poppa della grossa barca, non si potevano distinguere gli uomini che si trovavano a prua. – Brutta notte se agli orsi bianchi saltasse il ticchio di arrampicarsi sulla Shannon, disse il mastro. Ragazzi miei, bisogna vegliare attentamente. – Terremo gli occhi ben aperti, mastro, rispose Mac-Chanty. – A chi tocca il primo quarto? – A me ed a Grinnell. – Allora buona notte e buona guardia e se succede qualche cosa, venite ad avvertirmi senza perdere tempo. Non dimenticate di caricare i fucili. I due marinai, rimasti soli, si collocarono uno a prora e l’altro a poppa della piccola nave, tendendo gli orecchi ai fragori delle onde ed ai tonfi ed alle detonazioni dei ghiacci e fissando gli sguardi sul vicino banco per non venire sorpresi dagli orsi bianchi. Sapendo che l’orsacchiotto era fuggito, temevano che si fosse unito ad altri compagni e non ignorando che quegli animalacci, che sono sempre affamati, approfittano sovente dei fitti nebbioni per assalire non solo le scialuppe, ma perfino le navi ancorate presso i banchi, si tenevano in guardia. Fortunatamente il loro quarto passò senza che nulla di grave accadesse, nè che i loro timori si avverassero. Alle undici, quando era maggiore l’oscurità e più acuto il freddo, furono surrogati da Charchot e dal marinaio Thorn. – Nulla? chiesero questi, stringendosi addosso i pesanti capotti di pelle di foca. – No: buona guardia, risposero Mac-Chanty e Grinnell, scomparendo frettolosamente nella camera di prora, dove già ardeva una stufa di ferro. Charchot ed il suo compagno esaminarono come meglio poterono il piccolo fiord e trovatolo ancora sgombro di ghiacci, si accoccolarono intorno all’albero maestro, al riparo dalla grande antenna che era stata ammainata in coperta. Era già trascorsa un’ora, quando fra i sibili del vento e fra le detonazioni e gli scroscii dei ghiacci, credettero di udire, in direzione del banco, una specie di ruggito. – Oh! esclamò Charchot, alzandosi sollecitamente e afferrando il fucile che teneva appoggiato all’albero. Hai udito, Thorn? – Sì, Charchot, rispose il marinaio. – Che vi siano degli orsi sul banco? – Andiamo a vedere. Non bisogna lasciarli salire a bordo. Afferrati i fucili, si accostarono silenziosamente alla murata di tribordo che prospettava sul pack e guardarono giù. L’oscurità era profonda, pure attraverso alla nebbia che il vento talora diradava, scorsero a pochi metri dal margine esterno, una massa informe che pareva cercasse di avvicinarsi alla Shannon. – Corna di caribou! esclamò Charchot. Che sia proprio un orso o qualche altro animale, io non lo so, ma penso che sarà prudenza mandargli una palla. – È vero, Charchot, rispose Thorn. Tanto più che quell’animale è grosso assai, e che manovra in modo da accostare la Shannon. – Mira giusto!... Fuoco!... I due spari rimbombarono, formando una sola detonazione. L’animale, colpito di certo, fu veduto alzarsi bruscamente, poi ricadere, quindi rimettersi in equilibrio, poi stramazzare di nuovo e scomparire fra la nebbia che tornava ad addensarsi sul banco. – Cosa succede?... chiese una voce che usciva dalla camera di prua. – Abbiamo ammazzato un animale che si accostava alla barca, mastro, rispose Charchot. Tornate nella vostra camera e dormite tranquillo. – Era un orso? – La nebbia è troppo fitta per saperlo. Andremo a cercarlo domani. Mastro Tyndhall non ne volle sapere di più pel momento e sapendo che i suoi uomini erano più che coraggiosi e tali da non lasciarsi sorprendere, riguadagnò la sua amaca, riaddormentandosi tranquillamente. Nessun altro animale comparve sui margini del pack durante il resto della notte, e gli uomini di guardia poterono tenersi rannicchiati dietro le murate, al riparo dai soffi freddissimi del vento polare. Al mattino, verso le 9, essendosi un po’ diradata la nebbia, mastro Tyndhall ed i suoi uomini scesero sul pack per vedere quale animale era stato ucciso durante la notte ed a trenta passi dalla barca, coricato fra la neve, trovarono un grosso tricheco immerso in un lago di sangue. Le palle di Charchot e di Thorn l’avevano colpito nel cranio, attraversandogli la materia cerebrale. Quell’animale era di dimensioni non comuni, poichè aveva una circonferenza di tre metri e una lunghezza di quattro. Aveva la forma di una foca, ma era più massiccio, più robusto. Il corpo di questi abitanti delle regioni polari è coperto d’un pelo corto, di colore rossiccio, piuttosto scarso; il loro muso è sporgente nella parte superiore ed armato di due denti che scendono verticalmente, lunghi sessanta e persino settanta centimetri, solidissimi, essendo d’avorio più duro e più compatto di quello degli elefanti e anche molto più bianco e che mai ingiallisce. Sono abilissimi nuotatori, ma a terra si trascinano penosamente, essendo provvisti solamente di pinne informi che male servono come gambe. Non lasciano mai le regioni fredde, trovando anche là numerosi granchi e molluschi che servono a loro di cibo; essi sono ordinariamente di temperamento tranquillo, ma assaliti diventano furiosi e non di rado rovesciarono le scialuppe dei cacciatori uccidendo, a colpi di zanne, i loro persecutori. Anni addietro erano numerosissimi, anzi si narra che un baleniere inglese riuscì ad ammazzarne ben ottocento in sole sei ore ed un altro novecento in sette ore, ma ora cominciano a scarseggiare in causa delle cacce accanite che fanno a loro i cacciatori ed i pescatori, per impadronirsi delle zanne che hanno molto valore e per ricavare l’olio che è migliore di quello che si ottiene colla fusione del grasso delle balene. Mastro Tyndhall fu molto lieto di quella cattura, poichè era certo di ricavare una notevole quantità di olio per le lampade di bordo e anche per la stufa. Lasciò i suoi uomini occupati a fare a pezzi il tricheco per impadronirsi della grascia, dei denti e del fegato, la sola parte mangiabile essendo la carne oleosa e di cattivo sapore, e si spinse verso l’uscita del fiord per osservare lo stato dei ghiacci. L’estremità formata dalle barriere degli ice-bergs era sgombra, ma al di là si vedevano navigare ghiaccioni di tutte le dimensioni, che il vento del nord spingeva verso lo stretto di Davis. – Bah!... Passeremo lavorando a colpi di sperone, mormorò il mastro. Essendosi, verso l’ovest, alzata la nebbia, prese il cannocchiale che portava a bandoliera e lo puntò in quella direzione, guardando a lungo e con estrema cura. Quantunque l’orizzonte non fosse ancora perfettamente limpido, gli sembrò di scorgere un profilo, leggiero come una sfumatura. – La Terra di Baffin! esclamò, con voce gioconda. Se non troviamo molti ostacoli, domani sera potremo ancorarci in qualche comodo fiord o presso le isole della baia di Home. I ghiacci ordinariamente si tengono al largo dalle coste, lasciando dei canali abbastanza ampi per poter veleggiare... dunque speriamo. Quando ritornò a bordo, i suoi compagni avevano già imbarcata la grascia del tricheco e stavano spiegando le due grandi vele ed i fiocchi del bompresso. Le áncore e le gòmene erano state già ritirate. – Partiamo, mastro? chiesero. – Sì, il passo è sgombro, rispose Tyndhall, mettendosi alla barra. Quattro uomini a prora coi buttafuori per respingere i ghiacci e due alle vele. La Shannon, spinta da un vento piuttosto forte che gonfiava le due grandi vele, si staccò dal pack e filando fra le due barriere dei ghiacci, uscì da quella specie di fiord, con una velocità di cinque nodi all’ora. Dinanzi a quel canale si erano raggruppati parecchi hummoks e parecchi streams, ma la Shannon, che era provvista d’uno sperone ad angolo retto di vero acciaio, non ebbe difficoltà a frantumarli passandovi sopra. Al di là di quei primi ghiacci, se ne vedevano altri di mole gigantesca, dei veri ice-bergs che cappeggiavano pericolosamente e che da un istante all’altro potevano perdere l’equilibrio e piombare sulla barca, fracassandola come una nocciuola. – Mure a babordo!... comandò mastro Tyndhall, cacciando la barra all’orza. Su, voi altri, in mano i buttafuori!... La lotta ricominciava. I quattro marinai di prora allungavano le loro aste ferrate, respingendo furiosamente quei pericolosi galleggianti che potevano guastare le costole della Shannon. Fortunatamente fra quei ghiacci vi erano dei canali abbastanza vasti, entro i quali avrebbe potuto navigare comodamente anche un antico treponti e mastro Tyndhall ne approfittava per risparmiare le forze dei suoi uomini. La Shannon, guidata dalle braccia di ferro del valente marinaio, si cacciava audacemente attraverso a quelle squarciature, scivolava lungo i banchi, virando agilmente di bordo per evitare le sporgenze, s’inoltrava nei canali con piena sicurezza e passava arditamente sotto i giganteschi ice-bergs quasi li volesse sfidare. Vi erano certi momenti che i marinai rabbrividivano vedendo le estremità delle antenne quasi urtare le alte masse di ghiaccio e abbandonavano i buttafuori, credendo di vedersi precipitare addosso qualcuna di quelle montagne oscillanti, del peso di parecchie migliaia di tonnellate, ma mastro Tyndhall non batteva ciglia e lanciava sempre innanzi, con una intrepidità che rasentava la pazzia, la sua piccola sì, ma valorosa barca. Fortunatamente il mare si era calmato e lasciava ai ghiacci una certa stabilità. Solamente di quando in quando, qualche colonna gigantesca male equilibrata o qualche montagna la cui base doveva essere stata rôsa dall’acqua che non era ancora gelida, capitombolavano bruscamente, sollevando delle gigantesche ondate che correvano ad infrangersi, con paurosi muggiti, contro i banchi e che provocavano altre cadute ben più pericolose, essendo più improvvise. Anche la nebbia si diradava rapidamente, lasciando trapelare i primi raggi dell’astro diurno, i quali si rifrangevano su quei massi candidi, facendoli scintillare come se fossero di cristallo di rocca. Gli uccelli polari, rinvigoriti da quei primi tiepori, si affrettavano a riprendere i loro voli. Passavano e ripassavano, in grandi bande, sopra la Shannon, salutando allegramente i marinai. Erano stormi di labbi, uccelli dal volo potente e rapidissimo, armati d’un becco robusto, nemici accaniti dei gabbiani ai quali rubano il cibo pescato, percuotendoli a colpi d’ala fino a stordirli; lunghe file di strolaghe quasi tutte nere, di gazze marine grosse come oche, di urie, di eiders dalle soffici e preziose penne, di piccoli auk, di urie nere, borgomastri (larus glaucus) e di plectrophanes nivales. Anche qualche foca si vedeva sdraiata sui margini dei packs, riscaldandosi ai raggi del sole, pronta però a tuffarsi al primo indizio di pericolo, mentre fra i canali si vedevano guizzare ed emergere bruscamente delle coppie di delfini gladiatori, grossi pesci che raggiungono sovente una lunghezza di otto metri, dotati di una forza prodigiosa e di una voracità incredibile. Per tre ore la Shannon si aprì faticosamente il passo attraverso i ghiacci, ma verso le dieci si trovò dinanzi a quattro o cinque banchi che dovevano avere un’estensione di parecchie miglia. Quasi nel medesimo istante, gli sguardi di mastro Tyndhall scoprivano le spiagge della Terra di Baffin. CAPITOLO V. Una lotta mostruosa. Era impossibile forzare il passaggio in quella direzione. Nessuna nave, per quanto fosse potente e armata del più formidabile sperone, avrebbe potuto assalire quei banchi che dovevano avere uno spessore enorme. Solamente la dinamite sarebbe riuscita a squarciarli, ma non certo a distruggerli tutti. Mastro Tyndhall, vivamente contrariato da quegli ostacoli che si frapponevano fra la sua piccola nave e la costa che era ormai così vicina, si sfogava in sorde imprecazioni. Era salito sulle griselle e di là spaziava i suoi sguardi su quei vasti campi irradianti una vivida luce biancastra che faceva male agli occhi e cercava di scoprire un canale che gli permettesse di lanciare innanzi la Shannon. – Siamo adunque proprio fermati, mastro? chiese Charchot. – Lo temo!... Questi dannati banchi sono così uniti, che pare siano stati spinti appositamente gli uni contro gli altri per sbarrare il passo. – Ma non c’è nemmeno un canale? – Ma... forse... chissà!... Vedo laggiù un’apertura, ma non posso distinguere se si prolunga attraverso ai banchi o se si arresta subito. – Può passarvi la Shannon? – Mi pare che sia abbastanza larga. – Allora andiamoci. – E se il canale più innanzi fosse chiuso? – Ma qualche ice-berg può tagliarci la ritirata e resteremo presi in trappola. Non è ancora il tempo di lasciarci prendere e il nostro campo di svernamento è lontano ancora. – E volete rimanere qui in eterno? Al nord ed al sud dei banchi si scorgono delle centinaia di ice-bergs e spero che non avrete l’intenzione di tentare il passaggio fra quelle pericolose montagne galleggianti. – No, Charchot. Verremmo di certo schiacciati. – Cosa decidete adunque? – Di andare a esplorare il canale. Vedo dinanzi a noi un bacino aperto nel banco e che mi sembra riparato. Andiamo ad ancorarci laggiù, poi metteremo in acqua la baleniera. La Shannon si avvicinò prudentemente al banco per tema di urtare contro qualche punta di ghiaccio subacquea, e si ormeggiò dinanzi ad un ice-berg che dovevasi essere saldato al pack da molto tempo, forse da qualche anno. Ammainate le vele, i marinai calarono in mare la baleniera, una svelta imbarcazione, leggera ma solida, per poter trascinarla, all’occorrenza, attraverso ai ghiacci e che portava un piccolo alberetto smontabile e una piccola randa. Mastro Tyndhall e cinque marinai vi presero posto, lasciando a bordo della Shannon solamente Mac-Chanty, non essendovi, pel momento, alcun pericolo in vista. – Animo, ragazzi disse il mastro. Vogate lungo e forza di braccia. Bisogna far presto o il canale può venire chiuso prima d’aver terminata l’esplorazione. Avanti!... La baleniera partì guizzando agilmente sulle onde, costeggiando l’immenso banco. Le sponde di quel colosso polare erano tutt’altro che lisce: portavano le tracce degli sforzi poderosi fatti per aprirsi il passo attraverso lo stretto di Smith e delle terribili battaglie sostenute contro gli urti immani degli ice-bergs. Qua e là aveva delle fenditure profonde cosparse di ghiacciuoli, frammenti di chissà quali altri banchi o di quali montagne galleggianti; più oltre i margini erano diroccati come se avesse subìta una pressione irresistibile e si vedevano, dispersi confusamente, pezzi di colonne, di guglie, di arcate, di cupole, poi altre fenditure, poi altre rovine, ma il grande banco si estendeva infinitamente, saldo ancora, potente, inattaccabile e procedeva verso il sud sgominando sul suo passaggio tutti gli ostacoli, tutto travolgendo colla sua massa enorme. Quindici minuti dopo, la baleniera giungeva dinanzi al canale prima scoperto dal mastro. Era una profonda insenatura che si allungava attraverso il pack con lunghi serpeggiamenti e che pareva si estendesse per molte miglia. Proprio dinanzi a quella specie di fiord, galleggiava uno smisurato ice-berg, irto di punte, di guglie, di creste merlate, di torricelle e sotto s’apriva una vôlta immensa, sotto la quale avrebbe potuto passare comodamente anche la Shannon. Quel ghiaccione aveva tutta l’apparenza di un castello galleggiante. – È la porta del canale disse Charchot. È ben difesa, a quanto pare, questa spaccatura. Che ci siano degli alabardieri dietro quei merli o in quelle torricelle? Speriamo che non ci neghino l’ingresso. – O che sia il castello degli orsi? disse Thorn. – Che brutta guarnigione!... – Eccellente, messa allo spiedo. – Zitti, per Bacco! disse Tyndhall. Non bisogna svegliare i guardiani! Potrebbero farci piombare addosso qualche merlo o qualche guglia. – Armate il fucile, mastro dissero i marinai ridendo. – È già pronto, rispose Tyndhall. Avanti, ragazzi, e state attenti alle teste. La baleniera passò rapidamente sotto quel bizzarro castello galleggiante, senza che dalla grande arcata si staccasse alcun frammento. Il canale aveva una larghezza di ottanta a cento metri ed era sgombro di ghiacci, ma pareva che l’acqua non dovesse tardare a diventare solida, poichè era cosparsa di piccoli frammenti. Sulle due sponde non si vedevano animali d’alcuna specie; solamente poche gazze marine schierate sulle creste come tanti soldatini e perfettamente immobili guardavano malinconicamente la baleniera e, contrariamente alla loro indole chiassosa, non aprivano i becchi. Mastro Tyndhall, in piedi sul banco di poppa, spingeva lo sguardo più lontano che poteva, cercando di vedere fin dove si estendeva quella grande squarciatura, ma non riusciva a vederne la fine, poichè il canale continuava a serpeggiare ed il banco era interrotto da alte barriere di ghiacci. Ad un tratto, quando la baleniera si era internata già d’un paio di miglia, credette di udire in lontananza come una nota acuta, che aveva qualche cosa di metallico. – Alto!... comandò. – Cosa succede? chiese Charchot, mentre i suoi compagni alzavano rapidamente i remi, lasciando che la baleniera si avanzasse pel solo impulso ricevuto. – Ascoltate! L’istessa nota metallica echeggiò bruscamente, ma più potente e più distinta. Pareva che uscisse da una immensa tromba di bronzo o di rame ed aveva avuto la durata di otto o dieci secondi. – L’urlo d’una balena in furore! esclamarono i marinai. – Sì confermò mastro Tyndhall. – Che vi sia qualche nave baleniera laggiù? chiese Charchot. – È impossibile rispose Tyndhall. Le navi baleniere hanno lasciata la baia di Baffin da due buoni mesi. – Ma questa è la nota che lancia quando ha ricevuto il colpo di rampone. – Lo so; ma dico che i balenieri non vi sono più. – Che sia stata ferita da qualche ice-berg piombatole addosso? disse Grinnell. – Lo sapremo presto: avanti ragazzi. I cinque remi si tuffarono con ammirabile accordo e la baleniera continuò la corsa attraverso il canale. Le note formidabili della balena echeggiavano sempre e di tratto in tratto si vedevano alzarsi, a circa un chilometro di distanza, due getti di vapore biancastro, spesso, i quali si disperdevano dopo d’aver formato una specie di V gigantesco. Qualche tremendo dramma doveva avvenire all’estremità del canale. O qualche montagna di ghiaccio era piombata improvvisamente sulla balena fracassandole forse la spina dorsale o qualche nemico formidabile assaliva il più colossale mostro della creazione. I marinai, che erano in preda ad una vivissima curiosità, arrancavano con crescente lena e mastro Tyndhall si alzava più che poteva, per cercare di distinguere la balena, ma il canale era sempre tortuoso ed i ghiacci avevano margini alti assai. Dovevano però essere vicini al teatro della lotta o della disgrazia, poichè le note metalliche echeggiavano a breve distanza e nel canale si precipitavano delle ondate furiose, irte di candida spuma. – Adagio! gridò Tyndhall, respingendo la barra a tribordo, per evitare un’onda che minacciava di prendere la baleniera di traverso. Il canale faceva un brusco gomito e al di là si vedeva un vasto bacino, un wacke come i balenieri chiamano i bacini rinchiusi fra i ghiacci, il quale era separato dal mare da un’istmo di ghiaccio largo appena trenta o quaranta metri. In mezzo a quel bacino, che aveva una circonferenza di mezzo chilometro, si dibatteva furiosamente una balena franca, uno dei più enormi cetacei che si trovano in mare. Quel mostro era lungo non meno di venti metri e doveva pesare, a guardarlo dalle forme, sessanta o settanta tonnellate. Questi cetacei, che sono così rapidi, malgrado la loro mole, da fare il giro del mondo in soli quarantasette giorni seguendo l’equatore e da andare da un polo all’altro in ventiquattro, hanno la forma d’un immenso cilindro irregolare, che termina in una testaccia, il cui volume eguaglia il quarto e qualche volta anche il terzo dell’intera massa. Le loro pinne pettorali hanno una lunghezza di tre metri e una larghezza di due e la loro coda, che è di forma conica, formata di muscoli d’una robustezza eccezionale, termina in una grande pinna triangolare larga non meno di sei metri, e dotata di tale potenza da sfondare, con un solo colpo, anche i fianchi d’una grande nave. La bocca poi è un’apertura enorme, capace di contenere due uomini l’uno sull’altro, essendo alta ben quattro metri e lunga tre. È priva però di denti e solamente la mascella superiore è fornita di settecento laminette lunghe quattro e più metri, nere o variegate, curvate come la lama d’una falce e sono precisamente quelle che dànno le così dette ossa di balena. Il cetaceo, che si trovava dinanzi alla baleniera, pareva in preda ad una violenta collera. La sua possente coda sferzava le acque sollevandole burrascosamente; le sue pinne si agitavano febbrilmente e l’immane corpo, dalla pelle nera e untuosa, che aveva i riflessi dell’acciaio, s’alzava e si tuffava con grande impeto. Note formidabili uscivano dalla bocca, spandendosi lontane lontane sul grande banco e dagli sfiatatoi uscivano, con sordo rumore, getti sempre più densi di vapore, il quale poi ricadeva in forma di goccioline oleose. Talvolta la balena si scagliava contro l’istmo di ghiaccio che separava il canale dal mare e lo urtava a gran colpi di testa, staccando pezzi grossissimi. – Cosa può avere quella balena? si chiese mastro Tyndhall, che aveva accostata la scialuppa al banco, per tema che venisse rovesciata dalle onde. Si direbbe che è impazzita. CAPITOLO VI. L'urto della balena. Quattro grossi pesci, lunghi otto metri, somiglianti ai delfini, erano improvvisamente apparsi intorno al disgraziato cetaceo. Volteggiavano con incredibile velocità attorno a quel corpo gigantesco, aprendo delle larghe bocche irte di acuti denti, coi quali cercavano di straziarlo. Mastro Tyndhall ed i suoi marinai li avevano subito riconosciuti. Erano quattro delfini gladiatori, cetacei ferocissimi, voracissimi, dotati d’una forza muscolare così potente, da trascinare perfino le più grosse barche, quando vengono presi cogli arpioni. Questi mostri, al pari dei capidogli, nutrono un odio spietato verso le balene. Sapendo di non aver nulla da temere, poichè, come si disse, le balene non hanno denti per difendersi, le assalgono con grande furore e le tormentano senza posa. Non potendo intaccare la pelle liscia e troppo rotonda di quei colossi, aspettano il momento che aprano la bocca e allora vi si cacciano dentro lestamente per mangiare a loro la lingua!... È un bel boccone però, per quei cetacei voracissimi, essendo quella lingua lunga otto metri, larga tre e delicata. La povera balena doveva averne perduta una parte, perchè i marinai della scialuppa vedevano ormai distintamente il sangue colare in grande copia attraverso i fanoni. Impotente a difendersi, spaventata, pazza di dolore, cercava di sottrarsi ai morsi dei nemici, assalendo l’istmo di ghiaccio per guadagnare il mare libero. Avrebbe potuto tuffarsi e passarlo per di sotto, ma forse temeva di venir attaccata con maggior furia dai suoi implacabili nemici, o di essere costretta ad aprire la bocca al suo ritorno alla superficie, per rinnovare la sua provvista d’aria. Fors’anche sperava, sfasciando i ghiacci, di ferire i persecutori o di spaventarli. – Mastro, disse Charchot, a cui rincresceva la disgraziata fine dello sfortunato cetaceo. Mandate un po’ di piombo a quei brutti ghiottoni. – No, rispose Tyndhall. – Volete forse impadronirvi del grasso del cetaceo? – Non saprei dove metterlo e poi perderei troppo tempo. – Volete che i delfini lo uccidano? Quel colosso può essere più utile a qualche baleniere che a quei divoratori crudeli. – No, ma aspetto che la balena sfondi l’istmo per aprire la via alla nostra barca. Il canale finisce qui e se non si spezza quella barriera, noi non potremo guadagnare la Terra di Baffin. – È vero, dissero i marinai. È una fortuna aver incontrata questa balena alle prese coi delfini. Intanto il cetaceo raddoppiava i suoi urti contro l’istmo, ora adoperando il capo ed ora la coda, ma il ghiaccio non si spezzava che a poco a poco. Doveva avere uno spessore enorme, per resistere a quella massa scagliata innanzi colla velocità di un treno diretto. Ad un tratto la balena, con uno slancio poderoso uscì più di mezza fuori dall’acqua e si lasciò cadere sull’istmo. Nulla poteva reggere a quella massa che pesava una settantina di tonnellate. La barriera, fracassata di colpo, si spezzò con uno scricchiolìo prolungato, poi crepitò in tutte le direzioni e finalmente s’inabissò lasciando il passo alle onde della baia. Il cetaceo, ricaduto nel suo elemento naturale, lanciò un’ultima e più acuta nota, poi si precipitò innanzi e sparve verso il nord, lasciando dietro una scia gorgogliante. – Il passo è aperto, disse il mastro. Alla Shannon, ragazzi miei, e approfittiamo di questa fortuna prima che i ghiacci tornino a riunirsi. – Ed i delfini? chiese Charchot. – Credo che se ne siano andati. Non possono lottare colle pinne delle balene. Giù i remi e date dentro a tutta forza. La baleniera virò sul posto e si ricacciò nel canale filando come una rondine marina, ed un’ora dopo si trovava nelle acque della Shannon. Fu tosto issata a bordo onde i ghiacci non la guastassero, le vele furono spiegate e la Shannon prese rapidamente il largo costeggiando il pack. L’entrata nel canale ed il passaggio sotto il castello galleggiante, non costarono fatiche di sorta, essendo l’acqua sgombra di ghiaccio e la vôlta del ghiaccione tanto alta, da permettere il passaggio anche all’alberatura d’una grande nave. Essendo il vento favorevolissimo, soffiando costantemente al nord-est, la Shannon giunse in breve presso il luogo ove esisteva l’istmo. I frammenti della barriera non si erano ancora cementati, ma si erano riuniti e un ritardo di poche ore sarebbe bastato per non ritrovare più il passo libero. Con poche speronate la Shannon si fece largo e alle 11 volgeva la poppa al grande banco, navigando sulle libere acque della baia di Baffin. A meno di sei miglia si disegnavano le alte sponde della penisola di Cumberland, capricciosamente frastagliate da profondi fiords e difese da un grande numero d’isole e d’isolotti. Fra il banco e la costa, il mare era quasi completamente libero tendendo i ghiacci a mantenersi piuttosto al largo dalle terre, forse in causa dei venti che soffiano ordinariamente dalla parte dei continenti e fors’anche in causa delle contro-ondate e delle forti risacche. – Finalmente! esclamò mastro Tyndhall, che era raggiante. Questa grande baia, ritenuta impraticabile dopo il settembre, l’abbiamo attraversata. Se Dio ci protegge, dalle coste di Cumberland allo stretto di Lancaster non sarà che una passeggiata. – Ma sotto la costa vedo dei ghiacci, mastro, disse Mac-Chanty, che gli stava presso. – Sono ice-bergs e banchi vomitati dai ghiacciai e non si staccheranno tanto presto dalle spiagge. – Dove approderemo? – Alla baia di Home, che ci sta proprio di fronte. E sarà là che cominceremo le ricerche? – Sì, Mac Chanty. – Sperate di trovare la nave? – Se non la nave, almeno i rottami od i naufraghi. – E fino dove andremo? – Fino all’isola di Devon e là sverneremo per riprendere poi le ricerche lungo il canale di Lancaster. Sono deciso a recarmi, se sarà necessario e se i ghiacci non mi stritoleranno la Shannon, fino al mare di Melville esplorando le coste di Boothia, di Sommerset, della terra di Cockburn, del Principe di Galles e anche le isole Melville e di Bathurst. – Ma come ritorneremo poi? Perderemo la buona stagione in tante ricerche e correremo il rischio di trovare, nella ritirata, tutti i canali chiusi dai ghiacci. – Bah!... Cosa importa a me svernare due volte? – Ma i viveri? – Ne troveremo presso gli accampamenti dei pescatori di foche della baia di Fox, poichè io non ho intenzione di passare un secondo inverno in latitudini così alte. Appena cominceranno i primi geli, io mi affretterò a scendere attraverso i canali di Fury e di Ecla. Mentre chiacchieravano sui futuri progetti, la Shannon correva verso la costa, speronando dei piccoli ghiacciuoli appena formatisi e che le contro-ondate spingevano al largo. Muoveva diritta verso una vasta insenatura cosparsa d’isolotti e difesa da una lunga penisola che s’incurvava verso il sud, formando parecchi fiords assai profondi. Tutta quella costa era alta assai e cadeva a picco. Non si vedeva alcuna pianta, nè un pino, nè un abete, nè alcun animale appariva sulla candida superficie nevosa. Vi erano invece due grandi ghiacciai incassati fra una doppia fila di altissime rocce e dai quali cadevano, di quando in quando, con immenso fragore, dei blocchi enormi che s’inabissavano nelle acque della baia, sollevando mostruose ondate. Bande numerosissime di uccelli, delle vere nubi, si alzavano dalle sponde delle isolette e volavano or qua ed or là. Vi erano certi momenti che se ne levavano così tanti, da oscurare l’orizzonte. – Sono urie, disse mastro Tyndhall a Charchot, che lo interrogava. Cucinate sapientemente con una salsa di acciughe, sono buonissime. – Ecco una cena guadagnata senza fatica. Con poche scariche se ne possono gettare a terra delle centinaia. – Ho un po’ di piombo minuto e non lo risparmierò, te lo assicuro. Ohe!... Attenti a virare ed a calare l’áncora. La Shannon entrava allora nella baia, passando dinanzi ad una mezza dozzina di ice-bergs che si trovavano addossati ad una specie di penisoletta. Il mastro evitò le isole e gl’isolotti che erano ormai riuniti fra di loro da uno strato di ghiaccio che pareva assai solido, e diresse la barca verso un piccolo seno semi-circolare, dove l’acqua era perfettamente tranquilla. – Giù le áncore! comandò. L’áncora mezzana e l’ancorotto scesero, facendo scorrere rumorosamente le catene attraverso le cubie, mentre le vele venivano ammainate in coperta. Mastro Tyndhall con un rapido sguardo ispezionò le sponde della baia, crollando più volte il capo. – Bisognerà risalire più al nord, mormorò. Il Polaris deve aver cercato di ritirarsi attraverso lo stretto di Lancaster. Però... chissà!... Se ha naufragato lassù, i suoi marinai dovrebbero aver approdato alla Terra di Baffin per tentare di raggiungere la baia di Hudson. Giacchè rimangono ancora alcune ore di luce, andiamo a dare uno sguardo a questa terra. Ehi!... Charchot, fa’ calare la baleniera se vuoi mangiare delle urie. La scialuppa fu subito messa in acqua e il mastro vi prese posto assieme a tre compagni. Si era armato di due fucili da caccia a doppia canna e si era munito di parecchie cariche di pallottole. Le urie non si erano affatto spaventate per la comparsa della piccola nave. Volavano a milioni passando sopra il capo dei marinai, schiamazzando a piena gola, inseguendosi, precipitandosi in acqua o innalzandosi fino sulle più alte coste. Un grande numero nidificava sugli ice-bergs, assieme a parecchie strolaghe ed a non poche oche bernide. La scialuppa, abbandonata la nave, filò lungo gli ice-bergs e si diresse verso un punto della costa ove si vedeva una profonda spaccatura, un antico letto di qualche torrente, pel quale si poteva salire. Mastro Tyndhall e Charchot aprirono il fuoco facendo piovere attorno alla baleniera intere dozzine di uccelli, senza che i superstiti si spaventassero troppo per quelle stragi e quelle fragorose detonazioni. Bastarono poche scariche per assicurarsi la cena per parecchi giorni. – Vi sarebbe qui da nutrire, e per parecchie settimane, l’intera popolazione di Discko disse Charchot. Che non conoscano la potenza delle armi da fuoco, questi volatili? – È probabile rispose Tyndhall. I pochi balenieri che si mostrano su queste spiagge hanno ben altro da fare che di occuparsi delle urie e gli esquimesi che vengono qui a cacciare, durante la buona stagione, non posseggono fucili. – Mastro Tyndhall, se la continua così, le provviste della Shannon non scemeranno mai. – È vero, Charchot, senza contare che cibandoci di carne fresca terremo lontano lo scorbuto. Ma la cattiva stagione non tarderà a sopraggiungere colle sue furiose nevicate e allora non troveremo più nè foche, nè morse, nè uccelli. – Rimangono gli orsi bianchi. – Ma sono rari, Charchot. – Qualcuno spero che lo troveremo. In quell’istante la baleniera urtava contro la spiaggia. Tyndhall ed il suo compagno presero i fucili, s’armarono di due bastoni colla punta ferrata e balzarono a terra. La spaccatura, prima notata, si apriva dinanzi a loro. Era un canale profondo, dirupato, pieno di neve e di frammenti di ghiaccio rotolati dall’alto, ma non di difficile salita. I due cacciatori di foche si misero a salire aiutandosi l’un l’altro, e puntando fortemente i bastoni ferrati. Le sponde di quell’antico letto del torrente erano occupate da miriadi di lumme intente a covare, ma non pensarono a fuggire, limitandosi a protestare contro quella violazione di domicilio con grida discordi. Sotto alcune rocce riparate dai gelidi venti e che erano rimaste scoperte dalle nevi in causa della loro inclinazione, si vedeva qua e là spuntare ancora timidamente un po’ di vegetazione, ma che non doveva tardare a scomparire. Erano piccole macchie di magri licheni neri chiamati dagli esquimesi zuppe di roccia o trippa di roccia perchè li adoperano per fare una specie di zuppa; piccoli papaveri dai petali d’oro ma che già si ripiegavano sugli steli semi-gelati; delle sassifraghe rosse, bianche o gialle e boschetti di salici ma così piccini che sarebbe bastato un cappello per coprirli!... Dopo mezz’ora di salita, mastro Tyndhall e Charchot giungevano sull’altipiano da cui potevano spaziare gli sguardi sulla desolata Terra di Baffin. La terra di Baffin. La Terra di Baffin è una grande isola di forme irregolari, di una estensione non ancora definita, non essendo stata completamente esplorata, ma senza dubbio grandissima, forse dieci volte più grande dell’Islanda e si estende dal 61° parallelo al 74°, tagliando per metà il circolo polare artico. Ancora pochi anni or sono la si credeva una vasta penisola unita a quella di Melville, ma dopo la scoperta del canale di Fury, non vi è più alcun dubbio. Questa isola che viene bagnata contemporaneamente dalle acque dello stretto di Hudson al sud, da quelle dello stretto di Davis e dalla baia di Baffin all’est, da quelle del Principe Reggente e di Lancaster a settentrione e dai golfi di Boothia e di Fox all’ovest, comprende parecchie terre chiamate dagli esploratori polari di Penny, di Fox, di Cumberland, del Principe Guglielmo e di Cockburn, essendosi prima supposto che fossero divise da canali. Non si sa se nel suo interno abbia catene di montagne, ma si sono recentemente scoperti, verso il sud, due vasti laghi che vennero chiamati di Netteling e di Amakdjuak. È invece ricca di golfi molto profondi e di baie sicurissime quali quelle di Frobisher, di Cumberland e di Home ed è circondata da parecchie isole di estensione pure ragguardevole, come quelle di Bylot e di Powen al nord e di Salisbury e di Best al sud. Questa vasta terra però non è altro che un deserto di ghiaccio e di neve, abitato solamente dagli orsi bianchi e dalle foche. Qualche famiglia di esquimesi erranti vi soggiorna però, specialmente sulle coste del canale di Fox. L’inverno dura otto mesi e durante quella lunga e rigida stagione, tutte le sponde sono strette dai ghiacci che la corrente polare spinge attraverso i canali di Smith, di Lancaster e del Principe Reggente. All’estate però restano libere ed è allora che ne approfittano i balenieri per visitare quelle profonde baie in cerca dei colossi marini e che accorrono i pescatori di foche della baia di Baffin. Quantunque sia situata in una regione così fredda, la Terra di Baffin è stata una delle prime scoperte di quel gigantesco gruppo d’isole che si estende attorno al circolo polare artico. L’onore della scoperta spetta a Guglielmo Baffin, un valente marinaio che aveva già prima preso parte ai viaggi di Hudson, di Tomaso Buton, di Gibbins, di Hall e di Bileth nelle campagne del 1612, 1615, 1616. Penetrato nell’estate del 1616 nello stretto di Davis, per cercare il famoso passaggio del Nord-Ovest, prima scopriva la baia che porta il suo nome, poi la grande isola, ma respinto dai ghiacci, dovette interrompere ben presto il suo viaggio che non doveva più riprendere. Ma dopo di lui altri s’inoltrarono arditamente nei mari polari per esplorare quella terra che era stata allora appena veduta, riuscendo finalmente a girarla completamente. Jones, Middleton, poi Giacomo Ross, il famoso navigatore artico che nel 1818 toccò la Terra Artic-Highlands, quindi Parry che si spinse fino allo stretto di Lancaster e poi a quello di Barrow, poi di nuovo Ross nel 1833 che s’inoltrò nello stretto del Principe Reggente e fino sulle coste della Terra di Boothia, completarono la scoperta di Baffin. Dinanzi agli sguardi di mastro Tyndhall e di Charchot, si stendeva una vasta pianura ondulata, coperta di neve e di laghetti gelati, ma priva affatto di alberi. Solamente sulla loro destra s’alzava un gruppo di montagne, fra le quali si scorgevano due piccoli ghiacciai che vomitavano nella baia, ad intervalli di mezz’ora, dei blocchi di ghiaccio di cui alcuni avevano delle dimensioni enormi. Nessuna capanna si vedeva ergersi su quella pianura biancheggiante, nè alcuna traccia, recente od antica, del soggiorno di uomini appariva su quell’immenso spazio. – Nulla, disse Tyndhall. Bisognerà prima cercare la nave per sapere quale direzione possono aver presa i naufraghi, supposto che il Polaris si sia fracassato su qualche costa. – Speravate di scoprire qui qualche traccia di quei marinai, mastro? chiese Charchot. – Qui forse no, ma più al nord sì. – Ritorniamo? – Sì, poichè ho fretta di esplorare le coste e di giungere allo stretto di Lancaster prima che i ghiacci ci sbarrino la via. Diedero un ultimo sguardo a quelle pianure percorse da soli pochi uccelli, poi scesero attraverso l’antico letto del torrente e s’imbarcarono nella baleniera. Non volendo perdere tempo, appena giunto a bordo della Shannon, mastro Tyndhall fece spiegare le vele per portarsi più al nord, dove sapeva esistere dei profondi fiords che voleva assolutamente esplorare, prima di girare al largo. Non essendovi nebbia ed essendo il mare sgombro di ghiacci nei pressi delle coste, si poteva rimettersi alla vela senza pericolo. Il freddo era poco intenso, appena 7° centigradi, essendo il sole ancora alto sull’orizzonte, ma non doveva tardare ad aumentare. L’astro diurno abbreviava sempre le sue salite e diventava sempre più scolorito e meno caldo e appena disceso, la temperatura faceva già dei bruschi salti. I tremendi geli non dovevano essere lontani, e le nevicate non dovevano tardare a rovesciarsi su quelle terre desolate. La Shannon, girata la punta di Home, mise la prora verso il nord-nord-ovest tenendosi a sole poche gomene dalla Terra di Baffin. La costa che seguiva era sempre altissima e scendeva a picco. Sulle creste si elevavano delle guglie di ghiaccio, delle arcate strane o delle colonne altissime che scintillavano vivamente sotto i raggi del sole e più sotto si vedevano dei crepacci e delle caverne, presso le quali svolazzavano bande innumerevoli di uccelli marini. Di tratto in tratto apparivano delle profonde fenditure, dei piccoli fiords entro i quali si precipitavano le onde con interminabili muggiti, ma erano così stretti da non permettere l’entrata ad una nave anche di piccole dimensioni. Mastro Tyndhall non mancava di esaminarli attentamente, servendosi di un potente cannocchiale per accertarsi se si scorgevano là dentro gli avanzi di qualche nave. Verso le nove di sera, nel momento in cui il sole si tuffava obliquamente, tingendo di porpora le acque della baia, la Shannon incontrava ancora i ghiacci. Erano lunghe file di streams e di packs, ma non avevano grande consistenza e cedevano facilmente agli urti dello sperone. Però più al nord si vedevano giganteggiare parecchi ice-bergs, i quali spiccavano vivamente sul cielo smaltato d’oro dal tramonto e sulle acque cosparse di pagliuzze dorate, assumendo delle tinte svariate a seconda che presentavano i fianchi o la massa intera ai raggi del sole tramontante. Ve n’erano di quelli che avevano una splendida tinta violetta, altri che avevano i margini che parevano di ametista o di zaffiro ed altri ancora, colpiti in pieno, che erano perfettamente rossi, come se fossero masse di metallo incandescente o che nel loro centro avvampasse un incendio. Fortunatamente, il fiord che il mastro voleva perlustrare era vicino. Era un canale che s’internava nella Terra per parecchie miglia, ma dinanzi all’entrata si erano già accumulati parecchi banchi di ghiaccio, che lasciavano solamente pochi canali e tanto stretti da impedire l’accesso anche alla Shannon. – Mastro, non si passa di là, disse Grinnell, che stava alla ribolla del timone. Devo accostare i banchi? – Passerà la baleniera, rispose Tyndhall. Non voglio lasciare quel fiord inesplorato, poichè so che i balenieri vi hanno eretto, all’estremità, un deposito di viveri per coloro che potrebbero naufragare su queste coste inospitali. L’equipaggio del Polaris può averlo saputo ed essersi diretto qui. – Ma gli orsi bianchi non saccheggiano il deposito? – I viveri sono nascosti in una caverna chiusa da massi di ghiaccio, indicata da una croce. – Allora accostiamo i banchi. Vedo là una insenatura profonda che potrà ricevere comodamente la Shannon. – Bada alle punte di ghiaccio. – Non temete, mastro, le scorgo benissimo. La Shannon, spinta da un debole vento che soffiava dal sud-est, si avvicinò ai banchi e andò ad ancorarsi fra due barriere di ghiaccio che formavano un piccolo porto. Essendo ormai caduto il sole da oltre un’ora, mastro Thyndall rimandò l’esplorazione al mattino seguente. D’altronde i suoi uomini erano troppo stanchi per riprendere la faticosa manovra del remo, e per forzare il passo attraverso a quei ghiacci che si erano accumulati in grande numero dinanzi al fiord. Le ultime ore della notte passarono tranquille, ma l’indomani il sole non spuntò. Erano tornati ad alzarsi pesanti nebbioni, i quali si distendevano lentamente sui banchi di ghiaccio ed il freddo era bruscamente aumentato. Ad intervalli, dal nord, soffiavano poderosi colpi di vento, i quali mettevano in rivoluzione i ghiacci che si trovavano al largo. Gli ice-bergs, i packs, gli streams, gli hummoks avevano ripresa la discesa verso il sud urtati, spinti dai grandi campi che dovevano essere comparsi all’uscita dello stretto di Smith. Mastro Tyndhall, udendo gli urti violenti di quelle masse, le quali potevano venire spinte verso la costa, era diventato assai inquieto. – Ghiacci al largo e nebbia che si avanza disse, lanciando un lungo sguardo sulle acque della baia che avevano assunto una tinta più cupa. Ciò vuol dire che l’inverno sta per piombarci addosso e che da un momento all’altro la via può essere chiusa. – È vero, mastro, disse Thorn. Questo nebbione non tarderà a convertirsi in una abbondante nevicata, la quale abbasserà molto la temperatura. Scommetterei che fra pochi giorni tutta la baia sarà gelata. – Cercheremo di affrettarci, amico mio. Calarono la baleniera dopo d’avervi messo dentro delle scuri e dei picconi per aprirsi il passo attraverso i ghiacci e s’imbarcarono in sei, lasciando a bordo della Shannon il marinaio Grinnell. Un canale aperto fra i ghiacci permise a loro di giungere facilmente all’imboccatura del fiord, ma per procedere più oltre dovettero ricorrere alle scuri ed ai picconi. Essendo però quel ghiaccio di formazione recente, non aveva ancora acquistato molto spessore, e cedeva facilmente sotto i colpi potenti di quei robusti marinai. Oltrepassata la barriera, si trovarono in un canale di aspetto selvaggio e tetro. Era poco largo, ma le sue acque, che avevano una tinta oscurissima, dovevano avere una profondità straordinaria; le due rive, che si alzavano perpendicolarmente per parecchie centinaia di metri, tutte incrostate di neve e di ghiaccio, verso la cima si avvicinavano tanto, da impedire quasi alla luce di scendere. Sugli angoli delle pareti, nelle fessure del ghiaccio e sui margini, numerosissime bande di uccelli nidificavano. Erano lumme, uccelli che sono comunissimi anche nel Labrador, dove vengono invece chiamati bacalao-bird (uccelli-merluzzi). Vedendo avanzarsi la baleniera, strepitavano e sbattevano fortemente le ali, producendo un fragore tale, da rassomigliare al precipitare d’una grande cateratta. Quelli più vicini all’acqua, spaventati, fuggivano, ma poco dopo ritornavano in massa ai loro nidi disputandosi le uova, non essendo più capaci di riconoscere le proprie. Siccome in quelle fughe disordinate molte uova precipitavano, le femmine, che rimanevano senza, impegnavano lotte furiose colle compagne, facendo un baccano assordante, che si triplicava entro quello stretto vallone. La baleniera aiutata dal flusso che montava entro il fiord, procedeva rapida, tenendosi nel mezzo per tema che dall’alto si staccasse qualche crostone di ghiaccio, ma quantunque fossero le prime ore del mattino, l’oscurità cresceva in causa della crescente altezza delle due gigantesche pareti e della nebbia che diventava sempre più densa, abbassandosi rapidamente. A tratti poi, dei soffi violenti scendevano attraverso il vallone, ululando sinistramente e sconvolgendo le oscure acque. – Per mille corna di caribou! esclamò Charchot, che non poteva stare zitto dieci minuti. Si direbbe che noi stiamo per scendere in un inferno di ghiaccio, mastro. Non ho mai veduto un fiord più tetro di questo. – Hai ragione, Charchot, rispose Tyndhall, e se non mi premesse fare una visita al deposito dei balenieri, virerei subito di bordo. – Mastro, disse Mac-Chanty, temo che si prepari una burrasca e che la Shannon corra qualche pericolo. – Grinnell è un bravo marinaio e si affretterà a gettare le altre àncore. – Ma il mare può diventare cattivo e spingere la Shannon contro i banchi. – Ma io non posso rinunciare all’esplorazione. I naufraghi del Polaris potrebbero essere al deposito dei balenieri. – Un’idea, mastro. – Parla, Mac-Chanty. – È lontano il deposito? – Tre miglia almeno. – Una scarica in questo fiord si dovrebbe udire ad una grande distanza. – Lo credo. – Facciamo alcune salve e attendiamo. Se i naufraghi del Polaris sono al deposito, non mancheranno di rispondere. – È vero. Viriamo al largo per non farci schiacciare dai ghiacci e prepariamo le armi. La baleniera si spostò dalla sponda destra che fino allora aveva seguìta e si portò in mezzo al fiord. I marinai lasciarono i remi e armarono i fucili puntandoli in alto. – Fuoco! comandò Tyndhall. Sei spari rintronarono formando quasi una sola detonazione, che gli echi del fiord ingrossarono al punto, da sembrare una scarica d’un pezzo d’artiglieria. Quasi nel medesimo istante una raffica furiosa si rovesciava entro la stretta vallata con un ululato tale, che mastro Tyndhall rabbrividì. CAPITOLO VIII. Fra le nebbie ed i ghiacci. Pareva che quella scarica entro la cupa vallata avesse scatenata la bufera temuta da Mac-Chanty. Dalle gole laterali, fra le spaccature delle gigantesche muraglie, le raffiche irrompevano con sibili acuti, o con stridori prolungati, o con ululati cupi e profondi, sollevando la neve non ancora gelata, la quale turbinava in aria come se venisse aspirata da un maëlstrom aereo, mentre dall’alto scendevano, con rapidità incredibile, le pesanti nebbie, come se volessero addensarsi tutte entro quel fiord. Le acque intanto, come se fossero sollevate da una forza misteriosa, in pochi istanti si erano tramutate in ondate formidabili, le quali correvano a sfasciarsi contro le alte rocce con muggiti spaventevoli, producendo delle contro ondate pericolose per la baleniera. I marinai, stupiti e spaventati da quell’improvviso scoppio della bufera, si erano arrestati, guardando mastro Tyndhall. – Mastro, disse Charchot. Cosa sta per succedere?... Io vorrei essere lontano da questo fiord. – Sta per scoppiare un vero uragano rispose Tyndhall. Lasciamo per ora il deposito dei balenieri e corriamo alla Shannon, amici miei. Temo assai per la mia barca. – Ritorniamo?... – Sì, non vedete come le onde della baia si rompono contro i banchi?... Forza di remi, amici, o la finirà male per tutti noi. La baleniera virò di bordo e si mise in ritirata attraverso quel tetro e pauroso fiord. Il vento cresceva di violenza ad ogni istante, ruggendo entro la vallata, spingendo innanzi a sè turbini di neve e disperdendo le bande di lumme, le quali fuggivano in tutte le direzioni fra un baccano assordante e il nebbione scendeva sempre. Ormai l’oscurità era diventata così profonda, che il mastro non riusciva quasi più a scorgere le due alte pareti. La baleniera, scrollata dai marosi e dalle contro-ondate, procedeva a sbalzelloni, fra nembi di spuma e non riusciva che con grandi fatiche a mantenersi in mezzo al fiord. I marinai comprendendo che in quel momento si giuocava la sorte della Shannon, facevano sforzi sovrumani per giungere presto fuori del canale. Mastro Tyndhall però si mostrava sempre calmo e guidava la scialuppa con mano ferma, cercando di evitare le onde che l’assalivano di fianco. Di tratto in tratto però s’alzava e si curvava innanzi, come se cercasse di distinguere qualche cosa fra i fragori della tempesta. Forse attendeva qualche segnale di pericolo, da parte del marinaio che aveva lasciato a bordo della Shannon. D’improvviso, fra i fischi del vento ed i muggiti delle onde, si udì al largo, dalla parte del mare, una lontana detonazione che non si poteva confondere coll’urto di due ghiacci o collo spaccarsi di un banco. Mastro Tyndhall trasalì, poi impallidì. – Avete udito? chiese Charchot. – Sì, rispose Tyndhall. Uno sparo. – È un segnale di soccorso, mastro. Grinnell sarà assai inquieto e prevederà un brutto pericolo. – Speriamo che le àncore tengano fermo per una mezz’ora. Animo, amici miei, non perdete un colpo di remo. La baleniera divorava la via, ma le onde ben spesso interrompevano la sua corsa non solo, ma minacciavano perfino di gettarla attraverso l’una o l’altra parete e di sfracellarla. Non avendo sfogo, quei cavalloni si sormontavano rabbiosamente sotto le crescenti sferzate del vento, si rompevano con impeto irresistibile e si formavano di nuovo sfasciandosi contro le pareti e producendo degli stretti avallamenti dai quali la baleniera penava assai a uscire. Fortunatamente l’uscita del fiord non doveva essere molto lontana. Già attraverso alla nebbia si distinguevano, ad intervalli, i riflessi biancastri di banchi accumulati contro la costa. Mastro Tyndhall ascoltava sempre con una certa angoscia che invano cercava di nascondere, ma dopo qual primo sparo non ne erano echeggiati altri. Probabilmente Grinnell aveva dovuto interrompere i segnali, per dedicarsi tutto alla salvezza del piccolo veliero. Forse in quel momento stava calando tutte le ancore per resistere alla furia del vento e delle onde. – Coraggio, ragazzi! gridava il mastro. Uno sforzo ancora e usciremo da questo fiord. Poi chiedeva con una viva apprensione: – Udite nulla?... Già apparivano i primi banchi, quando un altro sparo echeggiò al largo, poi un secondo, quindi un terzo. – Mille tempeste!... gridò Charchot. Grinnell è in pericolo, mastro. – Tieni la barra, Charchot disse Tyndhall. Un momento solo!... Prese due fucili e li scaricò in aria formando una sola detonazione, che gli echi del fiord centuplicarono. Due spari risposero dalla parte del mare. – Avanti ora a tutta forza, comandò Tyndhall riprendendo la barra. Grinnell sa che noi stiamo per ritornare e metterà in opera tutto per salvare la mia barca. Erano allora dinanzi ai banchi. Malgrado gli urti formidabili delle onde interne ed esterne, non si erano ancora staccati, ma da un istante all’altro potevano cedere sotto quei continui assalti e chiudere il canale. La baleniera si cacciò lestamente nel passaggio, lo attraversò frantumando i ghiacciuoli e uscì in mare. Non essendo il nebbione ancora calato lungo le coste della Terra di Baffin, si poteva ancora distinguere un grande tratto della baia e rendersi subito conto della situazione e del pericolo che poteva correre la Shannon. Tutta quella costa presentava uno spettacolo da far paura anche al più audace marinaio. Lunghe ondate, irte di spuma, spinte dal vento che era girato al sud-est, correvano verso la Terra di Baffin con muggiti spaventevoli; seco trascinando i ghiacci che la corrente polare aveva spinti verso il sud. Giganteschi ice-bergs, palks, streams e grandi banchi oscillavano burrascosamente sulle creste dei cavalloni, minacciando ad ogni istante di perdere l’equilibrio. Si urtavano a vicenda con mille fragori, con detonazioni paragonabili a scoppi d’artiglieria, sfracellandosi, sminuzzandosi e scagliando lontano dei pezzi enormi. Pareva talvolta che delle granate o delle mine scoppiassero nel mezzo di quei colossi, tale era la violenza dell’urto che subivano. In mezzo a quel rimescolìo delle onde e dei ghiacci, mastro Tyndhall scorse la Shannon colle vele terzaruolate correre al largo, ma senza allontanarsi troppo dalla costa. Aveva abbandonato l’ancoraggio e lottava contro i marosi che cercavano di trascinarla verso i banchi delle spiagge. – Bravo Grinnell! esclamò Tyndhall. Ecco un marinaio che può andare superbo!... Animo, ragazzi!... Fra dieci minuti saremo a bordo!... Grinnell aveva già scorta la baleniera e cercava di accostarla, mentre i marinai da canto loro facevan sforzi sovrumani per abbreviargli la via. Il mare era cattivo, ma la piccola imbarcazione teneva fronte all’incalzare dei marosi, balzando rapidamente di cresta in cresta. Dieci minuti dopo era a poche braccia dalla Shannon. – Una gomena, Grinnell! gridò Tyndhall. – Un momento, mastro, rispose il bravo marinaio. Legò la ribolla del timone per mantenere per qualche istante il veliero nella posizione primiera, poi lanciò al mastro una fune. – Su i remi e badate che la baleniera non si sfondi, disse il mastro. Accostare la Shannon con quelle ondate che non concedevano alcuna stabilità ai due legni, era una manovra tutt’altro che facile, pure i marinai, dopo una lotta di dieci minuti e dopo di aver corso parecchie volte il pericolo di farsi sfracellare assieme alla baleniera, vi riuscirono. Appena giunto sulla tolda, mastro Tyndhall stese la mano a Grinnell, dicendo: – Grazie: sei un valente marinaio e te lo dice il più vecchio lupo di mare della costa groenlandese. Poi balzò verso poppa e afferrò la ribolla del timone gridando: – Due mani di terzaruoli alle vele e la prora al nord!... Saldi in gambe e attenti ai ghiacci!... La Shannon aveva virato di bordo e fuggiva lungo la Terra di Baffin, in direzione dello stretto di Lancaster. La tempesta scoppiava allora con inaudita violenza, sconvolgendo l’immensa baia. Il vento ruggiva su tutti i toni e sibilava paurosamente fra le vele della piccola nave, balzando dal sud al sud-est con estrema rapidità. Cacciava dinanzi a sè, in una corsa disordinata, il pesante nebbione, lacerandolo o addensandolo e nembi di nevischio che strappava dalle coste della Terra di Baffin, sollevava le acque in forma di montagne che tosto abbatteva, che polverizzava e investiva i ghiacci imprimendo a loro una corsa vertiginosa. Il mare non muggiva meno paurosamente. Quelle enormi masse liquide, scagliate in direzione del nord, frangendosi fra di loro, producevano tali fragori da soffocare perfino i comandi che mastro Tyndhall lanciava con voce tuonante. S’alzavano con impeti irresistibili, come se fossero mosse da una forza sottomarina, da spinte prodotte da qualche convulsione del fondo; correvano all’impazzata sormontandosi le une e le altre, quasi fossero smaniose di distruggersi reciprocamente, di schiacciarsi, di polverizzarsi; scavavano baratri entro i quali precipitavansi, turbinando, le nebbie ed assieme a loro la povera Shannon, poi tornavano a rimontare, a ricostituirsi e riprendevano la loro corsa colle creste irte d’una spuma candida che aveva talora dei bagliori fosforescenti. In mezzo a quell’orribile tramestìo d’acqua, i ghiacci polari danzavano una sarabanda scapigliata. Si vedevano correre sulle creste scintillando fra la caligine, scendere negli abissi, rotolare, cadere, rovesciarsi, urtarsi tuonando e sollevando nelle loro brusche cadute altre ondate non meno terribili di quelle sollevate dall’uragano, anzi di più, poichè più improvvise e più impetuose. La Shannon, piccolo guscio perduto su quel mare tempestoso, semplice atomo fra quelle masse di ghiaccio, che con un solo urto potevano sminuzzarlo, lottava valorosamente contro gli assalti del vento scatenato e delle onde. Colle sue vele terzaruolate, fuggiva come un uccello marino, squarciando coi suoi alberi il pesante nebbione e tagliando col suo solido sperone i piccoli ghiacci, che incontrava sul suo cammino. Saliva intrepida le masse liquide, scendeva arditamente negli abissi, ma tornava a risalire fra la spuma delle creste. I marosi la investivano, la travolgevano, la facevano rovesciare ora sul babordo ed ora sul tribordo, la inondavano da poppa a prora, ma non cedeva malgrado la sua estrema piccolezza. I suoi uomini, aggrappati ai cavi per non venire portati via da quei colpi di mare che spazzavano la coperta senza posa, si mantenevano tranquilli, ma gettavano degli sguardi inquieti su quel mare spumante, su quei ghiacci che apparivano e sparivano fra la fitta caligine. Anche mastro Tyndhall non era tranquillo e scrutava ansiosamente la costa di Baffin, che di tratto in tratto scintillava pel riflesso delle sue nevi e dei suoi ghiacci, fra gli squarci del nebbione. Nascondeva però all’equipaggio le sue apprensioni. Ritto a poppa, colla ribolla del timone stretta fra le robuste mani, col cappuccio gettato all’indietro per essere più libero, irremovibile come un colosso di granito fra gli assalti dei marosi, comandava la manovra con voce tuonante, ma tranquilla. – Pronti ai buttafuori!... Imbroglia la trinchettina!... Ammaina il fiocco! Lascia la scolta della maestra!... Attenti a quell’ice-berg!... Saldi in gambe!... Niente paura, ragazzi!... E quei diversi comandi li lanciava sempre con voce possente, coprendo i fischi del vento, i muggiti delle onde e gli urti sempre più tremendi dei ghiacci. La Shannon fuggiva sempre, seguendo la costa della Terra di Baffin a meno di un miglio di distanza. Tyndhall non ignorava che i ghiacci ordinariamente si tengono un po’ discosti dalla terra e perciò stringeva sotto la costa e poi voleva, in caso disperato, lanciare la sua piccola nave contro le spiagge per cercare un rifugio. Non l’osava ancora, non conoscendo quelle coste che assai imperfettamente, e per paura di andare a urtare contro qualche banco o contro qualche catena di scogliere, ma era risoluto a tentarlo, se la Shannon correva il pericolo di venire ingoiata dai flutti. Intanto l’uragano aumentava sempre, il nebbione diventava più fitto, i ghiacci più numerosi e l’oscurità più profonda. Ormai gli uomini di poppa a malapena riuscivano a distinguere quelli che si trovavano a prora. Solamente i grandi ghiacci, gli ice-bergs, ed i palks si discernevano fra la caligine per la loro bianchezza abbagliante, ma non sempre a tempo per evitarli, e la Shannon correva il pericolo di andare a spaccarsi contro qualcuno di quei giganti polari. Già tre volte aveva evitato degli incontri mercè una rapida manovra appoggiata da un buon colpo di barra, quando verso le sei del pomeriggio, nel momento in cui la nebbia diventava un po’ meno densa, una montagna di ghiaccio immensa apparve bruscamente dinanzi al veliero, sbarrando la via. Solamente gli uomini di prora l’avevano scorta ed avevano potuto gettare un grido d’allarme: – Padron Tyndhall!... Andiamo a infrangerci!... capitolo ix. Il naufragio. Quell’ice-berg, che il nebbione fino allora aveva tenuto nascosto, doveva avere delle dimensioni veramente enormi, poichè i suoi margini non si potevano distinguere e l'ice-blink si rifletteva ad un’altezza straordinaria. Doveva essere una vera montagna situata in mezzo a qualche grande banco o attaccata al margine di un pack o forse di un ice-field, poichè anche ad una grande distanza se ne scorgevano i riflessi. La Shannon non era più in grado di evitarlo. La più fulminea manovra sarebbe riuscita inutile a così breve distanza e con quel ventaccio che impediva o almeno ritardava il cambiamento della velatura e quelle onde che scrollavano furiosamente la piccola nave. Mastro Tyndhall aveva scorto l’ice-berg quasi nel medesimo momento in cui i suoi uomini di prora avevano gettato il grido d’allarme. Impallidì e gli mancò la voce per dare qualsiasi comando, che del resto, come si disse, era affatto inutile, ma non perdette interamente la testa. Comprendendo che ormai un urto era inevitabile, cercò di renderlo meno pericoloso. Con una strappata irresistibile, tirò a sè la ribolla del timone. La Shannon deviò bruscamente proprio nel momento in cui stava per speronare l’ice-berg ed infrangersi e invece di urtarlo colla prora, gli si gettò addosso col tribordo, rovesciandosi a metà. L’urto che subì fu così violento, che tutti gli uomini caddero sulla tolda. Perfino il mastro, perduto l’equilibrio e travolto dalle onde che inseguivano la Shannon e che si erano scagliate in coperta con tremendi muggiti, credendo di spazzare via quell’ostacolo, fu sbalzato innanzi. S’udì un crepitìo come di legnami che s’infrangono, ma che fu tosto soffocato dalle urla del vento e dallo scrosciare dei marosi che s’infrangevano contro l’ice-berg. Per alcuni istanti sopra la coperta della Shannon vi fu un orribile rimescolamento d’acque spumeggianti, poi quei torrenti sfuggirono attraverso alle murate infrante e gli uomini di bordo poterono rialzarsi e rendersi conto della gravità della situazione. La Shannon galleggiava ancora, ma era ridotta in uno stato miserando. I suoi due alberi, urtando contro la enorme muraglia di ghiaccio, che scendeva proprio a piombo in quel luogo, si erano spezzati a metà e la velatura era stata portata via dall’improvviso assalto delle onde; la murata di tribordo ed una parte dei madieri superiori erano stati spezzati ed il timone erasi spaccato a metà. Ormai non era altro che una carcassa, che non si poteva in alcun modo riparare fra quelle deserte regioni, e che non poteva più navigare. – Siamo rovinati, disse mastro Tyndhall. Fortunatamente siamo ancora vivi tutti, è questo l’importante. Coraggio, ragazzi, tutto non è ancora perduto. – Ma tutto sta per finire, mastro, gridò Charchot, che si teneva aggrappato alla murata di babordo. – Cosa vuoi dire? – Che la Shannon ha i minuti contati. Guardate!... Mastro Tyndhall si slanciò verso la murata e guardò nella direzione indicata dal marinaio. Un’imprecazione gli irruppe dalle labbra. Un grande banco, spinto dalle onde e dal vento si avanzava traballando e scricchiolando verso la montagna di ghiaccio, tendendo a riunirsi. La Shannon, trovandosi fra quei due ghiacci e nell’impossibilità di allontanarsi per mancanza di vele e del timone, doveva inevitabilmente venire presa in mezzo e schiacciata come una semplice scialuppa. – È finita, disse Tyndhall, con voce rauca. I ghiacci hanno vinto i cacciatori di foche della baia di Baffin. – Mastro, fuggiamo! gridarono i marinai. – Sì, fuggiamo, disse Tyndhall. Alla baleniera, ragazzi, e cerchiamo di non abbandonare la Shannon senza armi e senza viveri. Mac-Chanty e Charchot alla dispensa; tu, Grinnell, pensa alle armi e voi alle vesti, alla tenda e alla scialuppa. Spicciamoci o fra dieci minuti sarà troppo tardi. I marinai, i quali conservavano ancora una certa calma, malgrado il tremendo pericolo che li minacciava, si precipitarono a prora ed a poppa. In pochi istanti la baleniera fu caricata di viveri, di armi, di munizioni, di vesti, di tende e di coperte, poi fu calata precipitosamente in mare. I marinai ad uno ad uno si lasciarono scivolare dalle funi e la raggiunsero, malgrado i violenti rollii che subiva. A bordo della Shannon non era rimasto che il grosso cane di Terranuova, il quale abbaiava con furore contro l’enorme ice-berg, che pareva si piegasse verso i bordi della povera barca. – Qui, Fox! gridò Tyndhall. Udendo la voce del padrone, l’animale non esitò a balzare fra le onde spumeggianti, nuotando vigorosamente verso la baleniera. – Al banco! gridò il mastro. – Non fuggiamo? chiese Charchot. – Ci manca il tempo. Ci isseremo sul banco e cercheremo di allontanarci prima che avvenga l’urto coll' ice-berg. I marinai avevano afferrati i remi e lottavano disperatamente contro le onde che scrollavano disordinatamente la baleniera. Per fortuna il grande banco faceva argine all’irrompere delle masse liquide che salivano dal sud ed il tragitto era breve. In meno di dieci minuti giunsero presso il pack. Un’onda che si era infranta contro l' ice-berg e che ritornava con grande impeto, prese la baleniera, la sollevò come una piuma e la scagliò sul banco in mezzo ad un letto di neve, la quale rese meno brutale il colpo. I marinai della Shannon, rialzatisi prontamente senza aver riportate contusioni, raddrizzarono la scialuppa e tenendola in equilibrio sulla chiglia, la fecero scivolare sul banco, allontanandosi dal margine che le onde spezzavano. Mastro Tyndhall, che spingeva con vigore sovrumano, li spronava a far presto, temendo che da un istante all’altro avvenisse l’urto. – Su, animo, spingete!... gridava. Forza, Charchot! Urta, Mac-Chanty!... C’è un buon colpo di spalla, Grinnell!... Lesti, o il banco ci mancherà sotto i piedi!... Fox, che li aveva raggiunti, pareva che anche lui volesse incoraggiarli, poichè raddoppiava i suoi latrati. Il bravo animale aveva di certo compreso il grave pericolo che correvano tenendosi presso i margini del pack. Si erano già allontanati di circa trecento passi, quando avvenne un urto violento che li fece cadere assieme alla baleniera. Il grande banco aveva toccato in qualche luogo, poichè si era udito un acuto crepitìo, ma non doveva essersi ancora incontrato col mostruoso ice-berg. Mastro Tyndhall, rialzatosi prontamente, aveva lanciato un rapido sguardo verso i margini del pack, ma vide subito che non toccavano ancora la montagna di ghiaccio. – Fuggiamo ancora, mastro? chiesero i marinai. – È impossibile, rispose Tyndhall. Dinanzi a noi il ghiaccio è così ineguale che non potremo spingere la scialuppa. – Credete che si spezzi il banco? – Se non tutto, una parte di certo andrà in frantumi. Ohe!... Attenti a fuggire!... Ecco l’urto!... Aveva appena pronunciato quelle parole, che il banco e l'ice-berg s’incontrarono. Si udì uno scroscio spaventevole, orribile, paragonabile solo allo scoppio di dieci polveriere e allo sfasciarsi di una città intera sotto la scossa del terremoto, seguito tosto da un tuonare assordante che si propagava sotto il banco, da crepitii prolungati e da muggiti formidabili, poi si vide un rimbalzare di blocchi di ghiaccio, un capitombolare di enormi crostoni staccatisi dalla cima della montagna ed uno spumeggiamento d’acque irrompenti fra quei rottami. Il grande banco, che la tempesta aveva spinto contro il colosso polare con una velocità notevole, oscillò malgrado la sua massa enorme e la sua grande estensione, poi si fendette in venti luoghi, lasciando il passo alle acque del mare. I naufraghi della Shannon, che si erano aggrappati ai bordi della baleniera, si sentirono mancare il ghiaccio sotto i piedi, essendosi il banco aperto proprio presso di loro. Ebbero appena il tempo di aggrapparsi ai margini della fenditura, ma non tutti, poichè quando si contarono, mancavano un uomo ed il cane. – Chi manca?... chiese Tyndhall, con voce strozzata. – Grinnell!... gridò Charchot. – Mille fulmini!... Grinnell!... Grinnell!... In lontananza si udirono echeggiare i latrati di Fox, ma subito si spensero. Il banco tuonava sempre e le onde disperdevano i suoi pezzi muggendo orribilmente, intanto che dall’alto dell’ice-berg piombavano in mare massi enormi i quali si inabissavano con grande fragore. – Grinnell!... Fox!... ripetè Tyndhall con voce tuonante. In mezzo a tutto quel fracasso parve al mastro di udire una voce umana che si allontanava verso l’ovest. – Grinnell!... ripetè ancora, con tutta la forza dei suoi polmoni. Nessuno più rispose, nè i latrati di Fox, nè la voce del disgraziato marinaio. Si spinse proprio sul margine del ghiaccio col pericolo di venire strappato dalle onde e guardò verso l’ovest, ma il nebbione scendeva allora sul mare con grande rapidità, nascondendo ogni cosa. – Anche la nebbia congiura contro di noi! urlò, tendendo le pugna. Oh!... Ma io lo salverò! – Sperate, mastro? chiese Charchot, che lo aveva raggiunto. – Sì, poichè ho udito la sua voce e quel marinaio non è un uomo da perdere la testa. – Ma dove credete che si sia salvato? – Udiamo, innanzi a tutto. A chi stava vicino quando il banco si spezzò? – A me, mastro; mi stava a destra. – L’hai veduto cadere nella spaccatura? – No, ma sentii una mano aggrapparsi alla mia casacca, poi lasciarmi bruscamente e mi parve di udire un tonfo. – Allora Grinnell è caduto in mare e poi si è salvato su qualche pezzo del grande banco. – Ed aiutato da Fox, mastro. – Lo credi? – Sì, perchè mi ricordo che il cane si è slanciato subito in acqua, e voi sapete che i Terranuova non lasciano mai un uomo pericolare. – Fox soprattutti, disse Tyndhall. Ha già salvato parecchi marinai che stavano annegandosi. – Allora speriamo di trovarlo. – Sì, Charchot. Quando la nebbia si sarà alzata ed il mare si sarà calmato, metteremo in acqua la baleniera e lo cercheremo. Le onde spingono i ghiacci al nord, ma non faranno molta strada e poi corre anche il nostro banco verso quella direzione. – E la Shannon, l’avete più scorta, mastro? – È stata fracassata, rispose il mastro con un sospiro. Orsù, non pensiamo più alla mia povera barca, ma a noi. Temo, Charchot, che si prepari un disastroso svernamento; ma non scoraggiamoci. Siamo uomini capaci di sfidare anche il destino. CAPITOLO X. Alla costa. Il banco frantumato dall’enorme massa dell' ice-berg, come già dicemmo, si era suddiviso in numerosi banchi, di cui alcuni avevano ancora delle dimensioni non piccole. Quello su cui si trovavano i cacciatori di foche, era uno dei più grandi, poichè aveva una lunghezza di tre o quattrocento metri ed una larghezza quasi eguale, ma aveva anche questo subìto dei gravi danni in quel cozzo formidabile, e si vedevano qua e là delle altre spaccature, che dovevano aprirsi totalmente in un altro urto. Liberatosi dai ghiacci vicini, era scivolato lungo i margini dell' ice-berg ed aveva ripresa la sua corsa disordinata verso il nord-ovest, spinto dalle onde e dal vento. Quantunque fosse ancora così vasto, rollava vivamente come se fosse un’immensa zattera e crepitava in siffatto modo, da temere che da un’istante all’altro dovesse cedere sotto gli urti e le scosse incessanti delle masse liquide. Mastro Tyndhall ed i suoi compagni, raddrizzata la baleniera che aveva perduto una gran parte del suo carico che era rotolato nella spaccatura apertasi quasi sotto la chiglia, vi si erano cacciati dentro, per essere più pronti a riprendere il mare nel caso che il banco nuovamente si aprisse. Il nebbione era calato su quel mare tempestoso e più nulla potevano scorgere. Solamente di tratto in tratto vedevano scintillare, per qualche istante, degli ice-bergs che subito scomparivano. Udivano però sempre gli urti di quei mostri polari lottanti fra di loro per aprirsi il passo verso il nord-ovest ed i loro capitomboli, i quali sollevavano delle ondate così mostruose, da spazzare il banco da un’estremità all’altra. Il vento non si era ancora calmato, ma pareva però che soffiasse con meno violenza. Lo si udiva a ruggire fra le alte vette degli ice-bergs, ma con meno frequenza e ad intervalli irregolari. Il mare però si conservava sempre cattivissimo e le onde si succedevano alle onde, scagliandosi rabbiosamente contro i margini del banco, come fossero impazienti di demolirlo e d’inghiottire i disgraziati marinai della Shannon. Mastro Tyndhall ascoltava sempre sperando di udire, fra quei mille fragori, o i latrati di Fox o la voce di Grinnell. Usciva di frequente dalla scialuppa e si spingeva verso l’orlo del banco, per vedere se sui vicini ghiacci distingueva qualche forma umana o quella del cane, ma il nebbione, che il vento sconvolgeva, ora diradando ed ora accumulando, ben presto tornava a piombare e nascondeva ogni cosa. Intanto il ghiaccione continuava la sua corsa sempre ondeggiando e crepitando. Qualche volta urtava contro dei ghiacci più piccoli, ma non perdeva che dei pezzi insignificanti e non si apriva quantunque fosse stato così gravemente guastato. Verso le due del mattino però, quando maggiore era l’oscurità e quando il nebbione cominciava a sciogliersi in neve, avvenne un cozzo così violento, che una grande parte del banco si spezzò e la scialuppa, che era mantenuta in equilibrio da due monticelli di ghiacciuoli, fu rovesciata, gettando l’un sull’altro i marinai che vi si erano accoccolati dentro per gustare un po’ di sonno. Mastro Tyndhall e Charchot, temendo che anche l’ultimo pezzo stesse per fracassarsi, si portarono verso uno dei margini per vedere contro quale ostacolo avevano urtato, ma fatti pochi passi si arrestarono entrambi, esclamando: – Ma noi siamo immobili!... Infatti il banco non ondulava più, quantunque le onde lo assalissero da ogni parte con estremo furore. Pareva che si fosse saldato a qualche altro campo di ghiaccio o che si fosse arenato su qualche bassofondo. – Sì, siamo immobili, ripetè Tyndhall. – Che le onde ci abbiano spinto verso le coste della Terra di Baffin?... – Lo credo, Charchot. – Sarebbe una bella fortuna, mastro. – È vero, poichè se il banco continuava la sua corsa verso il nord-ovest, avrebbe finito collo sfasciarsi contro gli ice-bergs, rovinandoci forse la baleniera. – E Grinnell, che sia già giunto a terra? – Chi può dirlo?... Ma lo cercheremo, Charchot, non dubitare. Io non sono uomo da abbandonare i miei marinai nel pericolo. – Lo so, mastro!... Ah!... Guardate!... È la costa che ci sorge dinanzi!... Tyndhall guardò nella direzione che Carchot gli indicava e scorse, attraverso alla nebbia che il vento lacerava, un’alta costa che biancheggiava verso l’ovest a meno di un miglio. – Sì, è la Terra di Baffin! esclamò. Il nostro banco si è saldato ai ghiacci delle spiagge. – Sì, mastro, vedo i banchi che si stendono lungo la costa. – Andiamo a narrare ai nostri poveri compagni la buona notizia. Stavano per ritornare verso la scialuppa, quando fra i fischi del vento e le urla delle onde, udirono dei latrati sonori. – Hai udito? chiese Tyndhall, stringendo le braccia di Charchot. – Sì, mastro, rispose il marinaio, arrestandosi. – È Fox! – Sì, è il cane di Terranuova. – Che ci sia anche Grinnell con lui? – Bisogna andarlo a cercare, mastro. – Vieni, Charchot. Quantunque il nebbione fosse tornato fitto e la neve cadesse turbinando, il mastro ed il marinaio si slanciarono innanzi, dirigendosi verso i banchi che si stendevano in direzione della costa. La via era tutt’altro che facile, perchè quei ghiacci che si erano accumulati contro la spiaggia non erano lisci, per di più avevano delle larghe fenditure entro cui si udiva l’acqua muggire e rimuggire. Vi era anche il pericolo di smarrirsi fra quella caligine, ma fortunatamente i latrati del cane bastavano a guidarli. Il povero animale pareva che avesse fiutata la vicinanza del suo padrone, poichè continuava ad abbaiare con maggior lena, ma doveva essersi smarrito fra la nebbia, poichè la sua voce ora si avvicinava ed ora si allontanava. Balzando attraverso i crepacci che tagliavano i banchi in tutti i sensi, ora arrampicandosi sugli avallamenti dei ghiacci ed ora sprofondando entro veri trabocchetti pieni di neve, il mastro ed il suo compagno avanzavano sempre, lanciando di tratto in tratto delle grida per attirare l’attenzione dell’animale, ma trovandosi ancora vicini al mare, le loro chiamate venivano soffocate dai muggiti delle onde. Erano giunti sull’orlo d’una vasta spaccatura, quando sulla sponda opposta scorsero confusamente Fox che latrava in mezzo al nebbione. – Qui, Fox!... tuonò Tyndhall. L’animale udendo la voce del padrone si slanciò verso la fenditura, vi balzò entro senza esitare e nuotando con vigore, toccò il margine opposto. – Mio povero Fox! esclamò Tyndhall, con voce commossa, accarezzandolo. E Grinnell?... Dov’è Grinnell? Il cane udendo quel nome volse il capo verso la costa e lanciò un lungo urlo lamentevole. – Fulmini!... gridò Tyndhall. Quest’urlo presagisce una disgrazia. – Che quel povero camerata sia annegato? disse Charchot rabbrividendo. – Fox, mio bravo Fox, cerca Grinnell!... Il grosso Terranuova invece di slanciarsi innanzi, emise un secondo urlo più lamentevole, più triste del primo. – È toccata una disgrazia a Grinnell, disse il mastro con dolore. Se fosse ancora vivo, Fox non urlerebbe così. – Che le onde abbiano frantumato il ghiaccio che lo portava, mastro? – Lo temo, Charchot. Silenzio ora coi compagni; non bisogna che s’impressionino in questi momenti. Ritornarono tristamente sul banco dove si trovavano i loro compagni rannicchiati nella scialuppa e dissero loro che nulla avevano potuto sapere sulla sorte dello sventurato Grinnell, ma che la costa era ormai tanto vicina, da non aver più da temere la rabbia del mare. Continuando l’oscurità in causa del nebbione e non stimando prudente avventurarsi attraverso i banchi che offrivano tanti pericoli colle loro spaccature, decisero di prendere alcune ore di riposo. Essendosi la temperatura assai abbassata e continuando a cadere la neve, stesero sopra la baleniera una grossa tela che doveva servire di tenda e vi si rannicchiarono sotto, avvolgendosi nelle pellicce d’orso che avevano avuto il tempo di salvare, prima che la Shannon venisse schiacciata. Fox vegliava al di fuori, mezzo sepolto fra la neve, riparo più sufficiente per gli animali della sua specie. Il sonno dei naufraghi fu però tutt’altro che tranquillo. Il banco scricchiolava sempre, o tuonava o muggiva e provava delle brusche oscillazioni in causa delle pressioni che esercitavano su di lui gli altri ghiacci, che venivano ad unirsi ai banchi della costa. Vi erano anzi certi momenti, che pareva si sollevasse ad arco verso il centro, minacciando di spezzarsi. Calmatosi però l’uragano ed abbassatesi le onde, i naufraghi poterono finalmente gustare un po’ di sonno. Quando si risvegliarono, il nebbione era scomparso, il vento non soffiava quasi più ed il mare si era un po’ calmato. All’orizzonte un sole pallido, senza raggi, rassomigliante ad un disco di metallo leggermente incandescente, s’alzava lentamente, specchiandosi sulle acque del mare e tingendo di rosa i ghiacci. Il freddo, notevolmente accresciuto da quella nevicata e dalla vicinanza di tutti quei colossi polari radunatisi attorno alla costa della Terra di Baffin, aveva già cominciato a gelare l’acqua racchiusa nei canali. Un piccolo termometro salvato dal mastro segnava già -12° ed il mercurio accennava a scendere ancora. I marinai usciti dalla baleniera per stirarsi le membra indolenzite, volsero subito gli sguardi verso la costa che giganteggiava a meno di un chilometro e mezzo. Era una specie di bastione, alto assai, con larghe spaccature che s’addentravano profondamente entro la terra, tutta incrostata di ghiacci e di neve. Non si vedeva traccia alcuna di vegetazione, nè alcun animale; solamente pochi uccelli svolazzavano sulle cime di quella ripida costa. – Non so se riusciremo a spingere lassù la baleniera, disse mastro Tyndhall. Decisamente la fortuna, che prima ci proteggeva, si è voltata contro di noi. – Volete approdare, mastro? diceva Mac-Chanty. – È necessario. Fra qualche giorno tutto il mare gelerà e la baleniera non potrà più giovarci. – Ma dove avete intenzione di svernare, mastro? chiese Charchot. – Al deposito dei balenieri. – Ma sarà lontano. La tempesta deve averci spinto molto al nord. – Lo so, ma se noi non giungiamo al deposito, moriremo tutti di fame e di freddo, amici. Bisogna fare uno sforzo disperato e trovare il fiord. – Ma non potremo spingere la baleniera fin là, mastro, disse Thorn. Perderemmo un tempo prezioso ed esauriremo inutilmente le nostre forze. – L’abbandoneremo qui. – Ma come ritorneremo poi in Groenlandia? – Amico Charchot, per ora abbandona la speranza di far ritorno a Discko. Solo una marcia attraverso la Terra di Baffin può salvarci. Noi sverneremo al deposito dei balenieri e vi rimarremo fino al ritorno della buona stagione. Quando comincerà lo sgelo, cercheremo di giungere sulle spiagge della baia di Fox. – E troveremo qualcuno colà? chiesero i marinai. – Sì, degli esquimesi che sogliono svernare nei dintorni del Capo Willeughby e che durante l’estate scambiano le pellicce degli animali uccisi durante l’inverno, coi cacciatori della Compagnia della baia di Hudson. So che tutti gli anni una navicella della Compagnia si reca su quella costa. – Mastro, disse Charchot, voi sapete che noi siamo uomini rotti a tutte le fatiche, già provati ai più rigidi inverni delle regioni polari e che abbiamo in voi una fiducia illimitata, essendo voi il più intrepido lupo di mare della baia di Baffin e di tutta la costa groenlandese. Comandate e noi tutti vi obbediremo; è vero, camerati? – Sì, mastro, siamo sempre pronti a seguirvi, dissero i marinai. – Grazie, ragazzi miei, rispose Tyndhall. Sapevo già prima d’intraprendere questa disgraziata spedizione, che potevo contare su di voi come di me stesso. Faremo ora l’inventario dei nostri viveri, poi marceremo verso la costa. – E Grinnell? – Lo cercheremo, amici miei, e non lasceremo questi paraggi se non quando l’avremo trovato vivo ancora, od almeno avremo scoperto il suo cadavere. Sbrighiamoci; gettate sul ghiaccio tutto ciò che contiene la scialuppa. CAPITOLO XI. Il ritorno di Grinnell. Se l’urto del campo di ghiaccio contro l’enorme ice-berg era stato fatale alla Shannon, il contraccolpo che aveva prodotto quella fenditura, entro la quale era caduto il disgraziato Grinnell, era stato non meno disastroso per ciò che conteneva la baleniera. Essendo questa stata rovesciata proprio sull’orlo del grande crepaccio, una buona parte degli oggetti, salvati poco prima del naufragio, erano caduti in acqua. Fu con vera disperazione che mastro Tyndhall ed i suoi compagni, constatarono la mancanza delle cose più utili e più necessarie per uomini perduti in quelle desolate regioni del gelo. Dei viveri precipitosamente imbarcati, non rimanevano che due cassette di pemmican del peso di venti chilogrammi ciascuna, due prosciutti salati, pochi biscotti e una fiaschetta di ginepro della capacità di appena un litro; delle armi un solo fucile a due colpi, due ramponi e tre pistole con delle munizioni molto limitate; delle vesti, due sole pellicce d’orso bianco ed un capotto di pelle di foca, e degli utensili due sole pentole di ferro. La tenda, oggetto assolutamente indispensabile, era rimasta, ma la lampada ad alcool necessaria per riscaldare le vivande, le provviste di liquori, di the e di caffè, il cioccolato, la farina, le quattro casse di biscotti, un barile di porco salato e tutti gli altri fucili, erano stati ingoiati dall’abisso apertosi sotto la baleniera. – Amici, disse Tyndhall con voce commossa, il disastro non poteva essere più tremendo, ma noi non ci scoraggeremo per ciò e mostreremo all’avversa fortuna come sanno lottare gli uomini della nostra tempra. Bisogna partire senza perdere un solo istante o nessuno di noi rivedrà mai più la Groenlandia, nè tutti coloro che abbiamo lasciato laggiù. Bisogna marciare senza posa attraverso i deserti di neve e di ghiaccio, o la fame ci farà cadere tutti sulle coste della Terra di Baffin. Abbiamo dei viveri appena sufficienti per otto giorni e prima che finisca l’ottavo dì, bisogna giungere al deposito dei balenieri. Vi accordo ventiquattro ore per cercare Grinnell, ma non un’ora di più o saremo perduti. – Siamo pronti alla lotta, mastro, risposero i marinai. Comandate: cosa dobbiamo fare? – Raggiungere subito la costa, innanzi tutto. I ghiacci possono ancora spezzarsi e trascinarci al largo. – Partiamo, mastro. Divisero i viveri e le armi, trascinarono la baleniera su di un campo di ghiaccio che pareva da anni saldato alla costa, per poterla un giorno ritrovare, nel caso che fossero stati costretti a ritornare in quei paraggi, e volsero le spalle al mare, preceduti da Fox. I banchi di ghiaccio, compressi dagli ice-bergs che si erano appoggiati contro i loro margini e sollevati dalle furiose ondate scatenate dall’uragano, non presentavano più una superficie liscia ed unita. Dappertutto si vedevano profonde spaccature che si allungavano in tutte le direzioni; dei massi enormi che si erano accatastati gli uni sugli altri, spinti fuori dalla forza irresistibile delle pressioni, punte aguzze, piramidi semi-diroccate, guglie troncate, poi nuove spaccature, buche e nuovi avallamenti, che rendevano la marcia penosa anche a quegli uomini, sebbene fossero abituati a camminare sui ghiacci. Quei campi dovevano aver subìto delle convulsioni tremende durante l’uragano e non erano ancora tornati tranquilli, poichè si vedeva la crosta a fremere sotto la costante pressione dei ghiacci marini e talora tuonavano come se nel loro seno scoppiassero delle mine. I marinai però non s’inquietavano e continuavano la loro marcia, ansiosi di giungere alla costa per cominciare di là le loro ricerche. Si affrettavano anche perchè il nebbione, che si era solamente sollevato, minacciava di scendere ancora. A mezzodì giungevano finalmente dinanzi alla costa e si arrestavano dinanzi ad una specie di caverna di ghiaccio, che poteva offrire un rifugio durante la notte. Scaricatisi dei viveri, ripartirono per mettersi in cerca del loro disgraziato compagno, avendo il mastro dichiarato che l’indomani avrebbero abbandonato per sempre quei paraggi. Mentre gli uni seguivano i banchi verso il nord ed altri esploravano le spiagge del sud, Tyndhall si era arrampicato sull’alto bastione formato dalla costa, volendo, prima di mettersi in marcia, formarsi una chiara idea di quella terra. Avendo trovato un passaggio, una specie di fenditura che saliva fra due rocce colossali, ma ormai completamente incrostate di ghiaccio, potè giungere senza molte difficoltà sulla cima e di là spaziare gli sguardi sul paese circostante. Come aveva preveduto, dinanzi a lui si estendeva, a perdita di vista, un vero deserto di ghiaccio e di neve, assolutamente disabitato. Era un immenso altipiano, senza montagne, senza colline, senza depressioni e che doveva prolungarsi, senza variazioni, dalle spiagge della baia di Baffin a quella di Fox e dello stretto di Fury. Solamente lungo la costa della baia, si sollevava capricciosamente in causa dei fiord e di alcuni ghiacciai che si vedevano scintillare verso il sud. Mastro Tyndhall stette parecchio tempo assorto in quella contemplazione, poi volse gli sguardi verso il mare guardando con viva attenzione i numerosi banchi di ghiaccio che erravano in balìa delle onde. Egli cercava di distinguere, su quei candidi mostri polari, qualche macchia oscura che indicasse la presenza di qualche corpo umano, ma i suoi sguardi invano percorsero quelle scintillanti superficie, che il pallido sole tingeva di un rosso scolorito e che il nebbione si preparava a offuscare. Guardò lungo la spiaggia e scorse i suoi uomini disseminati pei banchi. Esploravano le fenditure guidati dal cane, visitavano i margini dei ghiacci cercando almeno di scoprire il cadavere del disgraziato loro camerata e di tratto in tratto gettavan delle tuonanti chiamate o bruciavano qualche carica, ma senz’altro effetto che quello di spaventare i radi uccelli marini che svolazzavano sul mare ormai semi-gelato. Ridiscese lentamente il bastione appoggiandosi ad un remo della baleniera, e ritornò alla caverna di ghiaccio. Poco dopo i suoi compagni, affranti da quelle ricerche e scoraggiati, lo raggiungevano. La nebbia calava allora fitta assieme alla neve, ed aveva interrotto la loro escursione. – Proprio nulla? chiese Tyndhall. – Nulla, mastro, fuorchè alcuni rottami della Shannon, rispose Charchot con voce triste. Egli è morto. – Povero Grinnell!... E chissà se noi gli sopravviveremo. Cenarono in silenzio con un po’ di prosciutto e con pochi biscotti, poi si avvolsero nelle loro pellicce e si sdraiarono gli uni accanto agli altri, per mantenersi un po’ caldi. Al di fuori era rimasto solamente Fox a vegliare. L’oscurità ormai era diventata profonda. Ululava sinistramente il vento sulla costa, travolgendo il nebbione e la neve, ed i ghiacci tuonavano sordamente sotto le continue pressioni degli ice-bergs che si accumulavano sui margini dei banchi. I naufraghi, vinti dalla stanchezza, si erano addormentati e russavano sonoramente. Erano già trascorse parecchie ore, quando furono bruscamente svegliati dai latrati di Fox. – Che vi sia qualche orso? chiese mastro Tyndhall, cercando le sue pistole. Sarebbe il benvenuto per rifornirci di viveri. – Vado a vedere, mastro, disse Charchot. Rimanete: può essere un falso allarme. Afferrò una fiocina, si passò nella cintola una pistola e uscì. La notte era oscurissima e un ventaccio gelido soffiava dalle regioni nordiche, sibilando e urlando fra i picchi e le guglie dei banchi. La nebbia scendeva a ondate strisciando sui ghiacci o turbinando sulle ali delle raffiche, impedendo di scorgere un oggetto qualunque a dieci passi di distanza. Charchot cercò il cane, ma questi era scomparso; però fra il tuonare dei ghiacci, udiva, ad intervalli, i suoi latrati, i quali si allontanavano in direzione del mare. – Chi può avere allarmato Fox? si chiese il marinaio. Se fosse stato un orso, non sarebbe di certo fuggito. Cercò di orizzontarsi alla meglio per non smarrirsi fra il nebbione, e si avanzò costeggiando un crepaccio che si allungava in direzione del mare. Aveva già percorso tre o quattrocento passi procedendo con somma precauzione, quando gli parve di distinguere una forma oscura, avanzarsi lentamente attraverso i ghiacci. – Corna di caribou!... esclamò. O m’inganno assai o sto per trovarmi faccia a faccia con un orso. Girò rapidamente sui talloni non osando da solo affrontare il feroce animale e si slanciò in direzione della caverna. A mezza via s’incontrò col mastro il quale, inquieto, era pure uscito, armato delle sue due pistole. – Vi è un orso che mi segue, disse Charchot. – Cercheremo di non lasciarcelo sfuggire, rispose Tyndhall. Quella carne ci assicura i viveri per una buona settimana. – Devo chiamare i compagni? – Si sono già riaddormentati e noi due bastiamo. Ho il mio coltello e vale più d’un fucile. – Andiamo, mastro. Tenendosi vicini per portarsi reciprocamente soccorso e tenendo in pugno le pistole, s’avanzarono lungo il crepaccio. Ad un tratto udirono i latrati di Fox, ma cosa strana, parevano latrati festosi invece che di collera. Charchot, sorpreso, stava per fare l’osservazione al mastro, quando vide avanzarsi fra la nebbia, strisciando sul ghiaccio, la forma oscura. – Eccolo, mastro! gridò. Tyndhall balzò innanzi colle pistole in pugno. Già si preparava a fare fuoco, quando quella forma oscura si mise a gridare: – Fermi!... Sono Grinnell!... Non fate fuoco!... – Per centomila balene!... urlò il mastro. Tu Grinnell! – Sì, mastro. – E noi stavamo per ucciderti!... Si precipitò verso il marinaio, lo alzò come se fosse un bambino e se lo strinse fra le vigorose braccia, ripetendo: – Tu!... Tu!... Ah! Quanto sono contento di averti ritrovato, mio bravo marinaio. – Ed io forse più di voi, mastro. – Qua una stretta, camerata, gridò Charchot. Quando penso che noi stavamo per ucciderti credendoti un orso, mi viene la pelle d’oca. – E gli altri, sono vivi tutti? chiese Grinnell. – Tutti rispose Tyndhall. Ma tu, come ti sei salvato? Ti avevamo pianto come morto. – Sono vivo per miracolo, ma racconterò ciò più tardi. Portatemi in qualche rifugio, poichè sono assiderato e non posso più reggermi in piedi. Il povero marinaio diceva il vero; era ridotto in uno stato veramente miserando. Il suo vestito di pelle d’orso era tutto inzuppato d’acqua e incrostato di ghiacciuoli: il suo viso era diventato bianco per un principio di congelazione e le sue membra erano già così irrigidite che non riusciva più a piegarle. Il mastro se lo prese in braccio e si mise a correre verso la caverna seguìto da Charchot e dal cane, il quale abbaiava festosamente. I marinai, svegliati da quei latrati e dalle grida del mastro, si erano già alzati. Vedendo il loro camerata che ormai avevano creduto di non più ritrovare, gli furono tutti attorno soffocandolo di domande, ma Tyndhall impose a loro silenzio. Fece stendere a terra la tenda, vi sovrappose una pelle d’orso, vi adagiò Grinnell e lo spogliò rapidamente. – Presto, della neve o quest’uomo gelerà, disse. Mac-Chanty e Thorn si slanciarono fuori e rientrarono con due grosse palle di neve, mettendosi a strofinare vigorosamente le membra del loro camerata. Intanto Tyndhall aveva sturata la fiaschetta contenente il ginepro e dopo di averne fatto bere alcuni sorsi, aveva inzuppato un fazzoletto e si era pure messo a strofinare il petto del marinaio. Quando vide la pelle riprendere il primiero colore, avvolse per bene quel corpo semigelato in una pelle d’orso, poi nella grossa tela della tenda. – Ti senti meglio, amico mio? chiese. – Benissimo, mastro, rispose Grinnell, ma se tardavate a trovarmi, morivo gelato. – Ma come ti sei salvato? Non eri caduto nelle fenditure del banco? – Sì, mastro, e se Fox non mi avesse afferrato per la pelliccia e mi avesse trascinato su di uno stream staccatosi dal banco, non mi avreste di certo più ritrovato vivo. – Ah! È stato Fox?... Bravo e fedele cane! Ma perchè ti ha poi abbandonato? – Siamo stati divisi, essendosi lo stream spaccato per metà in causa d’un urto. Essendo il nebbione assai fitto ed il mare orribilmente sconvolto, il bravo cane non potè più raggiungermi. Navigai tutta la notte su quel pezzo di ghiaccio, flagellato dalle onde e sempre col pericolo di venire subbissato ed in mezzo ad una continua oscurità, finchè un urto tremendo mi fece cadere svenuto. Cosa fosse accaduto io non lo so, ma suppongo che qualche blocco di ghiaccio mi fosse piombato addosso nell’incontro con qualche ice-berg. Non rinvenni che poche ore fa, quando la nebbia tornava a scendere sul mare. Mi trovavo ancora sullo stream il quale veniva spinto dalle onde verso la costa. Appena toccò i banchi, lo abbandonai, poichè ero certo che voi avevate raggiunta la spiaggia e cercai di portarmi ai piedi dell’alta barriera, ma ero sfinito e mezzo assiderato. Vagai due ore fra il nebbione, trascinandomi di banco in banco, perchè non potevo più reggermi, ed aiutandomi alla meglio con un rampone che avevo trovato su di un ghiacciaio, uno de’ nostri di certo, spinto colà dalle onde. Vi ho ritrovati, ma, come dissi, se rimanevo ancora un’ora esposto al freddo, mi avreste raccolto gelato come una foca. – Basta, mio bravo marinaio, disse Tyndhall. Dormi e cerca di rimetterti presto in forze, perchè se non ci affrettiamo a lasciare questa costa, la finirà male per tutti. CAPITOLO XII. Il deserto di neve. L’indomani, verso il mezzodì, i naufraghi della Shannon abbandonavano quelle sponde per intraprendere il lungo viaggio al fiord del deposito dei balenieri. Il cielo si era un po’ rischiarato, ma delle masse vaporose, che si addensavano sull’orizzonte, promettevano un’abbondante nevicata. Il sole non si era fatto vedere; invece il freddo era diventato più acuto, gelando un grande tratto della baia di Baffin. Superato l’alto bastione, aiutando Grinnell che era ancora debole, si misero animosamente in marcia seguendo la costa, non volendo allontanarsi dalle vicinanze del mare per avere la possibilità di provvedersi più facilmente di selvaggina, soprattutto di qualche foca o di qualche morsa, animali che non si trovano nell’interno delle terre. Quelle numerose pianure, coperte di neve gelata, senza una pianta, senza una roccia, senza una macchia di diverso colore su cui riposare gli sguardi abbagliati da quella candida bianchezza, producevano una tristezza profonda sugli animi dei disgraziati naufraghi. Persino mastro Tyndhall, l’ardito navigatore di quei mari perduti sui confini del mondo abitato, già da lunghi anni abituato a percorrere quelle regioni dei ghiacci e delle nevi, si sentiva indosso un vivo malessere nel guardare quelle lande sconfinate che si estendevano al di là del circolo artico, sulle quali fra breve dovevano accumularsi altre nevi, altri ghiacci ed altre nebbie e poi doveva scendere quella lunga e tenebrosa notte polare, lo spauracchio di tutti i naviganti. La via era aspra, ma nessuno si arrestava, nè nessuno esitava. Scalavano animosamente i cumuli di neve, i ghiaccioni vomitati sin là dai ghiacciai delle vallate celate entro i profondi fiords, si calavano nei crepacci aperti fra le rupi, s’arrampicavano sulle coste e dove trovavano una superficie liscia, si mettevano a scivolare per guadagnare pochi passi di più. La paura di venire sorpresi dai tremendi uragani del polo senza un rifugio, e di dover lottare colla fame in mezzo a quei freddi, li spronava ad avanzare ed a superare tutti gli ostacoli. Ormai sapevano che se non giungevano al deposito dei balenieri prima delle grandi nevicate, non sarebbero sfuggiti alla morte. Quella marcia penosa si prolungò fino alle sei di sera e l’avrebbero continuata, se Grinnell non avesse dichiarato di non poter più reggersi in piedi. Rizzarono la tenda contro un masso di ghiaccio che incrostava una grande rupe e vi si cacciarono sotto per prepararsi la magra cena consistente in un po’ di pemmican e negli ultimi biscotti. La mancanza di un po’ di liquido caldo, dopo quella marcia fatta con un freddo di -10°, riusciva penosa, quantunque quegli uomini fossero abituati alle privazioni da lunga pezza, ma non possedevano la più piccola lampada per prepararsi un buon brodo col pemmican e mancavano per di più di legna o di alcool. La notte fu cattivissima. Cadeva la neve a larghe falde sull’immensa pianura e soffiava un vento gelido che scendeva dalle regioni polari. La tenda più volte fu abbattuta e quei disgraziati furono parecchie volte coperti dalla neve, accumulatasi sopra quel debole riparo. I ghiacci della costa non stettero un minuto silenziosi. Di tratto in tratto tuonavano come se si spezzassero violentemente e Tyndhall udì anche quei muggiti paurosi prodotti dalle pressioni. Guai se invece di porsi in riparo sull’altipiano, si fossero trovati ancora sui banchi!... Forse qualcuno ci avrebbe lasciata la vita. Quando i naufraghi decisero di riporsi in marcia, continuava a nevicare ed il vento, cresciuto di violenza, sollevava furiosamente il bianco strato spingendolo innanzi in forma d’immense cortine. Non era forse prudente avventurarsi su quell’immensa pianura spazzata dall’uragano, ma i minuti erano preziosi e non vi era da scegliere fra il pericolo di smarrirsi e quello di morire di fame. Mastro Tyndhall si era messo alla testa e marciava colla bussola in mano, non riuscendo più a scorgere la costa fra quei continui turbini di neve, che il vento ora sollevava a grande altezza ed ora abbatteva con estrema violenza. Infagottati nelle loro pellicce, col cappuccio calato sul viso per difendere il naso dalle congelazioni, quei disgraziati procedevano a casaccio, avvolti in una specie di nebbia prodotta dall’evaporazione dell’umidità dei loro corpi e cogli occhi gonfi e lagrimosi pel freddo che diventava sempre più acuto. Marciavano nondimeno con una specie di accanimento, coll’unica intenzione di guadagnare via, per diminuire la distanza, forse immensa, che ancora li divideva dal deposito dei balenieri, unica loro salvezza. Alle dieci del mattino incontrarono un profondo fiord che pareva si addentrasse entro terra per parecchie miglia. Non sentendosi in grado di girarlo, scesero fra mille pericoli le pareti tagliate quasi a picco, aiutandosi l’un l’altro e servendosi degli arpioni per non rotolare fino in fondo, dove si sarebbero infallantemente fracassate le ossa. La superficie del fiord era gelata e permetteva la traversata. Tyndhall stava per scandagliare lo spessore del ghiaccio, quando, a cinquanta passi dalla sponda, scorse una macchia oscura apparire sull’orlo di un foro di forma circolare. – Fermi, ragazzi!... esclamò. Abbiamo una foca!... – Dove? chiesero i marinai. – È venuta a respirare in questo momento, sull’orlo di quel buco. – Non lasciamola sfuggire, mastro, disse Charchot. Ci somministrerà del grasso per prepararci il pemmican. – Avete ancora le pentole di ferro? – Le tengo io, rispose Mac-Chanty. – Seguimi, Charchot, e voi riparatevi sotto quella roccia gelata e trattenete il cane. La foca non tarderà a riapparire, se vorrà respirare e la uccideremo con un buon colpo di rampone. Mentre i marinai s’affrettavano a ricoverarsi sotto la roccia per difendersi dalla neve che continuava a cadere, il mastro e Charchot, armatisi di due ramponi, si misero a strisciare sulla gelata superficie del fiord, accostandosi al buco che l’anfibio si era aperto per venire a respirare. – Guarda giù, Charchot, disse Tyndhall, sottovoce. – State pronto a colpirla. – Non temere. Il marinaio si curvò guardando entro il buco, ma subito si trasse indietro. Aveva scorto attraverso l’acqua, che era ancora limpida, un’ombra apparire presso l’orlo inferiore del ghiaccio e poi subito calare a picco. – L’hai veduta? chiese Tyndhall. – Sì, mastro, ma si è inabissata. – Non importa, tornerà a mostrarsi, se non vuole morire asfissiata. Mentre Charchot spiava l’acqua, impugnò il rampone e si tenne pronto a colpire, stringendo nella sinistra la fune legata all’asta. Passò un minuto lungo come un’ora pei due marinai; poi entro il buco si udì un leggero gorgoglìo seguìto da un respiro tosto represso. Il mastro, scorgendo emergere una testa rotonda, rapido come il lampo abbassò la fiocina, senza abbandonare la fune. Entro il buco echeggiò un acuto gemito, e l’arma sparve sott’acqua, mentre intorno all’apertura si allargava una macchia di sangue. – A me, camerati! urlò Tyndhall. Charchot e gli altri, che si erano lentamente avvicinati, afferrarono la fune e si misero a tirare con tutte le loro forze. Poco dopo riappariva il rampone e quindi la foca, la quale fu tosto issata sul ghiaccio. Era un vecchio beack-master, ossia una foca della famiglia delle otarie, colla testa rassomigliante un po’ a quella dei cani, cogli occhi grandi, colle orecchie appena visibili, non avendo che un principio di materia cartilaginosa, sola cosa che distingue le otarie dalle altre foche, le quali non hanno per orecchi che una semplice apertura. Era lungo due metri e abbastanza grasso quel vecchio solitario ed aveva ricevuto il colpo di rampone sul collo in modo da riportare la frattura completa della spina dorsale. Fu tosto trascinato sotto la rupe e Mac-Chanty, che possedeva una scure, si affrettò a farlo a pezzi, senza prendersi la briga di scuoiarlo. Furono messi da parte il cuore ed il cervello, due bocconi discreti, poi venne raccolto con cura minuziosa il grasso, che era assai abbondante. La carne che è nera, di sapore oleoso, non fu però gettata via; poteva tornare di grande vantaggio, malgrado la sua ripugnanza, a uomini che possedevano così scarsi viveri. Essendo il tempo sempre cattivo ed essendo tutti intirizziti dal freddo, rizzarono la tenda contro la rupe, assicurandola con dei massi di ghiaccio onde potesse meglio resistere ai soffi impetuosi del vento e si affrettarono ad accendere un po’ di fuoco. Non fu una cosa nè lunga, nè difficile. Un pezzo di canapa cacciato entro la pentola di ferro colma di grasso, bastò per produrre una bella fiamma, di poco inferiore a quella che avrebbe data una lampada ad alcool. Fusa della neve nella seconda pentola, i marinai vi misero dentro alcune manate di pemmican, miscuglio composto di carne di bue prima ben seccata, poi pestata fino ad essere ridotta in briciole e quindi mescolata con del grasso e che dà un brodo eccellente dopo pochi minuti di bollitura. Quella sera i naufraghi della Shannon, dopo tre giorni di privazioni e di marcie sotto un freddo glaciale, poterono regalarsi una buona zuppa bollente e dormire sotto una tenda discretamente riscaldata. CAPITOLO XIII. Una marcia disastrosa. Per cinque lunghi giorni la bufera di neve imperversò con furore indicibile e senza un istante di tregua, costringendo i naufraghi della Shannon a tenersi rannicchiati sotto la tenda. Giorno e notte il vento polare soffiò costantemente, sollevando immensi turbini di neve, che impedivano di fare un passo fuori del fiord ed il freddo oscillò fra i 20° ed i 25° sotto lo zero. Non fu che alla mattina del 13 ottobre che l’uragano cessò e che il sole ricomparve, rialzando la temperatura di parecchi gradi. Mastro Tyndhall non perdette un istante. Quella lunga fermata entro il fiord era stata disastrosa pei loro scarsi viveri salvati dal naufragio ed era molto se potevano bastare per tre giorni ancora. È vero però che avevano conservata gelosamente la carne della foca, cibo ributtante, ma assai sostanzioso, essendo ricco di materie oleose. Si caricarono della tenda, dei pezzi di foca e del poco pemmican ancora rimasto e delle pentole contenenti ancora del grasso e si rimisero in marcia, decisi a non arrestarsi se non completamente sfiniti. Scalata la sponda opposta del fiord si gettarono fra le nevi dell’altipiano, avanzando colla massima celerità, ma facendo una fatica immensa, poichè non potevano più trovare un terreno solido, nè adatto per una rapida marcia. Gli strati superiori della neve, non avendo avuto il tempo di gelare pel brusco rialzo della temperatura, cedevano facilmente sotto i piedi dei marinai, sicchè quella marcia era accompagnata da continue cadute. Talvolta anche gli strati si abbassavano improvvisamente, la crosta gelata che si trovava sotto si spezzava ed i sette uomini precipitavano entro dei crepacci profondi, dai quali faticavano assai ad uscire. Nondimeno camminarono tutto il giorno, non facendo che due brevi fermate e alla sera si accamparono sotto una rupe, dopo d’aver percorso una dozzina di miglia, distanza enorme, tenuto conto del cattivo stato del terreno e dei numerosi ostacoli superati. L’indomani fu un’altra corsa disperata attraverso alle nevi dell’altipiano, ma più faticosa del giorno precedente. La temperatura si era notevolmente rialzata e gli strati di neve, diventando più deboli, aumentavano le cadute ed imprigionavano i piedi. Pareva che il sole, prima di tramontare per quattro o cinque lunghi mesi, volesse tentare un ultimo sforzo per sciogliere quelle nevi e quei ghiacci e nelle poche ore che rimaneva ancora sopra l’orizzonte splendeva superbamente, proiettando su quei grandi ice-bergs e su quegli sterminati campi, che la corrente ed i venti del polo accumulavano nella baia di Baffin fasci di luce abbagliante. Già nei fiord e nei canali l’acqua aveva cominciato a sgelare e gli uccelli, che nei giorni precedenti erano fuggiti verso il sud, avevano fatta la loro comparsa, l’ultima della stagione, su quelle sponde desolate. Si vedevano svolazzare i piccoli auk sopra i banchi ed i piccoli plectrophanes nivales e sulle rupi della costa si udivano a pigolare i borgomastri (larus glaucus) e le urie nere. Anche qualche lupo era stato veduto a scorrazzare in prossimità delle coste e qualche volpe turchina o isatis, animale dal pelo lungo, abbondante, morbido, d’una bella tinta azzurrina, voracissimo e così audace, che osa perfino rodere le suole delle scarpe dei marinai che dormono sotto le tende. Mastro Tyndhall, che vedeva i viveri a scemare con rapidità spaventevole, aveva cercato di avvicinare i lupi e le volpi, ma senza buon esito, essendo questi animali assai diffidenti. La mattina del 16, però, era riuscito ad uccidere una lontra marina che aveva sorpresa in fondo ad un fiord, nel momento in cui usciva dall’acqua tenendo in bocca un grosso pesce. Questi anfibi sono piuttosto rari sulla Terra di Baffin e nelle isole vicine, ma sono invece ancora numerosi nei paraggi dello stretto di Behering e alla foce del Makenzie, quantunque i cacciatori della Compagnia dell’Hudson facciano loro una caccia accanita per impadronirsi delle pellicce. La loro carne è mediocre, ma la loro pelle che è morbida, lucente, bellissima vale un migliaio di lire e talvolta la si paga perfino millecinquecento lire. La lontra, abbattuta con un colpo di fucile, fu subito cucinata e divorata dai sette naufraghi, che cominciavano a provare le strette della fame. Quel pasto abbondante e sostanzioso rinvigorì le loro forze esauste e permise a loro di riprendere l’interminabile marcia attraverso il deserto di neve. Erano però gli ultimi sforzi. La sera del 18, completamente sfiniti, si arrestavano sulle sponde d’un profondo fiord, nell’assoluta impossibilità di reggersi in piedi. A mezzodì avevano divorato l’ultimo loro pezzo di foca e non possedevano che un pugno di pemmican, gelosamente conservato fino allora. – Mastro, disse Charchot, dopo d’aver rizzata la tenda. La situazione nostra minaccia di diventare disperata. Cosa decidete di fare?... – Lo sapete: di andare innanzi a qualunque costo. Chi si ferma qui è uomo morto, rispose Tyndhall. – Ma non ne possiamo più, mastro, disse Grinnell. – Bisogna fare uno sforzo disperato e giungere al deposito dei balenieri. Fra qualche giorno il sole scomparirà ed il terribile inverno polare piomberà su queste coste e guai a coloro che si troveranno senza ricovero. – Udiamo, mastro, riprese Charchot. Credete che sia ancora molto lontano quel deposito? – Credo che sia vicino. Ho esaminata la costa ieri sera e mi parve di averla riconosciuta. Io sono certo di non essere molto lontano dalla baia di Home. – Ma non abbiamo più viveri, mastro. – Ci fermeremo qui ventiquattro ore e cercheremo di rinnovare le nostre provviste. Dall’alto della costa ho scorto anche stamane delle foche e dei trichechi, che si godevano il sole sdraiati sui banchi di ghiaccio. Domani ci metteremo tutti in caccia e spero che cattureremo qualcuno di quegli animali. Se poi... Un furioso latrare di Fox gli ruppe la frase. – Oh! esclamò. Che Fox abbia scovato qualche capo di selvaggina? Accorriamo, amici!... Sapendo che il grosso cane di Terranuova non latrava se non aveva un motivo, Tyndhall ed i suoi marinai afferrarono precipitosamente le armi e si slanciarono lungo la sponda del fiord, la quale in quel luogo descriveva un brusco angolo. Girato uno scoglio di dimensioni gigantesche, trovarono il cane che abbaiava dinanzi ad una massa di neve e di ghiaccio di forma circolare, colla vôlta alta quindici o sedici piedi e traforata regolarmente in varie parti. – Ma quella è una capanna esquimese, disse il mastro, con sorpresa. – È vero, dissero i marinai. – Che sia abitata?... – Non vedo alcuna traccia di piedi nei dintorni, mastro, osservò Charchot. – Cerchiamo l’entrata. Si misero a levare la neve che si era accumulata attorno alle pareti e trovarono finalmente una specie di galleria, ma così bassa, che per inoltrarsi bisognava strisciare come le foche. Il mastro vi si cacciò dentro seguìto dai marinai e si trovò tosto nell’interno della capanna. Vide subito che non vi era alcun essere umano, ma tutto indicava che era stata abitata e abbandonata di recente. Infatti vi erano alcune pelli di foca ancora sanguinanti, del grasso che pareva fosse stato fuso da pochi giorni, una lampada di pietra, chiamata dagli esquimesi kotluk, che serve per cucinare tutte le vivande, ed in un angolo, col fondo rovesciato, si trovava un kayak, battello leggerissimo, lungo diciotto piedi, largo due al centro, collo scheletro formato di ossa di balena e ricoperto di pelle di foca o di tricheco cucita con somma cura. Questi battelli, che sembrano così fragili e che pesano così poco da potersi portare sul capo colla massima facilità, rendono degli immensi servigi a quei poveri abitanti delle regioni polari. È con quei piccoli galleggianti che vanno a cacciare le foche, le morse e perfino le gigantesche balene, sfidano intrepidamente i ghiacci, scivolando fra i canali ed i canalotti e non temono di affrontare le tempeste. Essendo tutti coperti, anche sopra, diventano insommergibili e se anche si rovesciassero, gli esquimesi con un buon colpo di spalla, sanno rimetterli in equilibrio. Che più?... Talvolta li rovesciano e tenendosi completamente sommersi, colla testa all’ingiù, percorrono dei tratti ragguardevoli, tornando poi a rivoltarsi con un colpo di remo che loro soli sanno dare. – Questo kayak potrà esserci utile per cacciare le foche, disse Tyndhall. Tu, Charchot, sai manovrarlo, se non m’inganno. – Come un esquimese, mastro, rispose il marinaio. – Ma dove saranno andati gli abitanti di questa capanna? chiese Mac-Chanty. Che siano stati divorati dagli orsi bianchi? – Io credo invece che siano tornati alla loro tribù, rispose Tyndhall. Tu sai già che durante la buona stagione i cacciatori si disperdono lungo le coste, rimanendo lontani fino alle prime nevicate. – Che la loro tribù sia vicina? – Lo spero, ma se potessimo raggiungerla saremmo salvi. Domani ci metteremo in caccia e appena avremo raccolte delle provviste, partiremo a marce forzate. Dormiamo, ragazzi miei, e alla prima luce ci recheremo sui banchi. Si coricarono nella capanna, sulle pelli di foca, e si addormentarono profondamente sotto la guardia di Fox. Il sole non era ancora sorto che già Tyndhall ed i suoi compagni avevano abbandonato il fiord, spingendosi sui campi di ghiaccio. Mentre gli uni davano addosso agli uccelli marini che erano ancora numerosi, o cercavano di sorprendere qualche lontra, il mastro armato del fucile si era diretto verso le sponde del mare, seguìto da Charchot che portava il kayak. Avendo veduto delle foche che si lasciavano trasportare sui piccoli ghiacci, cercarono di colpirne qualcuna. Nascostisi dietro un hummok, attesero pazientemente che ne passassero a portata del fucile. Stavano colà da un paio d’ore, quando ne videro una che stava sdraiata su di un piccolo pack, scaldandosi ai raggi del sole, che era allora appena sorto. Tyndhall puntò rapidamente il fucile e dopo d’aver mirato con grande attenzione, lasciò partire i due colpi. La foca, colpita mortalmente da quella doppia scarica, fece un balzo, ma tosto ricadde sull’orlo del piccolo banco di ghiaccio. Charchot aveva già messo in acqua il kayak e vi si era cacciato dentro. Con pochi colpi di remo, raggiunse l’anfibio che le onde spingevano al largo assieme al pack e legatolo al canotto, lo rimorchiò felicemente fino ai banchi. Era una foca giovane e quindi ancora piccola, ma bastava ad assicurare i viveri per due o tre giorni. Prevedendo che i loro compagni, privi di un kayak e armati di sole pistole, non avrebbero potuto abbattere dei grossi capi di selvaggina, mastro Tyndhall e Charchot tornarono a nascondersi dietro all’hummok, sperando di catturare qualche altro anfibio. L’intera giornata però trascorse in una vana attesa. Avevano vedute bensì altre foche e anche dei numerosi trichechi, ma non si erano avvicinati a portata del fucile. Calate le tenebre, fecero ritorno alla capanna di ghiaccio trascinando la loro foca. I loro compagni vi erano di già, ma non tutti: mancava ancora Mac-Chanty, il quale si era allontanato dirigendosi verso il sud. La caccia dei marinai era riuscita scarsa, poichè non avevano potuto abbattere che pochi gabbiani, qualche gazza marina e due o tre piccoli auk. Stavano per prepararsi la cena, quando udirono Mac-Chanty a gridare: – Presto!... Accorrete tutti!... A me camerati!... – Mille balene!... Cosa succede?... gridò Tyndhall, precipitandosi fuori dalla capanna, seguìto da tutti i marinai. Appena fuori, all’incerta luce degli astri, scorse Mac-Chanty correre attraverso i banchi con tutta la celerità delle sue gambe. Guardò dietro di lui credendo che fosse inseguito da qualche orso, ma non vide alcun animale. – Ehi!... Sei impazzito, Mac-Chanty? gridò. – No, mastro, rispose il marinaio. Ho scoperto una caverna che darà quanta carne vorremo e delle centinaia di pellicce. – Il deposito dei balenieri forse? – No, mastro: una caverna piena di morse. – Mille foche!... Dov’è?... – Laggiù, dietro a quelle scogliere. – Ohe!... Ragazzi miei, andiamo!... CAPITOLO XIV. La caverna delle morse. La scoperta di una grande riunione di morse nulla aveva di straordinario, essendo abituati, questi grossi e preziosi anfibi, a vivere in truppe numerosissime. Come già dicemmo, dei capitani balenieri e dei cacciatori di foche altre volte ne avevano trovati così tanti riuniti in alcune località, da ucciderne otto o novecento in sole poche ore. Non era neanche straordinario il fatto di averli trovati raccolti in una caverna marina, poichè sembra che quei mostri polari, durante i grandi freddi, cerchino sovente dei rifugi presso la costa, in luoghi ben riparati. Mastro Tyndhall aveva già saputo che altri cacciatori ne avevano trovati delle centinaia nascosti nelle numerose caverne marine delle coste di Groenlandia, del Cumberland e anche su quelle di Cockburn. I marinai, che avevano sentito ridestarsi la loro passione di cacciatori, si erano affrettati ad armarsi dei ramponi, delle scuri e delle pistole, mentre mastro Tyndhall raccoglieva tutte le munizioni che ancora rimanevano e caricava precipitosamente il fucile. Quando si misero in marcia, le tenebre erano scese sulla baia, ma la luna stava per sorgere sull’orizzonte. Del resto bastava il riflesso dei ghiacci per guidarli, senza il pericolo di cadere in qualche crepaccio o in qualche buco aperto dalle foche. Attraversarono lo sbocco del fiord, che era ostruito da banchi e da ice-bergs colà spinti dalle onde e dai venti dell’est, e si misero a costeggiare l’alto bastione che scendeva quasi a picco, ma descrivendo brusche sporgenze e curve assai rientranti. Giunti ai piedi di un promontorio formato da una rupe di dimensioni enormi, che si protendeva verso il mare per parecchie centinaia di metri, Mac-Chanty s’arrestò, dicendo al mastro. – Siamo vicini. – Dov’è l’apertura? – Ai piedi del promontorio. – Sei certo che ve ne sia una sola? Non bisogna che i trichechi fuggano per qualche altra parte. – Non lo so, mastro. – Andrò prima a esplorare i dintorni. – Tacete, mastro!... Udite?... Mastro Tyndhall tacque tendendo gli orecchi. Un concerto indiavolato di muggiti e di urla strane ruppe improvvisamente il silenzio che regnava su quella costa, ma quei muggiti e quelle grida erano soffocate come se gli animali, che le mandavano, fossero sepolti sottoterra. – Sono trichechi, disse Charchot. – E trichechi spaventati, aggiunse il mastro. – Spaventati? E perchè?... chiesero i marinai. – Io non lo so, ma vi dico che questi trichechi devono avere un motivo per muggire così forte. Ov’è l’entrata della caverna, Mac-Chanty? – Seguitemi, mastro. Il marinaio girò la punta estrema del promontorio che era stretta da un immenso banco di ghiaccio e si arrestò dinanzi ad un’apertura circolare, aperta a fior dell’acqua gelata e che scendeva entro la colossale rupe. Da quel foro tenebroso, uscivano rauchi muggiti che dovevano essere emessi da morse adulte e grida che rassomigliavano talvolta ai vagiti dei bambini, ma molto più forti. Là dentro, a giudicare dal fracasso, dovevano trovarsi raccolte parecchie centinaia di morse assieme ai loro piccini. – Qui vi è la fortuna d’un cacciatore, disse Tyndhall. Rileverò accuratamente la posizione di questa caverna e appena sarò tornato a Disko, se uscirò vivo da questa disgraziata spedizione, tornerò qui a raccogliere queste ricchezze. Ragazzi miei, abbiamo trovato da pagarci la perdita della Shannon. Si slanciò nella galleria tenendo in mano il fucile, mentre i suoi uomini accendevano il grasso portato nelle due pentole di ferro, ma fatti pochi passi, andò a urtare contro una massa villosa che pareva si fosse collocata colà per sbarrargli il passo. – Ventre di foca! gridò, retrocedendo vivamente. Chi vive?... Un nitrito sonoro fu la risposta. – Mille balene!... Un orso bianco!... Ecco perchè le morse erano spaventate!... Scorgendo dinanzi a sè, ma vagamente, il feroce animale, puntò rapidamente il fucile e lasciò partire i due colpi. La nube di fumo non si era ancora dileguata, che si sentì afferrare da due zampacce villose e stringere con tale violenza da mancargli il respiro. Fra la semi-oscurità vide sopra di sè una testaccia con un’enorme bocca aperta che pareva pronta a stritolargli il cranio e si sentì giungere in viso un alito caldo e fetente. Mastro Tyndhall, lo si sa, era coraggioso, ma in quel momento si sentì rizzare i capelli e bagnarsi d’un freddo sudore. Nondimeno non si perdette d’animo, sapendo di aver alle spalle i compagni. Lasciò cadere il fucile che non gli poteva più servire e puntando un ginocchio contro il ventre della fiera, con uno sforzo irresistibile riuscì ad allentare la stretta mortale e ad impugnare la scure. Un coltello lo avrebbe servito meglio, ma in mancanza di quest’arma, neanche la scure era da disprezzarsi. Si mise a percuotere furiosamente il mostro, cercando di colpirlo sul muso, mentre gridava con voce tuonante: – A me!... Compagni, a me!... L’orso, sospettando la presenza di altri avversarii, si gettò sul mastro a corpo perdente e riuscì a riafferrarlo, cercando di mordergli il cranio, ma l’intrepido cacciatore di foche respingeva con sovrumana energia il muso. In quell’istante i suoi compagni, preceduti da Charchot e da Fox, giungevano. – Corna di caribou!... esclamò il marinaio. Presto, passatemi un rampone!... Appena ebbe impugnata l’arma si precipitò innanzi. Essendo la galleria ristretta, non poteva assalire l’orso a tergo, ma non si trovava imbarazzato a maneggiare il rampone. – Abbassate la testa, mastro!... gridò. Poi alzò l’acuta arma e la cacciò, con uno sforzo poderoso, fra le fauci spalancate del mostro. Un nitrito acuto, che parve un ruggito, echeggiò nella galleria seguìto da due colpi di pistola scaricati da Mac-Chanty, che si trovava dietro a Charchot. Mastro Tyndhall, sentendosi libero, retrocesse vivamente e vide l’orso stramazzare pesantemente a terra. Questi vomitava sangue dalla gola orrendamente squarciata dal colpo di rampone ed aveva pure il petto macchiato di sangue in varie parti. – Seguitemi, amici!... disse Tyndhall. – Siete ferito? chiesero i marinai. – Bah!.. Poche graffiature. Balzò sopra il cadavere dell’orso e si slanciò nella caverna seguìto da Grinnell che portava la lampada accesa e da tutti gli altri. Quale spettacolo s’offerse allora ai loro sguardi!... Entro una caverna immensa, in mezzo alla quale si scorgeva un grande bacino circolare pieno d’acqua, si trovavano raggruppati cinque o seicento trichechi, quasi tutti vecchi maschi armati di denti lunghi settanta e perfino ottanta centimetri, grossi assai e più bianchi dell’avorio degli elefanti. Si erano colà radunati per passare tranquillamente l’inverno o per attendere, ai primi raggi primaverili, l’emigrazione delle femmine?... Vedendo la luce della lampada, rimasero alcuni istanti immobili e silenziosi, come se fossero rimasti abbagliati dall’improvvisa comparsa di quella fiamma, poi retrocessero verso l’estremità della caverna coi peli irti, le zanne alzate e muggendo minacciosamente. Parevano pronti a sostenere l’attacco ed a difendersi disperatamente. – Per mille balene!... esclamò il mastro, i cui sguardi scintillavano di gioia. Se riusciamo a impadronirci di tutte queste bestie, saremo ricchi tutti, ragazzi miei, e potremo dire che la nostra spedizione non è stata infruttuosa. – Cerchiamo che non ci fuggano da qualche apertura, mastro, dissero i marinai. – Non ne vedo alcuna, rispose Tyndhall. – Ma il bacino non avrà qualche comunicazione col mare? chiese Mac-Chanty. – Sono tutti a terra e impediremo a loro di raggiungerlo. Mano alle armi e avanti!... Balzarono nell’immensa caverna, accesero anche la seconda pentola piena di grasso provvisto d’un lucignolo, deposero le due lampade su due rocce elevate, poi si gettarono dinanzi al bacino. Le morse, addossate le une alle altre, formando una massa sola, vedendo i loro nemici avanzarsi, muggivano furiosamente destando tutti gli echi della caverna, e mostravano i loro lunghi denti, ma i marinai sapevano già per esperienza che, se quegli animali diventano talvolta pericolosi quando sono assaliti in mare dove possono muoversi con grande agilità, a terra sono inoffensivi. Appostatisi fra alcune rocce situate dinanzi al bacino, prima di adoperare i ramponi, aprirono un fuoco d’inferno col fucile e colle pistole, per abbattere i più grossi che erano i più pericolosi. Le detonazioni si mescolavano ai muggiti di furore degli animali e le palle fischiavano in tutte le direzioni, colpendo quell’enorme ammasso di corpi. Le morse cadevano a due a tre alla volta, ma erano tante, che pareva ne sorgessero sempre di nuove. Il sangue scorreva a torrenti versandosi, con cupo gorgoglìo, nel bacino, ma i poveri animali, assordati dagli spari e spaventati dai lampi, non osavano ancora assalire e cadevano dibattendosi fra le strette dell’agonia. Mastro Tyndhall inebbriato dall’odor della polvere, tuonava senza posa: – Fuoco camerati!... Le morse sono nostre!... E la carneficina continuava con maggior rabbia entro la cupa caverna che rimbombava tutta. Già cinquanta o sessanta animali giacevano a terra, quando i più vecchi maschi decisero di forzare il passo, forse colla speranza di raggiungere l’orlo del bacino. Si misero a strisciare in ranghi compatti, coi peli irti, le zanne tese innanzi, muggendo spaventosamente e facendo sforzi disperati per giungere presto dinanzi alle rocce, ma i marinai non erano uomini da spaventarsi. Gettarono le armi da fuoco e impugnarono i ramponi e le scuri. – Picchiate duro!... urlò mastro Tyndhall, abbattendo un maschio colossale, con un terribile colpo di scure. Attenti alle zanne!... Si scagliarono tutti in mezzo ai ranghi ferendo, picchiando, colpendo a destra ed a sinistra. I poveri animali, grondanti sangue, cercavano di opporre una inutile resistenza e cadevano a gruppi. Avevano da fare coi più valenti cacciatori di foche della baia di Baffin e non potevano far fronte a quell’assalto impetuoso. La strage continuò fino a che i marinai, stanchi di uccidere, nauseati dall’acre odore del sangue, s’arrestarono. Non rimanevano in piedi che pochi maschi, una ventina tutt’al più. Quei pochi superstiti, vedendo libero il passo, s’affrettarono a strisciare fino al margine del bacino e vi si lasciarono cadere dentro con grande fragore, inabissandosi nelle oscure acque. – Un marinaio baleniere forse? chiese Charchot. – Od un esquimese? disse Grinnell. – Sia l’uno o l’altro, sarà sempre il benvenuto, rispose il mastro. Intanto quella forma umana, che si sarebbe però potuta anche scambiare per un piccolo orso bianco ritto sulle zampe deretane, si era avanzata nella caverna con una certa esitazione, comparendo nel cerchio luminoso proiettato dalle due lampade. Guardò per qualche istante il mastro, la cui statura giganteggiava nella penombra, poi gridò con voce giuliva: – Nalegak tima! (capo, salute!) Grinnell non si era ingannato. Quell’uomo era un vero esquimese, uno di quegli strani abitanti dei ghiacci e delle terre polari. Era un uomo di statura inferiore alla media, ma di complessione robustissima, col viso largo, cogli zigomi assai sporgenti, la fronte stretta, il naso piatto, la bocca grande armata di denti acuti, cogli occhi piccoli e nerissimi e la capigliatura nera, abbondante, ma ruvida. Il colore della sua pelle era cupo, ma non si poteva ben definire sotto lo strato di grasso e di olio di foca che lo imbrattava. Come tutti gli esquimesi, indossava una lunga casacca di pelle d’orso col pelo volto all’esterno e un panciotto di penne d’uccelli marini e calzava lunghi stivali di pelle di foca. Le sue armi consistevano in una fiocina composta d’un dente di narvalo lungo sei piedi, munito all’estremità d’una punta in forma di ferro di lancia, d’avorio, larga tre pollici, forata per passarvi la lenza ed in un largo coltello d’importazione danese od americana. Il mastro, che conosceva la lingua esquimese, avendo avuto frequenti rapporti colle tribù sparse sulla Terra di Baffin e sulle isole vicine, restituì cordialmente il saluto, con grande gioia del nuovo venuto che forse temeva di non essere stato compreso. – Da dove vieni? chiese poscia il mastro, non nascondendo il suo stupore per quell’incontro. – Egurk (Piccolo Ventre) viene dal grande fiord, rispose l’esquimese. – È lontano questo grande fiord?... – Un’ora di slitta. – Hai una slitta tu? – Ne abbiamo sette, Nalegak. – Ma dunque tu non sei solo? – No, al di fuori ho sei compagni. – Ma la tua tribù, dove accampa? – Sulle rive della baia di Fox. – E stavi forse per raggiungerla? – È troppo lontana e la stagione non ci permette più di attraversare la grande terra. Eravamo partiti al principio dell’estate per cacciare i vitelli marini su queste spiagge, ma l’inverno ci piombò addosso improvvisamente e fummo costretti a cercare rifugio nel grande fiord, dove abbiamo costruite delle capanne e dove contiamo di svernare. – Ma perchè siete venuti qui? – Per cercare di uccidere qualche auak (tricheco), sapendo che su queste spiagge abbondavano. Stavamo per correre verso il nord, quando udimmo le detonazioni delle armi degli uomini bianchi e ci arrestammo. – E hai fatto bene, Piccolo Ventre. – Hai tanta carne qui tu, disse l’esquimese, gettando uno sguardo ardente su quell’enorme ammasso di corpi sanguinanti. Noi invece siamo a corto di provviste. – Tu potrai mangiarne quanta vorrai. Conducimi dai tuoi compagni, ora. L’esquimese, felice per la promessa fattagli dal mastro, condusse i naufraghi fuori della caverna e mostrò a loro i compagni che si erano accampati sui banchi. I sei esquimesi erano occupati ad accomodare le loro slitte, mentre sei dozzine di cani rassomiglianti ai lupi, colla coda molto villosa e gli orecchi corti e appuntiti, stavano sdraiati sul ghiaccio, in attesa di venire attaccati ai leggieri veicoli. Vedendo comparire i marinai in compagnia di Egurk, gli esquimesi balzarono in piedi, gridando più volte: – Hoak!... ah!... ah!... ah!... kaah!...1 Informati dell’offerta fatta dal mastro, di mettere a loro disposizione quanta carne di tricheco avessero voluto, manifestarono la loro gioia con nuove grida di allegrezza, ripetendo senza posa: – Kuyanake nalegak soah! (grazie, gran capo, grazie!) – Amici miei, disse Tyndhall ai suoi marinai, ecco un incontro fortunato. Ci stabiliremo nella grande caverna in compagnia di questi bravi esquimesi e sverneremo tranquillamente. Carne ne abbiamo in abbondanza, di grasso e d’olio per riscaldarci e per cucinare le vivande ne abbiamo, non per un inverno, ma per dieci anni, e durante la lunga notte polare raccoglieremo i denti dei trichechi e prepareremo le pelli. Quando tornerà la primavera, non troveremo difficoltà ad imbarcarci, assieme alle nostre ricchezze, su qualche nave baleniera. – Ben detto, mastro, risposero i marinai. – Vi è però una cosa che mi tormenta. – E quale? – Sarei curioso di visitare quel grande fiord di cui mi ha parlato il Piccolo Ventre. – Cosa sperate di trovare? chiese Charchot. – Il deposito dei balenieri. Sarebbe una vera fortuna il trovarlo, poichè non ci mancherebbero nè i biscotti, nè carne salata, nè pesce secco, nè liquori, tabacco, caffè, coperte, ecc. Ehi, Egurk! L’esquimese che stava chiacchierando coi suoi compagni, si affrettò ad accorrere. – Hai visitato il grande fiord? chiese Tyndhall. – Sì, nalegak rispose Piccolo Ventre. – Tutto? – Tutto, nalegak. – Hai veduto due legni incrociati, due pennoni di nave disposti in forma d’una gran croce? – Ma sì, nalegak. – Dove l’hai veduta quella croce? chiese Tyndhall, con gioia. – All’estremità del fiord. – Amici, gridò Tyndhall, partiamo!... Siamo vicini al deposito dei balenieri!... Hurrà!... hurrà!... – Sì, partiamo, partiamo! gridarono i marinai. Gli esquimesi, informati del desiderio dei loro nuovi compagni di visitare il grande fiord, si affrettarono ad attaccare i cani alle slitte e pochi momenti dopo i sei veicoli partivano rapidamente, scivolando sulla gelata pianura dell’altipiano. Quei cani, quantunque fossero di statura poco alta, correvano con una velocità straordinaria, abbaiando festosamente. Quelle bestie affezionate, intelligenti ed instancabili rendono immensi servigi ai poveri abitanti di quelle desolate regioni. Sono bravi cani da caccia, ma soprattutto da tiro e rapidi trottatori, poichè spinti colla frusta, sono capaci di percorrere venti e perfino ventidue chilometri all’ora, trascinando la slitta, l’uomo ed un certo numero di provviste. — Sono attaccati ad un guinzaglio più o meno lungo, ma sono messi tutti su di una sola linea. Il guinzaglio ordinariamente è lungo venti piedi, ossia circa sei metri e mezzo. Gli esquimesi, per dirigerli, si servono d’una frusta lunghissima, terminante in una sottile correggia di nervo indurito. Il manico è lungo due piedi e la frusta è di pelle di foca conciata e larga nella sua estremità anteriore. È incredibile la valentia degli esquimesi nel maneggio di quell’istrumento. Con un colpo solo percuotono il cane che non corre bene o che devia, senza toccare gli altri, e se vogliono sanno strappare un pezzo d’orecchio al cane che non obbedisce alla prima frustata. Le sei slitte, guidate dagli esquimesi, i quali non risparmiavano nè le grida, nè le frustate per raddoppiare la velocità degli animali, in meno di un’ora giungevano sul margine del fiord. – Dov’è la croce? chiese mastro Tyndhall a Egurk. – Dietro quelle rupi, rispose l’esquimese, indicando un ammasso di rocce rivestite di ghiaccio e di neve. – Guidaci laggiù. Le slitte si misero a correre lungo il margine del fiord e girarono la rupe. Al di là, piantata su di una elevazione del suolo, si vedeva una grande croce già in parte coperta di neve, e sopra la quale volteggiavano alcuni uccelli marini. Mastro Tyndhall balzò lestamente a terra, s’arrampicò sulla piccola elevazione e giunto ai piedi della croce, fissò avidamente gli sguardi sulle parole che erano incise nel legno. – Deposito dei balenieri e dei naufraghi, lesse egli. Poi più sotto, in lingua danese ed inglese, stava scritto: «Scavare ai piedi della croce fino all’incontro della galleria». Il mastro mandò un grido di gioia. – Amici! diss’egli, volgendosi verso i compagni. Le nostre sofferenze sono terminate!... Hurràh!... Hurràh!... CONCLUSIONE Due ore dopo, mastro Tyndhall ed i marinai, sbarazzato il terreno dai ghiacci e dalla neve che lo coprivano, entravano nella galleria indicata dalla croce e scoprivano la caverna che serviva di deposito. Come il mastro aveva preveduto, conteneva ogni sorta di viveri: barili di farina, di pemmican, di porco salato, di biscotti, di pesce secco; casse di zucchero, di thè, di caffè, di cioccolato; barilotti di liquori, di succo di limone per combattere lo scorbuto, di vegetali in aceto, di pomi di terra, pacchi di tabacco, ecc. Vi erano inoltre delle vesti, delle coperte, delle lampade ad alcool, delle scuri, dei coltelli, dei ramponi e perfino delle armi da fuoco con abbondanti munizioni, e un’ampia provvista di carbone con relativa stufa. Con simili provviste, che i marinai nella loro qualità di naufraghi potevano liberamente saccheggiare, vi era da passare comodamente l’inverno polare. Mastro Tyndhall, che aveva già deciso di svernare nella grande caverna, fece trasportare colà una parte di quelle provviste, delle coperte e soprattutto la stufa e una grossa provvista di carbone. Il tempo che si era mantenuto buono, permise loro di effettuare quei viaggi senza difficoltà, ma pochi giorni dopo l’inverno polare piombava su quelle regioni colle sue bufere, coi suoi nebbioni e colle sue furiose nevicate. Ormai però i naufraghi della Shannon e gli esquimesi se ne ridevano dei geli e passavano le giornate accanto alla stufa fumando il forte tabacco dei balenieri danesi. La notte polare durò centosessanta giorni, rischiarata solamente dalla pallida luce della luna e dagli astri polari, o da qualche splendida aurora boreale, ma poi il sole fece la sua comparsa, illuminando per qualche ora l’orizzonte. Durante quel lungo periodo di tenebre e di freddi intensi, i marinai e gli esquimesi non si annoiarono però. Avevano raccolti i denti delle morse che formavano, in un angolo della caverna, una catasta colossale, avevano conciato le pelli degli animali e fuso il grasso che avevano fatto colare entro una buca profonda scavata nella viva roccia. Avevano inoltre esplorato dei lunghi tratti di costa, sperando sempre di trovare od i naufraghi od i rottami del Polaris, ma senza alcun frutto. Nemmeno gli esquimesi, più volte interrogati, mai avevano udito a raccontare che su quella terra avessero approdato degli uomini bianchi o che una nave si fosse fracassata su quelle sponde. Ormai il mastro ed i suoi compagni non aspettavano che la comparsa di una nave baleniera, per imbarcarsi colle loro ricchezze. La buona stagione finalmente ritornò sciogliendo i grandi banchi, che avevano invasa quasi tutta la baia di Baffin, e le nevi ed i ghiacci che si erano ammonticchiati per cinque lunghi mesi sulle coste. Le foche e le morse ricomparivano lungo le spiagge, gli uccelli marini ritornavano in grandi bande per nidificare fra le rupi, e nei luoghi meglio riparati dai freddi venti del polo, cominciavano a spuntare timidamente i muschi, i licheni, le sassifraghe gialle, bianche e rosse, le betulle nane e le belle andromade che tengono posto delle eriche. L’ora della liberazione non doveva essere lontana: ormai la baia era accessibile alle navi baleniere ed a quelle dei cacciatori di foche. Fu il 28 maggio che la prima nave comparve sulle coste della baia di Home.Era un brick baleniere di Discko, montato da un amico di mastro Tyndhall. Straordinaria fu la gioia dei naufraghi nel ritrovarsi sul ponte di una nave, e anche quella del baleniere nel rivedere il suo vecchio camerata, mentre lo credeva già morto di fame e di freddo sulle sponde della Terra di Baffin o fra i ghiacci del polo. I denti, le pelli e l’olio delle morse furono imbarcati, ma mastro Tyndhall ne lasciò una parte ai bravi esquimesi, regalando per di più a loro i ramponi, il fucile, alcune pistole e abbondanti munizioni. Il 29 maggio, dopo commoventi addii agli esquimesi, la nave baleniera salpava e tre mesi più tardi, terminata la stagione di pesca, il mastro ed i suoi compagni sbarcavano a Disko, la più importante e la più numerosa colonia danese della Groenlandia. La prima domanda che fece Tyndhall sbarcando, fu di chiedere notizie del Polaris, credendo che qualche altro cacciatore di foche, più fortunato, fosse riuscito a raccogliere i naufraghi, ma ebbe il dispiacere d’apprendere che più nulla erasi saputo nè della nave, nè degli uomini che la montavano. Ormai erano tutti convinti che i disgraziati compagni del tenente Tyson fossero periti fra le onde del mar polare. Il mastro non indugiò a vendere i denti, le pelli ed il grasso dei trichechi, realizzando una somma superiore alle sue previsioni, circa venticinque mila dollari, ossia centoventicinquemila lire. Si tenne la terza parte come gli spettava in qualità di comandante della spedizione, e divise le altre due fra i compagni di viaggio. Il governo danese poi, in unione a quello degli Stati Uniti, non tardò a indennizzarlo della perdita della Shannon. Oggi mastro Tyndhall è uno dei più ricchi negozianti di pellicce della Groenlandia e dal 1892 è borgomastro di Disko.