La Stella Polare ed il suo viaggio avventuroso Emilio Salgari PARTE PRIMA Capitolo I Laurvik Sulle coste meridionali della Norvegia, di fronte allo Skager-Rak, che bagna contemporaneamente le spiagge settentrionali della Danimarca, si apre una piccola baia che dai norvegesi fu chiamata di Larvik o di Laurvik. Essa è situata fra il profondo fjord di Helgeraa e quello amplissimo di Christiania, e la città che sorge a metà della baia è capoluogo della contea, quantunque non conti che un numero molto limitato di persone, appena dodicimila. Nessuna notorietà, nessuna fama di qualsiasi genere l’aveva fatta conoscere prima. Era molto se si sapeva in Europa che esistesse; tutt’al più si sapeva che era un porticino di mare, perduto fra i fjords norvegesi. Fu Nansen, il fortunato navigatore polare, che tutto d’un colpo la rese celebre, poichè fu in uno di quei modesti cantieri che fu fabbricata, dall’ingegnere Archer, la nave che condusse o meglio che trascinò, per tre lunghi anni, l’audace esploratore dei mari artici. Fu infatti costruito, varato ed armato a Laurvik quel capolavoro dell’ingegneria navale, che mercè le sue forme speciali, seppe resistere per tanto tempo alle tremende pressioni dei ghiacci. Il Fram fece conoscere Laurvik all’Europa, anzi, possiamo dire, al mondo intero. Verso i primi di giugno del 1899, presso una delle calate della baia s’accalcava una folla di marinai, di pescatori ed anche di popolani, intenti ad osservare una nave che pareva affrettasse gli ultimi preparativi della partenza. Quel legno non aveva, almeno in apparenza, alcunchè di straordinario per attirare l’attenzione di tante persone. A Laurvik ben altre navi, anche molto più belle e più grosse s’erano vedute entrare, caricare e uscire senza che avessero destata alcuna curiosità. Era un tre-alberi, simile a quelli che usano i pescatori di balene, costruito interamente in legno, con una macchina che non doveva sviluppare una forza soverchia, e che di notevole non aveva che un grande sviluppo di vele. Sul coronamento però portava un nome che dopo d’aver fatto battere il cuore a tanti italiani, produceva ora una viva emozione nei cuori dei norvegesi «La Stella Polare». Quel nome era ormai diventato popolare anche nella tranquilla Laurvik; forse quanto quello della nave di Nansen. La voce che quella nave stava per slanciarsi fra i nebbioni della regione polare e le montagne di ghiaccio di quella gelida regione, si era sparsa rapida, scuotendo anche i freddi temperamenti dei buoni norvegesi. Sulla coperta e intorno alla nave ferveva un lavoro febbrile, che accresceva la curiosità dei marinai, dei pescatori e dei borghesi accalcati sulla gettata. Ad ogni istante casse di dimensioni enormi, mucchi di cassette, di barili, ammassi di pellicce, sacchi, attrezzi di ricambio, pali, traverse ed oggetti informi venivano issati a bordo per scomparire subito nelle viscere della nave. L’equipaggio composto per la maggior parte di norvegesi, lavorava con un ardore insolito, stimolato dalla voce di alcuni ufficiali che dall’aspetto e dai tratti del volto parevano appartenere ad una razza ben diversa dalla scandinava. Sul ponte di comando, un giovanotto dall’aspetto ardito, dai lineamenti energici non ostante la sua gioventù, con baffetti e occhi neri, sorvegliava attentamente il carico, marcando ogni cassa, ogni barile, ogni oggetto che veniva issato in coperta. Gli occhi dei curiosi, più che sulla nave e sui marinai, erano appunto fissi su quel giovane comandante. Dei dialoghi vivaci s’incrociavano specialmente fra i marini, suscitando dei rumorosi e degli svariati commenti: – Vi dico io, – diceva un vecchio mastro d’equipaggio, dall’aspetto fiero e dai capelli ormai bianchi, – che quel giovane principe farà molta strada. Ve lo dice papà Nerike, il più vecchio ice-master1 della Norvegia. – Sì, – rispose un pezzo di gigante dagli occhi azzurri e dai capelli biondi, che portava un grosso gabbano di tela cerata, e che calzava pesanti stivali di mare, – quel giovane andrà lontano. Se non riuscirà a superare il nostro Nansen, non rimarrà molto indietro. Vivaddio!... Ci vuole un bel fegato per tentare, alla sua età, una esplorazione polare. – Specialmente quando si è principe di sangue reale e si ha dinanzi una splendida carriera, – riprese papà Nerike. – E che non mancano tutti gli agi della vita, – aggiunse il marinaio gigante. – E soddisfazioni, – seguitò un borghese panciuto che portava degli occhiali d’oro. – E come è stata organizzata la spedizione!... – esclamò il mastro. – Io ho assistito a quella di Nansen; ebbene, vi posso dire che mai navigante polare è riuscito a completarla come ha fatto quel giovane principe. Domandate un po’ al mio amico Andresen che fa parte dell’equipaggio, cosa ne dice. Per mille balene!... Con una nave così bene equipaggiata e approvvigionata mi sarei sentito anch’io il desiderio di seguire quell’audace giovanotto, malgrado le mie sessantasette primavere. – Ah!... – esclamò il gigante. – Tu hai parlato con Andresen?... – Sì, Norum. – È stato imbarcato come primo nostromo, è vero? – E con una paga splendida. Il principe è generoso come un lord, mio caro. – E che cosa ti ha raccontato? – Che a Christiania la Stella Polare imbarcherà tanti viveri da poter nutrire l’equipaggio per due anni. M’ha detto che non mancheranno nemmeno gl’istrumenti musicali e che vi sono perfino dei fonografi. – Dunque la Stella Polare non completerà qui il suo carico? – No, amico Norum. La nave quest’oggi lascierà Laurvik. – E non tornerà più? – chiesero parecchi marinai e pescatori con una certa emozione. – Farà poi una breve comparsa, così almeno mi ha detto Andresen, – disse mastro Nerike. – Faremo al principe una splendida accoglienza, – disse il gigante. – Giammai urrà più formidabile sarà uscito dal mio petto. – E poi andrà direttamente verso il polo? – chiese un giovane pescatore, con un certo tremito nella voce. – Uh!... Come corri, tu, Sodermann – disse mastro Nerike. – Credi tu che sia così facile andare al polo? Il nostro Nansen ha impiegato tre lunghi anni per compiere il suo viaggio, e come tu sai non ha potuto giungere a quel dannato polo. Se le mie informazioni sono esatte, la Stella Polare per quest’anno non si spingerà molto innanzi. Si fermerà ad Arcangelo per ultimare le sue provviste e per imbarcare centoquaranta cani, poi muoverà direttamente verso la Terra di Francesco Giuseppe, dove probabilmente svernerà. Non sarà che l’anno venturo che il principe si slancierà risolutamente verso il nord. – Con la nave? – chiesero il giovane pescatore e il marinaio gigante. – No, amici, il principe non seguirà la tattica di Nansen. Ormai sembra assodato che le navi non possono oltrepassare l’immensa barriera di ghiaccio che circonda il polo. Lascierà la Stella in qualche sicura baia della Terra di Francesco Giuseppe, nei pressi del Capo Flora, a quanto sembra, poi andrà innanzi colle slitte e coi cani. – Purchè il cholera non colga quegli animali! Tu sai, papà Nerike, che i cani polari vanno soggetti ad un’epidemia terribile che in breve li distrugge. – Ed allora il principe andrà innanzi a piedi, a piccole tappe. Non è uomo di arrestarsi, ve lo dico io, e così lo ha detto pure il nostro Nansen. – In quell’istante un marinaio che veniva dall’interno della città, fendette impetuosamente la folla accalcata sulla gettata, gridando: – Largo!... Largo!... Ho fretta!... – Udendo quella voce, mastro Nerike si era vivamente voltato. L’uomo che fendeva la folla era un giovanotto di vent’anni, solidamente piantato, con braccia muscolose, spalle ampie, un vero tipo di marinaio nordico. – Andresen!... – esclamò il mastro. – Quali nuove rechi adunque? – Si parte, papà Nerike, – rispose il primo nostromo della Stella Polare. – Andate a Christiania? – Sì, ad imbarcare le rimanenti provviste. – E salperete?... – Il 12, se tutto andrà bene. – Desideriamo rivedervi a Laurvik prima che abbandoniate definitivamente le acque dello Skager-Rak. Dirai a S. A. R. che noi vogliamo alzare tre urrà in suo onore. – Saremo qui il 19. – Addio Andresen! – esclamò papà Nerike con una certa commozione. – Vuoteremo un’altra bottiglia assieme. Non si sa mai se si può tornare vivi dai ghiacci del polo. – Torneremo, mastro Nerike, – disse il nostromo con un sorriso. – Tutti abbiamo piena confidenza nel Duca. Amici, arrivederci presto!... – Strinse rapidamente la mano ai più vicini, e salì lestamente a bordo. La Stella Polare aveva allora ultimato il suo carico, e l’equipaggio stava ritirando i cavi che erano stati gettati a terra. Il pilota era già salito sul cassero per guidarla nel tortuoso fjord di Christiania. S. A. R. ed i suoi ufficiali davano gli ultimi ordini con quella calma che già gli abitanti di Laurvik avevano ammirata, mentre dalla ciminiera, situata fra l’albero maestro e quello di mezzana, uscivano getti di fumo nerissimo misto a qualche scoria. – Molla tutto!... – si udì gridare dal pilota. Papà Nerike si era voltato verso la folla. – Amici! – gridò. – Tre urrà in onore del principe e della Stella Polare! – Tre urrà formidabili s’alzano fra gli spettatori, rimbombando d’eco in eco sulle due sponde della baia e fra i boschi di pini e di abeti che s’arrampicano su per le collinette. La bandiera italiana che sventola a poppa, senza la corona reale, viene ammainata per tre volte, e la Stella Polare si allarga dalla gettata e scende maestosamente verso le cupe acque dello Skager-Rak, mentre dalla riva si sventolano i fazzoletti e si gettano in aria i berretti. – Urrà per i valorosi che vanno al polo!... – urla un’ultima volta papà Nerike con voce rimbombante. La sua voce non giunge più a bordo della nave. Essa è già in mare e fila lungo le alte e ripide coste della Norvegia meridionale colla prora volta verso il profondo fjord di Christiania. Capitolo II La «Stella Polare» La nave sulla quale il Duca degli Abruzzi stava per intraprendere il viaggio polare, non era stata, come il Fram di Nansen, espressamente costruita. Era un legno che aveva già fatto le sue prove fra i ghiacci delle regioni artiche, sotto gli ordini dei capitani norvegesi Larsen e Jacobsen, due dei più intrepidi lupi di mare dell’oceano settentrionale ed anche due dei più famosi cacciatori di foche e di morse. Varato nel 1882 sotto il nome di Jason, ossia di Giasone, prima che ne facesse acquisto il Duca degli Abruzzi, si era già spinto parecchie volte fino allo Spitzbergen, onde cacciare quegli anfibi ed anche più a settentrione e, bisogna dirlo, sempre con felice esito. I ghiacci non avevano mai avuto l’onore di rinserrarlo e di schiacciargli le costole, e tutte le stagioni era tornato trionfante nei porti della Norvegia, portando dei grossi carichi di pelli e di grassi. Come tutte le navi che vanno a pescare i grandi cetacei, o cacciare le foche e le morse, la Stella Polare, così battezzata da S. A. R. il Duca degli Abruzzi, era costruita in legno. Il Fram di Nansen era pure in legno, e così pure lo furono tutte le navi che s’inoltrarono nei grandi campi di ghiaccio delle regioni polari, essendo il legno miglior conduttore di calorico, ed essendo pure un coefficente di elasticità assai maggiore d’ogni altra materia, quindi più resistente alle formidabili pressioni dei ghiacci. Le navi in ferro hanno fatto sempre cattiva prova in mezzo ai ghiacci, sia per la loro estrema rigidità, sia perchè poco abitabili col freddo intenso che regna sotto le latitudini artiche, sia infine per le gravi difficoltà che presentano le riparazioni, non essendo possibile avere a bordo i mezzi meccanici necessarii. La Stella Polare, malgrado i suoi diciassette anni, passati in gran parte nelle regioni artiche, era ancora una solida nave che poteva fare ottima figura e affrontare, senza tema di dover subito cedere, i poderosi urti degli ice-bergs, dei palks, degli streams e dei wake, che le correnti polari trascinano verso il sud. Stazzava trecentocinquantotto tonnellate nette, su una lunghezza, dalle ruote di prora e di poppa di quarantaquattro metri e settanta centimetri ed una larghezza di metri nove e trenta centimetri. La sua profondità toccava i metri cinque e venti, il suo tonnellaggio lordo era di quattrocento e venticinque e portava una macchina della forza di sessanta cavalli nominali, pari a duecentocinquanta di effettivi, da settantacinque chilogrammi, a sistema compound, con due cilindri, capaci di sviluppare, a mare calmo, una velocità di sei nodi all’ora, pari a circa undici chilometri. Ma più che sulla sua macchina, doveva contare sulla propria velatura, molto ampia e con un’alberatura altissima onde poter approfittare delle più lievi brezze. Già nei mari artici, con buon vento a mezza nave od in poppa era riuscita a toccare gli undici nodi all’ora, ossia circa venti chilometri, velocità difficilmente raggiunta dai soliti navigli mercantili. Prima però di lasciare Laurvik, aveva subìto notevoli trasformazioni, essendo ben diversa una campagna di esplorazione, che può anche durare parecchi anni, da una semplice corsa attraverso i mari artici durante una stagione favorevole. S. A. R. il Duca, dopo essersi consigliato a più riprese con Nansen e coi più noti lupi di mare della Norvegia, aveva fatto rinforzare vigorosamente lo scafo con crociere metalliche, onde meglio potesse resistere agli urti ed alle pressioni dei ghiacci, costruire sopra coperta cabine per gli ufficiali e un nuovo salottino per passare alla meglio le lunghissime notti polari, e persino un laboratorio fisico-chimico ed un gabinetto fotografico. Inoltre aveva fatto cambiare tutte le lastre di rame onde impedire possibili filtrazioni, inverniciare completamente la nave ed anche allargare i depositi di carbone. Ma questo non era ancora tutto. Da uomo previdente, S. A. R. aveva dotata la nave d’un approvvigionamento tale da superare quello dello stesso Nansen e di tutti gli esploratori che lo avevano preceduto nelle gelide regioni del polo artico, e da assicurare al suo equipaggio, una lunga permanenza fra i ghiacci, senza correre il pericolo di doverlo mettere a razione. Di ciò parleremo più innanzi. Ventidue uomini componevano l’equipaggio della nave: dodici italiani e dieci norvegesi, scelti questi fra le persone ormai pratiche delle regioni polari e cioè provati agli intensi freddi ed ai grandi campi di ghiaccio. Capo della spedizione, S. A. R. Luigi Amedeo di Savoia, Duca degli Abruzzi, d’anni 26, luogotenente della marina italiana. Il nome del Duca degli Abruzzi è popolare in Italia. La splendida e fortunata scalata del gigantesco Sant’Elia dell’Alaska, lo ha reso troppo noto fra noi italiani perchè se ne debba parlare, però è nostro debito farlo conoscere un po’ meglio, molti ignorando il suo passato. È nato sul suolo spagnolo, nella capitale dei possenti imperatori iberici, che mai vedevano tramontare il sole sulle loro terre, il 29 gennaio del 1873. Sulla sua culla brillarono, fugaci lampi, gli splendori di Carlo quinto, di Filippo secondo il Tetro, e di Ferdinando il Cattolico e d’Isabella, la protettrice di Colombo; ma la rinuncia magnanima del trono spagnuolo da parte di Amedeo, figlio di Vittorio Emanuele II, lo trasse ancora bambino in Italia. Di fibra forte e di carattere energico, si fece subito notare, anche quando era giovanetto. Gli splendori della Corte gli apparvero ben stretti pei suoi alti ideali e per il suo carattere avventuroso, e a quattordici anni, al pari del Duca di Genova, entrava nell’Accademia Reale di Livorno. Il mare, sirena ammaliatrice, lo aveva attirato. L’Accademia Reale lo annoverò fra i suoi migliori allievi. Fece la sua carriera sotto gli ordini di Emilio Renaud, conte di Falicon, annoverato allora fra i nostri migliori capitani di vascello, e uscì guardia marina con la miglior lode. Era il momento ardentemente atteso dal giovane principe, che durante quegli anni non aveva sognato che tempeste e paesi lontani. Due volte fece il giro del mondo, tutto studiando e tutto osservando, riuscendo un eccellente uomo di mare e, strana cosa, anche uno dei più instancabili alpinisti. Pare che l’immensità eserciti su di lui un fascino invincibile. Ed eccolo, nel 1896, lasciare momentaneamente il mare e correre attraverso l’America del nord, fino ai confini dell’Alaska, l’antico possedimento russo, per tentare la memoranda scalata del più gigantesco colosso della regione artica, invano tentata, prima di lui, da inglesi e da americani. Nè le valanghe, nè i grandi perigli della montagna gigante, nè i ghiacciai, nè il freddo intenso, nè le privazioni spaventano l’audace principe. Sempre primo fra tutti, a piccole tappe, con una costanza incredibile, trascina con sè la colonna italiana e, con un’ultima e meravigliosa salita, pianta la bandiera d’Italia sulla più alta cima del colosso americano. Parve che lassù, scrutando gli immensi ghiacciai ed i nevosi pianori della gelida Alaska, maturasse la spedizione polare. Infatti, qualche anno dopo, ecco l’intraprendente principe lasciare ancora una volta il bel cielo d’Italia per correre attraverso l’Inghilterra e la Svezia ad interrogare i più noti navigatori artici. Un anno ancora, ed ecco il principe a Laurvik, a bordo della sua Stella Polare, pronto a sfidare, con serena tranquillità, le montagne di ghiaccio della regione artica ed a strappare, anche alle immacolate nevi del polo, i loro segreti. Quanta ammirabile audacia e quanta fibra in così giovane principe della valorosa stirpe dei sabaudi duchi!... Secondo di bordo della Stella Polare è Umberto Cagni, aiutante di S. A. R. il duca e figlio del compianto Generale, un uomo forte e dotto, che aveva già accompagnato il Duca nella spedizione dell’Alaska. Astigiano di nascita, e oggidì capitano di corvetta, possiede tre qualità ammirabili per un esploratore, soprattutto polare: coraggio, sangue freddo ed una invidiabile fama come uomo di mare. Terzo ufficiale il conte Querini Franco, di Venezia, un altro valoroso che si era già distinto nel 1897 a Candia, quand’era ufficiale di bandiera dell’ammiraglio Amoretti. Si narra di lui, che alla Canea si guadagnò la medaglia al valore militare, affrontando, alla testa di un plotone di marinai della nostra corazzata Re Umberto e di un plotone di marinai russi, i gendarmi turchi che si erano ribellati uccidendo il loro colonnello. Il contegno del Querini fu in quell’epoca così degno di lode, da affidargli difficili incarichi che seppe disimpegnare con molto tatto. Il Querini non aveva che trent’anni, era di statura media, dall’apparenza gracile, ma di una forza a tutta prova e d’una cultura straordinaria. Scienziato della spedizione: dottor Cavalli-Molinelli, d’anni 33, nato a Sale, presso Tortona, laureatosi nell’Università di Torino nel 1886, salvo errore, poi passato come sanitario nella Regia Marina. Un vero scienziato, conoscitore profondo della fauna e della flora artica, uomo calmo, forte, robusto, già compagno del Duca in altre corse attraverso il mondo. Capitano della Stella Polare: C. J. Evensen, di Sandyfjord, di anni 47, già pratico delle regioni artiche, antico pescatore di balene e cacciatore di morse e di foche. Harry Alfred Stökken, di Sandyfjord, primo macchinista, d’anni 24; Anton Torgrinsen, di Larvig, secondo macchinista, d’anni 30; Andreas Andresen, di Sandyfjord, primo nostromo, d’anni 20; Christian Andresen, di Solberg Borre, primo cuoco, d’anni 35; Ditman Olanssen, di Tönsberg, carpentiere, d’anni 35; Johan Johansen, di Sandyfjord, fuochista, d’anni 42; Ascel Andresen, di Sand p. Baastad, fuochista, d’anni 22; Carl Christ. Hansen, di Larvig, velaio, d’anni 37; Oll Johannesen, di Bodkirbjerget, secondo cuoco, d’anni 25. Completavano la spedizione due esperti marinai della nostra Regia Marina, Carlo Cardenti, d’anni 32, di Porto Ferraio, secondo nocchiero; Canepa di Varazze, d’anni 24, marinaio di prima classe, e quattro guide alpine valdostane, scelte fra le migliori e le più pratiche: Giuseppe Petigaux, di Courmayeur, d’anni 38, già compagno del Duca nell’ardua impresa del Sant’Elia; Felice Ollier, di Courmayeur, d’anni 30; Cipriano Savoi, di Près St. Didier, d’anni 30; Alessio Fenoillet, di Courmayeur, d’anni 37. · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · La Stella Polare, uscita dalla piccola baia di Laurvik, aveva messa la prora verso il nord nord-est per superare le lunghe penisolette di Sandyfjord che si allungano assai verso il mare, ed il gruppo d’isolette che fiancheggiano, verso occidente, il profondo fjord di Christiania. Lo Skager-Rak era, contrariamente al solito, d’una tranquillità inaspettata. Appena qualche ondata andava a rompersi, con un cupo fragore che si ripercuoteva lungamente, entro i fjords e contro le alte scogliere che cingono le sponde meridionali della Norvegia. Al largo invece calma assoluta, un vero specchio appena appena increspato dalla leggiera brezza che soffiava, ad intervalli, dalle vicine coste della Danimarca. Alcuni velieri, per lo più dei brigantini, apparivano all’orizzonte, con le loro candide vele sciolte al vento, che davan loro l’aspetto di bianchi uccelli radenti il mare, e qualche vapore fumava in lontananza, verso Strömstad, formando sopra di sè un grande ombrello di fumo che spiccava nettamente sul fondo luminoso del cielo. In aria invece pochi gabbiani e petrelli, i quali di quando in quando si precipitavano sulla spumeggiante scìa della Stella Polare, lasciandosi cullare dolcemente fra il risucchio. Il cav. Cagni, vigilante marinaio, passeggiava sul cassero scambiando qualche parola ora col pilota ed ora col dott. Cavalli-Molinelli, il quale osservava curiosamente le fulminee evoluzioni dei gabbiani. A prora il tenente Querini guardava il mare chiacchierando col capitano Evensen, il quale gl’indicava i villaggi che ora apparivano ed ora scomparivano entro i due piccoli fjords di Sandyfjord. La costa appariva selvaggia. Rupi tagliate quasi a picco, minate e sventrate dall’eterna azione delle onde; isolotti neri emergenti dal mare minacciosamente; in alto, a molta distanza, grandi distese di pini e di abeti i cui acri profumi giungevano fino sul ponte della nave mescolandosi all’odore non meno penetrante dell’aria marina. – Fra cinque o sei ore noi saremo a Christiania, – disse Andresen, l’amico di papà Nerike, in francese, volgendosi verso Ollier, una delle due guide del Duca, il quale guardava attentamente verso il nord-est, cercando di scoprire il fjord di Christiania. – Una città che mi piace molto, – rispose il montanaro. – È molto diversa dalle nostre d’Italia, ma pur sempre bella. – Dovreste vederla fra dieci anni; allora non la riconoscereste più. Cosa volete, gl’incendi, di tratto in tratto ce la guastano. – Sfido io!... Avete troppe case di legno!... – Se ne faranno meno, ora, – disse Andresen. – Siamo arcistufi d’incendi! In venti anni ne sono scoppiati tanti da superare quelli che succedono in cent’anni in qualsiasi altra città del mondo. – Infatti si vede che è una città assolutamente moderna, e vi dirò anzi che assomiglia un po’ alla nostra Torino, che ho veduta ultimamente. Strade nuove e diritte, e case nuove e bene livellate. Vi è però una cosa che mi stupisce. – E quale? – chiese Andresen. – La dolcezza relativa del vostro clima. Credevo che la Norvegia, essendo così poco lontana dai mari artici, fosse molto più fredda. – Aspettate di giungere sulle coste settentrionali, – disse il giovane mastro, con un risolino. – O meglio, aspettate di trovarvi nell’Oceano Artico. Ah!... Lassù lo sentirete bene il freddo, ve lo assicuro. – Mi hanno raccontato che si vedono delle grandi montagne galleggianti. – È verissimo, e che montagne!... Talvolta si incontrano delle vere flottiglie di ice-bergs, e tutti di dimensioni enormi. – Un grave pericolo per le navi, – disse Ollier. – Tremendo, – rispose il norvegese. – Un giorno la nave che montavo fu urtata da uno di quei colossi. – E venne sfracellata? – No, ci scaricò in coperta una mezza dozzina d’orsi bianchi affamati e ferocissimi. – Oh!... Questa è strana! Forse che quegli animali hanno l’abitudine d’imbarcarsi sui banchi di ghiaccio? – Non lo fanno appositamente. Quando avviene lo sgelo, il quale ordinariamente comincia alla fine di giugno, i grandi banchi di ghiaccio, che noi chiamiamo ice-fields, si sgretolano e la corrente trascina verso il sud i rottami. Avviene così che gli orsi bianchi che si trovano su quei campi di ghiaccio, per non annegarsi, s’imbarcano su uno di quei frammenti, lasciandosi trasportare alla ventura. – Pure mi hanno detto che quegli animali sono buoni nuotatori, – osservò la guida. – Abilissimi, poichè se ne sono veduti alcuni nuotare a venticinque e perfino a trenta miglia dalla terra più vicina. – E come finiscono quelli che vengono trascinati verso il sud? – chiese il montanaro, che s’interessava molto di quelle spiegazioni. – O muoiono di fame o s’annegano, – rispose il norvegese. – Le acque, essendo meno fredde al di là del circolo artico, in causa anche della corrente del Gulf-stream, a poco a poco corrodono i banchi di ghiaccio e gli ice-bergs, ed i poveri orsi finiscono coll’affogarsi. – Ne incontreremo anche noi? – Oh!... certamente, – rispose Andresen. – E vedremo anche delle renne? – Se si andasse allo Spitzbergen se ne incontrerebbero molte, ma ignoro se ve ne siano sulla Terra di Francesco Giuseppe. Ah!... Eccoci alla bocca del fjord! Guardate che spettacolo! È uno dei più belli della nostra Norvegia! – La Stella Polare, dopo d’aver girate le isole del Sandyfjord, era entrata nella profondissima baia di Christiania, una delle più ammirabili dello Skager-Rak e del Kattegat. Non è molto larga, anzi la sua imboccatura è piuttosto stretta, ma si addentra molto nella terra, dividendosi in tre rami, il più lungo dei quali è quello di Christiania. Numerose isolette inceppano la navigazione, tutte graziose, ridenti, abbellite da villini appartenenti ai ricchi norvegesi, e sulle sue coste si ergono belle e popolose città nonché un gran numero di villaggi. All’entrata si trovano Sandyfjord e Fredrikstad, più sopra Tönsberg, poi Holmestrand quasi all’estremità del primo braccio, Drammen all’estremità del secondo e Christiania del terzo. L’aspetto del fjord, nel momento in cui la Stella Polare v’entrava, era gaio, ridente, pittoresco. Sulla azzurro-cupa superficie del golfo, placida come se fosse di cristallo, navi a vapore, navi a vela e barchette d’ogni specie, andavano e venivano. Le bianche vele si riflettevano vagamente sulle acque irradiate da un tepido sole già quasi estivo. Sui pendìi delle due sponde, appollaiate graziosamente sui margini delle pinete, si vedevano gran numero di casettine linde, con le tende bianche ad ogni finestra, i vasi di porcellana, già pieni di fiori, ai poggiuoli o sui davanzali, e l’orticello dinanzi, cinto da cancellate di legno dipinte a vivaci colori. Più giù, presso le rive ed all’estremità degli azzurri fjords, si vedevano slanciarsi verso il nitido cielo gli esili camini rossi delle segherie e delle cartiere, fumanti come locomotive. Nell’aria si espandeva un acuto odore di resina, di larice tagliato di recente, di pesce messo a seccare e di catrame. Di passo in passo che la Stella Polare s’avanzava nel fjord, nuove e più belle vedute si offrivano agli sguardi delle guide. Cardenti, l’ardente nocchiero di Porto Ferraio, salito pure in coperta assieme al suo camerata Canepa, non poteva frenare la sua meraviglia e manifestava la sua soddisfazione con rumorose esclamazioni che facevano sorridere l’equipaggio norvegese. Il fjord andava allargandosi sempre più. Belle collinette coperte di pini e di larici s’alzavano ad occidente ed a oriente, e nuovi villaggi e nuove cittadelle apparivano in fondo ai capricciosi frastagliamenti della costa. Ecco la ridente Aasgaard, mollemente adagiata sulla riva occidentale, contornata di giardinetti, di villette, di segherie e di ammassi enormi di tavole di pino, pronte a venire caricate sui piccoli velieri o sulla ferrovia che va a Sandyfjord; ecco la piccola Horten che fronteggia la lanterna, poi Soon più sopra, ma sull’opposta sponda, quindi Hovidsten. Il canale diventa sempre più stretto e le isolette aumentano. La Stella Polare si avanza con precauzione entro quell’ultimo fjord, mandando di quando in quando dei sonori fischi che si ripercuotono sui pendii delle collinette. Ad un tratto il fjord si allarga. Le sponde si coprono di case e casette, di segherie, di cartiere, di opifici industriali, di altissimi camini vomitanti, sul limpido ed azzurro cielo, nuvoloni di fumo nero e denso. Il numero delle navi a vela ed a vapore e delle barche e barchette aumenta. – Christiania! – esclamò Andresen, volgendosi verso le guide. Sul luminoso orizzonte si delineava rapidamente una selva di case, di torri, di cupole, di campanili e d’antenne di navi semi-avvolte nel fumo uscente da migliaia e migliaia di camini. – Pronti per calare le ancore!... – si udì gridare il pilota. Poco dopo la Stella Polare, con la bandiera italiana spiegata a poppa e la norvegese sull’alberetto di maistra, entrava trionfante nel porto per imbarcare le ultime provviste della spedizione polare. Capitolo III La partenza Christiania, la capitale della Norvegia, al pari di Genova si erge ai piedi d’un gruppo di collinette coronanti l’estremità del lunghissimo fjord. Quantunque conti parecchi secoli di vita, si può chiamarla città moderna. Fu fondata nel 1050, da Arald il Severo, ma un incendio la distrusse quasi completamente nel 1624. Ricostruita appena, fu nuovamente diroccata non dal fuoco questa volta, bensì dagli svedesi che l’avevano presa d’assalto. Cristiano IV re di Danimarca, la ricostruiva più tardi, più bella, più vasta, eppure pareva che un triste destino pesasse su quella città. Altri numerosissimi incendi a poco a poco distrussero anche le ultime vestigia della nuova città, non risparmiando che la fortezza d’Akershus, l’unica che rammenti ancora l’antica. Infatti tutti i monumenti più importanti sono di costruzione recente. Il castello reale fu innalzato nel 1849, l’università nel 53, la chiesa della Trinità, una delle più belle della Norvegia, nel 58, la vecchia chiesa d’Akefu rimodernata nel 61, il palazzo della Dieta fu eretto nel 66. Vista dall’alto, dallo splendido e ampio parco di S. Hanshangen, la città si presenta come un immenso scacchiere, con vie diritte, regolari, che dal fjord salgono al castello reale, attraversata da una via più ampia, più spaziosa, che dalla stazione ferroviaria va al palazzo, la così detta Karl Johans Gade. Tutto all’intorno quartieri belli, ampi, ma monotoni per la loro regolarità, dove s’addensano più di centomila abitanti, e poi ville e villette che s’arrampicano su per le colline, con giardini e boschetti. Ma il più bello spettacolo lo si può godere dall’alto, specialmente dal castello reale, il quale occupa una delle più ridenti posizioni del fjord. Quell’ampia insenatura, circondata da colline che ora scendono dolcemente verso le spiagge, ora cadono quasi a picco, nude, selvagge; quelle miriadi di graziose ville annidate dappertutto, sui margini delle pinete, nelle anfrattuosità delle rocce, all’estremità dei burroni, in prossimità delle cascate; quelle isolette numerose, ora di dimensioni notevoli ed ora tanto piccine che sembrano grandi come una mano, disperse in tutti i luoghi, ora staccate ed ora così unite da non permettere il passaggio ad un battello, offrono agli sguardi del viaggiatore non abituato alle selvagge bellezze dei fjords norvegesi, qualche cosa di maraviglioso, di fantastico. Quale incomparabile incanto se lassù brillasse la luce smagliante, vivida delle nostre città marittime del mezzogiorno! Ma no, la luce della Norvegia ha qualche cosa di freddo, di strano, di cupo che produce su noi un effetto curiosissimo; si direbbe luce polare quantunque le coste meridionali di quel paese nordico siano così lontane dal circolo artico. Comunque sia il fjord di Christiania è sempre uno dei più belli, dei più incantevoli, come la città è una delle più eleganti, delle più animate e di queste due cose i norvegesi vanno, e con ragione, altamente orgogliosi. · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · Appena la Stella Polare ebbe gettata l’àncora, una folla di curiosi si addensò sulla gettata, guardando con vivo interesse la nave e gli uomini che la montavano. Già ormai a Christiania più nessuno ignorava lo scopo della spedizione e si può anche dire che tutti conoscevano il giovane Duca, i suoi ufficiali e perfino le guide che avevano ammirato più volte, la settimana innanzi, nello splendido caffè del Grand Hôtel, dove anzi si era fatto molto notare il bollente Cardenti coi suoi rumorosi brindisi di: Sempre avanti Savoia. La visita del Duca a Nansen, il celebre esploratore polare, poi la visita delle LL. AA. il principe e la principessa di Napoli, prima della loro partenza per l’isola degli Orsi, poi i ricevimenti dati dalle autorità al giovane valoroso, e la stampa, avevano dato una grande popolarità alla spedizione e scosso anche i freddi e tranquilli animi dei norvegesi. Sicchè l’annunzio che la Stella Polare stava per entrare in porto per fare gli ultimi preparativi, aveva fatto accorrere sulle gettate un gran numero di persone, desiderose di rivedere ancora una volta il giovane animoso che si proponeva di strappare al polo il suo segreto secolare, e di salutarlo con un possente urrà. Non essendo però ancora giunto il momento della partenza, lo sbarco dei membri della spedizione si effettuò fra una grande calma. Già i buoni norvegesi sapevano che il Duca rifuggiva dalle rumorose dimostrazioni. La folla tuttavia non lascia la gettata. L’elemento marinaresco predomina e fa i suoi commenti e scambia domande e risposte con l’equipaggio che è già, in parte, sceso a terra. – A quando la partenza? – chiedono tutti. – Pel 12, – risponde Andresen, che è sbarcato per il primo. – Saremo qui in gran numero a salutarvi, – dice un vecchio marinaio dalla barba bianca. Non sono trascorse poche ore che già arrivano i primi carri portanti l’ultimo carico della spedizione che si trovava già da alcune settimane ammassato nei magazzini del Grand Hôtel. Quel carico, venuto in gran parte d’Italia, si componeva di millecinquecento casse, contenenti ciascuna venticinque chilogrammi di roba. S. A. R. il duca, aveva dedicato cure speciali al suo bagaglio, preoccupandosi anche delle cose più minute. Trattandosi d’intraprendere una spedizione pedestre attraverso i grandi banchi di ghiaccio, aveva soprattutto pensato al facile trasporto del suo voluminoso carico. Le casse erano perciò state divise in quattro grandi riparti; viveri – vestiario ed equipaggiamento – istrumenti e materiale scientifico – cose utili ma non indispensabili. Ciascun riparto era stato contraddistinto da un colore diverso; inoltre ogni cassa, sulle sei facciate, era stata segnata con parecchie iniziali corrispondenti agli oggetti che contenevano. Le casse dei viveri ed accessori portavano una striscia nera e contenevano riso, paste di diverse qualità, per variare, più che era possibile, il menu, carne secca, carne in scatole, conserve, legumi, pesce secco ed affumicato, farine, zucchero, the, cioccolatte, caffè, gallette divise in duecento e ottanta scatole e oltre mille bottiglie di vino da bersi nelle feste e nelle grandi circostanze, dono, per la maggior parte, di S. M. la Regina d’Italia. A queste vi era aggiunta una considerevole provvista di pemmican che doveva servire di nutrimento ai cani ed.... in caso disperato.... agli uomini. Tutti questi alimenti erano stati scelti con cura meticolosa e sottoposti, prima di venire chiusi nelle cassette, all’analisi chimica; poi ogni recipiente era stato solidamente rivestito di latta bene saldata, onde preservare il contenuto contro l’umidità ed una possibile immersione. Le casse contenenti il vestiario ed equipaggiamento, erano state invece contraddistinte con una fascia verde, perché nessuno dei membri della spedizione, in caso di pericolo, avesse potuto scambiarle per le altre. Contenevano un equipaggiamento completo: scarpe, vestiti, cappelli, guanti, cappucci, casacche di pelle d’orso e di renna, calze di lana, guantoni, scialli. Non mancavano nemmeno le cravatte, i bottoni, il filo, aghi, ecc. Le casse del materiale scientifico invece portavano una striscia rossa. Contenevano: barometri, termometri, sestanti e molti istrumenti di precisione, forniti in gran parte dall’ufficio idrografico della nostra regia marina e da case italiane, francesi, inglesi e tedesche. Le casse degli oggetti utili ma non indispensabili erano state marcate in giallo. Le cose più disparate si trovavano rinchiuse in quelle scatole: mazzi di carte, dame, scacchi, l’oca, la tombola, vari istrumenti musicali, un grafofono, un fonografo, un piano melodico sistema Giovanni Racca, con un ricco e svariato repertorio: Pagliacci, Puritani, Donna Juanita, Rigoletto, il Profeta, la Bohéme, Mefistofele, la Marcia Reale, la Cavalleria Rusticana e moltissime altre opere e marcie che sarebbe troppo lungo annoverare. Il Duca aveva messa anzi molta cura nella scelta di quei giuochi. La noia è il nemico più mortale degli esploratori polari, un nemico che a poco a poco vince ed accascia gli spiriti degli equipaggi, specialmente durante la lunga notte polare che dura centoventi o anche centocinquanta giorni e più ancora, se la nave si trova in latitudini altissime. Da questo lato ben poco avevano da temere gli audaci esploratori. I giuochi erano molti e svariati e fra una partita alle carte od alla dama, una giocata di scacchi, o un «addio al cigno» del Lohengrin suonato dal grafofono o un pezzo d’opera del piano melodico od un concerto di chitarre e mandolini, avrebbero ben potuto sbarcare alla meno peggio le non poche settimane della notte polare. Il carico si effettuava rapidamente, sotto gli occhi di una folla sempre crescente e curiosa. Il Duca aveva dato ordine di affrettarsi. Già Nansen, con cui aveva avuto parecchi colloqui, lo aveva replicatamente consigliato di raggiungere al più presto i mari artici, onde non vedersi, più tardi, contrastato il passo dai ghiacci polari. Buone notizie avevano mandato i balenieri della Norvegia settentrionale, partiti da qualche settimana per la annuale stagione di pesca. Pochi ghiacci avevano incontrato al largo delle coste e la temperatura s’era raddolcita più presto del solito. Urgeva quindi approfittare, poiché talvolta un ritardo di poche settimane può diventare fatale alle navi che osano avanzarsi sulle acque dell’Oceano Artico, ed il Duca aveva ancora molta via da percorrere prima di giungere alla lontana Terra di Francesco Giuseppe. I marinai norvegesi lavoravano però con tale lena, da non dubitare che prima del 12 giugno, tutto il materiale della spedizione si trovasse stivato a bordo. Anche Cardenti ed il suo collega Canepa, si erano messi della partita per affrettare il carico. Nel pomeriggio dell’11 l’ultima cassa scendeva nella stiva della Stella Polare. Tutto il carico era stato disposto accuratamente, in modo da poter scegliere qualsiasi oggetto senza scombussolare l’immensa mole delle casse. Il cav. Cagni ed il cav. Querini avevano sorvegliato, in persona, lo stivamento di tutto il materiale. La sera stessa la Stella Polare dal Bjoerviken si portava al largo, per caricare una considerevole partita di barili di petrolio, tornando al mattino ad ancorarsi a circa cento metri dal molo. L’ora della partenza stava per scoccare. La macchina, di già accesa, fumava allegramente e le quattro guide alpine, Petigaux, Savoi, Ollier e Fenoillet erano già giunte a bordo assieme a Cardenti e Canepa. Sulla gettata, una folla immensa si accalcava per mandare l’ultimo urrà in onore dei coraggiosi che si proponevano di emulare le gesta di Nansen. Marinai, borghesi, popolani, donne e fanciulli si pigiavano, guardando con viva curiosità la Stella Polare, mentre da tutte le parti del gran fjord accorrevano scialuppe a vapore, piccole veliere ed imbarcazioni d’ogni specie, cariche di persone. Le navi ancorate nel porto sono pavesate e le gran gale ondeggiano al vento. I marinai sono sui pennoni, sulle coffe, sulle crocette, pronti a mandare assordanti urrà. Sulla Stella Polare regna confusione. I marinai s’affannano a sgombrare la tolda che è piena di barili di petrolio. Alle dieci una scialuppa si stacca dalla riva e s’accosta rapidamente alla nave. Nessuno s’è quasi accorto che entro si trovano S. A. R. il duca assieme al suo secondo aiutante di campo, tenente Frigerio, e al dott. Cavalli. Hanno appena ricevuto i saluti e gli auguri delle autorità di Christiania. La comparsa del Duca fa affrettare i marinai. Sgombrano alla meglio una parte della coperta per poter ricevere gli ultimi amici che andranno a salutarli a bordo. Una viva ansietà regna su tutti i volti. Perfino i flemmatici e freddi norvegesi sembrano commossi e nervosi. La folla addensata sulle gettate si agita. Si direbbe che è impaziente di prorompere in un urlo formidabile. Alle undici una seconda lancia si stacca dal molo e abborda la Stella Polare. Salgono a bordo Nansen, il celebre esploratore, sua moglie, il pittore Werentkiold, pure con la moglie e la signora Ibsen, moglie del famoso commediografo; una seconda scialuppa conduce il console italiano Hallager con la sua signora, il vice-console di Aars e il pubblicista Ojetti corrispondente del Corriere della Sera. La signora Hallager consegna al Duca uno splendido mazzo di fiori coi colori italiani e norvegesi intrecciati e fa gli ultimi auguri; mentre Nansen gli dà gli ultimi consigli. Il momento della partenza è giunto, ma manca ancora il primo macchinista norvegese. Cagni dà ordine di chiamarlo con la sirena. Dapprima l’urlo rauco della macchina non ha effetto alcuno, ma alla sua sesta o settima chiamata anche l’ingegnere di macchina si fa vivo e si fa condurre velocemente a bordo. È il momento di salpare. La bandiera italiana, senza corona reale, sventola a poppa; la fiamma norvegese è spiegata sull’albero maestro, e quella italiana sul trinchetto. Si fanno gli ultimi addii. Il Duca, commosso suo malgrado, stringe la mano e ringrazia caldamente Nansen, poi le signore, Frigerio, Werentkiold, il capitano del porto, il console di Christiania, ed il vice-console di Aars. – Sgombrate!... – si grida dal ponte di comando, mentre la sirena lancia i suoi poderosi fischi. Tutti scendono nelle scialuppe. Nansen è l’ultimo e agita il berretto in segno di saluto, guardando un’ultima volta il Duca. Chissà!... Forse in quel momento invidiava quel giovane ardimentoso, che muoveva alla conquista del polo, lui, il vecchio navigante dei mari artici, ed il più fortunato degli esploratori delle gelide regioni! Il Duca è sul ponte di comando assieme al Cagni, a Querini, a Cavalli ed al capitano Evensen. Tutti agitano i berretti salutando la folla che agita i fazzoletti e che manda urrà assordanti. Un fremito d’entusiasmo aleggia sul fjord. La tuonante voce di Cardenti si fa udire a prora, fra le grida sempre crescenti della folla ed i fischi rauchi o stridenti delle sirene. – Sempre avanti Savoia!... – La Stella Polare si agita; il vapore esce sbuffando dalla sua ciminiera, e l’elica comincia a turbinare sollevando spruzzi di candida spuma. Un ultimo urrà s’alza dalla folla e dalle navi ancorate nel porto, e va a morire lontano, lontano, sulle placide acque del fjord. È l’ultimo saluto agl’intrepidi che vanno a seppellirsi fra i pesanti nebbioni ed i banchi di ghiaccio della regione polare. – Sempre avanti Savoia!... – tuona ancora Cardenti. La sua voce si perde fra gli ultimi addii della folla. La Stella Polare è già lontana e scende maestosamente il fjord, impaziente di fendere, colla sua prora, le acque del mare del Nord. Capitolo IV Dallo Skager-Rak al mare del Nord Al largo, il tempo, che fino al giorno innanzi si era mantenuto bellissimo, era minaccioso. Pel cielo correvano dei nuvoloni di brutto aspetto che parevano gravidi di pioggia e dalle coste della vicina Danimarca soffiava una brezza molto forte che poteva, da un momento all’altro, tramutarsi in ventaccio. Probabilmente sulle spiagge danesi e della Svezia già pioveva, poiché in quelle due direzioni l’orizzonte appariva molto oscuro. Il mare però non era cattivo. Qualche ondata sollevava di quando in quando la Stella Polare, facendola rollare vivamente, con poco piacere delle quattro guide alpine che si trovavano a disagio sull’infido elemento, e dei due cani donati al Duca da Nansen, nati a bordo del Fram. Il Duca era sul ponte di comando e chiacchierava con Cagni; il tenente Querini invece passeggiava a prora assieme al dott. Cavalli parlando di ghiacci, di freddi, di nebbie, di orsi polari, di foche e di morse. Cardenti, eterno chiacchierone, scambiava parole con gli uomini dell’equipaggio che ben poco lo comprendevano, ma che pure, per cortesia, lo ascoltavano egualmente, sorridendo. Andresen, il giovane nostromo, che bene o male masticava la lingua francese, spiegava alle quattro guide alpine l’itinerario del viaggio, e s’ingegnava a dare loro una pallida idea delle regioni polari. – Faremo molte fermate lungo la via? – chiedeva Ollier. – Tre sole, – rispose Andresen, – oltre una piccola tappa a Laurvik. – Ah!... Ci fermeremo ancora a Laurvik? – Poche ore solamente. Questa notte salperemo definitivamente pel mare del Nord. – E dove ci fermeremo poi? – A Tromsoe, a Vardoe, e poi ad Arcangelo dove faremo le nostre ultime provviste di carbone, ed imbarcheremo i centoventi cani che ci condurrà Ivanowik Trontheim. – Chi è quel signore? – chiese Petigaux, il più esperimentato delle guide alpine, che aveva già seguìto il Duca nella meravigliosa ascensione del Sant’Elia. – Un allevatore di cani della Siberia occidentale. – Che verrà con noi?... – chiese Ollier. – Oh no, – rispose Andresen. – Egli non lascerà, a nessun prezzo, i suoi canili. Un gran brav’uomo d’altronde, che si vanta di possedere delle razze scelte, e che provvide anche il nostro Nansen. – Ditemi, signor Andresen, – chiese Ollier. – È vero che i cani rendono preziosi servigi in mezzo ai ghiacci? – Sì, se sono però di buona razza. Non fatevi tuttavia troppe illusioni sulla loro obbedienza. Sono molto selvatici, testardi, ed anche maligni, specialmente quelli di razza esquimese, i quali non derivano altro che da un incrocio di lupi, avendo la stessa taglia, l’egual pelame, e gli sguardi cupi, feroci. Però quelli che ci fornirà Trontheim devono appartenere ad una razza meno selvatica ed anche più robusta. – Sono molto resistenti? – Sono capaci di percorrere cinquanta e talvolta perfino ottanta chilometri al giorno, se il carico non è eccessivo. – Quanti ce ne vogliono per una slitta? – Generalmente in dieci trascinano un carico di quattrocento chilogrammi. – Un bel peso, contacc!... – esclamò Ollier. – E dopo Arcangelo andremo direttamente al polo? – chiese Savoi. – Uh!... Correte molto voi, – disse Anton Torgrinsen, il secondo macchinista di bordo, che da qualche minuto si era unito al crocchio, e che, conoscendo anche lui il francese, aveva raccolta la domanda della guida. – Per quest’anno accontentatevi di giungere alla Terra di Francesco Giuseppe e di svernarvi. – Svernare?... Cosa significa ciò? – chiese Savoi. – Di passare l’inverno in mezzo ai ghiacci. – Credete che la Stella Polare verrà imprigionata dai banchi? – chiese Ollier. – Certamente, – rispose il secondo macchinista. – Tra quattro mesi, se non prima, la nostra nave verrà asserragliata fra gli ice-fields e gli ice-bergs, e non potrà più muoversi. – E rimarrà molto, prigioniera?... – Fino all’anno venturo, se l’andrà bene. – Volete dire?... – Che non si è sempre sicuri di liberarsi dai ghiacci durante lo scioglimento. Certe navi sono rimaste prigioniere perfino tre anni di seguito. – Ed allora?... – chiese Savoi, con una certa inquietudine. – Oh!... Per voi poco importa, – disse Andresen. – Il Duca non ha intenzione di servirsi della sua nave per andarsene al polo. Saremo noi che rimarremo prigionieri. – Sì, – disse Torgrinsen, – S. A. R. non ha alcuna voglia di seguire il piano del nostro Nansen. Mentre questi contava tutto sulla propria nave per potersi accostare al polo, il Duca non conterà che sulle proprie gambe e sulle vostre, signori. – Il vostro Nansen ha però abbandonata la sua nave, – disse Petigaux. – Io l’ho udito raccontare. – Sì, ma solamente quando si era accorto che i ghiacci cominciavano a trascinarla verso il sud. – E come andremo innanzi noi?... – chiese Ollier. – Con le slitte, – rispose Andresen. – Appena la buona stagione lo permetterà, S. A. R. lascierà la nave e cercherà di spingersi verso il nord, attraverso i grandi campi di ghiaccio. Suo progetto è quello di scaglionare, possibilmente in terraferma, dei depositi di viveri, onde assicurarsi il ritorno. Un bel piano, in fede mia, che gli permetterà di spingersi ben lontano, senza il timore di trovarsi più tardi senza alimenti. – Nessuno aveva mai pensato, prima di S. A. R., d’istituire dei depositi di viveri? – chiese Ollier. – Oh, sì, – rispose Andresen. – Tutti gli esploratori polari che hanno cercato di spingersi verso il nord a piedi e con slitte, hanno avuto la precauzione di erigere qua e là dei cairn, ossia dei depositi di viveri, però sempre in proporzioni meschinissime. Il Duca invece farà le cose in grande, avendo cani sufficienti per trasportare con sè un bagaglio immenso. – E nessuno danneggerà i nostri depositi? – Non vi sono abitanti nella Terra di Francesco Giuseppe, – rispose Andresen. – Almeno Payer, tenente della marina austriaca, che pel primo corse quelle isole, non ne vide mai, e nemmeno il nostro Nansen che rimase colà parecchi mesi. – E gli orsi? – chiese Petigaux. – Oh non crediate che siano così numerosi da incontrarne uno ad ogni passo. – Però ve ne sono. – Sì, e ne cacceremo più d’uno. La loro carne è eccellente e varierà la minuta di bordo. Signori miei, tocca a me il quarto. Riprenderemo un’altra volta la nostra conversazione. – Mentre a bordo passavano il tempo discorrendo, la Stella Polare, abilmente guidata dal capitano Evensen, filava con discreta velocità in direzione di Laurvik, dove contava di fare un’ultima fermata, prima di abbandonare definitivamente lo Skager-Rak. Il vento favoriva la navigazione, quantunque la macchina non fosse stata ancora spenta. Qualche straglio e qualche flocco erano stati spiegati per aumentare la corsa e anche per dare alla nave una maggior stabilità. Alle due pomeridiane già le isolette di Sandyfjord erano state superate, ed in lontananza cominciavano a disegnarsi sull’orizzonte le spiagge di Laurvik e le colline sovrastanti, cinte di pini verdeggianti. Alle undici e mezzo della notte dopo d’aver costeggiata la penisoletta di Sandyfjord, la Stella Polare entrava nella baia di Laurvik, gettando l’àncora a breve distanza dal molo. Non si doveva fare che una brevissima fermata, perciò pochissimi dell’equipaggio poterono scendere a terra a dare l’ultimo saluto ai parenti ed agli amici. Furono caricate in fretta alcune casse che erano state lasciate a terra e parecchie botti, contenenti per lo più pesce secco; poi, verso il mattino, in presenza della popolazione, che era accorsa in gran numero sulla gettata durante la notte, la Stella Polare levava silenziosamente le ancore, prendendo nuovamente il largo. Qualche ora dopo, la nave si trovava già all’altezza del fjord di Langesund, baia assai profonda che mette capo ad una fiorente e graziosa cittadina: Porsgrund. Il tempo si era un po’ rimesso al bello, però dal largo montavano ancora delle ondate, piuttosto grosse, le quali andavano ad infrangersi, con assordanti fragori, contro i frastagliamenti della costa. La Stella Polare si comportava però splendidamente, quantunque fosse molto carica. Quella veterana dei ghiacci, malgrado i suoi numerosi anni, balzava agilmente sulle onde e le tagliava vigorosamente con la prora, facendo schizzare in alto sprazzi di spuma bianchissima. Alcuni velieri apparivano verso il sud e anche verso l’ovest, diretti nel mare del Nord; a poppa della nave si vedeva, di tratto in tratto, montare a galla qualche grosso delfino. In alto invece pochi gabbiani e qualche rara procellaria che fuggiva radendo quasi le onde. La costa norvegese, che si disegnava nettamente alla distanza di poche miglia, offriva di quando in quando degli spettacoli bellissimi che attiravano l’attenzione perfino del Duca. Le spiagge della Norvegia meridionale non sono frastagliate come quelle occidentali, però anche quelle hanno fjords numerosissimi che s’addentrano entro terra, come quelli di Kragerò, di Söndeled, di Christiansand e anche moltissime isole e isolette, che sembrano messe là appositamente per difendere le coste dagli urti poderosi e costanti dello Skager-Rak. Entro quelle baie profonde, che s’addentravano fra colline e montagne coperte di pini e di larici, apparivano villaggi graziosi annidati fra le rupi delle spiagge, oppure si mostravano quasi improvvisamente delle cittadelle dinanzi alle quali si vedevano ancorati non pochi velieri, oppure delle barche pescherecce colle candide vele sciolte al vento. Qualche volta la costa si alzava dirupatissima, frastagliata e tagliata quasi a picco; tal’altra invece scendeva dolcemente formando delle penisolette e delle insenature verdeggianti, d’un effetto bellissimo che contrastava vivamente con la tinta azzurro-cupa del mare. La Stella Polare però non s’arrestava e proseguiva la sua corsa, frettolosa di solcare le acque del mare del Nord. Sondeled, una bella cittadina, situata nel fjord omonimo, apparve per qualche istante, mostrando le sue bianche casette a punta; più tardi fu segnalato Grimstad, altra cittaduzza, frequentata per lo più da pescatori, e situata nel mezzo di un’ampia insenatura, quindi verso il tramonto le isole che chiudono il largo fjord di Christiansand, una delle più belle e anche delle più industriose città della Norvegia, che non la cede a Bergen ed a Stavanger. L’indomani la Stella Polare, superato il capo di Lindesnas, navigava nelle acque del mare del Nord, uno dei più vasti dell’Europa, che bagna contemporaneamente le coste occidentali della Norvegia, quelle orientali dell’Inghilterra e quelle settentrionali della Germania, dell’Olanda, del Belgio e di parte della Francia. – Che tinta cupa ha questo mare, – disse Harry Stökken, l’ingegnere di macchina, abbordando il capitano Evensen che stava osservando, con un cannocchiale, le coste norvegesi. – Sì, più oscure di quelle dello Skager-Rak, – rispose il lupo di mare. – Forse qualche tempesta le ha scombussolate. – Scoppiata molto lontana forse? – Lontanissima di certo, probabilmente nell’Oceano Artico. Voi sapete che le onde, quando non trovano sulla loro via delle terre di grandi estensioni, si propagano a delle distanze immense, – disse il capitano. – Nell’oceano Artico io ho veduto delle ondate che provenivano da una distanza di cinque o seicento miglia. Nel Pacifico poi, se ne sono osservate di quelle che avevano attraversata una distanza di mille e perfino di mille cinquecento. – Incredibile. – Ma verissimo, ingegnere. – Ditemi, signor Evensen, è vero che il mare del Nord ha un livello inferiore a quello del Baltico? – Ordinariamente quasi tutti i mari interni hanno una notevole differenza di livello in paragone di quelli aperti. Sembra molto strano che i mari, che comunicano tutti fra di loro, debbano avere un dislivello, eppure è precisamente così. Ne parlavo appunto ieri col tenente Querini. Per esempio il mare Mediterraneo è più basso dell’Oceano Atlantico, come pure il golfo del Messico è più alto dell’Oceano Pacifico. – Differenze notevoli? – Non trascurabili. Fra l’Atlantico ed il Mediterraneo esiste un dislivello di ben 72 centimetri. Anche quello del Baltico è diverso da quello del Mediterraneo, oltrepassandolo di 0,697. – E da che cosa provengono queste differenze di livello? – Molta influenza hanno le correnti, per taluni mari; in altri invece l’evaporazione o l’abbondanza delle acque versate dai fiumi. – Anche le tinte dei mari variano, è vero signor Evensen? – chiese l’ingegnere di macchina. – Sì, signor Stökken. Nel mar Rosso, per esempio, talvolta si sono osservate delle tinte porporine, dovute alla presenza di una specie d’alga colorante; nel Giappone l’acqua è molto oscura, talvolta quasi nerastra, mentre nel golfo di Guinea è spesso lattea. – E l’Artico non ha alcuna tinta speciale? – Solo una grande limpidezza, che non eguaglia però quella dell’Oceano Antartico, – rispose il capitano. – In certe giornate di calma, io ho potuto vedere dei delfini nuotare a cinquanta e talvolta a ottanta metri di profondità! – E nell’Oceano Antartico è più limpida? – Assai di più. – E credete che sia anche meno sgombra di ghiacci? – La regione Antartica? – Sì, capitano. – Non sembra, signor Stökken. Non si sa ancora per quale ragione esatta, i ghiacci galleggianti abbondano più nell’Oceano Antartico che nell’Artico. Probabilmente dipende dalla mancanza d’una grande corrente tiepida. – Infatti, nell’Oceano Artico viene a morire quella del Gulf-Stream. – Sì, ingegnere, e malgrado la lunga via percorsa, conserva ancora un po’ del calore raccolto nel golfo del Messico, sicchè i ghiacci che cercano di scendere verso il sud vengono più rapidamente sciolti, mentre quelli dell’oceano Antartico, trovando acque fredde, possono spingersi perfino al 55° parallelo. – Forse quella è una causa delle poche spedizioni tentate nella regione Antartica. – Sì, signor Stökken, ma un po’ dipende dal fatto che il continente australe non si presta a delle esplorazioni in causa dell’enorme barriera di ghiacci che si estende, come un muraglione impenetrabile, dinanzi alle terre. Però anche laggiù molte esplorazioni furono fatte e anche non poche riuscirono fortunate. – Il punto più alto toccato, è stato finora? – Il 78° 30’, raggiunto da James Roos nel 1842. – Mentre nell’Oceano Artico?... – Si giunse fino all’86° 13’ 36", – rispose il capitano. – Raggiunto dal nostro Nansen. – Sì, ingegnere, – rispose il capitano con orgoglio. – Se il nostro grande compatriotta avesse potuto superare quegli ultimi quattrocento chilometri, il polo non sarebbe più un mistero per la scienza. – E noi, fin dove ci spingeremo? – Chi può dirlo? Tutto dipende dalle circostanze; però io ho molta fiducia nel Duca degli Abruzzi e molta ne ha anche Nansen. È un giovane audace che andrà molto lontano, ve lo dico io, signor Stökken. – Capitolo V I «fjord» della Norvegia Nei giorni seguenti la Stella Polare navigò costantemente sotto le coste occidentali della Norvegia, passando successivamente dinanzi ai grandiosi e pittoreschi fjords di Stavanger, di Bommel, di Biorne, di Sarterö, nelle cui profondità si nascondono numerose ed importanti città marittime, come quella di Stavanger, di Hardanger e di Bergen, famosa questa pei suoi mercati di pesce, i più importanti dell’Europa intera. Le spiagge della Norvegia occidentale, sono le più frastagliate che si possa immaginare. Solamente quelle della Dalmazia possono reggere un po’ nel confronto. Gli urti incessanti delle grandi ondate del mare del Nord, hanno, per modo di dire, polverizzate quelle spiagge, scavandovi poi delle insenature profondissime che s’addentrano nella terra per molte e molte miglia. Un infinito numero di canali, quasi tutti navigabili e, quello che è più, ricchissimi di pesci, s’intrecciano in tutti i versi, formando una quantità enorme d’isole, d’isolotti, di scogliere, di rocce, pure frastagliatissime. È quasi impossibile trovare un’isola che abbia una forma un po’ esatta: sono tutte punte, capi, penisole e penisolette, baie microscopiche, cale e calette. Tuttavia non sempre quelle coste sono tagliate a picco. A differenza di quelle della Dalmazia, che cadono a piombo sul mare, generalmente non hanno molta elevazione. Se non hanno però l’orrido selvaggio, quali scene incantevoli presentano quei fjords!... In taluni punti il mare pare che penetri nel cuore delle montagne e producono un effetto stranissimo i vascelli che navigano quasi fra le boscaglie, come se invece di scendere verso il mare corrano a raggiungere le più alte cime delle Alpi norvegesi. S. A. R. il duca, Cagni ed i loro compagni, non si saziavano mai di ammirare quelle bellezze e per delle ore intere rimanevano in coperta, coi cannocchiali in mano, intenti a scoprire i fjords che apparivano attraverso gli strappi della costa. Anche le quattro guide alpine, che già cominciavano ad abituarsi al rollìo ed al beccheggio della nave e ad ammirare il mare, di rado abbandonavano la coperta, compiacendosi di quelle vedute. I loro sguardi però cercavano di preferenza le vette delle montagne che si disegnavano in lontananza, al di là dei fjords. Su quelle spiagge molte navi s’incrociavano colla Stella Polare e talune, riconoscendola, salutavano ammainando tre volte le bandiere, gentile saluto a cui subito rispondeva il Duca. Anche una baleniera, riconoscibile per i suoi fornelli situati a poppa e pel numero delle sue scialuppe, fu raggiunta. Era un piccolo legno, a due alberi, dalla prora tagliente, con uno sviluppo straordinario di vele. – Mi sembra l’Herta, – disse il capitano Evensen, dopo d’averla osservata attentamente. – Parte un po’ tardi, a dire il vero, però farà egualmente buona caccia. Il capitano Ole Förgensen è un lupo di mare che sa sempre cavarsela bene.1 – Una delle nostre navi? – chiese l’ingegnere Stökken. – È di Sandyfjord, cioè della mia città natale, – rispose il capitano. – La conosco benissimo; è la più piccola delle navi baleniere, non stazzando più di duecentocinquanta tonnellate. – Con venticinque uomini d’equipaggio, capitano, – disse Andresen, il giovane mastro, che stava chiacchierando con le quattro guide alpine e con Cardenti. – Ciò vuol dire che ve ne sono altre più grandi, – disse l’ingegnere. – La maggiore era questa, la Stella Polare, parlando sempre delle navi baleniere a vapore. Ora è il Niord d’Oremberg, poi vengono il Viking, quindi la Cappella, che probabilmente incontreremo più tardi nelle acque della Terra di Francesco Giuseppe. – Dove andrà l’Herta a cercare i grandi cetacei? – chiese l’ingegnere. – Sulle coste nord-est della Groenlandia, – rispose Andresen. – L’ho saputo da un mio amico che si è imbarcato come ice-master. – Sì, là le balene sono ancora numerose, – disse il capitano Evensen. – Io ne ho cacciate parecchie su quelle coste. – Si adopera ancora il rampone? – chiese il tenente Querini che s’era appressato. – È un’arma ormai passata d’uso, – rispose il capitano. – Quindici o vent’anni or sono si usava assalire la balena con una specie di lancia, foggiata a V, coi margini esterni molto taglienti e quelli superiori larghi ed il manico di legno, e veniva scagliata da un bravissimo fiociniere; però la caccia offriva dei gravissimi pericoli. Le scialuppe montate dai cacciatori venivano facilmente rovesciate dalle ondate o dai colpi di coda del cetaceo, dovendosi avvicinare molto a quei giganti del mare, per scagliare con maggior sicurezza il rampone. L’agonia delle balene era allora lunghissima e qualche volta perfino le navi correvano dei seri pericoli. Mi ricordo, anzi, che un veliero fu mandato a picco di colpo da una testata datagli da un cetaceo furibondo. Ora, la caccia non offre più tanti rischi, anche perché le navi baleniere hanno adottato il vapore. – E che cosa adoperano? – Dei cannoncini. – Tirano forse a palla contro le balene? – Non sempre, e poi si tratta d’una palla vuota contenente una quantità di stricnina capace di fulminare i cetacei più giganteschi. Ordinariamente però si usa l’arpione, molto più pesante di quello che adoperavano i fiocinieri, con la punta fatta a foglia d’ulivo e fornito, sul manico, di due lame che si aprono in senso contrario onde impedire che l’arma, una volta entrata nel corpo della balena, possa poi uscire. Al manico viene attaccata una forte lenza, lunga da quattrocentocinquanta a cinquecento metri, che sovente non basta, ed i balenieri sono costretti ad aggiungerne una seconda, e talvolta anche una terza. – E muore subito il cetaceo, dopo d’aver ricevuto l’arpione in pieno corpo? – Mai più. Hanno una vitalità straordinaria, quei giganti del mare, ed una sola ferita non basta ad ucciderli. Appena toccati, fuggono disperatamente, all’impazzata, ora tuffandosi ed ora tornando a galla, ed i balenieri, per finirli, sono costretti a dargli la caccia colle scialuppe, lanciandogli altri arpioni, specialmente sotto la coda per recidergli le ultime vertebre. – Devono rendere molto quei cetacei. – Una volta da una sola balena o da un capodoglio si ricavava perfino sessantamila lire; ora l’olio delle balene è molto deprezzato e si è bravi a guadagnarne la metà, e anche non sempre. Sulle nostre coste settentrionali però, specialmente nel Varanger-Fjord, a Vadso, si utilizzano anche i carcami delle balene. Un tempo, levata la grascia, s’abbandonava il corpo agli uccelli marini ed ai pesci cani; ora invece si rimorchiano i cetacei nel Varanger-Fjord, e là vengono completamente distrutti, ricavando dall’immensa massa di carne un ottimo concime e dagli ossami del nero-fumo pregiato. È stato il signor Foyn, il così detto re dei balenieri, che ha avuto quella buona idea, ed i suoi grandiosi stabilimenti gli hanno fruttato molti milioni. – E dite che le balene sono talvolta molto pericolose? – chiese il tenente. – Molti marinai hanno pagata la loro audacia colla loro vita. Questa sera, durante il quarto, se S. A. R. il duca non avrà bisogno dei miei servigi, vi narrerò una terribile avventura toccata ad un capitano mio amico, nei pressi dell’isola di Nuova Zembla. – L’ascolteremo volentieri, capitano, – risposero l’ingegnere ed il tenente. – E se mi permetterete, assisterò anch’io al racconto, – disse Andresen. – Le avventure mi piacciono immensamente e condurrò con me anche i due marinai del Duca, se riusciranno a capirvi. – Sia pure, – rispose il capitano, sorridendo. – Basta!... Ecco la penisola di Stadtland. Ci cacceremo entro il canale e navigheremo fra le isole. Eviteremo queste noiose ondate che il mare del Nord si ostina a rovesciarci addosso. – La Stella Polare si trovava allora di fronte all’isola di Vaagso, una delle più considerevoli del Nord Fjord e marciava rapidamente verso la lunga penisola di Ualbinsel Stadtland, nel cui fondo si nasconde la borgatella di Aahjem. Essendo il mare un po’ mosso, anche in causa della ripidità delle coste che producono i così detti flutti di fondo, molto seccanti per le navi, anche se di grossa portata, il pilota aveva consigliato di prendere i canali interni che sono già battuti dai vapori costieri e molto bene delineati, quindi facili a percorrersi. La Stella Polare, superata la punta estrema della penisola, si gettò fra i numerosi isolotti che formano il così detto Brend Sund, e che portano, i maggiori, i nomi di Guskö, di Hareid-land e di Sulo. Numerosi fari indicano la via da tenersi durante la notte; fari, però, che durante la stagione estiva hanno una importanza molto limitata, non tramontando il sole, in quelle alte latitudini, che molto tardi, per alzarsi poi prestissimo. Infatti, con grande stupore delle guide alpine e soprattutto di Canepa e di Cardenti, alle undici di sera ci si vedeva benissimo sul ponte della nave, e la notte vera non durava che pochissime ore, appena tre o quattro. Alle dieci e mezzo pomeridiane, luna e sole si facevano la corte, mescolando le loro luci, ed il mare scintillava sotto i biondi raggi di Febo. – Pare impossibile! – esclamava Cardenti. – Si direbbe che in questo paese il sole non ha sonno. Se la continua di questo passo, io finirò col non dormire più! – Alla sera – sera per modo di dire – la Stella Polare, che bruciava carbone senza risparmio, frettolosa di raggiungere le coste settentrionali della Norvegia, navigava nelle acque di Christiansund, una bella cittaduzza costruita su di un isolotto cacciato fra le due isole maggiori di Averò e di Tuisteran. – Siamo già a buon punto, – disse il capitano Evensen, volgendosi verso l’ingegnere di macchina che passeggiava a prora, a fianco del tenente Querini. – Lo credo anch’io, – rispose il signor Stökken. – Non siamo invece ancora a buon punto della vostra storia. – È vero, – rispose il capitano, sorridendo, – ma S. A. R. ha bisogno di me questa sera. Dobbiamo fare delle osservazioni meteorologiche e magnetiche assieme ai suoi ufficiali. – Voi, forse, volevate raccontare l’avventura toccata al capitano Namdal? – chiese Andresen il quale li aveva raggiunti. – Sì. – La conosco anch’io, capitano, – disse il mastro. – Avevo un mio parente a bordo di quel legno. – Allora non perderete nulla, signor Stökken. Andresen è un buon narratore. – Sì, quando non ho bevuto troppo, – disse il norvegese, ridendo. – Avanti colla vostra storia, Andresen, – disse il tenente. – Adagio, signore. Avevo promesso di raccontarla anche ai miei camerati. – Vengano pure a udirla. – Faremo circolo sul castello di prora. – Ed io vi regalerò i sigari per tutti, – disse il tenente. – E una bottiglia di ginepro, signore. – Vada per la bottiglia. Orsù, spicciatevi, fra due ore monto il mio quarto di guardia. – Capitolo VI I giganti del mare Era una splendida serata. Il sole radeva l’orizzonte, quantunque fossero già quasi le undici, proiettando obliquamente i suoi raggi dorati sul mare, che scintillava come se fosse cosparso di pagliuzze d’oro, e sui gruppi di bianche casette della grande isola di Smolën. Una fresca brezza, che soffiava dal mare del Nord, sibilava attraverso i cordami della nave con mille suoni diversi e disperdeva, in capricciose volute, il fumo che irrompeva dalla ciminiera. L’aria era tepida, purissima, e rammentava agli audaci esploratori, certe sere di primavera della nostra Italia. Calma assoluta regnava nel canale, appena rotta di quando in quando, dal suono strano delle campanelle appese ai gavitelli galleggianti, che indicavano od un bassofondo od una scogliera subacqua. Pel cielo alcune nuvole, color del fuoco, filavano lentamente verso le spiagge di Aure e di Ellandsö, cambiando sovente di forma e di tinta, a seconda dei raggi solari che si rifrangevano su di esse, e più sotto volteggiavano, in gran numero, gabbiani, gabbianelli e qualche procellaria fulmar. In lontananza, come naviganti su di un mare di fuoco, apparivano le numerose isolette del fjord di Ramso e le coste frastagliate di Meland. A poppa S. A. R. il duca, seduto democraticamente su una scranna, chiacchierava col Cagni e col capitano Evensen, i quali facevano delle osservazioni astronomiche; a prora s’erano radunati i marinai norvegesi di quarto, mentre le guide alpine discutevano animosamente col bollente Cardenti, il quale parlava di corazzate mostruose, di cannoni da cento tonnellate e di granate, dando spiegazioni sulla Lepanto, sull’Italia, sul Ruggero di Lauria, le nostre più grandi navi da guerra. Andresen, seduto su di un cumulo di cordami, fumava furiosamente la sua monumentale pipa. Pareva che volesse ispirarsi prima di narrare la meravigliosa storia del capitano Namdal. La notizia che stava per raccontare una strepitosa caccia alle balene, s’era propagata rapidamente fra gli uomini di quarto e tutti erano accorsi, sapendolo buon parlatore. I norvegesi, popolo marinaresco, ci tengono molto ai racconti avventurosi e alla sera si radunano volentieri per udire le meravigliose leggende delle loro Saghe o i drammi marittimi. – Orsù, Andresen, mi pare che abbiate fumato abbastanza, – disse l’ingegnere di macchina, volgendosi verso il giovane mastro. – La bottiglia di ginepro è pronta per bagnarvi l’ugola ed i sigari ve li ho già dati, – aggiunse il tenente Querini. – Sì, avanti la storia, – dissero i marinai, che gli si erano seduti intorno. – Tanto più che fra poco non avremo più il tempo di ascoltarvi, – disse Johan Johansen, il primo fuochista. – Fra un’ora tocca il quarto a me ed all’ingegnere. – Ci sono, – cominciò Andresen. – L’istoria mi è stata raccontata da un mio parente e così dettagliatamente che non perderete nulla, nemmeno una sillaba. L’ho impressa qui nel mio cervello come se me l’avesse narrata ieri. Aprite gli orecchi e uditemi: La Faldereid era salpata l’anno scorso, ai primi di maggio, da Trondhjem, al comando del capitano Namdal e con un equipaggio di ventidue uomini. Era un bel brigantino di trecento tonnellate, costruito appositamente per la caccia delle balene, e che aveva già fatto parecchie fortunate campagne allo Spitzbergen e sulle coste orientali della Groenlandia. Aveva fatte provviste abbondanti, poichè come già voi saprete, le navi baleniere fanno delle lunghe campagne e corrono sovente il pericolo di passare qualche anno fra i ghiacci polari, i quali, spinti dai venti e dalle correnti, scendono talvolta molto verso il sud. Il capitano Namdal, un vecchio ed esperimentato lupo di mare, che aveva fatto numerose campagne e che aveva ucciso tante balene e tanti capodogli da non ricordarsene più il numero, aveva stabilito di recarsi allo Spitzbergen e precisamente nella baia della Recherche, essendo stato avvertito che in quei paraggi eransi veduti dei grandi banchi di boete. – Cosa sono queste boete, innanzi tutto, – chiese Oll Johannesen, il secondo cuoco di bordo. – Già tu non puoi intenderti che di pentole e di cattivi pasticci, – disse Andresen ridendo. – Sappi adunque che sono banchi formati di piccolissimi crostacei, e di cui sono molto ghiotte le balene. Si estendono quei banchi per molte e molte miglia e si chiamano la zuppa delle balene. – Se ne pescheremo anche noi proverò a farvi una zuppa. Dovrebbe riuscire eccellente. – Bada con le tue zuppe!... S. A. R. ed i suoi compagni si lamentano della tua cucina, te ne avverto, cuoco infernale. – Ne parlerò al primo cuoco. – Avanti la storia, – dissero Hansen, il velaio di Laurvik, e Olanssen il carpentiere. – Giunto nei pressi dello Spitzbergen, – riprese il giovane nostromo, – il capitano Namdal aveva notato sull’acqua del mare delle grandi macchie oleose le quali indicavano il recente passaggio di quei giganteschi cetacei, e siccome quelle tracce si delineavano in direzione della baia della Recherche, s’affrettò a dirigere la nave in quella direzione, con la certezza di fare qualche grossa preda. Ventiquattro ore dopo, la nave baleniera si trovava nei paraggi della baia. Il mare, da azzurro indaco era diventato brunastro presso quelle coste selvagge e ciò indicava la presenza della zuppa delle balene. Il capitano Namdal fece preparare le scialuppe e caricare i cannoncini, come pure gli arpioni da lanciarsi a mano e le lenze. Era calata la sera, una sera oscurissima, essendovi in alto una densissima nebbia. Verso le due del mattino, il veliero urtava violentemente contro una massa enorme, che pareva galleggiasse a fior d’acqua, ma che invece d’opporre resistenza, subito si spostò, mandando una nota acuta, metallica, come se fosse stata prodotta da una violenta corrente d’aria cacciata entro un gran tubo di bronzo. Mio cugino, che si trovava di guardia sul ponte, si slanciò verso prora assieme al capitano ed al mastro fiociniere. Dinanzi allo scafo non v’era più nessuno, però ormai non potevano ingannarsi su quello che era accaduto. La nave aveva urtata una balena sonnecchiante a fior d’acqua. Il caso non era nuovo. Ricordo che anche a me toccò di vedere una balenottera gravemente ferita dall’urto della nave che montavo. Non erano trascorsi due minuti, quando i marinai della baleniera udirono un tonfo strepitoso seguìto da una grande ondata, la quale andò ad infrangersi rumorosamente contro i fianchi del brigantino. «Una balena!... Una balena!...» tale fu il grido che scoppiò tra i marinai. Ascoltando con profonda attenzione, si udiva la potente respirazione del mostro e di quando in quando giungevano fino a bordo dei fischi sordi, prodotti senza dubbio dall’acqua che sfuggiva dagli sfiatatoi. «Orsù!... ragazzi!...» gridò il capitano Namdal. «Calate in mare le scialuppe e preparatevi a ramponare il mostro.» Due scialuppe da pesca – svelti e solidi battelli, che si guidano con un lungo remo e che sono montati ognuno da un fiociniere, da quattro rematori scelti fra i migliori e da un pilota – furono subito calate in mare, per essere pronte a tagliare la via al cetaceo e perseguitarlo. Oltre i ramponi avevano parecchie lance di forme diverse, terminanti in un disco taglientissimo, che si scagliano specialmente sotto la coda della balena per reciderle le ultime vertebre, e numerose lenze fornite ognuna d’una doga, ossia d’un largo pezzo di sughero su cui vi sono impresse a fuoco le cifre ed il nome della nave baleniera. – E a che cosa servono quelle doghe? – chiese il secondo cuoco, che prestava molta attenzione al racconto. – Ad impedire ai balenieri di far propria la preda uccisa da altri. Le balene non sempre muoiono subito, anzi talvolta vanno a spirare ad una grande distanza dalla nave che le ha colpite. Coloro che le trovano, vedendo la doga non se le appropriano, essendo generalmente leali i balenieri. Ed ora continuo il mio racconto. – Sì, avanti, – disse l’ingegnere di macchina. – Terminati i preparativi, i balenieri attesero impazientemente l’alba, studiandosi intanto di seguire le tracce del cetaceo. Ai primi albori mio cugino lanciava il grido: «Balena a tre gomene sottovento!» Il corpo della balena era perfettamente visibile e luccicava come un immenso fuso d’acciaio sotto i primi raggi del sole sfiorante l’orizzonte. Di quando in quando dagli sfiatatoi situati sul vertice del capo, uscivano, con sordo rumore, due colonne di vapore biancastro, le quali s’alzavano di parecchi metri, disperdendosi sul mare in goccioline oleose. – Si direbbe che voi assistevate alla caccia, – interruppe il secondo cuoco, ridendo. – Silenzio!... – esclamarono Olanssen il carpentiere, ed il velaio, stringendosi maggiormente attorno al mastro, per non perdere una sola sillaba. Tutti avevano imitato il loro esempio. Anche le guide alpine e Cardenti s’erano avvicinati, quantunque ben poco potessero comprendere. – Si trattava d’una balena azzurra di dimensioni straordinarie, – continuò Andresen. – Mio cugino mi affermò che era lunga diciotto metri e anche di più, una massa veramente gigantesca. Le due scialuppe, nel più profondo silenzio, si erano scostate dal brigantino mentre vi si preparavano i cannoni da caccia. I due fiocinieri avevano impugnato i loro ramponi e si tenevano a prora, con un ginocchio fortemente incastrato in una specie di scanalatura che si trova dietro l’asta, onde non perdere l’equilibrio nel momento supremo. Già le scialuppe erano giunte a trecento metri dal cetaceo, quando questi, accortosi forse della presenza di quei minuscoli, ma pur sempre pericolosi avversarii, lanciò una nota acuta, battendo la coda con inquietudine. Malgrado le ondate, le due piccole baleniere non si erano fermate, anzi avevano raddoppiata la corsa, lasciando ormai da parte ogni prudenza. Il brigantino le seguiva a breve distanza, pronto a cannoneggiare il cetaceo ed a portare soccorso alle scialuppe. «Attenzione!...» gridarono ad un tratto i mastri. Il cetaceo stava per muoversi. Batté le sue immense pinne pettorali, descrisse un mezzo giro, presentando la testa ai nemici, poi affondò bruscamente formando un largo gorgo che attrasse, per parecchi metri, le due scialuppe baleniere. I cacciatori si affrettarono ad allargarsi attendendo con viva ansietà la ricomparsa del gigante. Quantunque fossero tutti agguerriti contro simili pericoli e avessero fatto tutti le loro prove, mio cugino mi confessò che erano tutti pallidissimi, soprattutto i fiocinieri. Si sarebbe detto che erano stati presi da quella strana paura che colpisce sovente i balenieri quando si trovano a contatto con quei mostri; paura che paralizza talvolta le loro forze, compromettendo la loro salvezza. D’improvviso, a circa sessanta braccia dalle due scialuppe, apparve sul mare un largo remolìo e poco dopo emerse un punto nerastro, l’estremità del muso del mammifero. Indi a poco si videro gli sfiatatoi, quindi la massa intera emerse quasi tutta d’un colpo, sollevando un’ondata circolare, la quale andò a rompersi, con sordo fragore, contro le due barche, sballottandole violentemente. Il cetaceo lanciò subito due colonne di vapore, dapprima denso, poi più chiaro, quindi immerse nuovamente la testa scivolando a fior d’acqua per trenta o quaranta secondi. Per otto o dieci minuti continuò ad immergersi ed alzarsi, poi tornò a galla, mettendosi a nuotare a babordo del brigantino. Era il momento atteso dai balenieri per cominciare la terribile lotta. Il capitano Namdal s’avvicinò al cannoncino di prora, mirò il cetaceo per alcuni istanti, poi diede fuoco al piccolo pezzo. La lancia partì sibilando e s’infisse profondamente nella grascia della balena, producendole una spaventevole ferita. Il cetaceo subito non se ne accorse, ma otto secondi dopo, poiché tanti ne occorrono prima che quei giganti provino il dolore, mandava una formidabile nota metallica e s’inabissava fragorosamente. Le due scialuppe s’erano affrettate a portarsi innanzi per finire il mostro prima che prendesse il largo. Era tempo: la balena stava per riapparire, non più cetaceo mansueto, bensì tremendo e pronto alla lotta. Risalì a galla con tale slancio da uscire più che mezza dall’acqua, poi si mise a correre all’impazzata, emettendo note sempre più potenti e sconvolgendo l’oceano con furiosi colpi di coda. Faceva paura quel gigante irritato e vi era infatti da fremere, perchè sarebbe bastato un solo urto per mandare a picco le scialuppe e anche la nave. Dal suo fianco ferito, ove si vedeva ancora infisso il rampone, usciva un largo zampillo di sangue, il quale arrossava la spuma delle onde. Le due scialuppe nondimeno gli correvano addosso. I due fiocinieri si erano armati delle lance arrotondate per vibrargli il colpo mortale. La balena però non si lasciava accostare, nè accennava a mostrarsi infiacchita per la perdita del sangue, anzi pareva che nella sua rabbia riacquistasse maggior forza. S’inabissava con un fragore paragonabile al tuono udito in lontananza, tornava a galla lanciando dagli sfiatatoi dense colonne di vapore, si rovesciava sul fianco ferito cercando di strapparsi l’arma, si precipitava in tutte le direzioni tentando di fracassare le scialuppe, e mandava note sempre più potenti, più formidabili. Ad un tratto parve che fosse spossata e si arrestò, soffiando rumorosamente. Uno dei due fiocinieri approfittò subito del momento in cui la balena alzava la coda, per lanciarle sotto le ultime vertebre, la larga lancia foggiata a disco. Il colpo fu dato con tanta maestria, da reciderle i tendini caudali. A quella nuova ferita, il disgraziato cetaceo, preso dallo spavento, si diede alla fuga in direzione del brigantino, ma non era veramente una fuga, perchè procedeva a zig-zag, a tentoni, come se il dolore l’avesse reso cieco. In caso diverso, non si sarebbe certamente accostata alla nave che poteva lanciarle addosso nuovi ramponi. Le due scialuppe si erano messe ad inseguirla, temendo che nella sua pazza corsa urtasse il legno che s’era messo in panna; ma rimasero ben presto indietro, non ostante gli sforzi disperati dei rematori. Infatti il voler lottare in velocità con una balena sarebbe stata una pazzia, essendo già noto a tutti i pescatori che simili cetacei percorrono seicento metri per minuto. – E che impiegano ventiquattro giorni per andare da un polo all’altro, – aggiunse l’ingegnere di macchina. – Il pericolo incalzava, – riprese Andresen, – poiché pareva che il gigante avesse presa di mira la nave. Il capitano Namdal vedendosela correre addosso, le scaricò contro due altri ramponi. Tutto fu vano: con due colpi di coda la balena fu sopra al brigantino con impeto irresistibile. Si udì uno schianto tremendo, seguìto da urla di terrore. La nave, colpita a prora da quell’enorme massa, indietreggiò con tale velocità che le onde montarono fino al coronamento di poppa, poi s’inclinò innanzi. Dalla prora squarciata l’acqua entrava con furia incredibile. In pochi istanti il brigantino si piegò su di un fianco, sommergendosi. La catastrofe era stata così rapida, da rendere vano qualsiasi tentativo di salvataggio. Quindici secondi dopo non rimanevano alla superficie del mare che pochi rottami. Tutto l’equipaggio era stato inghiottito dal gorgo aperto dalla nave, compreso il capitano Namdal. – E vostro cugino? – chiese il carpentiere. – No, diversamente non mi avrebbe raccontato quel terribile disastro. – E con tanto lusso di particolari, – disse il secondo cuoco, ridendo ironicamente. – Johannesen!... – gridò il giovane mastro, mostrandogli il pugno. – Continuate, – dissero i marinai. – Lasciate andare quel cuciniere dell’inferno. – La storia è finita, – disse Andresen. – Le due scialuppe, che erano sfuggite al disastro, si salvarono nella baia della Recherche, dove rimasero quindici giorni, cioè fino all’arrivo d’una nave baleniera la quale raccolse i superstiti. – E la balena? – chiese il carpentiere. – Andò a morire a circa quaranta miglia dalla baia, presso una spiaggia assai bassa, ove rimase arenata. Non occorre che vi dica che fu spogliata del suo grasso e dei suoi fanoni dai balenieri che raccolsero i naufraghi. – Un lungo silenzio accolse la chiusa di quella narrazione. Pareva che tutti fossero ancora in ascolto, tanto li aveva interessati quella drammatica storia. Solo il tenente si era alzato per guardare il mare, come se sperasse di veder sorgere improvvisamente qualche gigantesco mammifero. Perfino il secondo cuoco aveva dimenticate le sue pentole ed i suoi sarcasmi. – Uditemi, – disse ad un tratto Ditman Olanssen, il carpentiere. – La storia narrataci da Andresen è terribile; io però ne conosco un’altra più paurosa toccata al mio amico Norkel durante una stagione di pesca sulle coste meridionali della Groenlandia. – Il tuo amico Norkel è stato alla pesca delle balene? ... – chiese il secondo cuoco con tono incredulo. – Ha fatto tre campagne, cuoco! – esclamò il carpentiere con tono offeso. – Il suo ultimo viaggio l’ha fatto a bordo del Winklump. – Quello che è tornato in Norvegia con tre soli uomini?... – chiese Andresen. – Sì, – rispose Ditman Olanssen, – e uno di quei tre era il mio amico. – Narra, narra carpentiere! – esclamarono tutti. – Ne avremo il tempo?... – si chiese Ditman guardando verso poppa. – Manca ancora una buona ora al quarto, – disse Hansen, il velaio. – E poi S. A. R. il duca è troppo occupato nei suoi calcoli per pensare a noi. – E la navigazione non richiede le nostre braccia, – aggiunse Andresen. – Non si vede ancora il fanale di Bejan. – Allora ascoltatemi, – disse il carpentiere. – Sarà un’avventura che vi farà drizzare i capelli. – Capitolo VII Una terribile avventura Si era fatto un profondo silenzio sul castello di prora, silenzio appena rotto dalla brezza, che sibilava attraverso i cordami della nave e da qualche ondata che veniva ad infrangersi contro la carena con sordo fragore. La Stella Polare, guidata da Cardenti, il quale aveva preso posto presso il pilota, filava sempre nel vasto canale di Hitheren, diretta verso Bejan, il cui fanale non doveva tardare a comparire. S. A. R. assieme al cav. Cagni, al dott. Cavalli ed al capitano Evensen, stava facendo delle osservazioni astronomiche sulle stelle, che cominciavano ad apparire sulla linea dell’orizzonte, divenuta ormai oscura. Le quattro guide, quantunque pochissime parole norvegesi avessero imparate durante la navigazione, s’erano strette pure intorno al circolo formato dai marinai, sperando di comprendere qualche cosa della tremenda avventura che stava per narrare il carpentiere. Andresen le aveva avvertite di aprire per bene gli orecchi e si era offerto di tradurre anche qualche cosa. Ditman, dopo d’aver accesa la sua pipa, con un gesto energico aveva reclamato il più assoluto silenzio. – Uditemi, – disse poi, – e fremete!... – Non udite fremere anche le mie pentole?... – interruppe Johannesen. – Andate adagio, altrimenti scoppieranno, e allora noi.... – Il carpentiere con uno sguardo bieco gli mozzò la frase, poi cominciò: – Il mio amico si era imbarcato, circa tre anni or sono, a bordo del Winklump, una delle nostre più piccole baleniere, non stazzando che duecento tonnellate. La comandava il capitano Sanders e la montava un equipaggio di diciotto uomini. La loro mèta era la costa meridionale della Groenlandia e vi giunsero sul finire della primavera, quando già la maggior parte dei ghiacci si erano sciolti. Degli ice-bergs ve n’erano però ancora in buon numero, e parecchie volte la goletta corse il pericolo di venire urtata malamente da quei colossi. Erano già giunti all’entrata d’un profondo fjord, quando per un falso colpo di barra, la goletta diede in secco su di un bassofondo sabbioso. Il danno però non era così grave come dapprima avevano creduto. Con una grande marea si poteva rimettere a galla la nave, però dovevano aspettare otto giorni, cioè la luna nuova. Si rassegnarono quindi ad aspettare il momento favorevole per andarsene in cerca delle balene. Erano trascorsi solo due giorni, quando un mattino furono svegliati da urla potenti, spaventevoli, che pareva venissero dalla parte del mare. Il capitano Sanders aveva indovinato subito di che cosa si trattava e si era affrettato ad accorrere sul ponte, dove già lo avevano preceduto i fiocinieri. A circa mezzo miglio, un cetaceo enorme si avvoltolava fra le onde sollevate dalla sua possente coda. Non si trattava d’una balena bensì d’un fisetere, ossia d’un capodoglio, cetacei ben più pericolosi, e che hanno una testa così immensa da eguagliare il terzo del corpo. Il mostro pareva in preda ad una viva eccitazione; si slanciava più che mezzo fuori delle onde, agitava furiosamente la sua poderosa coda bilobata e la grande natatoia dorsale, apriva la sua smisurata bocca, e quindi la richiudeva con un fracasso assordante. «Che sia ferito?» chiese il mio amico al capitano Sanders. «No, è innamorato,» questi rispose. «Siamo in primavera, ed è la stagione degli amori per quei bruti. «Lo calmeremo con un paio di ramponi,» disse Mac-Bjorn, il mastro fiociniere. «Alle baleniere!...» gridò il capitano. Gli altri, per nulla atterriti dalla collera del fisetere, trascinarono due scialuppe fino all’estremità del banco e le lanciarono in acqua. Essendo l’equipaggio molto scarso, a bordo della nave arenata non rimase che il capitano Sanders. Sia che egli presentisse qualche catastrofe o qualcos’altro, vedendo partire i suoi marinai era estremamente commosso. «Che Iddio vi protegga!...» disse. Presero rapidamente il largo, sicuri di abbordare il capodoglio, il quale continuava i suoi capitomboli dinanzi al fjord. Pareva che avesse già scorta la nave arenata sul banco, poiché di quando in quando volgeva la testa in quella direzione e soffiava, con maggior forza, mentre con la coda sollevava vere montagne d’acqua. Quando i balenieri giunsero a poche centinaia di passi, parve più sorpreso che incollerito, ed invece di prendere il largo mosse verso le scialuppe mostrando l’enorme bocca aperta, una vera voragine che avrebbe potuto contenere le due imbarcazioni assieme agli uomini che le montavano. Il fiociniere Mac-Bjorn che si trovava nella prima baleniera, si mise a gridare ai compagni: «State in guardia!... Sta per caricarci!...» Non aveva ancora finita la frase che il fisetere si precipitava addosso ai balenieri con slancio irresistibile, mandando contemporaneamente un urlo così acuto, da poter essere udito a due miglia di distanza. I mastri delle baleniere che si tenevano in guardia, furono pronti a virare di bordo per gettarsi al largo, non ostante le montagne d’acqua che percorrevano il mare. Il capodoglio passò fra le scialuppe con la rapidità d’un lampo, ma il fiociniere Mac-Bjorn non si perdette d’animo e gli scagliò contro il rampone, il quale s’infisse profondamente in una parte ricca di tendini e di carne. Il cetaceo, sentendosi ferito, s’inabissò bruscamente, poi subito riapparve mandando urla così spaventevoli da far rizzare i capelli allo stesso Sanders, il quale, ritto sul banco, seguiva ansiosamente le diverse fasi della caccia. I balenieri continuavano a prendere il largo onde evitare gli assalti del mostro, però la loro situazione diventava di momento in momento gravissima, poichè l’enorme cetaceo si gettava in tutte le direzioni con furore estremo, cercando di stritolarli. Tutto d’un tratto si trovò dinanzi alla seconda baleniera, la quale non aveva avuto il tempo di evitare l’incontro in causa delle violentissime ondate. Il mostro l’assalì con impeto terribile, poi voltandosi le vibrò un tale colpo di coda da lanciarla in aria sfracellata. Furono veduti gli uomini che la montavano roteare un istante nello spazio; poi precipitare negli abissi del mare. La coda del gigante li aveva uccisi sul colpo!... – Che forza!... – esclamò Hansen, il velaio di Laurvik. – La lotta non era però ancora finita; – riprese il carpentiere. – Il capodoglio, che portava sempre il rampone, infisso profondamente nel fianco, si scagliò addosso alla seconda baleniera. I balenieri erano terrorizzati dalla sventura toccata ai loro compagni, nondimeno il mastro potè evitare l’urto, mentre Mac-Bjorn lanciava contro il furibondo animale un secondo rampone, ferendolo in prossimità della testa. Subito virarono di bordo tentando di giungere al banco sul quale il povero capitano si trovava, impotente a portare ai suoi marinai qualsiasi soccorso. Per alcuni minuti parve che il capodoglio non pensasse che al proprio dolore, il quale doveva aumentare di minuto in minuto, in causa delle continue scosse che faceva subire ai due ramponi. Ad un tratto tornò di nuovo alla carica. La scialuppa procedeva a stento, superando faticosamente le onde che l’assalivano da tutte le parti. Mac-Bjorn aveva afferrata una terza lancia, ma era pallido e pareva che avesse perduta ogni fiducia. «Ragazzi,» egli disse, «se Iddio non ci protegge, anche per noi è finita!...» Il capodoglio non era che a mezza gomena e procedeva con rapidità fulminea, con la bocca immensa aperta, mostrando i suoi denti conici e massicci. Con un ultimo colpo di coda fu addosso e afferrò con le potenti mascelle la baleniera, fracassandola di colpo!... Uomini e rottami sparvero in quell’ampia caverna, la quale si chiuse con un sordo scricchiolio. Due uomini erano però miracolosamente sfuggiti alla stretta mortale: il mio amico Norkel e Mac-Bjorn. – Che emozione tremenda!... – esclamò Anton Torgrinsen, il secondo macchinista, che era giunto in tempo per udire la fine di quell’avventura. – Altro che tremenda! – disse il carpentiere. Dopo quel formidabile colpo di denti, il fisetere s’inabissò e non riapparve a galla che ad una grande distanza. Si seppe solamente più tardi che era andato a morire a quindici miglia dal fjord, presso una piccola baia, dove l’aveva trovato un baleniere danese. Fra le mascelle convulsivamente strette, i balenieri avevano trovato degli avanzi umani e parecchie tavole della scialuppa!... Norkel e Mac-Bjorn, miracolosamente scampati alla strage, quantunque inebetiti dal terrore e addolorati per la morte di tanti bravi camerati, raggiunsero a nuoto il banco su cui si trovava il capitano che piangeva come un ragazzo. Rimasero colà fino alla grande marea, poi, rimessa a galla la nave, si misero alla vela per raggiungere le coste dell’Islanda. Tre settimane dopo giungevano nella capitale dell’isola, stremati dalle lunghe veglie e dalle faticose manovre. – Basta, – disse in quel momento Andresen, alzandosi. – Ecco laggiù il faro di Bejan. Usciremo nel Frö Meer. – La Stella Polare stava per lasciare i canali interni ed uscire al largo, non essendovi passaggi riparati dall’isola di Hitteren a quelle di Vitken. Le isole non mancano anche su quel tratto di costa, però sono tutte piccolissime e così lontane le une dalle altre da non offrire alcun riparo alle navi che si tengono in vista delle spiagge. La navigazione, per un certo tratto, riesce egualmente facile in causa delle numerose isolette di Frö, le quali formano, oltre l’isola grande di Föien, una specie di barriera che si spinge fino all’altezza di Stoksund. Non ostante quella barriera, nel piccolo mare di Frö correvano ondate un po’ forti, avventate dal mare del Nord e che le isole a malapena riuscivano a rompere. Erano però un nonnulla per la vecchia Giasone, buona veliera e abituata ai formidabili colpi di mare dell’oceano Artico. La traversata del piccolo mare di Frö si compiè felicemente, quantunque le guide alpine si fossero trovate a disagio con quelle larghe ondate che sollevavano la nave da tribordo a babordo. L’indomani la Stella Polare navigava in pieno mare, lungo le coste di Trondhjem, diretta alle isole Vitken. Il tempo era sempre splendido e pochissime nuvolette si vedevano sorgere dal mare del Nord. – Un tempo propizio a noi ed anche alle LL. AA. RR. i principi di Napoli, – disse il capitano Evensen all’ingegnere. – Se non si guasta giungeranno felicemente allo Spitzbergen1. – Sono parecchi giorni che si trovano in viaggio? – Dal 19 giugno. Hanno lasciato Trondhjem lo stesso giorno. – A bordo d’un legno italiano? – chiese l’ingegnere. – No, d’un yacht inglese che hanno noleggiato, il Taurus. – E andranno molto lontani? – Fino allo Spitzbergen. – Una gita di piacere? – E di caccia, signor Stökken. S. A. il duca mi ha detto che il Principe di Napoli è un valentissimo cacciatore. – Allora andranno a cacciare le renne. – Certamente, – rispose il capitano. – Bell’idea di andare a caccia nelle terre polari. – Questi principi italiani hanno buon sangue nelle vene, signor Stökken. Nè il mare nè i pericoli fanno loro paura. – E sembra che nemmeno la principessa abbia paura nè dei ghiacci nè degli orsi bianchi. – Un’altra buona schiatta, signor Stökken. È figlia del principe Nikita del Montenegro, il più valoroso soldato dell’Europa intera. – Noi però andremo ben più lontani. – La nostra non è una gita di piacere, bensì una vera spedizione. – Lo si spera. La stagione promette bene e dopo Arcangelo faremo una buona corsa fino alla Terra di Francesco Giuseppe. – Ditemi, capitano, credete possibile che si trovino delle tracce della spedizione di Andrée?... – Il capitano si era arrestato guardando fisso l’ingegnere, poi, dopo alcuni istanti, disse: – Siete anche voi uno di coloro che credono alla possibilità che Andrée sia ancora vivo?... – Ve ne sono tanti in Norvegia, compreso il fratello dell’esploratore. – Conoscete tutti i particolari della spedizione? – Vagamente. In quell’epoca io mi trovavo molto lontano dalla Norvegia. – Il capitano Evensen guardò il mare e le coste norvegesi che si delineavano, un po’ confusamente, verso oriente, poi prendendo sotto il braccio l’ingegnere, gli disse: – Ascoltatemi e poi giudicherete se vi è qualche probabilità che Andrée sia vivo e che possiamo trovarlo sulla Terra di Francesco Giuseppe. – Capitolo VIII Un dramma polare – La storia delle spedizioni polari, mai aveva, prima dell’audace tentativo di Andrée, registrato una volata verso le regioni del polo Artico e tanto meno dell’Antartico. Navi ne sono partite molte, da due secoli a questa parte; palloni, nessuno, tanto sembrava insensato un tale progetto. Un capitano americano ne ebbe dapprima l’idea, il signor Cheyne, ma la sottoscrizione aperta da lui nel 1882, non diede risultati tali da incoraggiare l’ardito aeronauta. Fu considerata una pazza impresa, ed i suoi concittadini, quantunque grandi ammiratori delle più stravaganti audacie, rimasero sordi al suo appello. Andrée, più risoluto e anche più fortunato di Cheyne, s’impadronì del progetto e raccolti i capitali necessari alla grande impresa, fece costruire un pallone capace di sollevare tremila chilogrammi e di rimanere in aria, almeno così sperava l’esploratore, circa tre settimane. Voi già conoscerete il vano tentativo del 1896. Il vento non venne in soccorso dell’esploratore, e la spedizione si dovette rimandare. L’11 luglio dell’anno seguente, Andrée riusciva nel suo intento e si elevava col suo Ornen dalla baia di Virgo, una località perduta sulla costa settentrionale dell’isola dei Danesi, nell’arcipelago dello Spitzbergen. Lo accompagnavano altri due valorosi: Strindberg e Fraenkel. Coloro che assistettero a quella emozionante partenza, fra cui il capitano Svedenborg, furono unanimi nel dichiarare che l’Ornen, spinto da un buon vento, filò verso il nord-est, al di sopra dello stretto dei Danesi, dirigendosi verso l’isola di Amsterdam. Cosa è avvenuto dopo?... Siamo nel 1899 e più nulla si è saputo, all’infuori dei due dispacci trovati e di un gavitello vuoto. Il 15 luglio, ossia quattro giorni dopo la partenza degli audaci esploratori, la piccola nave Alken, incrociando nei paraggi dello Spitzbergen, incontra un piccione viaggiatore. Quel gentile volatile si era posato su un pennone del veliero per riposarsi. Un colpo di fucile lo fa cadere morto sulla coperta. Attaccato ad una zampetta portava un piccolo tubo chiuso all’estremità superiore con un po’ di cera. Fuori portava la seguente iscrizione, che io ricordo benissimo: «Dalla spedizione polare Andrée, al giornale Aftombladet di Stoccolma. Aprite il tubetto e toglietene i due messaggi. Telegrafate quello in lingua comune all’Aftombladet e inviate l’altro cifrato allo stesso giornale col primo corriere.» Aperto il tubetto, si trovò un solo messaggio scritto in lingua norvegese e del seguente tenore: «13 luglio, mezzodì e 30 minuti. Latitudine 82° 2’; longit. 15° 5’. Buona rotta verso l’est, 10° sud. Tutto bene a bordo. Questo piccione è il terzo che invio.» La scrittura era proprio di Andrée ed il piccione portava impresso sulle ali i segni distintivi della spedizione, quindi non si poteva dubitare dell’autenticità del documento. Passarono altri due anni di penosa attesa. Gli scienziati s’erano divisi in due campi: chi supponeva Andrée ancora vivo, chi ormai lo riteneva miseramente morto, o in pieno mare o fra i ghiacci del polo. Quante supposizioni, quante dicerie, quante discussioni in quel lungo tempo. Il 14 maggio del 1898, presso Kollafjord, sulla costa nord dell’Islanda, si raccoglie un gavitello appartenente ad Andrée. L’Ornen ne aveva dodici, muniti di tubi per mettervi dentro i dispacci, ed un altro più grande che doveva solamente lanciarsi al polo. Quel gavitello conteneva il seguente dispaccio: «Gavitello N. 7. – Questo gavitello fu gettato dal nostro pallone l’11 luglio 1897, alle ore 10.55 di sera, ora media di Greenwich, sotto la latitudine di 82° nord, longitudine di 25° ovest. Ci libriamo ad un’altezza di 600 metri. Tutto bene a bordo. – Andrée, Strindberg, Fraenkel.» Quel gavitello, scoperto dopo due anni, era stato lanciato il giorno stesso in cui l’Ornen si era alzato, sette ore dopo la partenza. Poi un altro lungo silenzio. Un mistero profondo regnava sulla sorte degli audaci che avevano spiccato il volo verso i ghiacci polari. Una leggenda si andò però formando. Alcuni pescatori dichiararono di aver veduto ondeggiare sul mare l’Ornen, in prossimità della penisola di Kola, ma ormai vuoto, e d’aver anche udito delle grida strazianti. Dei minatori inglesi affermarono invece di averlo veduto librarsi maestosamente al di sopra del capo Quesnelle. Più tardi un cacciatore di foche annuncia di aver scoperta una cassetta contenente un documento di Andrée; degl’indiani canadesi affermano poi d’aver veduto degli uomini scendere sulle loro terre insieme ad un pallone; la tribù esquimese degli Anglsaks, dice di aver udito fra le nubi dei colpi di fucile. Poi una notizia, che commuove l’Europa intera, giunge dalle desolate plaghe della Siberia settentrionale. Certo Lajalin, cacciatore siberiano, asserisce di aver trovato, a circa centocinquanta verste da Crasnojarsk, fra i fiumi Pitt e Come, una capanna formata con pezzi di seta e cordami, contenente tre cadaveri. Il governo russo manda messi a Crasnojarsk, fa cercare Lajalin, e risulta che quella capanna non era esistita che nella fantasia di pessimi informatori. – Il capitano era rimasto silenzioso e i suoi sguardi si erano fissati sul mare, come se sperasse di vedere anche lui qualche gavitello appartenente agli intrepidi esploratori. – Che cosa pensate di tuttociò? – chiese ad un tratto, volgendosi verso l’ingegnere. – Credete ancora che Andrée dopo tanto tempo, sia vivo? – No, signor Evensen, – rispose Stökken. – Io ritengo che sia morto. – Tale è anche la mia opinione. – Però anche il nostro Nansen stette parecchi anni senza dare sue nuove e poi tornò vivo. – È vero, però Nansen aveva una nave ben fornita di viveri, mentre Andrée non ne possedeva che per sei mesi. – Che quegli audaci possano essere giunti al polo? – Io ne dubito assai, signor Stökken. A mio parere, a giudicare dai diversi luoghi in cui furono trovati i gavitelli e dalle contraddizioni riscontrate nei documenti, dico che l’Ornen non deve essersi spinto molto innanzi. È probabile che il pallone invece di filare direttamente verso il nord, sia entrato nella sfera dei venti giratorii e che sia stato trasportato prima verso il nord-ovest, forse fin presso le coste della Groenlandia per venire poi ricacciato verso il nord-est, in direzione della Terra del Re Carlo, ossia in prossimità del suo punto di partenza. – Che siano caduti in mare? – Forse anche in mezzo ai ghiacci, ma anche colà non avrebbero avuto probabilità di salvarsi, non potendo crearsi un rifugio né avendo tanti viveri da poter sfidare la fame per così lungo tempo. Andrée è stato un coraggioso ma se vogliamo anche un grande imprudente. Egli non aveva forse pensato che anche nelle regioni polari imperversano dei cicloni che potevano spingerlo in mezzo all’immensità dell’oceano Artico, lontano assai da qualsiasi terra. E forse non ha neanche pensato ai bruschi abbassamenti di temperatura che potevano, da un momento all’altro, condensare il gas e far precipitare irremissibilmente il suo pallone. No, signor Stökken, Andrée non ritornerà più mai. Tale è la mia opinione, come pure è quella di S. A. R. il duca degli Abruzzi, del tenente Payer, lo scopritore della Terra di Francesco Giuseppe e di tanti altri profondi conoscitori delle regioni artiche. – Peccato che un uomo che ha dato prova di un così grande coraggio, sia finito così miseramente. – Il polo ne ha divorate tante delle vittime, signor Stökken. – Eppure si continua la lotta. – E non cesserà finché l’uomo non avrà posati i suoi piedi sulle immacolate nevi del 90° grado. – E quante vite umane rapirà ancora alla scienza? – Forse non molte. Voi avete veduto come in pochi anni gli esploratori abbiano molto guadagnato sui ghiacci. Venticinque anni or sono non si conosceva ancora l’esistenza della Terra di Francesco Giuseppe, mentre ora, il raggiungerla è quasi una gita di piacere. – Questo è vero, capitano Evensen. – E si conosce già anche la Terra di Petermann che è situata molto più al nord. Qualche audace o fortunato che sia, in un tempo più o meno lungo, giungerà al polo. – E poi?... – Poi si cercherà di scoprire anche quello australe. – E tanti sforzi e tanti sacrifici per una pura curiosità! – La scoperta del polo rappresenterà unicamente una grande vittoria dell’uomo e della scienza, poiché lassù non vi saranno da raccogliere nè oro, nè diamanti; eppure anche le vittorie infeconde giovano. Se non altro si scioglieranno tanti problemi rimasti finora insoluti. Si saprà almeno da cosa derivano le aurore boreali, quale attrazione produce il polo sugli aghi calamitati, ed infine si saprà cosa si trova ai due punti estremi del nostro globo. Signor Stökken, la campana ci chiama a pranzo. Fra un bicchiere e l’altro continueremo la conversazione assieme a S. A. R. il duca che è profondo conoscitore delle questioni polari, ed i suoi ufficiali. – La Stella Polare intanto, spinta anche da un vento favorevole, continuava la sua corsa verso il nord, tenendosi in vista della costa norvegese, avendo intenzione di cacciarsi presto fra i canali delle isole Vitken. Il tempo si manteneva costantemente bello e la temperatura non diventava fredda che alla sera, specialmente dopo la mezzanotte. Era però un freddo limitatissimo, che di rado scendeva sotto lo zero. Navi non se ne incontravano che pochissime in quei paraggi. Abbondavano invece gli uccelli marini, i quali venivano a volteggiare in gran numero nei pressi della nave. Per lo più erano gabbiani bianchi, volatili che hanno le piume candidissime, leggermente tinte di rosa presso l’addome, ed il becco giallo, e che sono assai paurosi perché fuggono alla vista di qualsiasi altro volatile marino. Si trovano in grandi stormi sulle coste della Norvegia e anche presso le terre artiche, vivendo di pesci che prendono assai destramente e anche di uova che vanno a succhiare alle urie ed alle lamme. Sono così paurosi, che quando si vedono inseguiti dai labbi, altri volatili delle regioni fredde, vomitano quello che hanno inghiottito pur di essere lasciati in pace. Oltre però a quegli uccelli, si vedevano anche apparire non poche procellarie e presso le spiagge deserte alcune coppie di edredon. Questi ultimi volatili, formano una delle principali ricchezze della Norvegia e anche dell’Islanda. Somigliano alle nostre anitre e sono prossimi parenti dei cauvas bach, palmipedi molto apprezzati dagli americani del nord per la squisitezza delle loro carni. Nell’eider o edredon è apprezzata invece la lanugine, la quale si vende ad un prezzo altissimo, fornendo dei cuscini soffici assai e che tengono molto caldo. Questi volatili vivono presso le coste, scegliendo le scogliere più dirupate per fare il nido, il quale consiste in poche alghe raccolte durante l’estate nei laghetti disseccati. Quando però hanno deposto le uova, la femmina si strappa dal petto la preziosa peluria, per conservarle calde, e se si allontana per andare in cerca di cibo, prima le ricopre con altre penne. I cacciatori norvegesi ed islandesi, aspettano precisamente la stagione della covatura per mettersi in caccia. I pericoli sono però grandi, essendo i nidi situati in luoghi dirupatissimi, di difficile accesso. I cacciatori sono costretti sovente a farsi calare, per mezzo di corde solidissime, lungo le pareti dei fjords, mettendo a repentaglio la loro vita. Ed infatti tutti gli anni un buon numero di cacciatori si sfracellano sulle scogliere sottostanti. Non si creda però che uccidano i volatili e distruggano le covate. I governi danese e norvegese proibiscono anzi assolutamente l’uccisione di quei preziosi volatili per conservarne la specie. I cacciatori non si impadroniscono che della peluria che copre il nido, lasciando intatte le uova. Le povere femmine tornano allora a strapparsi altre penne finché rimangono quasi nude. Allora è la volta del maschio, ma essendo la peluria di questo più grossolana e quindi molto meno pregiata, i cacciatori finiscono col lasciare in pace la famigliola. È strano però che la peluria non perda la sua elasticità meravigliosa anche quando l’eider viene ucciso. Ed è appunto per questo che i cacciatori nordici chiamano le penne di questi volatili peluria viva. La carne degli eider non è affatto pregiata, sapendo troppo di pesce, perciò si lasciano in pace e difficilmente si cacciano per ucciderli. Alcuni maschi, attratti forse dalla curiosità, erano venuti a volteggiare a breve distanza dalla Stella Polare, senza però osare di posarsi sui suoi pennoni. Erano bellissimi, con le penne nere sul dorso, il collo ed il petto bianco sporco e la testa verde dorata. Le femmine invece sono tutte brune. Tutti i membri della spedizione erano saliti in coperta ad ammirare quegli interessanti volatili, ma gli eider non rimasero molto nelle acque della nave e, forse insospettiti, s’affrettarono a raggiungere le scogliere. Capitolo IX Nei paraggi del Maelstrom Il 20 giugno la Stella Polare, dopo d’aver attraversato il labirinto d’isole che fiancheggiano la terra di Norland, entrava a tutto vapore nell’amplissimo Vest Fjord che si apre fra la costa di Saltem ed il grande arcipelago delle Lofoten. Quel fjord, che meriterebbe benissimo il nome di golfo, è uno dei più grandi ed anche dei più pittoreschi della Norvegia. La terraferma è tutto un frastagliamento intricatissimo, un rabesco impossibile a descriversi. Le spiagge ora s’avanzano verso il mare, ora rientrano fino presso le montagne, con canali profondi che si cacciano dovunque, formando fjords considerevoli, come quelli del Nord, del Sud, di Folden, di Ofoten, di Waags e di Ands. Ad occidente si stendono invece le Lofoten, non meno frastagliate, non meno accidentate, tutte canali, canaletti, baie, cale. È impossibile dire il loro numero, essendovi intorno ad esse una infinità di isolette e di scogliere. La terra maggiore è Hindö, poi vengono Langö, quindi Ost-Vaagö, Andö, Vest-Vaagö, Moskenäsö, Flaktad e moltissime altre minori. Più al nord invece si trova la grande isola di Senjen ed al sud Moskostrom, dove apresi il famoso Maelstrom, il pauroso gorgo gigante. Si direbbe che quell’arcipelago che si estende fino a Tromsö, abbia dovuto subire da solo tutte le ire del mare del Nord, tanto è rotto e frastagliato. Probabilmente in tempi remotissimi tutte quelle isole erano unite alla terraferma, ma l’impeto incessante delle onde e forse qualche tremendo cataclisma, le ha violentemente staccate ed in parte anche sommerse. All’annuncio che verso l’ovest si trovava il Maelstrom, quasi all’altezza della nave, tutti i membri della spedizione italiana erano saliti in coperta, non già con la speranza di poter vedere il famoso gorgo, poiché si trovava così lontano da non poter discernere che a malapena i profili di Värö e di Mosken, ma per udire i discorsi dell’equipaggio. Il Maelstrom s’è creato attorno a sè le più paurose leggende e non v’è marinaio norvegese che non ne parli con profondo terrore. Si è molto esagerato, questo è vero, sulla potenza attrattiva di quel vortice, però è sempre temibile e le navi costrette a passare pel Vest Fjord, si guardano bene dall’accostarvisi durante le tempeste ed i tempi nebbiosi. Quell’abisso girante si trova precisamente a 67° 48’ di latitudine nord ed a 9° 30’ di longitudine est, fra le isole di Moskenäsö e quella di Mosken. Fra quelle terre v’è una rapida corrente che va dal nord al sud per sei ore e dal sud al nord per altre sei, e sempre in opposizione alla marea. Quando la corrente diventa rapida, il vortice prende la forma di una specie d’imbuto della profondità di sei metri, ma quando la marea è bassa e la corrente tranquilla, non vi ha vortice di sorta. Un abisso veramente non lo è, poichè la sua massima profondità non supera i dodici metri ed il suo fondo è composto solamente di rocce e di banchi di sabbia. Quando il mare è tranquillo i pescatori delle Lofoten vanno a sfidare impunemente il vortice, anzi vanno a pescare nelle sue acque, essendovi abbondanza di pesci. Tutt’al più i loro battelli vengono trascinati in giro, senza pericolo di venire inghiottiti, essendo allora facile tagliare la corrente. Quando però il vento del Nord soffia in opposizione alla marea, ed il mare è procelloso, allora il Maelstrom presenta uno spettacolo terribile. I suoi tremendi muggiti si odono alla distanza di parecchie miglia e la corrente rotatoria si fa sentire fino alla distanza di quindici chilometri. Allora diventa veramente pericoloso e le navi che vengono prese dal vortice vanno a fracassarsi sul fondo roccioso, se non sono pronte a uscire dalla corrente. – Sta laggiù, – aveva detto il signor Stökken, indicando con la destra i lontani profili di Mosken e di Moskenäsö. – Ora sarà in calma non essendovi vento forte, nè in opposizione alla marea, che ora scende verso il sud. – L’avete mai veduto con tempo tempestoso? – chiese uno dei membri della spedizione italiana. – Sì, signore, anzi una volta la nave che montavo corse serio pericolo di venire attratta dal vortice. – Deve presentare allora un aspetto tremendo. – Dite addirittura spaventevole, – rispose l’ingegnere. – Vi confesso che ero atterrito e che non lo era meno l’equipaggio. I muggiti del vortice facevano su di noi un’impressione profonda, tale da farci perdere la testa. – Si perdono molte navi entro quel gorgo? – Ora non più molte, poiché quando il mare è tempestoso le navi appoggiano frettolosamente verso la costa norvegese, però di quando in quando qualche veliero vi cade dentro. Chi non ricorda in Norvegia il naufragio della Storn-Vindel? – Una nave perdutasi nel gorgo? – Sì, signore, – rispose l’ingegnere. – Narrate, signor Stökken. – La Storn-Vindel era una bella goletta mercantile di trecento tonnellate, munita d’un solido sperone per aprirsi il passo fra i ghiacci, essendo stata destinata ai viaggi delle regioni nordiche. Di ritorno da un viaggio in Islanda, durante una notte nebbiosa e tempestosa fu presa dal vortice. Io ho potuto avere tutti i particolari di quella tremenda catastrofe da un marinaio che si salvò miracolosamente, per un caso veramente straordinario. – Raccontatecelo, signor Stökken. – Come vi diceva, la Storn-Vindel tornava dall’Islanda dove aveva caricate pelli di foca destinate ad un negoziante di Bodö. Era quindi costretta, provenendo dal mare del Nord, a passare o al sud del piccolo gruppo delle isole Rost o fra questo e l’isola di Värö. Era comandata da un abile capitano, il cui nome ora non ricordo bene, e montata da undici marinai tutti provati alle difficili navigazioni dei mari artici. Una notte, mentre la nave si trovava a sessanta o settanta chilometri dalle Lofoten meridionali, un tetro e pesante nebbione cala sul mare, impedendo di scorgere i fari delle isole. L’oscurità era così profonda che gli uomini di prora non riuscivano a scorgere l’albero maestro. Era d’inverno ed i ghiacci erano scesi al sud in gran numero, anzi la nave parecchie volte aveva dovuto aprirsi il passo a colpi di sperone. Infatti, attraverso la nebbia, gli uomini di guardia vedevano sfilare, come tetri fantasmi, dei giganteschi ice-bergs, i quali pareva seguissero, come funebre corteo, la povera nave votata ormai alla morte. Fra i cupi brontolii del mare udivano cozzi sinistri, scricchiolii violentissimi e tonfi assordanti prodotti dal capitombolare dei ghiacci. La goletta però aveva continuata intrepidamente la sua corsa, frettolosa di guadagnare il Vest Fjord, ma i ghiacci la perseguitavano, minacciando di stringerla da tutte le parti. Ad un tratto gli uomini di guardia che erano a prora, vedono proprio dinanzi alla nave apparire un incerto bagliore e odono dei sordi scricchiolii come se una massa enorme forzasse il passo attraverso i piccoli ghiacci, gli streams ed i palks. Era un ice-berg che muoveva addosso alla nave. In causa di quale forza camminava incontro alla goletta mentre il vento soffiava dall’ovest? Sulle prime nessuno cercò la spiegazione, e fu un grave errore. La montagna di ghiaccio veniva spinta innanzi dai primi giri del Maelstrom. Il capitano, ingannatosi sulla rotta esatta, invece di aver diretta la goletta al sud di Värö era andato a cacciarsi addosso a Mosken, passando presso Moskenäsö. Il vortice era a pochi passi e nessuno se n’era ancora accorto, in causa del fragore delle onde e del nebbione. Il vento spingeva la nave attraverso la corrente circolare, la quale s’apriva dinanzi alla prora, non avendo molta forza verso i margini esterni. Tutto d’un tratto la goletta deviò dalla sua linea, mettendosi attraverso il vento. Era entrata nella zona pericolosa ed il gorgo la travolgeva in mezzo alle onde rotolanti in giro. Più nessuna manovra poteva salvarla. Il timone ormai non agiva più ed il vento non poteva vincere la forza irresistibile della corrente. Potete immaginarvi il terrore che colse quei disgraziati naviganti, Dintorni del Capo Nord. Il Capo Nord. quando si accorsero di trovarsi in balìa del vortice! Tutte le manovre possibili furono nondimeno tentate per rompere la corrente circolare, ma invano. La povera nave ormai trabalzava in mezzo alle onde. Il Maelstrom muggiva formidabilmente e l’acqua turbinava intorno, accavallandosi, sempre più impetuosa, verso il centro del gorgo. Assieme alla nave, travolti nella medesima corsa, correvano montagne e banchi di ghiaccio, urtandosi e sfracellandosi e persino delle balene venivano attratte non ostante le loro formidabili code. Il terribile momento s’avvicinava a gran passi. Già la nave si sbandava e scendeva rapida attraverso la parete liquida, minacciando da un istante all’altro di rovesciarsi. L’orrenda descrizione che mi fece il marinaio, unico superstite di tutto l’equipaggio, non la dimenticherò mai, miei signori. Il capitano, smarrito il senno, paventando la catastrofe, in un momento di disperazione s’era fatto saltare le cervella, mentre altri si erano precipitati fra le onde spumeggianti con la speranza di venire gettati fuori dal gorgo. Quando la nave giunse quasi nel mezzo, si era già rovesciata sul tribordo, in modo che le estremità delle rande toccavano l’acqua. Oscillò un momento sull’orlo dell’immenso imbuto poi si sfracellò contro le rocce del fondo, sfasciandosi completamente. Cosa accadde dopo? Il mio marinaio non me lo seppe dire mai. Si ricordò vagamente di aver provato un principio d’asfissia, poi più nulla. Eppure non annegò. Chissà per quali fortunate circostanze, dopo una prolungata immersione si trovò fuori dal gorgo, aggrappato disperatamente ad un avanzo della goletta. Esso fu raccolto all’alba, a venti chilometri dal vortice, da una barca peschereccia di Mosken. Non aveva riportato gravi contusioni, ma i suoi capelli erano diventati bianchi come la neve e fu, per tre settimane, in preda ad un delirio terribile. Ecco l’istoria della Storn-Vindel. – Tutti erano rimasti silenziosi, ma nessuno aveva staccati gli sguardi dalle due isole che ora apparivano più nettamente. Pareva che ognuno cercasse di scoprire, nell’infinito orizzonte, il formidabile vortice. La Stella Polare però, che camminava con una velocità di sette nodi all’ora, essendo validamente aiutata dal vento che soffiava dal sud-sud-ovest, non rimase a lungo in quei paraggi. Il grande fjord s’apriva dinanzi a essa, sgombro d’isole e senza pericoli e ne approfittava per guadagnare via. A mezzodì essa si trovava già presso la strozzatura formata dall’isola Tjeldö e la penisola d’Ofoten da una parte e quella grande di Hindö. Essa passò rapidamente dinanzi a Lolingen, piccola borgata che si trova presso la punta meridionale di Tjeldö e si cacciò risolutamente nello stretto canale sboccando nel Vaags-fjord, il quale si prolunga fra Hindö e le isole dipendenti da una parte e quelle di Roldö e di Andorfö dall’altra, fino a toccare quella più settentrionale di Senjen. Anche colà splendide vedute si offrivano agli sguardi dei naviganti. Lungo le spiagge, specialmente entro le insenature, si vedevano apparire improvvisamente graziosi gruppetti di casettine di legno, alcune rosse col tetto grigiastro ed altre bianche col tetto d’un rosso brillante. A tutte le finestre si scorgevano candidissime tende e su tutti i davanzali vasi di fiori. È con vera passione che i norvegesi curano i loro fiori, facendo a gara a chi può avere i più belli ed i più odorosi. Non ostante i freddi intensi dell’inverno, con mille cure riescono a preservarli dal gelo e non è raro trovare, anche nelle regioni più nordiche, splendidi garofani, geranii, rose the e fucsie. Bande di bambini biondi e rubicondi, con gli occhi d’un azzurro pallido, correvano attraverso le rocce o si trastullavano in fondo ai piccoli seni, montando i battelli dei loro padri o vegliavano alla stagionatura dei merluzzi esposti all’aria ed al sole in grandissimo numero. Anche numerose barche da pesca si vedevano percorrere i canali, occupate a gettare delle lenze o delle reti lunghissime, essendo gli abitanti delle Lofoten abilissimi pescatori. Superato lo stretto di Hindö, la Stella Polare sboccò nel Vaags-fjord il quale si prolunga fino alla grande isola di Senjen, bagnando ad oriente il dipartimento di Tromsö e ad occidente un gran numero di isole e di scogliere. Era allora quasi mezzanotte, ma il sole non era per anco tramontato, quantunque la luna sorgesse dal mare, pallida, sbiadita, senza raggi. Strano contrasto di que’ due astri che s’incontravano lottando penosamente per sopraffarsi! Era la fusione del giorno con la notte, uno spettacolo affatto sconosciuto nei nostri climi e che sorprendeva straordinariamente le guide alpine ed anche Cardenti ed il suo collega Canepa. I due astri baciavano entrambi l’orizzonte, poichè mentre uno sorgeva l’altro stava per scomparire, per un tempo molto brevissimo però, perchè appena sceso, l’aurora spuntava. Le luci, fondendosi, davano una strana tinta alle isole che circondavano la Stella Polare, facendo risaltare vivamente le montagnole, le baie, le insenature e le scogliere emergenti dal mare. Si sarebbe detto che tutti avevano una tinta cadaverica. Quella lotta però, come si disse, non doveva durare molto. Appena scomparso il sole, l’aurora tinse il cielo, appena bruno, di riflessi rossi, la luce della luna impallidì rapidamente e l’astro diurno riapparve ben presto dardeggiando i suoi raggi dorati sulle rocce di Senjen e sulle casette di Lenvik. La Stella Polare passava allora dinanzi al fjord di Malangen, profondo canale che s’inoltra nel dipartimento di Tromsö. L’isola di Sud-Kralö le stava dinanzi, con le sue spiagge verdeggianti ed i suoi boschi di pini, di betulle e di larici. Ad oriente si apriva il canale che conduce a Tromsö. Già numerose barche da pesca e anche delle piccole navi mercantili s’incrociavano nel canale, dirette per lo più verso il sud, ed il mare si cominciava a coprire di materie oleose provenienti dai merluzzi che si seccano a Tromsö. La Stella Polare aveva rallentata la corsa. Essa filava fra pittoreschi fjords, gli uni verdeggianti di betulle e di pini, gli altri coperti da praterie d’un verde intenso e fiorite. In alto giganteggiavano macchioni di pini marittimi, molto alti e grossi. Un profumo intenso s’alzava fra quei boschetti e quei prati giungendo fino a bordo. Tromsö è già all’orizzonte. Spicca subito, nel bel mezzo del canale, essendo situata su di una isoletta che chiude il Grot-Sund. È una cittadina d’aspetto piacevole, che sorge fra boschi di betulle e di pini, e che passa per una delle più commerciali della Norvegia settentrionale. Si può chiamarla la città dell’olio e del pesce, poichè i tre quarti dei suoi abitanti non esercitano altra industria; gli uni pescano, gli altri salano o seccano od estraggono olio di fegato di merluzzo. Quantunque sia città di pescatori, ha però un museo di etnografia, d’ittiologia, ornitologia e zoologia molto interessante. La Stella Polare non doveva fermarsi che pochissimo tempo. S. A. R. il duca aveva troppa fretta di giungere nell’oceano Artico per perdere tempo in quella cittadina che nulla d’interessante poteva offrire ai membri della spedizione. Cambiato pilota, l’indomani, 22 giugno, la nave riprendeva la corsa entro il Grot-Sund, passando dinanzi a Ringvatsö ed a Renö, due isole che fanno, assieme a Vandö, argine all’irrompere delle ondate dell’oceano Artico. La corsa attraverso quelle isole fu rapida e anche felicissima, essendosi trovato il mare tranquillo, però al di là di Arnö, oltre il Fuglo-fund, la Stella Polare, non più riparata dalle isole e dalle scogliere, dovette far fronte alle larghe ondate dell’oceano Artico, le quali irrompevano con violenza contro le coste settentrionali della piccola Fuglë, una delle più avanzate delle Lofoten. Il mare era deserto, però in aria volteggiavano stormi d’uccelli marini, i quali venivano a salutare la nave con alte grida, soffermandosi talvolta sui pennoni di pappafico e di contropappafico. Per lo più erano gabbiani, urie, gazze marine e strolaghe, però anche qualche albatros si vedeva volteggiare sopra le onde. Questi volatili sono grossissimi, i più grandi degli uccelli di mare, di forme tozze, pesanti, con le penne bianche sul petto e sulle ali, e nere sul dorso, ed un becco robusto e lungo, capace di spaccare il cranio ad un uomo. Le loro ali misurano talvolta, prese insieme, perfino cinque metri, sicchè il volo di quegli uccelli è potente. Per delle giornate intere possono seguire le navi che si spingono al largo, e senza vederli, almeno di giorno, mai riposare. Però quantunque siano così grossi e bene armati, sono incredibilmente paurosi. Sovente bastano i gabbiani a metterli in fuga. La Stella Polare, attraversato quel tratto di mare indifeso, si cacciò ben presto nello stretto di Sorö, formato dall’isola omonima e da quella di Saland. Poche ore dopo, costeggiata Kvalö, avvicinava il famoso monumento eretto in memoria della misura del meridiano, cominciata nel 1816 e terminata nel 1852. È una grande colonna di granito lucente, che si scorge benissimo dal mare, situata su due gradini e che al vertice sostiene una sfera di bronzo di grandi dimensioni, raffigurante il mondo. Porta due iscrizioni, una in latino e l’altra in norvegese e dice: Hammerfest è l’estremità dell’arco del meridiano 25° 20’ misurato dall’oceano Artico al Danubio, attraversando la Norvegia, la Svezia e la Russia, per ordine e sotto gli auspici del re Oscar I e degli imperatori Alessandro I e Nicola I. – Lat. 70° 40’ 11" 3. Accanto a quel monumento, una lapide modestissima ricorda poi le celebri esperienze fatte sul pendolo, dallo scienziato Sabine nel 1823. Una mezz’ora dopo la Stella Polare si trovava dinanzi ad Hammerfest, indicata già prima da un nauseante odore d’olio rancido, proveniente dalla lavorazione e preparazione dei merluzzi. Hammerfest è una delle città più boreali dell’Europa, anzi si può dire la più vicina alle regioni polari. Non conta che tremila abitanti, eppure ha tutto quanto di moderno e di civile si potrebbe trovare in una delle nostre grandi città. Non manca di luce elettrica, di telegrafo, di telefono, di servizio postale giornaliero, di acqua purissima. Ha alcune chiese, fra le quali una dedicata al culto cristiano, giardini e belle vie quantunque non ciottolate, ed una comoda rada sempre popolata da numerose navi caricanti merluzzi pei porti del sud. Non manca nemmeno di bei negozi, per lo più di pelliccerie, e di case comodissime, sebbene tutte in legno, e conta numerose fonderie d’olio, le quali espandono un puzzo assai nauseante che non sarebbe certamente tollerato da noi. Un monte molto pittoresco, il Tyven domina la città, verdeggiante nella stagione estiva. Sembra incredibile eppure in una latitudine così elevata si trovano numerose piante e fiori, i quali sbocciano all’aperto, quasi senza cure. Capitolo X Il Capo Nord Lasciata Hammerfest senza fermarsi, la Stella Polare aveva continuata la sua corsa verso il nord, cacciandosi nello stretto accidentato di Rolfsö, formato da una parte dall’ultimo lembo della costa norvegese e dall’altra dalle isolette di Rolfsö e di Hingö. Tutti, S. A. R. compreso, erano impazienti di giungere al Capo Nord, la punta più settentrionale del continente europeo, e già resa celebre da tanti principi, re ed imperatori europei. Quantunque la Stella Polare fosse giunta ad una latitudine molto elevata, le coste delle isole apparivano ancora assai verdeggianti ed i fjords avevano un aspetto primaverile da non potersi credere, pur essendo così vicini alla regione dei ghiacci eterni. Pini marittimi e betulle crescevano in grande abbondanza dovunque, assieme ad immensi strati di licheni bianchi, i quali davano alle coste degli effetti strani. In lontananza però si vedevano ancora grandi montagne nevose, e talora scintillavano, ai raggi del sole, dei ghiacciai grandissimi. Qualche piccolo villaggio, formato da casettine di legno, appariva a lunghi intervalli, specialmente presso il mare. Navi invece nessuna, essendo poco frequentate le coste settentrionali della Norvegia. Tutti i membri della spedizione si erano radunati sul ponte, curiosi di scoprire quel famoso Capo Nord che già tante volte avevano udito a nominare. Bisogna però dirlo, nessuno si aspettava alcun che di straordinario, specialmente gli uomini di mare. – È un Capo che non ha nulla di diverso dagli altri, – aveva risposto il capitano Evensen a coloro che lo interrogavano. – Sarà per voi una grande delusione. Vale meglio il Nord-Kyn che ha almeno il pregio di essere più a settentrione del capo Nord, sopravanzandolo di alcune miglia. – Hjelmso è passato e anche Maaso, due piccole isole che si trovano di fronte al Kobbe-fjord, e Magerö comparisce di fronte alla Stella Polare con le sue coste dirupate e frastagliate. Quest’isola che ha la fortuna di possedere quel famoso Capo Nord, è una delle più settentrionali della Norvegia. Ha dei fjords numerosi, fra cui uno molto profondo, il Kamofjord e tre piccoli villaggi, Giasvär, Helnas e Kjelvik, abitati da pescatori e da lapponi sporcissimi, affetti sovente dalla lebbra. La Stella Polare cominciava a venire vivamente sbattuta dalle ondate dell’oceano Artico. Cavalloni candidi di spuma la sollevavano di frequente, però il tempo si manteneva sereno, senza il menomo indizio d’una prossima o lontana burrasca. Malgrado quelle ondate, nessuno però aveva lasciato il ponte, quantunque le guide alpine si trovassero sempre a disagio fra quei trabbalzi causati dal rollìo. Superate le due Stappeno, due isolette perdute quasi all’estremità del mondo abitabile, il Capo Nord compare, profilandosi sul mare. Tutti i cannocchiali si puntano sull’estrema punta di Magerö. Anche S. A. R. il duca degli Abruzzi guarda curiosamente. Perfino Grasso, il cane donato da Nansen, abbaia festosamente, scorrazzando pel ponte, nonostante i sagrati di Cardenti.1 È un momento emozionante per tutti, ma che subito svanisce. Quanta fama rubata!... Quel Capo non è altro che il prolungamento d’una montagna di circa trecento metri d’altezza, tagliata a picco sul mare. Essa non presenta alcun che di particolare degno di nota. Non vi sono altro che una casettina, che una volta serviva da ufficio telegrafico, ed una colonna di granito messa là a ricordo della visita fatta al Capo da S. M. Oscar II re di Svezia e di Norvegia. – Bell’affare!... – esclama Cardenti. – Nella mia isola d’Elba vi sono dei Capi che valgono meglio di questo! – E forse il bravo marinaio non aveva torto! Superato il Capo, ad oriente, si delinea subito il Nord-Kin, la punta più settentrionale della Norvegia, situata all’estremità della penisola di Tjorgosch-Njarga, a 71° 6’ di latitudine nord. È anche questa una montagna arida, priva di qualsiasi vegetazione, alta circa quattrocento metri. Fra i due Capi estremi della Norvegia si aprono due dei più profondi fjords, il Forsanger che si affonda nella penisola scandinava fino a Laxelven, ed il Lasce, che bagna la penisola di Spirte-Njarga. La Stella Polare, sempre rollando vivamente, fila dinanzi alla penisola di Tjorgosch intravedendo per pochi momenti i due villaggetti di Skjäbningb e di Sandyfjord, scorge quello di Gamvik e scende verso l’imboccatura del Tanafjord, filando a tutto vapore verso Vardö, terza tappa dopo Laurvik. Un numero infinito di uccelli popolano quelle spiagge. Sono tutti bianchi, grossi come le nostre allodole e sono tanti che certe volte offuscano i raggi solari. – Ci sarebbero qui da fare degli arrosti colossali, – osserva Cardenti. – E dire che da noi partono all’alba per tornare a casa con quattro passerotti!... – Se le coste sono ricche di volatili, anche il mare sembra ben popolato di pesci. Banchi di merluzzi compariscono di tratto in tratto e dietro ad essi si mostrano, in buon numero, anche dei narvali, questi abitanti delle fredde acque dell’oceano Artico. Sono bei pesci, dotati d’una agilità straordinaria, d’una tinta azzurra e bianco argentea, a macchie semi-circolari, difficilissimi a prendersi e anche talvolta pericolosi, essendo armati d’un corno scannellato, aguzzo, d’un avorio compattissimo, e che è lungo un terzo e qualche volta perfino la metà del pesce. Una vera singolarità quel dente, formato da un incisivo della mascella superiore e che si protende diritto. Un tempo anzi a quei corni si annetteva un’importanza curiosa, attribuendo ad essi delle proprietà magiche. Si credevano un antidoto preziosissimo e molti li conservavano per preservarsi dai veleni. Assaliti, non di rado si rivoltano contro i pescatori e riescono a trapassare, col loro corno, anche le scialuppe, mettendole in serio pericolo. La Stella Polare intanto proseguiva la sua corsa, fiancheggiando le coste settentrionali della Norvegia. Oltrepassato il Konings-fjord, aveva cominciato a ridiscendere lievemente verso il sud, incurvandosi la costa. Navigando in vista di pochi miserabili villaggi, abitati da lapponi, la mattina del 26 giugno essa giungeva a Vardö, ancorandosi in mezzo alla piccola baia. Vardö si trova quasi all’entrata del profondissimo Varange-fjord, famoso pei numerosi pescatori e squartatori di balene che lo abitano e per le sue grandi fonderie d’olio. È una piccola città che conta dai duemilacinquecento ai tremila abitanti, divisa in quartieri bassi ed alti, essendo costruita su di un pendìo, con casette di legno variopinto che hanno un aspetto modesto bensì, ma anche molto pittoresco, tutte adorne di vasi contenenti belle fucsie, rose e pelargoni, fiori coltivati con chissà quali cure per difenderli dai morsi crudeli del gelido vento polare. Il monumento principale è una chiesa, che si trova nella città alta, molto bella e ricca di fregi, di stile russo. All’infuori di questa non vi sono che casette e magazzini ricolmi di pesce secco o d’olio di balena o di guano artificiale. Appena giunta la Stella Polare, numerosi abitanti si erano riversati sulla spiaggia e parecchie barche di lapponi si erano affrettate a circondarla, offrendo ai marinai pesci e coltelli coi manichi di corno di renna. Che brutti tipi quei lapponi! Quanto erano diversi dai norvegesi educati, istruiti e soprattutto puliti. Uomini e donne erano biondi, tozzi, coi capelli scarmigliati e così sporchi da far ribrezzo. I primi indossavano delle tuniche di panno azzurro cupo, sbrindellate e rattoppate in cento luoghi, eppur adorne di strisce di lana gialla e rossa e strette alla cintura da fasce rosse o nere. Avevano calzoni di fustagno pesante e spelato, berretti di pelle di renna e scarponi enormi, con la punta rialzata alla foggia chinese. Le donne per distintivo portavano certi scialli dalle tinte impossibili, stretti attorno alla testa, ed alle braccia avevano delle catenelle di ottone. Sì gli uni che le altre avevano l’andatura goffa, l’aspetto sofferente, la tinta giallastra dovuta in parte alla sporcizia ed erano affetti da malattie agli occhi. È appunto fra questi miserabili che la lebbra sceglie le sue vittime. La Stella Polare si arrestò fino alla sera, facendo alcune provviste, poi riprese la corsa verso l’est per giungere nel mar Bianco e quindi ad Arcangelo, dove la attendevano per completare il carico e rinnovare la ormai quasi esausta riserva di carbone. – Ecco una città che si lascia senza rimpianto, – aveva detto il capitano Evensen al signor Stökken. – Vi è il pericolo, trattenendosi un po’ là dentro, di portarsi via dei brutti ricordi lapponi. – Entreremo nel Varange-fjord? – chiese l’ingegnere che spingeva i suoi sguardi verso l’ampia imboccatura che s’apriva al di là di Kiberg. – No, – rispose il capitano. – Guardate, abbiamo messa la prora verso quella punta che vedete delinearsi proprio dinanzi a noi. Sapete quale terra essa sia? – Deve esser terra russa, suppongo. – Sì, signor Stökken; è il capo Njemezki dell’isola di Ribatschi. – E quelle grandi macchie oleose che ondeggiano alla nostra destra, cosa sono, signor Evensen? – Avanzi di balene che il riflusso porta fuori dal Varange-fjord e che provengono dagli stabilimenti del signor Foin. – Del re dei balenieri? – Sì, signor Stökken. Foin è precisamente il re dei balenieri e si deve a lui la fortuna di queste popolazioni. – Ho sentito parlare molto di quel signore. – È lui che ha inventato la pesca moderna dei giganti del mare. Come voi sapete, una volta i balenieri si accontentavano di prendere ai grandi cetacei la grascia ed i fanoni, abbandonando agli uccelli marini ed ai pesci-cani quei colossali corpacci. Il signor Foin, che durante la sua gioventù era stato un abile pescatore di balene, cercò il modo di utilizzare quegli ammassi di carne. Essendo diventato discretamente ricco, arma parecchi piccoli vapori e li manda al Capo Nord, luogo anche oggidì frequentato dai giganti del mare, ordinando ai suoi equipaggi di rimorchiare le prede a Vadsö, e fa innalzare in una isoletta deserta, un grandioso stabilimento per la fondita delle materie grasse. Da allora le balene non vengono più abbandonate alle onde. I piccoli vapori le trascinano dinanzi agli stabilimenti del signor Foin e vengono completamente distrutte. Gli enormi ammassi di carne vengono raccolti con cura e se ne fa ora un ottimo guano e perfino le ossa vengono utilizzate. Questa nuova industria ha dato al signor Foin parecchi milioni ed oggi si può dire che egli è il più ricco armatore della Norvegia settentrionale. – Sono piccole le navi che egli adopera per la caccia delle balene? – Semplici vaporini, che filano dieci nodi all’ora e montati da dieci o dodici uomini. Ucciso un cetaceo, si affrettano a rimorchiarlo fino allo stabilimento, poi riprendono subito il mare in cerca d’altri, – rispose il capitano. – Quanto può rendere una balena? – Un tempo catturando una balena la quale fosse ben sviluppata se ne potevano ricavare anche sessantamila lire; ma oggi gli olii di quei giganti sono deprezzati e poco richiesti. Non si arriva a ricavarne la metà. – I capodogli devono però dare molto di più. – Sì, signor Stökken, contenendo nella loro testa un olio che è molto ricercato e che si adopera in varie preparazioni di profumeria, senza poi contare l’ambra grigia che talvolta si trova nei loro intestini e che si vende a tremila lire il chilogrammo. Orsù siamo attraverso la frontiera russo-norvegese. Fra poco navigheremo in vista delle spiagge lapponi. – Capitolo XI Le coste della Lapponia Il confine fra la Norvegia e le coste settentrionali dell’immenso impero russo, è segnato dal capo Oscar e dal fiume Jakobs Elv, piccolo corso d’acqua che serve di scarico ad un laghettino che si trova in prossimità della borgatella di Petschenga. Al di là di quel capo, cosa davvero strana, ci s’accorge subito di non essere più in Norvegia, poichè la costa cambia quasi improvvisamente. Ed infatti non più frastagliamenti, non più nuvoli di isolotti e di scogliere, non più baie e cale, niente più fjords. Le spiagge della Lapponia corrono quasi diritte, con poche insenature formate per lo più dalla foce dei fiumi, e poche, anzi pochissime isole e anche queste prive d’intagli. Terre d’altronde quasi disabitate, con rarissime borgate marittime, una vera desolazione che rattrista gli sguardi dei naviganti abituati alle splendide pittoresche vedute delle coste settentrionali della vicina Norvegia. Su quelle vastissime pianure, spazzate dai gelidi venti della regione artica, non si trovano che poche tribù di lapponi, le quali altro non si occupano che dell’allevamento delle renne. Questi abitanti hanno sempre dimostrato, al contrario dei loro fratelli esquimesi ed islandesi, una spiccata antipatia pel mare, e perciò di rado si spingono fino sulle sponde dell’oceano. Preferiscono piantare le loro tende di pelle lungo i corsi dei fiumi, che sono numerosissimi in quella regione, o nelle grandi pianure dove le loro mandrie di renne trovano abbondanti distese di muschi e di licheni. Sono d’altronde poco socievoli, non vedono di buon occhio i russi che considerano come conquistatori e si tengono possibilmente lontani da tutti i centri popolati. Sono nomadi che levano sovente i loro attendamenti per andarsene ora verso il nord ed ora verso il sud, a seconda della stagione e dell’abbondanza o scarsità dei pascoli. La Stella Polare, lasciato Vardö, aveva messa la prora verso il nord-nord-est puntando verso il capo Njemezki, onde superare la grande penisola di Ribatschi, la quale si spinge molto innanzi nell’oceano Artico. Al di là del capo, contro l’aspettativa generale, il mare era affatto libero, una vera fortuna, poichè ordinariamente quelle coste sono battute dai ghiacci che la corrente siberiana spinge appunto da quelle parti. Cosa molto strana però, poichè al Capo Nord, che ha una latitudine molto elevata, è raro incontrarne durante la primavera od il principio dell’estate. Anche al largo il mare era tranquillo; solamente delle lunghe ondate, pochissimo alte, si spingevano ad intervalli, andando a rompersi contro le coste dirupate della penisola con un sordo rimbombo che le caverne marine ripercuotevano a lungo. Nessun veliero o piroscafo si vedeva apparire sull’azzurro-cupa superficie dell’oceano Artico. Quelle coste sono già generalmente poco battute, non essendovi, come fu detto, città marittime. Solamente al principio dell’estate v’è un po’ di movimento, riattivandosi le relazioni commerciali con Arcangelo, l’importantissimo scalo marittimo del mar Bianco. Abbondavano invece, specialmente verso le coste, gli uccelli marini artici. Sulle scogliere, si vedevano apparire stormi di urie, uccelli veramente di mare, con le penne nere sul dorso e le ali biancastre, il becco lungo e diritto, le gambe molto corte e anche molto indietro, imperfezione che rende loro molto difficile il drizzarsi. Vi erano anche non poche strolaghe (columbus arcticus) bellissimi volatili che hanno il becco ed il petto nero, le ali macchiate di bianco e le parti inferiori d’un candore niveo. Sul mare invece si vedevano talora apparire numerosi delfini ed in lontananza anche qualche delfino gladiatore, il più grande della famiglia, toccando talora una lunghezza di sei e sette metri. Questi abitatori dell’oceano Artico, sono dotati d’una forza veramente prodigiosa e di una voracità fenomenale. La loro indole è battagliera e vanno ad assalire perfino le gigantesche balene alle quali divorano atrocemente la lingua. Difficilissima è la loro pesca, opponendo una resistenza incredibile. Anche ramponati e gravemente feriti non si arrestano e trascinano molto lontano le barche dei pescatori, mettendole in grave pericolo. Le coste della penisola apparivano deserte. Nessuna capanna, nessun filo di fumo che annunziasse la presenza di qualche creatura umana. S. A. R. il duca ed i suoi compagni che s’erano muniti di cannocchiali non riuscivano a scoprire un solo angolo abitato, durante la traversata di quella costa. – Una vera terra polare, – aveva detto Cardenti. – Mettiamo che qui cominci il polo!... – Giunta al capo Zyp, la Stella Polare piegò verso il sud-est, passando successivamente dinanzi alla baia di Motowki che s’addentra fra la penisola di Ribatschi e la costa russa, a quella di Uras che serve di scarico ad un piccolo corso d’acqua, alimentato da due laghi e quindi a quella di Kola, molto ampia e molto profonda. Quest’ultima baia è formata dalla foce della Tuloma, un fiume di corso non piccolo, che nasce nel grande lago di Nuot e che bagna, alla confluenza col Kola, la cittadella omonima. È ricco d’acqua, molto largo e durante la buona stagione permette alle grosse barche di spingersi fino a quel piccolo centro commerciale. Oltrepassata la baia la Stella Polare che procedeva con la velocità media di sei nodi all’ora, filò fra la costa di Murman e l’isola disabitata di Kildin, proseguendo la sua corsa verso l’est. Anche al di là di Kildin, nessuna traccia di ghiaccio, quantunque la temperatura si fosse notevolmente abbassata, in causa del vento del nord. S. A. R. che scrutava attentamente il largo, non riusciva a vedere un solo banco di ghiaccio e ciò gli rincresceva, essendo desideroso di vedere alla prova la sua nave. – Forse ne incontreremo all’entrata del mar Bianco, – gli aveva detto il capitano Evensen. – I ghiacci non mancano mai in quel luogo. – L’indomani la Stella Polare passava dinanzi alla foce del Woronje, corso d’acqua che nasce nel lago di Lujawrurt e che bagna, presso la sua uscita in mare, un villaggio minuscolo, Gawriloka, abitato da pochi lapponi e da alcuni pescatori. – Quel fiume mi ricorda un tragico fatto, – disse il capitano Evensen, volgendosi verso l’ingegnere di macchina che stava discutendo con le guide alpine. – Qualche tremendo naufragio? – chiese il signor Stökken. – No, un assalto d’orsi bianchi. – Qui, su questa costa? – chiese l’ingegnere, con stupore. – Sì, signor Stökken. – Io non ho mai udito raccontare che vi siano orsi bianchi in Lapponia. – Ed i ghiacci polari non li contate per nulla?... Voi sapete che durante l’inverno gli ice-bergs scendono molto verso il sud, bloccando tutte queste coste. – Questo è vero, signor Evensen. – Non dovrebbe quindi stupirvi se degli orsi bianchi, imbarcati su di un banco di ghiaccio, siano giunti fino qui. – Infatti la cosa non sembrerebbe impossibile, – disse l’ingegnere. – E cos’è che quei feroci carnivori hanno assalito? – Una piccola nave russa che i ghiacci avevano bloccata alla foce del Woronje. – Tanta audacia?... – Sì, signor Stökken. – E come andò a finire? – Adagio: è una vera storia, in parte ridicola, ma in parte anche tragica. – Raccontate, signor Evensen. I racconti avventurosi mi piacciono. – Non avete che da ascoltarmi. – Sono tutto orecchi. – Ed anch’io, – disse il tenente Querini, che era allora salito sul ponte a respirare una boccata d’aria pura. – Dovete dunque sapere, – cominciò il capitano Evensen, – che nel 1894, la stagione fredda era stata così precoce da rendere assai periglioso il ritorno delle navi partite per la pesca delle balene e per la caccia delle foche e dei trichechi. Immensi banchi di ghiaccio, trascinati dalle correnti siberiane o spinti direttamente dai gelidi venti del settentrione, erano scesi verso il sud, bloccando buona parte delle coste della Lapponia. Un piccolo bastimento russo, la Marfa, se non m’inganno, che faceva il traffico di cabotaggio fra le coste settentrionali della Norvegia ed Arcangelo, era stato sorpreso dai ghiacci in prossimità della piccola borgatella di Gawriloka, quasi alla foce del Woronje. Il fiume s’era repentinamente gelato e dalla parte del mare grandi banchi di ghiaccio e numerosi ice-bergs si erano accumulati verso la costa, rendendo impossibile la navigazione. La piccola nave, che era montata da sette uomini, dopo inutili tentativi aveva dovuto rassegnarsi alla sua sorte e fare i preparativi di svernamento. Il settembre era già giunto e la nave, che aveva tardato un poco troppo negli scali del mar Bianco, si credeva ormai condannata ad attendere la buona stagione per forzare il passo del fiume. Il danno non era forse grave, poiché Gawriloka non si trovava che a due chilometri e colà i marinai potevano trovare non solo viveri in abbondanza, ma anche comode e ben riscaldate abitazioni. Nondimeno sperando in un ritorno della buona stagione, nessun marinaio aveva abbandonato il piccolo veliero. Tutti avevano fiducia in uno sgombro dei ghiacci. Era trascorsa una settimana, quando alcuni cacciatori sparsero la voce che degli orsi bianchi erano sbarcati fra il Woronje e la Teriberka. Quei feroci abitanti delle regioni artiche erano giunti a bordo d’un colossale ice-berg, che i venti o le correnti avevano spinto fino sulle spiagge della Lapponia. Dapprima nessuno vi fece caso, non essendo cosa rara, poi gli abitanti cominciarono ad impressionarsi e ne diedero avviso all’equipaggio della piccola nave perchè non si lasciasse sorprendere. Il capitano che era un uomo coraggioso e risoluto, aveva preso subito delle misure energiche. Ogni sera faceva spezzare il ghiaccio attorno alla nave e montare la guardia a due marinai. Già si cominciava a dimenticare la storia degli orsi, quando una notte molto nebbiosa e assai fredda, uno dei due marinai di guardia credette di scorgere delle masse biancastre scendere le ripide sponde del fiume. Non ci fece molto caso, credendo che si trattasse di ammassi di neve staccatisi dal ciglione della riva e non si curò di verificare meglio. Anzi, convinto della cosa, accese la pipa e si mise a chiacchierare col compagno. Non erano però trascorsi due minuti, quando nel volgersi verso prora si trovò dinanzi ad un enorme orso bianco. L’animalaccio si era già alzato sulle zampe deretane e si teneva pronto per l’attacco. Fu tale la sorpresa del marinaio, che non pensò nemmeno a raccogliere la scure che aveva poco prima abbandonata. Le zampe dell’orso si erano prontamente chiuse attorno al corpo del poveretto, cercando di stritolargli le costole con una stretta possente. Fortunatamente l’altro marinaio non aveva perduta la testa. Rapido come una folgore aveva afferrata l’arma e si era scagliato risolutamente sull’aggressore, percuotendolo così furiosamente da costringerlo a lasciare la preda. Intanto altri cinque orsi avevano attraversato il fiume ed approfittando dei massi di ghiaccio accumulatisi intorno alla nave, erano saliti a bordo. Potete immaginarvi lo spavento dei due marinai, quando s’accorsero dell’avanzarsi di quei mostri. Non avendo riportato che delle ferite di poca entità, si affrettarono a battere in ritirata, rifugiandosi nella camera di prora. Alle loro grida d’allarme, tutti gli altri si erano precipitati giù dalle amache. Informati del grave pericolo che correvano, chiusero prontamente il boccaporto, barricandolo internamente con parecchie casse e con alcune traverse dell’argano. I sei orsi, rimasti padroni della nave, si erano diretti verso poppa dove si trovava il capitano assieme ad un cane. Uno dei più grossi, con poche zampate rovesciò il boccaporto, cercando, ma invano, di scendere la scaletta. Lo spazio era troppo ristretto per quel corpaccio e l’animale non poteva andare innanzi, non ostante i suoi sforzi. Il capitano, svegliato bruscamente dai latrati del cane, aveva subito cercato di salire in coperta. Immaginatevi il suo stupore nel trovarsi viso a viso coll’orso! Retrocesse più che in fretta nella sua cabina e armatosi d’un paio di pistole, le sole armi da fuoco che v’erano a bordo, aprì l’uscio di comunicazione con la stiva, rifugiandosi nella camera comune dei marinai. Il povero cane però non aveva potuto seguirlo. L’orso, che s’era cacciato nella scala, con un colpo di zampa l’aveva afferrato, trascinandolo sul ponte. La sua morte fu l’affare di pochi bocconi. Padroni del ponte, gli orsi si abbandonarono al saccheggio, senza più curarsi dei marinai, i quali d’altronde non osavano lasciare il loro rifugio. Alcuni barili contenenti del grasso di foca ed alcune pelli di morsa ancora fresche, furono divorate da quelle bestie affamate. Perfino dei cordami unti di recente con del sego, sparvero nel corpo degli abitanti polari. Quantunque ben pasciuti, non abbandonarono però la nave. Forse contavano di saccheggiare anche il quadro di poppa che era rimasto senza difensori o di costringere i marinai a tentare una disperata sortita. Si sdraiarono sulla tolda e digerirono placidamente quel primo bottino, in attesa d’un altro più abbondante. L’indomani i marinai s’accorsero che gli orsi non avevano ancora abbandonata la nave. Quei bestioni passeggiavano gravemente pel ponte, fermandosi di preferenza sopra il boccaporto della camera comune. Lo credete? Quell’assedio durò nientemeno che cinque giorni, e chissà quanto si sarebbe prolungato senza la presenza di spirito di un cacciatore di Gawriloka. Quell’uomo aveva contratto amicizia con un marinaio del veliero. Non vedendolo più tornare a Gawriloka, sospettò che qualche grave avvenimento fosse accaduto a bordo e volendo accertarsene, un mattino si spinse verso la foce del fiume. Visto che la nave era piena d’orsi, tornò frettolosamente alla borgata per dare l’allarme. Una spedizione fu organizzata dai più valenti cacciatori di Gawriloka e mosse alla liberazione del veliero. La battaglia fu aspra, sanguinosissima, ma la vittoria rimase ai salvatori. Tutti gli orsi furono uccisi sul ponte della nave e la pelle del più grosso, a ricordo di quello strano avvenimento, fu regalata al capitano, il quale deve ancora conservarla. – E la nave? – chiese l’ingegnere. – Dovette starsene alla foce del fiume fino alla primavera. Scioltisi i ghiacci, fece ritorno ad Arcangelo dove io potei visitarla. Signor Stökken!... – Cosa desiderate signor Evensen? – Io credo che il Duca sarà contento. – Che cosa volete dire? – Se i miei occhi non s’ingannano, verso l’est, in direzione del mar Bianco, vi sono dei ghiacci. – Buono!... Proveremo la prora della Stella Polare. – Oh!... Non temete! Il signor Colin Acher, che si prese l’incarico di modificare e di rinforzare la nostra nave, ha fatto le cose per bene. Un uomo che ha costruito il Fram del nostro Nansen, deve intendersene di riparazioni. – Saranno ghiacci molto solidi? – Non lo credo. Avremo da fare con semplici banchi, streams e palks. – Niente ice-bergs? – Le montagne di ghiaccio le incontreremo presso le coste della Nuova Zemlia. – Ed alla Terra di Francesco Giuseppe troveremo i grandi banchi? – È probabile, signor Stökken. Sapremo però evitarli. Andiamo ad avvertire S. A. R. della vicinanza dei ghiacci. — Capitolo XII Nel mare Bianco L’indomani, al 68° di latitudine, all’entrata del mar Bianco, la Stella Polare faceva il suo primo incontro coi ghiacci. Non si trattava nè di ice-bergs, ossia di montagne di ghiaccio, nè di ice-fields, ossia di grandi banchi, bensì di lastroni di forma per lo più allungata, chiamati dai naviganti artici palks, o di forma quasi circolare, streams. Non mancavano però anche gli hummoks, ossia piccole montagnole di ghiaccio, d’una resistenza poco considerevole. L’effetto che producevano quei ghiacci natanti sull’azzurro-cupa superficie del mare, era splendido, anche in causa delle tinte svariate che avevano, effetto per lo più dovuto al rinfrangersi dei raggi solari. Mentre gli streams ed i palks apparivano bianchissimi, eccettuato nei luoghi dove presentavano delle spaccature, con dei riflessi che talvolta sembravano provenienti da una pezza di raso, gli hummoks, essendo più elevati, avevano tinte più splendide e più svariate. Alcuni, esposti all’ombra, avevano dei colori violetti d’una dolcezza infinita, con striature d’un verde così splendido che si sarebbe detto prodotto da smeraldi; altri invece, percossi obliquamente dai raggi solari, fiammeggiavano come se fossero immensi rubini, oppure davano l’illusione di massi di metallo incandescenti. Frammenti d’ogni specie navigavano fra i banchi e le piccole montagnole, occupando una distesa immensa. Sospinti dalle larghe ondate che provenivano dalle coste siberiane, si radunavano, si staccavano formando strani disegni, poi tornavano a disperdersi, mentre gli streams ed i palks s’urtavano con un certo fragore, aumentando, di minuto in minuto, il numero di quei ghiacciuoli. La Stella Polare era entrata risolutamente in mezzo a quei banchi, urtandoli vigorosamente e frangendoli con una certa facilità. S. A. R. il duca, che era subito accorso sul ponte assieme ai suoi ufficiali, aveva dato ordine di forzare la macchina, volendo accertarsi della resistenza della sua nave. La vecchia Giasone però si faceva onore, con generale soddisfazione. Investiva poderosamente i ghiacci, travolgendoli sotto la prora, abbatteva gli hummoks, facendoli capovolgere, sgretolava i palks e gli streams senza cedere agli urti. Spinta da un buon vento, filava i suoi sette nodi all’ora, gareggiando vittoriosamente con un piroscafo che entrava nel mar Bianco, costeggiando la penisola di Kola. – Avanti la nostra Stella Polare!... – gridava il bollente Cardenti. – Avanti che v’è un Savoia a bordo! – Per parecchie ore la Stella Polare navigò fra i ghiacci che si accumulavano all’entrata del mar Bianco, coprendo una superficie assai estesa, poi si ritrovò nuovamente nelle acque libere. Il mar Bianco, che prende appunto questo nome dall’abbondanza dei ghiacci che lo coprono durante la stagione invernale, fin dove giungevano gli sguardi non presentava alcun punto scintillante. Ciò voleva significare che i primi tepori estivi avevano sciolto rapidamente i banchi polari. Da quel giorno la navigazione ridivenne rapida e facile. Il tempo era costantemente buono ed il mare, se non del tutto tranquillo, quasi. Solamente delle lunghe ondate entravano in quel mare rinchiuso fra le coste dell’impero russo, sollevando di quando in quando la Stella Polare. Arcangelo ormai era vicino. Lo indicava il continuo incontro di velieri e di piroscafi, diretti verso l’oceano Artico. Erano navi che avevano già scaricate le loro merci e che ripartivano frettolosamente con carichi di preziose pellicce provenienti dalla vicina Siberia o di olii di foca o di balena. La notte del 29 giugno il capitano Evensen fece fare una rigorosa pulizia a bordo, prevedendo già numerose visite ad Arcangelo. Anche il quadro di poppa fu arredato con gusto dai componenti la spedizione italiana. La mattina del 30 l’imboccatura della Dwina era in vista. Vi erano numerosi ghiacci presso la foce, ma non erano tali da opporre una seria resistenza. Tutti erano saliti sul ponte. S. A. R. il duca, Cagni, Querini, il dottor Cavalli, le quattro guide alpine, Cardenti e Canepa. S. A. R. aveva puntato il cannocchiale sulla città osservandola curiosamente, e si era fatto portare una macchina fotografica per prendere una veduta della foce del fiume.1 La Dwina, uno dei fiumi più rimarchevoli della Russia, sia per la lunghezza del suo corso, sia pel volume delle sue acque, si svolge placidamente, serpeggiando fra vaste pianure quasi deserte e poco coltivate. Lungo le rive non si vedevano apparire che pochi gruppi di betulle, di pini, di abeti e grandi cespi di muschi, coperti ancora in parte di neve, e sulle rocce molti licheni. Anche qualche gruppetto di isbe, capanne russe formate per lo più di tronchi d’albero appena squadrati, apparivano di tratto in tratto. Dovevano essere tutte abitate poichè dei fili di fumo, che s’alzavano diritti come sbarre di metallo, disperdendosi lentamente per l’aria purissima, d’una trasparenza incredibile, sfuggivano dai camini. Sul fiume però v’era già molto movimento. Di quando in quando la Stella Polare incontrava dei velieri diretti nel mar Bianco e numerose barche montate da contadini russi e cariche di pellicce e di derrate diverse acquistate ad Arcangelo. Il capitano Evensen, a fianco del pilota che era già stato imbarcato alla foce del fiume, dava spiegazione ai membri della spedizione italiana, senza però perdere di vista la carta del fiume che aveva spiegata dinanzi a sè. – Arcangelo è una città che ha un commercio immenso ma febbrile, – diceva. – Bisogna che tutti approfittino dei pochi mesi in cui la città rimane sgombra dai ghiacci. – Che saranno pochissimi? – Ordinariamente lo sgelo comincia in giugno, però talvolta ritarda fino al luglio, con gravissimo danno del commercio e anche con grave pericolo delle navi provenienti dall’Europa, costrette a fermarsi nel mar Bianco fino allo sgombro dei ghiacci della Dwina. Alla fine di settembre Arcangelo torna nuovamente a essere bloccata e deve sospendere le sue comunicazioni col mare. – Quale movimento commerciale però in quei pochi mesi! – Immenso, signore, – rispose il capitano Evensen. – Si può dire che Arcangelo è l’emporio della Siberia settentrionale. Ci siamo, ecco i campanili della città. – Sul luminoso orizzonte cominciavano infatti ad apparire i più alti monumenti della città, e le cupole dorate delle chiese ortodosse mandavano bagliori sotto i primi raggi del sole. Il fiume si animava rapidamente. Gran numero di battelli d’ogni forma e dimensione, stazionavano lungo le rive, mentre velieri e piroscafi salivano o scendevano la corrente. Le rive si popolavano. Borgatelle popolose apparivano ora sull’una ed ora sull’altra sponda. Marinai, pescatori, cacciatori, accorrevano sulle calate ad ammirare curiosamente la Stella Polare, la quale proseguiva la sua marcia, con la bandiera italiana spiegata a poppa e la fiamma russa sulla cima dell’albero maestro. Tutti i marinai erano in coperta, pronti a dar fondo alle àncore. S. A. R. era sul ponte insieme a Cagni ed a Querini. La Stella Polare si avanzava di già fra due fitte ali di navi in attesa di carichi, fra i saluti delle bandiere, essendosi ormai sparsa la notizia del suo imminente arrivo. Un quarto d’ora dopo, evitate abilmente le navi che occupavano buona parte del fiume, essa gettava l’àncora dinanzi al borgo di Solombola. Arcangelo, come si è detto, è la più importante città della Russia settentrionale, quantunque non abbia che 18,000 abitanti e circa 50,000 l’intero distretto. Essa si trova a trentacinque chilometri dalla foce della Dwina, in una posizione bellissima, che le permette di accogliere delle flotte intere e viene considerata, pel suo movimento commerciale, come la quarta città dell’impero russo, venendo dopo Pietroburgo, Odessa e Riga. La sua fondazione risale al 1553. In quell’epoca non era che un semplice castello fortificato, con pochissimi abitanti. Nessuno degli imperatori russi aveva mai avuto l’idea di farne una città commerciale, credendola di accesso troppo difficile per le navi provenienti dall’Europa. Un capitano inglese, Richard Chancellor, nel cercare un passaggio pel Nord-Est, onde facilitare le comunicazioni fra l’Inghilterra e la Cina, nel 1553 vi approda e, sorpreso della bella posizione, ne informa l’imperatore russo Ivan IV, facendogli comprendere l’utilità immensa che la Russia avrebbe potuto ricavare da quel porto. Stipulato un trattato di commercio con la Russia, torna in patria per formare una compagnia pei traffichi del mar Bianco. La città, per ordine di Ivan, sorge quasi d’incanto. Si scava un comodo porto, capace di ricevere centinaia di navi e intorno all’antico castello si innalzano caserme, chiese, fabbriche, e si fondano vasti cantieri per la marina militare e mercantile. Le speranze di Richard Chancellor si realizzarono con rapidità prodigiosa. La prosperità di Arcangelo fu davvero sorprendente, tanto anzi da far ingelosire Pietro il Grande, il quale mirava invece a concentrare tutto il commercio in Pietroburgo, città da lui fondata. Con un ukase priva la città dei suoi privilegi e delle sue franchigie, dandole un colpo così fiero da farle perdere buona parte della sua prosperità, ma Caterina II nel 1762 restituisce ad Arcangelo i suoi diritti, dando un potente impulso ai commerci del mar Bianco. Da quell’epoca Arcangelo non ha cessato dal prosperare, ed oggi si conta fra le città più ricche dell’impero russo. Già numerose scialuppe eransi staccate dalla riva per mettersi a disposizione dell’equipaggio. Le autorità s’erano recate a bordo a presentare i saluti del governo russo, capitanate dal nostro ambasciatore a Pietroburgo, il generale Morra di Lavriano, dal colonnello Natali, addetto militare all’ambasciata, da un segretario della Legazione e dal conte Oldofredi, gentiluomo di Corte, incaricato di portare al Duca l’ultimo saluto dei sovrani d’Italia. S. A. R. terminato il ricevimento, si era subito affrettato a recarsi a terra per contraccambiare la visita alle autorità e anche per osservare il carico che aveva già ordinato si tenesse pronto per l’imbarco. Lo accompagnavano il suo stato maggiore, il Cagni, Querini ed il dottor Cavalli. All’annuncio che la Stella Polare era giunta in porto, una gran folla s’era riversata verso le gettate, ansiosa di vedere S. A. R. il duca degli Abruzzi ed i membri della spedizione italiana. Al Duca premeva soprattutto di vedere i centoventi cani siberiani, che dovevano già essere giunti da parecchi giorni e sui quali molto contava per procedere in islitta verso il polo. Infatti la sua prima domanda, appena sbarcato, era stata questa: – È giunto Trontheim? – Trontheim aveva mantenuta la sua parola. Come aveva fatto per Nansen, aveva attraversati gli Urali ed i territori settentrionali della Russia ed era già giunto ad Arcangelo, conducendo intatta la sua numerosa muta di cani. Capitolo XIII Addio Europa! Nelle spedizioni polari i cani sono d’una utilità così immensa, che quasi tutti gli esploratori ne hanno sempre condotti con loro, per poter procedere rapidamente attraverso gli immensi campi di ghiaccio. L’uomo, per quanto robusto, si è sempre trovato impotente a porre in opera la sua forza muscolare. Il freddo terribile, che scende talvolta al disotto dei cinquanta e più gradi, esercita un’influenza disastrosa sull’organismo umano. Le forze se ne vanno, l’energia si spegne ed una specie di ebbrezza invade l’esploratore polare, rendendolo incapace a trascinare od a portare un carico anche leggiero. Si è quindi ricorso ai cani per poter trascinare le slitte, sulle quali si carica tutto il necessario occorrente agli esploratori: tende, viveri, vesti, coperte ed armi. Fino a pochi anni or sono, non si erano adoprati che cani esquimesi, ma non sempre avevano fatto buona prova, in causa della loro testardaggine e del loro carattere irrequieto e selvaggio. Quelli di razza esquimese sono buoni corridori, quantunque non siano alti più di sessanta centimetri e tirano anche bene, essendo capaci di percorrere cinquanta chilometri al giorno portando, solamente in dieci, un carico di ben quattrocento chilogrammi. Si accontentano anche di poco, essendo abituati a cacciare per loro conto, però, come si disse, sono d’una obbedienza molto dubbia. Essendo della razza dei lupi, e ne hanno anche le forme, non si affezionano mai ai padroni, anzi talvolta costituiscono un vero pericolo. Vanno, per paura della sferza, ma non sempre la temono e trascinano sovente le slitte attraverso a burroni e crepacci per correre dietro a qualche volpe, senza curarsi della vita delle persone che conducono. Per di più vanno soggetti di frequente a una malattia contagiosa, ad una specie di cholera, che li distrugge completamente, lasciando l’esploratore nell’impossibilità di continuare la marcia o di ritornare alla nave. Il luogotenente Payer della marina austro-ungarica, l’eroe della leggendaria spedizione del Tegetthoff e poi scopritore della Terra di Francesco Giuseppe, fu il primo a rinunciare ai cani esquimesi, sostituendoli coi danesi e con quelli di Terranuova, però i risultati non sembra che siano stati tali da incoraggiarlo. Nansen ne volle seguire l’esempio, scegliendo invece quelli di razza siberiana, più atti a sfidare i grandi freddi della regione polare, e meglio addestrati al servizio delle slitte, e non ebbe a dolersene. Trontheim fu il fornitore, e quest’uomo, per consiglio del fortunato esploratore polare, doveva pur esser quello che doveva consegnare a S. A. R. il duca degli Abruzzi, i cani necessarii per la futura esplorazione. Un tipo molto curioso quell’allevatore di cani, tale anzi da meritare qualche cenno. Prima della famosa spedizione di Nansen, nessuno lo conosceva. Sepolto fra le nevi siberiane, non aveva nessuna notorietà, nè all’est nè all’ovest del grande impero russo. Quando l’esploratore norvegese, convinto della grande utilità di possedere buoni cani, cercò di provvedersene, aveva avuto la buona idea di rivolgersi al barone Edoardo Foll, di Pietroburgo, già notissimo pei suoi viaggi in Siberia. Il viaggiatore siberiano stava allora allestendo una spedizione scientifica in Siberia. Desideroso di agevolare il Nansen, parte per Tiumen e coll’aiuto di un commerciante inglese, il signor Wardrsppers decide un noto allevatore, Aleksander Iwan Trontheim a condurre un drappello di cani nello stretto di Jugor, dove attendevalo il Fram. Il siberiano è uomo di parola. Attraversa i deserti territori della Siberia settentrionale ed un bel giorno comparisce dinanzi alla piccola stazione di Kabarova. Sale in una barca e va a bordo del Fram, la nave di Nansen, conducendo con sè alcuni cani. Era partito con quarantatrè, però durante il viaggio ne aveva perduti prima cinque, in causa di varii incidenti; uno era morto più tardi, sbranato dai lupi, e due altri erano morti strangolati nelle boscaglie che era stato costretto ad attraversare. Il viaggio era stato dei più difficili e dei più pericolosi. Trontheim, per giungere in tempo all’appuntamento, aveva dovuto chiedere l’aiuto ad una tribù di samojedi e caricarsi di trecento pund di viveri pei cani, ossia di circa quattromila e ottocento chilogrammi di peso. Impiegò tre lunghi mesi a percorrere, assieme alla tribù, composta anche di donne e di fanciulli, quelle deserte regioni della Siberia settentrionale. Il suo viaggio fu una vera peregrinazione da nomadi; nessuno andava diritto alla mèta; vagavano a capriccio, arrestandosi solamente là dove i licheni abbondavano. Avevano molte renne da mantenere, circa quattrocentocinquanta e bisognava, innanzi a tutto, pensare a non perderle. Attraversati i monti Urali, Trontheim e la tribù giungono finalmente sul fiume Usna, dove si riposano due settimane presso una capanna abitata da un povero contadino, unica abitazione in un deserto di una estensione di oltre cento chilometri. Tutti erano sfiniti, ma il bravo Trontheim non voleva mancare alla parola data al commerciante inglese. Si riposa due settimane, poi prosegue arditamente la marcia, incoraggiandosi con un po’ di acquavite comperata da uno zyriano. Alla fine di giugno, vedendo avvicinarsi il termine entro cui si era assunto l’impegno di consegnare i cani, Trontheim decide di dividersi dalla tribù. Lascia indietro le donne, i fanciulli, le renne e s’avanza con alcuni uomini verso il mare, conducendo con sé dieci slitte. Il 9 luglio, come aveva promesso, giungeva a Kabarova, nello stretto di Jugor, dove lo attendeva il Fram. L’impressione riportata da Nansen, quando volle provare i cani, merita di venire riportata. Appena ricevuto l’avviso insperato che Trontheim era giunto, Nansen si era affrettato a recarsi all’accampamento dei cani, situato a qualche distanza dall’abitato. Erano tutti legati in una lunga fila e facevano un baccano assordante. Molti di essi avevano l’aspetto di cani di razza, pelo lungo e bianchissimo, orecchie diritte e muso aguzzo. Altri, dal pelo più corto, avevano l’aspetto più volpino; parecchi erano neri o macchiati. Ce n’erano, visibilmente, di diverse razze, ed alcuni tradivano, con le loro orecchie pendenti, una forte mescolanza di sangue europeo. Con grande voracità ingoiavano il pesce crudo (aringhe d’acqua dolce) non senza azzuffarsi fra i vicini. Trontheim ne scelse dieci che attaccò a una slitta samojeda. Quando questa fu allestita e Nansen vi ebbe appena preso posto, la muta, scorto a poca distanza un infelice cane forestiero che si avvicinava, partì al galoppo contro la povera creatura. Ululando come lupi feroci, piombarono tutti dieci addosso a quell’uno, mordendolo e dilaniandolo. Il sangue scorreva in gran copia, e il disgraziato urlava pietosamente, mentre Trontheim, girando attorno come un ossesso, menava colpi a dritta e a sinistra. Riavutosi dalla sorpresa, Nansen si gettò alla sua volta sui più feroci combattenti e li afferrò per la gola, dando così un breve respiro alla vittima che poté ritirarsi. La muta dei cani s’era talmente scompigliata durante la zuffa, che ci volle non poco per districarla. Finalmente, rimesso ogni cosa in ordine per la partenza, Trontheim fece schioccare la frusta, gridando prrr, prrr, e via a carriera sfrenata, su terreno erboso, su pietre, su argilla, e poco mancò non attraversassero anche la laguna. «Io, – racconta Nansen, – m’appuntavo coi piedi e tiravo le redini quanto potevo, ma inutilmente, e non fu se non impiegando le nostre forze unite, che riuscimmo alfine a fermare, appunto quando si stava per entrar nell’acqua, e noi si continuava a gridare: sass! sass! tanto che rintronava tutto Kabarova. Facemmo prendere un’altra direzione ai cani, che partirono di nuovo con tale abbrivo, che stentavo a tenermi saldo. Era proprio un mezzo di trazione stupefacente; e noi imparammo ad apprezzare la forza dei cani, avendo visto come potevano trascinare un paio di uomini su quel cattivo, per non dir pessimo, terreno.» Come aveva mantenuta la parola con Nansen, il bravo Trontheim non aveva voluto mancare a quella data a S. A. R. il duca degli Abruzzi, tanto più che v’era stato di mezzo l’ordine del governo russo. Con la numerosissima muta attaccata a molte slitte cariche di viveri, aveva lasciato Tiumen, città della Siberia occidentale, situata sulla via che da Jecaterimburg va a Tobolsk, proprio sulla frontiera russo-siberiana, recandosi prima a Perm. Di là aveva proseguito a gran tratti verso il nord, ora servendosi delle barche, che solcano i grandi fiumi della Russia centrale, ed ora delle sue slitte, giungendo ad Arcangelo parecchio tempo prima dell’arrivo della Stella Polare. Durante quel lunghissimo viaggio non aveva perduto un solo dei suoi cani, anzi era riuscito a condurli tutti a destinazione in buonissimo stato. Come quelli che aveva fornito a Nansen, non appartenevano tutti ad una medesima razza. Ve n’erano parecchi di razza incrociata, alcuni dal pelo lunghissimo e bianco, gli orecchi diritti, il muso appuntito e che rassomigliavano un po’ ai lupi; altri invece avevano l’aspetto del nostri volpini, con grandi code villose ed il pelame perfettamente bianco o macchiato. Belle bestie però, che dovevano rendere preziosi servigi agli audaci esploratori, durante le loro corse attraverso i ghiacci polari. Trontheim, un bel tipo di siberiano, di statura media e robusta, dalla fisonomia aperta e bonaria, con barba rossiccia, aveva voluto consegnarli personalmente a S. A. R. il duca degli Abruzzi, però prima di farli condurre a bordo, aveva voluto farglieli provare sotto le slitte, anche per insegnargli il modo di servirsene. Le prove erano riuscite soddisfacenti, malgrado la irrequietezza indiavolata di quelle bestie, un po’ indocili e difficili a obbedire, sia alle briglie, sia alla frusta, sia alla voce dei padroni. Intanto a bordo s’erano preparati i canili per ricevere quei numerosi ospiti a quattro gambe. La cosa non era stata facile però, e S. A. R. ed i suoi aiutanti avevano dovuto sudare non poco ad allogarli tutti. Tuttavia l’alloggio fu disposto in modo conveniente, sulla coperta della Stella Polare, non essendovi la possibilità di collocarlo sotto, in causa dell’ingombro del carico. Nei primi giorni regnò non poca confusione a bordo, con tanti animali. Quei poveri cani, non abituati a navigare, parevano spaventati di trovarsi su quella nave che subiva, anche in porto, delle ondulazioni, e si ribellavano ai marinai che volevano rinserrarli nei canili, scappando ora a prora ed ora a poppa. Imbarcati i cani, la Stella Polare rinnovò le sue provviste di carbone, circa duecentocinquanta tonnellate e prese a bordo altre numerose casse, contenenti per lo più vesti di pelle di foca e un gran numero di scatole inviate da S. M. la Regina e che dovevano serbarsi per le grandi solennità. Inoltre furono imbarcate anche diverse casse di libri, pure inviate da S. M., la quale aveva avuto il gentile pensiero di donare allo Stato Maggiore una piccola Divina Commedia, ed ai marinai ed alle guide alpine dei libri di preghiere. Gli ultimi preparativi venivano intanto spinti alacremente innanzi. A bordo tutti lavoravano febbrilmente, S. A. R. compreso, il quale non si faceva distinguere dagli altri, con grande stupore della popolazione. La cosa pareva molto strana a quei buoni russi, abituati a vedere i loro principi a comandare e farsi obbedire, ma S. A. R. ne rideva di cuore ed a coloro che gli chiedevano come non si limitasse a ordinare, rispondeva bonariamente: – Cosa volete?... Io non ho un segretario! – S. A. R. durante quei dodici giorni, aveva però fatte anche frequenti gite a terra, per esperimentare le sue macchine fotografiche e per dare anche un po’ di svago ai membri della spedizione, prima di dare un addio alle terre civili. Aveva dati e restituiti ricevimenti, e non aveva nemmeno rifiutata una partita di law-tennis offertagli da alcuni signori inglesi, ma si era mantenuto molto riservato intorno allo scopo della spedizione. S’era però limitato a far credere che il suo viaggio non era stato intrapreso per andare al Polo, bensì per esplorare le regioni settentrionali della Terra di Francesco Giuseppe non raggiunte da Jakson. Interrogato sul suo ritorno, aveva risposto sorridendo: – Ciò dipenderà interamente da quello che potremo fare. Se avremo buona fortuna e troveremo subito qualche cosa di buono, ci affretteremo a tornarcene a casa, se no... – Egli si era arrestato su quel no sibillino, non volendo forse completare il suo pensiero, ma uno dei suoi compagni, come per dare soddisfazione a coloro che li interrogavano, aveva soggiunto: – Se no, dovremo rimanere là a raccogliere qualche cosa! – Gli ultimi giorni furono occupati in ricevimenti. Le autorità di Arcangelo, l’ambasciatore italiano a Pietroburgo, col suo attaché militare ed il suo segretario, alcuni ufficiali italiani, parecchi notabili russi, molti inglesi e francesi furono ricevuti a bordo. Anche il granduca Wladimiro, ritornato allora dall’inaugurazione del porto di Katerina, andò a complimentare S. A. R. facendogli i suoi augurii per la riuscita del viaggio. L’11 luglio, tutto era pronto per la partenza. La macchina, fin dal mattino, era sotto pressione ed a poppa era stata nuovamente spiegata la bandiera italiana e sull’albero maestro la fiamma russa. Una folla enorme s’era riversata sulle gettate, mentre i marinai delle numerose navi ancorate nel porto si erano disposti sui pennoni per gli urrà d’uso. Tutti erano commossi; anche S. A. R. appariva un po’ nervoso. Il comando è dato. Le àncore vengono ritirate a bordo, la macchina sbuffa e l’elica comincia a mordere le acque. Il Duca degli Abruzzi, ritto sul ponte, saluta la folla agitando il berretto. Presso di lui stanno Cagni, Querini, il dottor Cavalli-Molinelli e, un po’ in disparte, il conte Oldofredi Tadini, gentiluomo di corte, il cav. Silvestri, il conte colonnello Nasalli-Rocca ed il conte Edoardo Rignon, capitano delle batterie a cavallo. A poppa segue una lancia a vapore, messa a disposizione del conte Oldofredi e dei suoi compagni dal principe Gortchacoff, governatore di Arcangelo. La Stella Polare scende maestosamente il fiume, lanciando di tratto in tratto dei sonori fischi. A qualche ora da Arcangelo si arresta per dare l’ultimo addio agli italiani che hanno voluto, con gentile pensiero, scortare il Duca. Si stringono affettuosamente le mani fra i più calorosi augurii, poi il conte Oldofredi scende nella scialuppa assieme al cav. Silvestri, al colonnello Nasalli ed al capitano Rignon. S. A. R. il duca, ritto sul ponte di comando, in preda ad una commozione che non riesce a vincere, si leva il berretto e con voce vibrata grida: – Viva il Re!... – Tra il gorgoglìo delle acque rompentesi contro le rive ed i muggiti sordi del mare frangentesi contro la nave, quattro voci formidabili rispondono: – Viva il Re!... – Sì, viva e viva l’Italia!... – grida Cardenti, che è diventato pallido. La Stella Polare corre già sul mare, mentre a bordo della scialuppa a vapore il gentiluomo di corte ed i suoi compagni agitano i fazzoletti in segno di saluto. Addio Europa!... Addio terre civili!... I campi di ghiaccio del polo, i pesanti nebbioni, le tempeste tremende dell’oceano Artico, l’ignoto pauroso, attendono gli audaci esploratori. Non importa!... Avanti Savoia!... Viva l’Italia!... La Stella Polare è già in mezzo ai ghiacci del mar Bianco. Gli urrà si sono spenti, la scialuppa a vapore sta per scomparire. Ormai, non è più che un punto nero appena visibile sulle acque del fiume, eppure sembra che in aria, fra le gelide folate del vento nordico, una voce possente gridi ancora: – Viva il Re!... — La voce robusta di Cardenti risuona improvvisa fra il fragore dei flutti: – Avanti, sempre avanti Savoia!... I ghiacci non ci fanno paura!... Saremo i lupi del polo!... — Poco dopo la Stella Polare fendeva vigorosamente i primi lastroni di ghiaccio, diretta alla lontana Terra di Francesco Giuseppe. PARTE SECONDA Capitolo I Le esplorazioni artiche Le terre polari del nord-ovest, al pari di quelle del nord-est, hanno destato in tutti i tempi una vivissima curiosità ed hanno avuto anche esse un numero infinito di eroi, come pure un numero infinito di vittime. Il fascino dell’ignoto, doveva farsi sentire naturalmente, prima di tutti, fra i popoli più settentrionali dell’Europa. Che cosa si nascondeva dietro quegl’immensi campi di ghiaccio che i venti e le correnti spingevano dal settentrione? Ecco la domanda che si rivolgevano i norvegesi, gli scozzesi ed i danesi. Era possibile, attraversando quelle barriere gelate, di trovare altre terre da conquistare? Ecco quello che si domandavano più tardi i rapaci normanni dallo spirito irrequieto ed avventuroso. La curiosità e l’avidità di nuove conquiste creano i primi naviganti polari. Piccole navi, montate da equipaggi che non temono la morte e che se ne ridono delle tremende tempeste, salpano audacemente dai porti della Danimarca, della Norvegia e della Scozia e s’inoltrano arditamente in quei mari sconosciuti che bagnano le coste settentrionali dell’Europa. Centinaia d’anni prima che Colombo toccasse l’America, quei coraggiosi marinai scoprono l’Islanda, poi, spingendosi più innanzi, la Groenlandia, quindi il Labrador e fondano colonie che diventano fiorenti, ma che alcune centinaia d’anni più tardi scompaiono misteriosamente. Che cosa era avvenuto degli stabilimenti fondati da quei marinai che trafficavano con la Danimarca? Mistero! Seicento e più anni trascorrono senza che più nessuno si occupi delle terre perdute al di là del circolo artico e anche al di quà. I grandi sconvolgimenti del medio evo sembra che abbiano spento la passione pei viaggi, tanto più che le colonie iscoto-danesi e normanne avevano rotta ogni relazione con la madre patria, perdendosi non si sa dove. Due italiani, pei primi, danno nuovo impulso alle scoperte polari. I fratelli Zeno, veneziani, nel 1380 salpano pei mari del nord e scoprono una terra alla quale danno il nome di Frislandia. Cos’era quella terra? Si suppose che fosse l’Islanda, altri invece credono che fosse la Groenlandia. L’una o l’altra, i fratelli Zeno danno pei primi la spinta alle lunghe ed avventurose navigazioni nei mari nordici. Nel 1431 un altro italiano, messer Pietro Quirini salpa da Candia, esce dal Mediterraneo, una furiosa burrasca assale il suo vascello presso il capo Finisterre e gli spezza il timone. Col suo equipaggio si rifugia in due scialuppe, naviga per trentotto giorni verso il settentrione e con quarantacinque compagni sbarca in una terra ignota, situata, sembra, presso il 67° di latitudine. Una delle due scialuppe viene inghiottita dalle onde, ma egli riesce a toccare la Norvegia e dopo lungo e periglioso viaggio ritorna a Venezia nel 1432. Nel 1491, un altro veneziano, trasferitosi in Inghilterra, Sebastiano Caboto, intraprende numerosi viaggi nei mari settentrionali, ed il 24 giugno del 1494, mentre Cristoforo Colombo approdava in America, scopriva la Tierra de los Baccalaos, o meglio Terra Nuova, dando un nuovo impulso ai viaggi avventurosi. Ed ecco che dietro a questi quattro italiani, corrono numerosi altri, inoltrandosi audacemente nei mari polari. Risalgono verso il nord dall’America e dall’Europa, cercando indefessamente il passaggio del nord-ovest che doveva condurli dall’Atlantico al Pacifico, e quello del nord-est che doveva spingerli fino al Giappone senza fare l’immenso giro del capo di Buona Speranza e di tutte le terre meridionali dell'Asia, e più tardi cercano di raggiungere il polo, quel punto misterioso bloccato dalle immense barriere di ghiacci. Le numerose scoperte fatte nel nord-ovest, non hanno alcuna relazione col viaggio di S. A. R. il duca degli Abruzzi, quindi non seguiremo che quelle fatte verso il nord-est, dove trovasi la Terra di Francesco Giuseppe ed i mari percorsi dalla Stella Polare. Il primo viaggio di scoperta tentato nelle regioni del nord-est, lo si deve a sir Ugh Willoughby, un audace capitano inglese. Nel maggio del 1553, salpa da Radcliffe, con tre navi montate da centotredici persone e la maggiore delle quali non stazzava che centosessanta tonnellate, e affronta l'oceano polare, le sue tempeste ed i suoi campi di ghiaccio. La prima spedizione polare tentata in quelle regioni non doveva incoraggiare gli altri che si preparavano a correre sulle tracce di Willoughby. Una nave, spinta dalla tempesta, si separa dalle altre e va a esplorare il mar Bianco, in quei tempi noto solamente alla Russia. Le altre due navi invece approdano ad una terra che non si sa ancora quale sia, poi ripiegano sulle coste della Lapponia per svernare. Il crudo inverno fa strage degli equipaggi. Lo scorbuto scoppia e tutti quei valorosi, compreso il loro capo, spirano uno ad uno in mezzo alle nevi. Solamente due anni dopo la salma dell'infelice capitano, scoperta da un mercante russo, viene ricondotta in patria assieme ai due legni privi dei loro equipaggi. Questa orrenda catastrofe non arresta le spedizioni polari verso il nord-est. Altri valorosi si preparano a sfidare i freddi intensi del polo. Nel maggio del 1556, un altro inglese, il capitano Borrough si slancia sulle tracce di Willoughby con tre vascelli. Ne perde due durante il viaggio, però riesce a scoprire lo stretto di Jugor ed a visitare le coste abitate dai samoiedi. Nel 1580, due altre navi armate dalla compagnia inglese sorta per trafficare con la Russia, salpano per le regioni nordiche al comando di Pett e di Jakman. Nel giugno essi scoprono il mar di Kara, allora coperto di ghiacci, restando ben sedici giorni avvolti fra nebbie densissime, poi riprendono la via del ritorno, ma una burrasca divide le due navi, e la minore, comandata da Jakman, scompare per sempre, nè più mai se ne potè avere notizie. Era stata fracassata dai ghiacci o le onde l’avevano prima demolita e poi inghiottita? Mistero!... Nel 1594, un altro audace s’inoltra nel mare Polare. È William Barentz, uno dei più fortunati navigatori dell’oceano settentrionale. Parte con tre navi, visita lo stretto di Matochkin e percorre mille e settecento miglia fra i ghiacci, spingendosi fino al 71° 33’ di latitudine. L’anno seguente riparte con sette navi al comando dell’ammiraglio Nay, scopre alcune isole, visita le coste siberiane, studiando gli usi ed i costumi dei samoiedi, prende terra all’isoletta degli Stati dove gli orsi bianchi gli divorano alcuni marinai, e ritorna in Olanda il 18 novembre. Nel maggio 1596, questo instancabile esploratore, per incarico dei mercanti di Amsterdam, torna nei mari polari con due navi, scopre l’isola degl’Orsi a 74° 30’ di latitudine, così chiamata per avervi colà ucciso un orso bianco di dimensioni mostruose, quindi spingendosi sempre più verso settentrione, si imbatte in una terra sconosciuta che chiama Spitzbergen. Ripresa la navigazione con una sola nave, avendo l’altra fatto ritorno in Europa, erra lungamente fra quei ghiacci, in preda a uragani spaventevoli, finchè un ice-berg gli spezza il timone. Esausto, coll’equipaggio ridotto a soli diciotto uomini, va a cercare rifugio nella baia dei Ghiacci, una delle migliori dello Spitzbergen, costruendo una capanna che sussiste ancora. L’inverno li sorprende quasi senza viveri. S’arrestano gli orologi e gelano perfino il vino, la birra e l’alcool. Parecchi marinai non possono sopportare quelle dure prove e soccombono miseramente. Finalmente il freddo scema, la buona stagione ritorna e l’equipaggio, il 23 giugno del 1598, lascia quelle terre inospitali imbarcandosi su due scialuppe. Erano tutti ridotti in uno stato orribile pei lunghi patimenti. Anche la gagliarda fibra di Barentz è finalmente minata dallo scorbuto e l’ardito esploratore muore in pieno mare, fra le braccia dei suoi fedeli marinai, la mattina del 30 giugno. Gli altri più tardi venivano salvati da una nave russa e condotti a Kola. Nel 1607, Enrico Hudson, il fortunato scopritore della baia omonima, prima di tentare il passaggio del nord-ovest si rivolge a quello del nord-est. S’imbarca su una piccolissima nave, montata da soli undici uomini e con un coraggio temerario spiega le vele pel settentrione. Tocca il 72° 38’ di latitudine, vede lo Spitzbergen, perlustra il mare per parecchi mesi, lottando contro i ghiacci e le tempeste, poi ritorna in causa dell’immensa barriera di ghiaccio che minaccia di avvolgerlo, dopo di essersi spinto più a settentrione dei suoi predecessori, ossia fino all’80° 23’. L’anno seguente riparte con quattordici uomini, tentando nuovamente di scoprire il passaggio del nord-est o di spingersi fino al polo, ma i ghiacci lo obbligano a ritornare. Si sa che questo navigatore doveva più tardi, nel cercare il passaggio del nord-ovest, scoprire l’immensa baia di Hudson, trovandovi poi una morte orribile.1 Dopo questi primi esploratori, ecco venire i balenieri. Il gran numero di balene, di foche e di trichechi trovati in quelle regioni, fanno nascere potenti società in Olanda e nell’Inghilterra, per ritrarre l’olio da quei mammiferi. Numerose navi salpano pei mari boreali, visitando successivamente le terre già scoperte e trovandone altre. Le coste dello Spitzbergen si delineano di già, poi quelle dell’isola di Jan Mayen, della Nuova Zembla e quindi quelle della Siberia occidentale. La speranza di trovare più a settentrione maggior numero di cetacei, di foche e di morse, spinge sempre più innanzi i balenieri. Il mare, compreso fra lo Spitzbergen e le spiagge settentrionali della Russia e della Siberia, non basta più alle loro imprese. Sentivano per istinto che più verso al nord dovevano trovarsi nuove terre da visitare e quindi da raccogliere nuove ricchezze sotto forma di pellicce e di olio. Nel 1614 il capitano Fortherby, visita le coste settentrionali dello Spitzbergen; nel 1617 alcuni balenieri inglesi scoprono una nuova terra alla quale danno il nome di Terra del Re Carlo o di Niche, poi un’altra ancora più a settentrione, quella di Gillis, dimenticata poi per parecchio tempo, quindi ritrovata e poi abbandonata ancora. La scomparsa delle balene, già quasi tutte distrutte da quegli avidi marinai, arresta nuovamente le spedizioni verso le regioni nordiche. Qualche ripresa si ha nel 1666. Un capitano olandese di origine ebraica, con un equipaggio composto esclusivamente di ebrei, intraprende una spedizione nelle regioni polari, con la speranza, davvero inesplicabile, d’imbattersi in quelle regioni in qualcuna delle dieci tribù israelitiche perdute!... Nel 1675 un altro olandese Cornelio Snobberger parte pel nord, trova una terra presso 72° 30’ sulla quale raccoglie molte pietre credute da lui preziose, mentre fu trovato più tardi che non avevano alcun valore. Poi le spedizioni verso il nord, salvo qualcuna priva di risultati, cessano per un lungo periodo, per volgersi invece alla scoperta delle coste siberiane. È solamente verso la fine del 1700 che le spedizioni polari vengono riprese, dapprima timidamente, poi con slancio crescente. La mèta dei navigatori del diciottesimo e del diciannovesimo secolo non è il passaggio del nord-est, bensì il polo. Tutte le spedizioni altro non mirano che a forzare l’immensa barriera dei ghiacci per raggiungere quel punto dove si riuniscono tutti i meridiani del globo. Phipps, figlio di lord Mulgrave, apre pel primo la via, con due navi, salpando da Nore il 2 giugno del 1773. Il 4 luglio giunge allo Spitzbergen, ma qui le barriere di ghiaccio lo arrestano, costringendolo a cercare altrove un passaggio. Ripiega verso l’isola di Moffen, poi verso le Sette Isole, tentando di rompere quei banchi di ghiaccio che gli ostacolano la marcia, corre il pericolo di farsi fracassare le navi, poi, scoraggiato rinuncia all’impresa, convinto dell’assoluta impossibilità di trovare un passaggio verso il polo. Quasi nell’istessa epoca, un altro inglese, il capitano Robinson, tenta pure di giungere al polo per la via dello Spitzbergen e riusciva a spingersi fino all’81° 30’ di latitudine, dove veniva arrestato dai campi di ghiaccio, senza aver scoperta alcuna terra. Altri inglesi e olandesi si seguono con esito sempre negativo, poi vengono dei capitani russi, i quali non hanno miglior fortuna. Dovunque la barriera di ghiaccio oppone un ostacolo assolutamente insuperabile. Nel 1827 è la volta di Parry, uno dei più audaci esploratori polari, che aveva già compiuti prima altri viaggi fortunati nei mari polari della Groenlandia e dell’America settentrionale. Credendosi più fortunato, parte con due navi bene equipaggiate, sale fino allo Spitzbergen e va ad ancorarsi nella baia di Hecla Cove, per sottrarsi alle tremende tempeste che minacciano d’inghiottire le sue navi. Fu di là che cominciò le sue escursioni terrestri, avanzandosi con delle barche-slitte in compagnia di due ufficiali e di due marinai. Procedendo attraverso ai campi di ghiaccio, in mezzo a continui pericoli e con fatiche immense e lottando con la deriva, che trasportava i banchi verso il sud, riesce a superare tutti i precedenti esploratori. Aveva raggiunto l’82° 45’ latitudine che per parecchi anni rimase la più elevata, non ostante gli sforzi valorosi di molti altri non meno audaci navigatori che, se non superarla, avevano tentato almeno di raggiungerla. Il pessimo stato dei campi di ghiaccio e le correnti polari che trascinavano quegli stessi banchi verso il sud, costrinsero Parry a pensare al ritorno. Verso la fine del settembre, Parry rivedeva l’Inghilterra, accolto con grandi onori dal governo e dai suoi compatriotti. Nel 1858 è il capitano Quennershadt, che con una piccola nave s’avanza verso lo Spitzbergen, visitando quei fjords e le Mille Isole, riportando numerose collezioni botaniche e geologiche; nel 1861 re Oscar di Svezia e Norvegia allestisce a sue spese una nuova spedizione composta di due navi e la manda, assieme a Nordenskiold, il futuro scopritore del passaggio del nord-est, a perlustrare i mari Artici. Nel 1863 il capitano Ming circumnaviga lo Spitzbergen, rivede la terra di Gillis, che si credeva scomparsa, poi le isole Barentz, quindi quella di Hope, ma i ghiacci gli impediscono di continuare le sue scoperte. Nel 1868 la Germania allestisce una nave al comando del capitano Koldowely e la manda a esplorare l’oceano Artico, arrivando fino all’80° 13’ di latitudine, al nord dello Spitzbergen. L’anno seguente la stessa nave, unitamente all'Hansa, riparte e mentre la prima va ad esplorare le coste groenlandesi, l’altra, sbattuta dai venti e dalle onde, va a rompersi sulle coste di Jan Mayen e l’equipaggio si salva miracolosamente su di un banco di ghiaccio, percorrendo ben mille e cento miglia. Nel 1872 il capitano Tobiesen si spinge verso l’isole Cherie, dove viene imprigionato dai ghiacci. Passa l’inverno in mezzo alle nevi, col figlio e due soli marinai, essendo stati gli altri trasportati verso la costa siberiana dai ghiacci galleggianti, e al ritorno della primavera muore di scorbuto, assieme al figlio. Gli altri due, morenti di fame, vengono raccolti in pieno mare e salvati da una nave russa. Seguono poscia Leigh Smith, David e Gray, con poca fortuna, poi la crociera del Cisbar comandato dal luogotenente Payer, il futuro scopritore nella Terra di Francesco Giuseppe, in unione al signor Weyprecht, la quale si limita a fare osservazioni sui ghiacci verso il 78° di latitudine. Nel 1872 Payer, al comando del Tegetthoff, salpa nuovamente per le regioni nordiche, risoluto a spingersi molto innanzi. È una delle ultime, ma anche delle più fortunate spedizioni. Al 76° 30’ di latitudine la nave viene bloccata dai ghiacci, non ostante tutti gli sforzi del suo equipaggio e per lunghi mesi si lascia trasportare dalla deriva, prima verso greco, poi verso maestro. Il crudo inverno che ha recato tanti danni all’equipaggio passa, ma la nave non può venire liberata. Tutto all’intorno vi sono montagne di ghiaccio spaventevoli. Verso la fine dell’estate, al 30 d’agosto, a quattordici miglia verso borea, appare una terra, alla quale il Payer dà il nome di Wilczeck, in onore del mecenate della spedizione. L’inverno sorprende di nuovo il Tegetthoff a 79° 31’ di latitudine, un inverno più crudo del precedente. Il petrolio gelava nelle lampade ed il cognac diveniva solido!... Il 1° marzo Payer, che intuisce la vicinanza di qualche terra, parte con la slitta e alcuni cani assieme a sei marinai, ed esplora la Terra di Wilczeck e l’isola Hall. Il freddo intenso e le immense barriere di ghiaccio gli obbligano però a far ritorno alla nave. Nello stesso mese Payer, accompagnato da un alfiere e da cinque marinai, riparte pel settentrione e scopre successivamente la Terra di Zichy, il canale d’Austria, il Capo Kane, poi la Terra Carlo Alessandro, quella del principe Rodolfo e quindi quella di Francesco Giuseppe e l’isola di Mac-Clintock. Ritornato alla nave, fu deciso il ritorno, non avendo viveri sufficienti per sfidare un nuovo inverno. Essendo il Tegetthoff sempre prigioniero, fu abbandonato fra i ghiacci e la spedizione riprese la via del sud con slitte ed un battello. Dopo novantasei giorni di fatiche inenarrabili, la spedizione viene finalmente raccolta dallo schooner russo Nicolai e sbarcata, il 3 settembre del 1874 a Vordochuss. Incoraggiati da quello splendido successo, i norvegesi allestiscono una spedizione composta del Polhem e di due vapori sussidiarii. La comandava Nordenskiold, il quale aveva assunto, in qualità d’ufficiale, un italiano, il luogotenente Eugenio Parent. La piccola flotta salpa verso la metà del luglio del 1872, tocca lo Spitzbergen e cerca di raggiungere le Sette Isole, dove Nordenskiold contava di passare l’inverno. A 80° 14’ i ghiacci, numerosissimi quell’anno, arrestano le navi, le costringono a rifugiarsi nella baia di Mossel, e le imprigionano, rendendo estremamente critica la sorte degli esploratori. I viveri si consumano e le cacce non danno il necessario per sfamare tante persone. Una barca da pesca, sfuggita alle strette dei ghiacci, reca in Norvegia la notizia del pericolo che corre la spedizione. Si arma una nave, l’Albert e si manda nei mari polari in aiuto dei pericolanti, ma deve retrocedere in causa di alcune gravi avarìe. Una seconda nave, l’Isbjorn, l’8 gennaio del 1873 si spinge verso il nord, ma si vede tagliata la via da immensi campi di ghiaccio che la costringono a tornarsene. Il comitato artico di Brema, arma il Groenland e lo manda in aiuto dei disgraziati esploratori, nonchè di parecchi pescatori balenieri rimasti prigionieri al capo Graz quasi sprovvisti di viveri.2 Oltre lo Spitzbergen, nello stretto di Belt, i ghiacci lo arrestano e va a cacciare foche nell’Islanda, coll’intenzione di tornare alla ricerca degli esploratori nella buona stagione. Pareva però che un triste destino pesasse su Nordenskiold, poichè il comandante della nave di soccorso poco dopo moriva e l’equipaggio, disanimato, faceva ritorno a Brema. Fortunatamente, dopo un inverno rigorosissimo, i ghiacci si spezzano ed il Polhem, liberato finalmente, ritorna in Europa. Dopo quella di Nordenskiold altre poche ne succedono, fra le quali quella fortunata di Leight Smith coll’Eira, che completa le scoperte fatte da Payer, poi ultima e più importante viene quella di Nansen. Ecco le regioni che la Stella Polare, al comando del giovane e valoroso Duca sabaudo stava per solcare, dopo la sua partenza da Arcangelo e la sua uscita dal mar Bianco. Capitolo II Gli orrori delle regioni polari Se gli sforzi costanti di audaci navigatori, sono riusciti, a poco a poco, non ostante gl’immensi pericoli, i freddi intensi e le burrasche spaventose che imperversano in quelle regioni, a conoscere un gran numero d’isole e di coste, molte altre ancora ne rimangono da scoprire. In quello sterminato oceano che bagna contemporaneamente le coste dell’Europa, dell’Asia e dell’America, le isole vi si trovano in non piccolo numero. Ad ogni viaggio si può dire che nuove terre vengono scoperte. Ora non sono che semplici isolette, ora non sono che rocce colossali coperte eternamente di neve, ma talvolta sono isole immense che si presentano improvvisamente dinanzi agli sguardi meravigliati dei naviganti. Quante ve ne sono ancora da scoprire? Chi potrebbe dirlo? Il freddo le protegge contro gli occhi scrutatori dei marinai, ed i ghiacci le nascondono gelosamente. Il polo non si lascia rapire la preda e si direbbe che non tollera nel suo bianco regno che gli uccelli marini, le foche, le morse, gli orsi bianchi e le gigantesche balene. Gli sforzi degli esploratori hanno aperto delle grandi brecce fra quell’immensa calotta di ghiaccio, che rinserra quel punto misterioso dove si dovrebbero riunire tutti i meridiani della nostra terra, ma non bastano. Non è il più che è stato fatto; molto resta ancora da farsi. I maggiori ostacoli si trovano appunto presso il polo; e quali ostacoli! Non è un semplice anello di ghiaccio che rinserra quel punto che dovrebbe servire di perno al nostro globo; è una vera barriera di mille e forse più miglia di ghiaccio compatto, irto di montagne spaventose, che si spostano incessantemente, che si premono le une con le altre, che si urtano, che diroccano con scrosci orrendi e con detonazioni paragonabili allo scoppio simultaneo di centinaia di cannoni. Nessuno, se non si è spinto fra le onde dell’oceano Artico, può farsi un’idea delle scene tremende che offrono quei campi e quei monti di ghiaccio. La più sbrigliata fantasia non riuscirebbe a crearsi, nemmeno lontanamente, simili spettacoli. Durante il brevissimo estate, il quale non dura che pochi mesi, due e molto di rado tre, i ghiacci non sono compatti. Il calore del sole, che mai tramonta durante quel tempo, spezza i banchi, senza scioglierli però. Degli squarci immensi avvengono fra quei campi sterminati, che si prolungano per decine e decine di miglia e talvolta per centinaia, e le montagne che vi sono racchiuse, spinte dal vento, lasciano la loro prigione, e se ne vanno errando per l’oceano, sballonzolate dalle onde. Sfilano come fantasmi, a decine, a centinaia, ora riunite ed ora staccate, rendendo perigliosa la navigazione agli audaci che osano affrontare l’oceano Artico. Di quando in quando s’incontrano, si sgretolano, formando centinaia di monticelli che prendono il nome di hummoks, i quali sfilano a loro volta verso il sud, spinti dai venti e trascinati dalle correnti. Talvolta invece quei giganti, rósi alla base dalle acque non più fredde, perdono improvvisamente l’equilibrio e strapiombano in mare, sollevando delle immense ondate e producendo un tal fracasso da venire udito a parecchie miglia di distanza. La montagna però resta: non ha fatto altro che rivoltarsi e cambiare di forma. Guai se nella sua caduta incontra una nave! Nessuna, per quanto solida, potrebbe resistere all’urto di quei colossi, che misurano talvolta mezzo miglio di circonferenza e che hanno un’altezza di mille metri! Lo spettacolo che offre l’oceano Artico nei brevi mesi d’estate è grandioso e anche pauroso, ma è nulla in confronto a quello che offre durante i grandi freddi. Allora è il vero orrore, è il caos. Le montagne di ghiaccio si saldano, gli hummoks, gli streams ed i palks si uniscono, s’allargano, s’ingrossano e finiscono per formare quegli immensi campi di ghiaccio che sono il terrore dei naviganti. La superficie del mare, a poco a poco scompare. Si direbbe che le onde si cristallizzino poichè quei banchi sono tutti ondulazioni. Ai primi di settembre, dalle regioni nordiche s’avanzano i primi nebbioni, pesanti, tetri, d’una tinta che mette paura e che rattrista l’anima. S’avanzano a cortine, a ondate, turbinando sulle ali del vento; s’alzano, si abbassano, si spezzano, lasciando passare qualche breve raggio di luce, poi si distendono nuovamente, coprendo ogni cosa. È uno dei più gravi pericoli per le navi, costrette ad avanzarsi a tentoni, fra i ghiacci cozzanti sinistramente e che da un istante all’altro possono strapiombare. Poi si succedono gli uragani autunnali. L’oceano Artico si sconvolge e mugge cupamente al di sotto di quei nebbioni. Venti tremendi, gelidi, che fanno screpolare le carni ai disgraziati naviganti, passano con mille ruggiti, sulle onde scapigliate e sopra i banchi di ghiaccio. È il caos!... Il sole intanto si abbassa sempre e perde, a vista d’occhio, luce e calore. Appare sull’orizzonte, poi ridiscende sempre e finisce con lo scomparire. Ecco la notte polare che si avanza con tutti i suoi orrori. Non più albe, non più crepuscoli, non più tramonti. Una notte nera, impenetrabile, piomba su quelle desolate regioni. Le terre diventano invisibili; le onde sembrano tramutate in inchiostro. Solamente i campi immensi di ghiaccio, proiettano ancora quella luce sinistra, pallida, cadaverica che si riflette fino sulle nubi e che i marinai chiamano l’ice-blink. Ma quando alle tenebre si unisce anche la nebbia, allora tutto scompare: è l’immensità del buio, è il regno delle tenebre. Quali terrori devono aver provato i primi naviganti dei mari polari!... E quante angoscie proveranno tuttora gli audaci che vanno a sfidare i ghiacci dei due punti estremi del globo!... Eppure quanti, inconsapevoli di tali paurosi spettacoli, affrontano anche oggi, intrepidamente, le regioni del gelo. L’inverno è giunto. Il termometro scende sempre: passa lo zero e continua ancora. Ecco le prime nevi! Passano come trombe sopra gli sterminati campi di ghiaccio e sopra il mare rimasto ancora libero, travolte furiosamente dal vento che soffia sempre con ruggiti crescenti. I ghiacci si accumulano, si stringono, si rannodano, poi un brutto giorno quelle immense distese trepidano come se fossero animate. Mille urla salgono dai crepacci, mille cupi boati corrono sopra le massicce croste. La massa intera ondeggia, si gonfia, si contorce, poi si spezza, si rinchiude, quindi torna a fendersi. Tutti i banchi sono in moto. Si direbbe che una forza misteriosa, ma immensa, li agiti. Gli scricchiolii aumentano, i muggiti diventano assordanti, i rombi si propagano da una estremità all’altra dei palks, poi dei massi scattano fuori, delle piramidi sorgono come per incanto, delle montagne si elevano, oscillano, precipitano, diroccano, mentre tutta la superficie dei ghiacci s’agita come il mare in tempesta. Sono le pressioni. Guai alla nave che si trova fra quelle strette poderose, irresistibili. Quale potrebbe resistere? Ed il freddo intanto aumenta sempre e l’oscurità diventa più paurosa, senza il menomo barlume di luce, fuorchè quello debolissimo proiettato dagli astri. Il ferro diventa come ardente e brucia le mani che lo toccano, carbonizzando la pelle; il vetro diventa un pericolo, e guai alle labbra che osassero posarsi sull’orlo d’un bicchiere; il pane e la carne acquistano la durezza della quercia; il legname quello delle ossa più dure; il petrolio, il vino, e perfino l’acquavite formano un blocco. Le vesti induriscono, le coperte dei letti si irrigidiscono, gli stivali non si piegano più, gli occhi si coprono di ghiacciuoli e gelano durante il sonno, e le mani ed il naso corrono il pericolo di diventare carne morta, che più tardi si tramuterà in cancrena. Gli uomini, fra quei freddi intensi che raggiungono talvolta, specialmente quando soffia il vento del nord, i cinquanta e anche i cinquantacinque gradi sotto zero, perdono completamente la loro energia. Sono in preda ad una sonnolenza continua, si muovono come ubriachi, provano delle oppressioni, il loro cervello s’intorpidisce, le loro forze vengono meno, la loro volontà viene annientata. Talvolta provano l’impressione di avere attorno alla fronte come un cerchio di ferro che soffoca i loro pensieri. Solo delle continue distrazioni possono strapparli da quello stato, ma sono possibili le distrazioni in mezzo a quelle tenebre paurose? Non hanno nemmeno la consolazione di poter fumare, perchè dopo poche tirate anche la pipa gela ed il povero fumatore si trova in bocca, invece del fumo, un pezzo di ghiaccio!... Caccia agli orsi bianchi. Quali splendori offre però qualche volta anche quell’orribile notte polare. Quelle tenebre che sembrano anch’esse gelate al pari del mare e dell’atmosfera, tutto d’un tratto s’illuminano d’una luce sanguigna. L’orizzonte settentrionale, poco prima nero come se fosse di pece, scintilla come per opera magica. Fasce purpuree salgono verso il cielo, con dei tremolii strani, un immenso arco si delinea in un batter d’occhio, formato da getti di luce e che si spiega in frangie scintillanti. Il cielo sembra in fiamme e l’incendio si propaga arrossando lo spazio. Le stelle impallidiscono e scompaiono; la luna perde il suo splendore e si copre, come se avesse vergogna di non poter lottare con quell’orgia di luce. Il grand’arco ondeggia come sospinto da un vento furioso e assume tutte le gradazioni dei colori. Getti di luce rossa, gialla, azzurrognola, verde, s’alzano e s’abbassano, si fondono con un insieme meraviglioso e lanciano nello spazio infinito bagliori sempre più intensi. Parrebbe d’assistere a qualche improvvisa trasformazione del globo, e che quell’incendio debba tutto travolgere nelle sue orbite gigantesche. Tutti i campi di ghiaccio scintillano e sembrano nuotare nel sangue, le montagne di ghiaccio pare che ardano. Gl’immensi ice-bergs rifrangono quelle luci come prismi di cristallo, con delle vibrazioni che feriscono gli occhi. Quella luce è l’aurora boreale, uno dei più grandiosi e dei più splendidi fenomeni della natura, e che solamente in quelle desolate regioni, sede del gelo e dei famelici orsi bianchi, si può ammirare in tutto il suo splendore. Ben presto però il grand’arco oscilla più vivamente, i fasci di luce rimpiccoliscono, mandano un ultimo sprazzo che si diffonde ancora pel cielo, poi l’oscurità torna a piombare, e gli astri soli rimangono ad illuminare quegli immensi campi di ghiaccio rumoreggianti sotto le formidabili pressioni. Ma anche l’inverno passa. Dalla parte ove il sole sorge si comincia a discernere, per qualche minuto, una luce biancastra, la quale aumenta di giorno in giorno. L’astro diurno sfiora l’orizzonte, ma non si alza ancora abbastanza, si sente però che sale. La luce si diffonde sempre più e prolunga la sua comparsa; da bianca diventa giallastra, poi rosea ed ecco un bel giorno sorgere l’astro. Con lui ritorna la vita. Quegli immensi campi di ghiaccio, rimasti deserti durante la lunga notte polare, a poco a poco si animano. Schiere di uccelli compariscono: oche bernide, lumme, borgomastri pigolanti, urie, strolaghe, gazze marine, gabbiani e procellarie sfilano sui campi, salutando con grida gioconde il ritorno della primavera. Le indolenti morse, dai lunghi denti di avorio, le foche, le volpi turchine, le lontre, ritornano e si avvoltolano fra le nevi, riscaldandosi ai tiepidi raggi del sole, mentre fra i canali apertisi fra i ghiacci, navigano maestosamente le gigantesche balene e scherzano i delfini gladiatori ed i narvali dal lungo corno. I ghiacci si fendono con detonazioni spaventevoli ed i banchi si sgretolano con rombi assordanti, mentre da tutte le alture scendono, scrosciando, i ruscelli. I ghiacciai pure, addormentati durante la notte polare, si risvegliano e rovesciano in mare enormi masse di ghiaccio. Gli ice-bergs, gli hummoks, gli streams, i palks, liberatisi dalle strette dei banchi, riprendono le loro peregrinazioni attraverso l’immenso oceano, e sfilano a flottiglie verso il sud, spinte dai venti e dalle correnti. Dopo le cupe tenebre succede una vera orgia di luce. Il sole non tramonta più e proietta senza posa i suoi raggi su quei campi sgretolati. Le terre si denudano e la regione polare, dopo tanti freddi intensi che hanno spento ogni vita, è in fiore!... Là dove prima non vi erano che ammassi di ghiaccio e di neve, spuntano timidamente le prime piante. I licheni tappezzano le rocce, zuppa preziosa pel povero esploratore affamato, dimagrito dalle lunghe sofferenze del tremendo inverno; i ranuncoli, le sassifraghe, i muschi, le graminacee, i monties dai petali bianchi, i lichnis dalle corolle rosse, le hesperies, che sono i garofani dei mari polari, i papaveri dai petali d’oro, le pediculare purpuree, le belle andromede che tengono luogo delle eriche, si mostrano dappertutto. Perfino i boschetti di salici spuntano, poveri boschetti che un berretto basta per coprirli!... Eppure con tutti gli orrori che offrono le regioni polari, non mancano gli abitanti in quelle regioni, e cosa strana, quegli abitanti hanno un tale attaccamento pei loro banchi di ghiaccio, che trasportati in Europa muoiono di nostalgia. Le terre situate al nord dell’Europa e della Siberia, non risulta che siano, almeno finora, abitate. Le Spitzbergen, la Terra di Francesco Giuseppe e tutte le isole che la circondano, nonchè tutte quelle che si trovano a settentrione della Siberia, sono deserte, ma non così quelle numerosissime dell’America settentrionale, senza parlare della Groenlandia che ha colonie abbastanza fiorenti. Questi figli dei ghiacci, che lontani da quelle terre desolate non potrebbero vivere, sono ancora numerosi, quantunque le carestie di quest’ultimi anni, prodotte dalle stragi incessanti fatte dai balenieri e dai cacciatori di foche, ne abbiano fatti perire in grandi quantità. Quali strane vicende hanno costretto quegli uomini ad abbandonare il dolce clima americano, per sfidare i rigori di quelle terre desolate? E prima di tutto, da dove vengono? A quale razza appartengono? Difficili quesiti che non hanno trovata ancora una soluzione. Sembra che provengano dall’Asia perchè hanno molti punti di contatto con la razza mongola, gli occhi leggermente obliqui, i capelli, la tinta, quantunque un po’ più oscura, e anche la testa. Sono uomini di statura piuttosto piccola, col corpo grosso, tozzo, le gambe corte, gli zigomi sporgenti, la faccia larga, il naso schiacciato, i capelli lunghi e ruvidi e la pelle giallo-bruna, coperta eternamente da uno strato di grasso di tinta indefinibile che tramanda un odore pestifero d’olio rancido e che mai si toglie. La loro bocca è grande, armata di denti solidi come quelli delle fiere, la loro barba rada assai, le loro mani ed i loro piedi sono piccolissimi e la loro testa non è proporzionata al loro corpo. Nondimeno sono robusti e dotati d’una forza ragguardevole. Per questi caratteri sono stati posti nella razza gialla o mongolica, ma sottoposti all’influenza di quei climi rigidi, devono aver subìto delle notevoli modificazioni. La loro lingua, che chiamasi karalit, è molto variata. Certi indigeni delle isole nord americane non riuscirebbero a farsi comprendere dai loro fratelli della Groenlandia, quantunque si riconosca in quei diversi dialetti un’origine comune. È d’altronde una lingua povera, ricca solamente nella forma di coniugazione e dominata da suoni duri e aspri. Vivendo quei popoli in regioni di perpetua sterilità, prive di grandi vegetali e dove la breve durata dell’estate non permette alla terra di produrre alcuna pianta nutritiva, essi traggono dal regno animale tutti i loro mezzi per nutrirsi, vestirsi e anche per navigare. Valenti cacciatori, e altrettanto abili pescatori, con semplici lance che hanno per lo più la punta d’osso ben affilata, uccidono orsi bianchi, renne, foche, morse, narvali e osano perfino assalire le enormi balene. Con certe reti fatte con sottili strisce di cuoio appese a dei lunghi bastoni, riescono anche a prendere gli uccelli che attraversano le gole. Soprattutto è la foca che fornisce all’esquimese quanto gli è di più necessario, cioè il nutrimento, il vestito, la luce, il letto e perfino i vetri da porre nella sua capanna di ghiaccio, vetri per modo di dire, poichè sono costituiti dal ventricolo di quegli anfibi, molto sottile e trasparente. Con le pelli delle foche si fabbrica calzoni e casacche, copre le sue barchette chiamate kayaks, rendendole impermeabili, coll’olio riempie la sua lampada di pietra, con le ossa si fabbrica manichi di coltelli. Le armi di questi uomini sono affatto primitive, eppure non sono meno micidiali. Hanno coltelli, lance, dardi con le punte di pietra o d’avorio e archi di corna di bue muschiato o di fanoni di balena, con frecce dalla punta d’osso. Munito di queste armi, l’esquimese non teme la grossa selvaggina. S’imbarca sul suo canotto, s’affida audacemente alle onde e va ad assalire i mammiferi che sono numerosi nelle sue regioni. Nell’inverno, quando il mare è gelato, si pone in agguato, per intere giornate, presso i crepacci, insensibile ai morsi del freddo intenso, alle bufere di neve, ai venti nordici, aspettando pazientemente che le foche o le morse vengano alla superficie a respirare per ramponarle. L’inverno può essere lungo, ma il paziente cacciatore non mancherà di cibo. D’altronde tutto è buono per lui: l’olio di foca, così nauseante, la volpe, il lupo, il pesce putrido, il grasso di balena, la carne cruda, perfino gl’intestini ed il sangue degli animali. È vorace, ma anche previdente e quando ha la fortuna di fare una pesca od una caccia abbondante, la mette in serbo pei tempi peggiori, conservando la carne entro il grasso gelato delle foche. Nella costruzione delle loro abitazioni, questi figli del freddo spiegano un’abilità straordinaria. Secondo la regione in cui si trovano e secondo i materiali che hanno a loro portata, elevano delle abitazioni comode che li proteggono efficacemente. Nell’estate non hanno che delle tende o delle capannucce; d’inverno invece si riparano entro cupole di neve e di ghiaccio che non hanno più di tre metri di elevazione, con una porta strettissima. Una lampada che arde continuamente, basta a riscaldare quei piccoli ambienti e la temperatura là dentro è tollerabilissima, anche per chi non è abituato a quei freddi. Ma che profumi entro quelle casette! Ben pochi europei potrebbero resistere a quegli acuti odori di carne corrotta, d’olio rancido e di ammoniaca. In fatto di pulizia, gli esquimesi lasciano molto a desiderare. Nascono e muoiono senza lavarsi una sola volta. Tutt’al più vengono lavati, quando sono piccini, dalla lingua della loro madre! Brave madri del resto, che hanno molta cura dei loro piccini, che spingono la loro affezione fino a mangiare certi insetti che pullulano fra le arruffate capigliature di quei monelli ed a provvederli d’occhi di foca che divorano con grande appetito, convinti che la loro vista avrà molto da guadagnare. Brave madri che spingono la loro affezione fino ad allattare i loro figli fino ai dodici e talvolta persino ai quindici anni! Eppure questi esseri si reputano felici e sdegnano gli agi delle città europee. Trasportati alcuni a Londra, incredibile a dirsi, deperirono a tale punto da doverli ricondurre fra i loro ghiacci per non vederli morire! Tutte queste tribù, disperse fra le isole polari, non hanno stabile dimora, eccettuate quelle che si trovano nelle colonie danesi della Groenlandia. Quando la selvaggina diventa rara, emigrano su altre coste, risalendo per lo più verso il nord. Alcune si sono spinte così innanzi, da vivere in un perfetto isolamento. Il capitano Ross, della marina britannica, durante il suo viaggio polare ne ha trovata una al 78° di latitudine boreale. Quel gruppetto di famiglie, da secoli e secoli viveva in un perfetto isolamento e si credeva l’unico popolo del mondo, la cui estensione per quegli abitanti era limitata ai banchi di ghiaccio che li circondavano! Capitolo III Il mar Bianco Nel mar Bianco pochi ghiacci friabili, che non possono opporre la menoma resistenza. Il tempo è oscuro: le nubi che coprono la vôlta celeste dànno un senso di tristezza indefinito e tingono di grigio le acque del mare, con dei riflessi color dell’acciaio; ma il vento è buono e le onde che scendono dall’Artico non hanno la violenza che acquistano nelle burrasche. La Stella Polare s’avanza arditamente, coi flocchi e le gabbie al vento, mentre la macchina, ancora accesa, mugge sordamente, facendo gemere i fianchi di legno dell’antica baleniera. S. A. R. sulla tolda, guarda attentamente verso il nord; sembra che cerchi i ghiacci coi quali è ansioso di misurarsi. I suoi ufficiali gli stanno accanto, interrogando l’orizzonte coi cannocchiali. Anch’essi cercano i fantasmi bianchi della regione artica. A prora e a poppa, i marinai norvegesi, mescolati alle guide alpine ed ai due marinai italiani, chiacchierano e discutono animatamente. – Quando si giungerà alla Terra di Francesco Giuseppe? – Questa è la domanda che corre su tutte le bocche. Cardenti giura che vi giungeranno in quattro bordate a dispetto dei ghiacci; Canepa, più calmo, più riflessivo, prolunga quelle bordate alla durata d’una settimana, se tutto andrà bene. Andresen, il cicerone dell’equipaggio, li ascolta, li guarda e sorride. – Tu che sei stato ancora laggiù, di’ qualche cosa. – disse Olanssen, il carpentiere. – Questa Terra di Francesco Giuseppe non sarà già al polo? – Tutto dipende dai ghiacci, miei cari, – rispose il giovane nostromo. – Credete voi che non se ne debba incontrare? Certi anni anche in pieno luglio se ne trovano in gran numero molto prima di giungere alla Terra di Francesco Giuseppe. Conoscete voi la storia della Fraya? – Non so che cosa sia, – disse Olanssen. – Ve la racconterò più tardi, quando giungeremo in vista della Nuova Zembla. – E cosa c’entra quella nave con noi? – chiese Torgrinsen, il secondo macchinista. – Perchè è stata presa dai ghiacci sulle coste di quelle isole e vi assicuro che l’inverno non era ancora sopraggiunto. – Tu dunque credi che i ghiacci ci arresteranno prima di giungere all’arcipelago Francesco Giuseppe? – chiese Olanssen. – Io non dico questo. Da una parte o dall’altra, la Stella Polare passerà, non dubitate. S. A. R. non è uomo da dare indietro ed il capitano Evensen non è un marinaio da aver paura dei ghiacci. – In conclusione quando credi che giungeremo al Capo Flora? – domandò il carpentiere. – In una diecina di giorni se il tempo si mantiene buono e se Dio ci aiuta, – rispose il nostromo. – Tu conosci quelle terre? – Vi sono stato più volte. – Come sono? – Splendide in estate, orribili d’inverno. – Troveremo orsi bianchi? – chiese il secondo macchinista. – Ve ne sono molti. – E foche? – Non mancano. – Allora faremo delle grandi cacce. Vi è nessuna baleniera su quelle coste? – Forse incontreremo la Cappella, partita qualche mese prima di noi per rintracciare una spedizione americana. – Quale? – Quella di Wellmann. – Ne ho sentito parlare, – disse il carpentiere. – Si dice che quella spedizione avesse l’intenzione di spingersi verso il polo. – È già il secondo tentativo che fa il signor Wellmann, ma dubito che vi riesca. Ad ogni modo, se non è morto, lo incontreremo di certo. – Si sa dove ha passato l’inverno? – Al capo Tegetthoff sembra, – rispose il nostromo. – E noi lo passeremo? – chiese il secondo macchinista. – Oh!... A questo penserà il Duca. – E che cosa faremo al Capo Flora? – Al Capo si farà un deposito di viveri, poi avanti verso il nord. È lassù che si vuole andare e vivaddio, tutti noi faremo il possibile per arrivarci. – Mentre l’equipaggio chiacchierava, la Stella Polare continuava la sua corsa verso il nord, aiutandosi con le vele e col vapore. Il tempo si manteneva grigio, plumbeo, coperto da alti nebbioni, però una calma quasi completa regnava nelle alte sfere. Qualche ondata di quando in quando veniva a rompersi sulla prora della nave, frangendo dei ghiacciuoli poco consistenti e la sollevava bruscamente con poco piacere delle guide alpine, nemiche giurate dell’infido elemento. Numerosi uccelli marini venivano di tratto in tratto a volteggiare sopra l’alberatura, salutando i naviganti con strida gioconde e senza manifestare nessuna apprensione. Alcuni si posavano perfino sui pennoni, guardando tranquillamente i marinai, poi riprendevano il loro veloce volo, radendo le onde o tuffandosi fra la spuma per pescare i granchiolini di mare. Erano sempre i soliti gabbiani e le solite procellarie, volatili che s’incontrano anche a delle distanze incredibili dalle coste. L’orizzonte appariva deserto. Solamente una nave, che fu riconosciuta per inglese, fumava verso il nord-ovest, in rotta per Arcangelo. L’indomani, la Stella Polare, sempre favorita dal tempo tranquillo, imboccava lo stretto della penisola di Kola facendo rotta verso quella di Kanin, terra che si protende verso il nord per molte diecine di miglia e che ha vagamente la forma di un dente. Anche là numerosissimi uccelli marini, mescolati a non poche oche bernide, a gazze marine ed a labbi. Fra le onde invece qualche narvalo e presso la costa qualche foca sdraiata fra le rocce. Il 14 luglio la Stella Polare doppiava la penisola di Kanin salutando l’ultima terra europea. Infatti al di là non doveva incontrare più nessuna costa del vecchio continente, eccettuate le due isole della Nuova Zembla. Entrava allora nell’ampio mare di Barentz che bagna contemporaneamente le isole summenzionate, quelle dello Spitzbergen e la Terra di Francesco Giuseppe, campo di pescatori di balene, essendo ancora numerosi quei cetacei, non ostante le cacce secolari continuate, con feroce accanimento dagli inglesi, dai danesi, norvegesi e dagli olandesi. Un tempo quel vasto bacino era frequentato da un gran numero di velieri, ma ora è percorso solamente da poche baleniere. I cetacei, troppo perseguitati, si sono ritirati più al nord, cercando un asilo più sicuro fra i campi di ghiaccio del polo. Trecent’anni or sono, una vera lotta si era impegnata in questo mare, ora così poco frequentato, fra gli olandesi, gli inglesi ed i norvegesi, per avere il monopolio della pesca delle balene. Intere flotte salpavano, in quei tempi, per i mari Artici per dare la caccia a quei giganti del mare. Le isole dello Spitzbergen erano allora forse più note del giorno d’oggi, e così pure le coste della Siberia. Si narra che dal 1696 al 1722 furono impiegati dagli olandesi l’enorme numero di cinquemila e ottocento vascelli, catturando trentamila e novecento balene. Fu la distruzione della balena franca, chiamata dagli inglesi black-wale. Questa specie si crede che ormai sia se non scomparsa, prossima a scomparire. Infatti dal 1840 non fu possibile incontrarne più una in quel mare. In quelle epoche, fortunate per le nazioni marinaresche, vi erano perfino degli stabilimenti nello Spitzbergen, all’isola Cherie, a Juan Mayen, posseduti da tedeschi di Brema e d’Amburgo, da olandesi, da francesi, da danesi, da russi e perfino da spagnuoli. Si fondeva il grasso delle foche, allora numerosissime, delle morse, delle balene, si preparavano le pelli degli orsi bianchi, delle renne, delle volpi azzurre, delle lontre marine. Potenti società si erano costituite all’uopo, le quali mandavano marinai, cacciatori e pescatori, ma dopo il 1750 decaddero. Scomparse le balene, diminuite le foche e le lontre, a poco a poco le società si sciolsero, le navi divennero più rade finchè cessarono del tutto dal frequentare quei paraggi, che avevano insanguinati per oltre duecento anni. Oggi, solo poche navi baleniere, quasi tutte norvegesi, frequentano il mare di Barentz, occupate a distruggere quel poco che hanno lasciato quelle potenti flotte. Il giorno seguente la Stella Polare, che aveva messo definitivamente la prora al nord, avvistava Colguev, isola perduta fra la costa russa e la Nuova Zembla, tutta rocce e nevi, frequentata soltanto da pochi pescatori russi, i quali vanno a cacciare le ultime foche. Due giorni dopo la Stella Polare si trovava attraverso la Nuova Zembla, vasta terra divisa in due isole, che serve di barriera al mar di Kara. Essa è divisa in due dallo stretto di Matokin ed è separata dalla costa russa da quello di Jugor, il quale bagna le coste d’una terza isola, di gran lunga minore delle due prime e che si chiama Vaigatz. Questa terra è inospitale, poco nota, disabitata, non essendo visitata che dai pescatori di foche, i quali vi soggiornano il meno possibile, in causa del freddo eccessivo che vi regna e della furia del vento polare. Quantunque così vicina alle coste russe, in novembre il termometro scende perfino a 32° sotto lo zero nei pressi della baia di Seichelen e nel luglio a malapena risale a +5°. È assai montuosa, con spiagge dirupate, composte di michaschisto e di malachite, e ricca di selvaggina. Non mancano nè orsi, nè renne, nè lupi, nè volpi, ma la sua vegetazione è poverissima, essendo limitata a soli licheni e muschi. – Andresen, – disse il carpentiere, accostandosi al giovane nostromo, il quale con un cannocchiale osservava attentamente le coste. – Mi pare che la Nuova Zembla sia in vista. La scorgi tu? – Non sono ancora diventato cieco, amico, – rispose Andresen. – E la Fraya, la vedi? – La Fraya?... – Ci avevi promesso una certa storia a proposito di quella nave. È vero Torgrinsen? – Verissimo, lo ricordo anch’io, – rispose il secondo macchinista, ridendo. – Io finirò col diventare il narratore di bordo, – disse Andresen. – Una carica da aggiungere a quella di nostromo, – seguitò Torgrinsen. – Infruttifera però. – Ti pagheremo una bottiglia. – Vada per la bottiglia. È così eccellente quel vino d’Italia! – Girò intorno gli sguardi, osservando attentamente le velature, guardò il Duca che stava facendo delle osservazioni assieme ai suoi ufficiali, poi disse: – Lasciate che accenda la pipa e preparatevi a rabbrividire. La storia della Fraya è una delle più tremende ed è anche una delle più recenti. – In quell’istante si udì il capitano Evensen gridare: – Ghiacci a babordo! – Il giovane nostromo piantò in asso il carpentiere ed il secondo macchinista e si precipitò a prora, dicendo: – A più tardi la Fraya. Pensiamo a noi, per ora. – Al grido del capitano tutti erano saliti in coperta issandosi sulle murate per meglio vedere quei primi messaggeri delle regioni polari. Anche le guide, quantunque abituate ai ghiacci delle loro eccelse montagne, erano accorse salendo sul castello di prora. S. A. R. ed i suoi ufficiali vi erano già. Non si trattava di un vero campo di ghiaccio, nè di un ice-berg. Era una flottiglia di hummoks, ossia di montagnole di pochi metri, staccatesi da qualche palk e che andavano lentamente alla deriva, urtandosi rumorosamente tra loro. Ve n’era almeno un centinaio, tutte di poca elevazione e di debole resistenza, assolutamente incapaci di opporre qualsiasi ostacolo all’avanzarsi della nave. – Sono questi i famosi monti di ghiaccio? – chiese Cardenti, con disprezzo. – Andresen, – disse Hansen, il velaio. – Se le barriere di ghiaccio che circondano le terre artiche sono come queste, noi andremo molto lontano, mio caro. Le tue paure mi pare purtroppo che siano esagerate. – Non correre tanto, velaio, – rispose il nostromo. – Domanda al signor Stökken, che non è al suo primo viaggio, cosa ne pensa. – Questi hummoks non sono che le avanguardie delle vere montagne, – rispose il primo macchinista. – Quando saliremo più al nord, vedrai dei massi di ghiaccio che ti faranno impallidire. – Vere montagne, avete detto?... – E di dimensioni enormi, mio caro Hansen. – È vero signore? – chiese la guida Ollier, che aveva compreso, volgendosi verso il tenente Querini che gli si trovava a fianco, intento a osservare i ghiacci. – Il signor Stökken ha ragione, – rispose l’ufficiale, il quale, al pari degli altri, cominciava a capire un po’ la lingua norvegese. – Più al nord noi troveremo un numero infinito di montagne galleggianti. – La cosa mi sembra molto strana, signore, – disse la guida. – E perchè, mio bravo Ollier? – Che vi siano dei banchi di ghiaccio, immensi finchè si vuole, lo comprendo; ma non so spiegarmi come in pieno mare si possano formare delle montagne. Forse che sono onde gelate istantaneamente? – Credete voi che vi possano essere delle onde alte quattro o cinquecento metri? – chiese il tenente, sorridendo. – Sappiate, innanzi tutto, che ordinariamente le onde non hanno, anche durante le grandi tempeste, che una elevazione di undici a tredici metri. Solo al Capo Horn se ne sono osservate di quelle che toccavano i trenta metri, ma sono eccezioni. – Allora come spiegate la formazione di montagne di ghiaccio d’una simile altezza? – chiese Ollier, che non riusciva a raccapezzarsi. – Nelle vostre montagne non vi sono dei ghiacciai? – Sì, signor tenente, ed in gran numero. – Ebbene, anche nelle terre polari ve ne sono e forse più immensi, poiché se ne sono veduti di quelli che misuravano perfino cento chilometri di larghezza, specialmente nella Groenlandia. – Altro che quelli delle nostre Alpi!... – esclamò la guida. – Sono quei fiumi di ghiaccio che vomitano in mare quelle enormi montagne, che poi le correnti ed i venti spingono verso il sud. Ghiacciai ve ne sono un po’ dappertutto: allo Spitzbergen, alla Nuova Zembla, alla Terra di Francesco Giuseppe, in Groenlandia e sulle isole siberiane, senza contare quelli che vi sono sulle isole settentrionali dell’America. – E queste montagne di ghiaccio scendono tutte verso il sud? – No, girano attorno al polo, andando da oriente ad occidente. – Credete che vi siano altre terre verso il polo, oltre quelle scoperte? – Lo si suppone. I geografi ed i naviganti credono che intorno al polo si estenda una vasta terra, la quale separerebbe il bacino polare in due parti distinte, di cui una, l’europea-asiatica, sarebbe stata toccata dal Fram di Nansen e l’altra, più isolata, più fredda, coperta di ghiacci più spessi, si estenderebbe al nord dell’America. – Sicché intorno al polo, durante l’inverno non si avrebbe una medesima temperatura. – No, e la regione più gelida si troverebbe verso le isole dell’America settentrionale, nell’arcipelago di Parry. – Credete, signor tenente, che questi ghiacci abbiano qualche influenza sui nostri inverni? – Certamente, – rispose l’ufficiale. – Dalla maggiore o minor quantità di ghiacci che scendono dal nord, dipendono i nostri inverni, dolci quando i ghiacci sono pochi, rigorosi quando sono abbondanti. Al di sopra di queste distese di ghiaccio, che coprono una superficie più o meno grande dell’oceano, riposa uno strato d’aria fredda, reso pesante da quel freddo stesso che s’abbassa sulla crosta gelata, come uno sciroppo più pesante che cade e riposa in fondo ad un bicchiere. I venti marini agitano e spingono questa massa d’aria fredda, strappandola dal suo letto di ghiaccio e mandandola a raffreddare l’Europa, l’Asia e la Siberia. Quelle correnti gelate, al contatto coll’aria tiepida dell’Atlantico e del Pacifico condensano l’umidità, e formano le piogge, le nebbie e fanno turbinare le tempeste. – Sicchè senza i ghiacci del polo nord, l’Europa potrebbe godere, anche l’inverno, una temperatura più mite. – E non avrebbe che rare nebbie e rarissimi uragani, mio caro Ollier.– Capitolo IV Il naufragio della «Fraya» Mentre la Stella Polare continuava la sua corsa verso il nord, sfondando, di quando in quando, qualche fila di hummoks, che si trovavano attraverso la sua prora, Torgrinsen, il secondo macchinista ed il velaio, ai quali si era anche unito il carpentiere, avevano abbordato Andresen, che dal castello di prora osservava il mare. – È qui è vero che questa famosa Fraya è colata a picco? – chiese il secondo macchinista. – No, più al nord, – rispose il giovane nostromo, ridendo. – Più al nord o più al sud, questa volta ci narrerai la storia. L’ora del pranzo è ancora lontana e pel momento la Stella Polare non ha bisogno di te, – disse il velaio di Laurvik. – Tanto v’interessa? – Sfido io!... Pensa che forse egual sorte può toccare anche a noi. – Andresen caricò diligentemente la pipa, diede un altro sguardo alla velatura, poi soddisfatto da quell’esame, si sedette sulla murata, a cavalcioni dell’estremità del bompresso, dicendo: – Allora uditemi. – Storia vera? – interruppe Torgrinsen, ammiccando gli occhi. – Tutti i giornali della Norvegia e della Russia l’hanno riportata e un mio carissimo amico si trovava a bordo di quel legno. – Come si chiamava? – Otto Olsen, uno degli eroi di quel disgraziato equipaggio. Anche S. A. R. il duca, che conosce tutte le storie polari, sono certo conosce la storia della Fraya. – Udiamo!... Udiamo!... – esclamarono parecchi marinai che avevano fatto circolo attorno al nostromo. – Il naufragio che sto per narrarvi, è avvenuto nel 1872, a non molte miglia da qui. La Fraya era una bella e solida nave da pesca, destinata alla caccia delle foche, delle morse e degli orsi bianchi, ed era comandata dal capitano Tobiesen, un nostro compatriotta, vero marinaio, che aveva già fatto numerosi viaggi in questi paraggi. Partita verso la fine di maggio, aveva raggiunte felicemente le coste settentrionali della Nuova Zembla raccogliendo molte foche e molti trichechi, mammiferi che erano ancora numerosi in quell’epoca. Già ben carica di olio e di pelli, si disponeva a tornarsene in Norvegia, quando un brutto giorno si trova circondata dai ghiacci. Aveva banchi dinanzi, montagne di ghiaccio a babordo ed a tribordo e la costa a poppa. Tutti gli sforzi tentati dall’equipaggio riescono vani e la povera nave viene bloccata strettamente da tutte le parti e trascinata verso la costa. Come voi saprete, ordinariamente le navi da pesca non fanno grandi provviste, tornando in patria al principio dei primi freddi. Il capitano Tobiesen aveva fatto, per sua disgrazia, altrettanto, sicchè quando si fece l’inventario dei viveri che erano ancora a bordo, si constatò che erano appena sufficienti per nutrire quattro uomini per tutta la durata dell’inverno. La situazione era terribile, poichè le coste della Nuova Zembla non potevano offrire che meschine risorse durante i freddi intensi della stagione invernale. Sulla Fraya vi erano undici persone, fra le quali il figlio del capitano. La morte dunque si presentava certa, non avendo che così poche provviste. Fu allora che il mio amico Olsen ed Enric Nielsen, due bravi marinai, si fecero innanzi dichiarando che non avrebbero mai acconsentito a privare il capitano e suo figlio dei pochi viveri che restavano a bordo e che avevano deciso di imbarcarsi su una scialuppa e di andare alla ventura. Gli altri, incoraggiati da quel nobile esempio, vollero condividere le peripezie a cui andavano incontro quei due bravi e risolsero di lasciare la nave per andare a cercare aiuto fra i samoiedi. Il luogotenente ed il cuoco rimasero col capitano, gli altri sette s’imbarcarono su una piccola scialuppa attrezzata a cutter, munita di traverse per poterla far scivolare sui ghiacci, presero pochi viveri e partirono seguendo le spiagge della Nuova Zembla. Oltre le poche provvigioni avevano preso anche due fucili con non molte cariche, un’ascia, una marmitta, un cannocchiale e una bussola. Avevano da percorrere la bagattella di trecento e più leghe, prima di toccare le coste russe e non avevano che quattordici biscotti, un po’ di melazzo, del the e poca carne d’orso bianco gelata. Pure partono fidenti nella loro buona stella, attraversano i banchi di ghiaccio, e trovato il mare libero gettano in acqua la loro scialuppa. Due giorni dopo quei disgraziati sono alle prese con la fame, ma non si arrestano. Erano entrati in un canale aperto fra la costa ed i banchi di ghiaccio, un canale che pareva non dovesse finire mai e dove non si vedevano nè foche, nè trichechi, nè orsi bianchi. Perfino gli uccelli mancavano. Già si credevano votati alla più atroce fine, quando il marinaio Nielsen che interrogava l’orizzonte col cannocchiale, riuscì a scoprire un orso bianco. L’animale stava sdraiato su d’un banco di ghiaccio, presso un crepaccio e spiava la comparsa di qualche foca. Nielsen e Olsen sbarcano raccomandando ai compagni di non lasciare la scialuppa e s’avanzano fra i ghiacci per sorprendere quella preda che per loro rappresentava la salvezza. Strisciano in silenzio, nascondendosi dietro gli hummoks, dietro i massi di ghiaccio, superando crepacci in fondo ai quali mugge l’acqua marina, e riescono a raggiungerlo proprio nel momento in cui l’astuto animale afferrava la foca che spiava da parecchie ore, soffocandola fra le villose zampacce. I due cacciatori non perdono tempo; mirano con la coscienza di uomini affamati e uccidono, con due palle bene aggiustate, quel re dei mari polari. Quelle prede ebbero un risultato doppiamente fortunato; da una parte procurarono ai naufraghi un nutrimento sostanzioso, senza il quale sarebbero certamente periti di fame, dall’altra rivelarono loro un mezzo di caccia che potevano utilizzare, spiando, come aveva fatto l’orso, l’uscita delle foche dai loro buchi. I marinai, dopo quella fortunata cattura, riprendevano la navigazione con un tempo burrascosissimo ed un vento così violento che sollevava turbini di neve dai banchi di ghiaccio. Sfidando parecchie tempeste e marciando sovente lungo le coste per salvare la loro scialuppa, s’avanzano verso il sud senza saper esattamente dove vanno e senza nemmeno poter apprezzare in modo preciso il tempo, giacché non avevano alcun calendario. Dopo alcune settimane essi si trovavano ancora alle prese con la fame. Non avevano più ucciso alcun animale e non avevano nemmeno incontrato un volatile su quelle coste desolate. Quando Dio volle, riescono finalmente a toccare le rive meridionali della seconda isola. Uno di loro scorge due ammassi di neve che rassomigliano vagamente a delle capanne. Approdano, mettono in salvo il battello per impedire ai ghiacci di stritolarlo, si trascinano fra le nevi ed i ghiacci e riescono a scoprire infatti due capanne, ma erano vuote e deserte. Più tardi seppero che erano state costruite da due russi recatisi colà a cacciare durante l’estate. Impotenti a tirare innanzi, sia pel freddo intenso, sia per la fame, che li aveva estremamente indeboliti, risolvono di fermarsi per dar tempo ai più ammalati di rimettersi in forze. Olsen e Nielsen, che erano i migliori cacciatori, battono intanto i dintorni per cercare della selvaggina e sono così fortunati da uccidere prima una foca, poi due volpi azzurre e più tardi quattro renne. Questi ultimi animali appartenevano ai due russi che avevano passato colà la buona stagione. Quelle povere bestie, vedendo degli esseri umani, credettero che fossero i loro padroni e si accostarono alle capanne senza diffidenza, permettendo così ai marinai di ucciderle facilmente. Per alcune settimane l’abbondanza regnò nel campo, poi i viveri tornarono a mancare. Non trovando altra selvaggina, i sette marinai stabiliscono di spingersi più al sud. Lasciano la scialuppa diventata ormai inutile, s’impadroniscono di una piccola slitta abbandonata dai russi, attraversano lo stretto di Kara, allora gelato, e passano sull’isola di Vaigatz. Questa seconda parte del viaggio fu ancora più penosa della prima, giacchè quei disgraziati, torturati dal freddo e dalla fame, si trovarono continuamente avvolti fra uragani di neve così violenti da impedire la marcia. Un giorno Olsen e Nielsen, partiti per la caccia, si smarriscono fra quei deserti di neve. Cercano di raggiungere i compagni ed invece se ne allontanano sempre più. Disgraziatamente i loro cinque compagni, convinti che i due cacciatori fossero periti, dopo aver tenuto un breve consiglio, avevano deciso di continuare la marcia. Di qui l’impossibilità di poterli trovare. Olsen e Nielsen, quantunque sfiniti, non si perdono d’animo. Deliberano di far ritorno alle due capanne dei russi e attendervi colà la buona stagione. Per quattro giorni marciano in mezzo ai turbini di neve, vivendo con una libbra di carne, poi Olsen cade sfinito al suolo. Il suo compagno che non se ne è accorto, si trascina sempre più innanzi finchè arriva alle capanne. Accende il fuoco, arrostisce l’ultimo boccone di carne che gli rimane, poi cade svenuto presso la fiamma. Intanto Olsen, dopo lunghi sforzi, era riuscito, a sollevarsi. Mastica la pelle di foca che gli serve da coperta e che era ancora sanguinolenta, poi si trascina a sua volta verso le capanne, ma le forze lo tradiscono un’altra volta e va a ricoverarsi sotto la scialuppa che avevano abbandonata in quel luogo. I due disgraziati non si risvegliarono che all’indomani. Convinti che i loro compagni fossero morti, presero possesso delle due capanne. Il freddo era intenso e gli uragani si succedevano con una frequenza spaventosa, impedendo ai due marinai di percorrere i dintorni. Sarebbero morti indubbiamente di fame se Olsen non avesse avuto l’idea di frugare la neve che attorniava le capanne. Trovarono colà dei brani di carne, delle ossa e dei visceri di renna che i russi avevano gettati via e che il freddo, bene o male, aveva conservati. Con quelle nauseanti provviste tirarono innanzi fino al giorno in cui ebbero la fortuna di uccidere una renna, ma quasi il destino avesse voluto infierire in tutti i modi contro quei disgraziati, s’accorgono di non aver nemmeno uno zolfanello per accendere il fuoco. Fu ancora il mio amico che provvide alla salvezza d’entrambi con una felice ispirazione. Strappa dalla barca un po’ di corda, la sfilaccia, ne fa quindi uno stoppaccio che pone su della polvere. Ecco ottenuto il fuoco che conservano gelosamente per tutto l’inverno, adoperando il legname di una delle due capanne. Giunto finalmente l’aprile, i due marinai lasciavano per sempre la capanna che li aveva ricoverati durante la paurosa notte polare, e scendono lungo le coste meridionali della Nuova Zembla. Non avevano che tre cariche di polvere e pochissimi viveri. Alcuni giorni dopo scoprivano alcune capanne. S’avanzano in quella direzione e cadono fra le braccia dei loro compagni che avevano pianti per morti. – Quali? – chiese Torgrinsen. – Quelli che avevano continuato la marcia, credendo che i due cacciatori fossero stati uccisi dall’uragano di neve, – rispose Andresen. – Si erano dunque salvati? – Avevano avuto questa fortuna. Come dissi, non si erano arrestati per attendere Olsen e Nielsen. Quantunque non avessero armi da fuoco e fossero quasi a secco di viveri, avevano continuato a seguire le coste, ritornando verso la Nuova Zembla. Di notte, per ripararsi dal freddo, così mi fu raccontato, erano costretti a scavarsi delle buche e cacciarsi in mezzo alla neve. Dopo sei giorni erano rimasti senza viveri. Al settimo uno di loro cadde morto di stenti e di freddo. Quei miseri si sentirono allora invadere dalla disperazione. Erano affamati, intirizziti dal freddo, ammalati e sfiniti. Non pensarono nemmeno a seppellire il loro compagno. Abbandonarono la slitta che non erano più capaci di trascinare e la maggior parte dei loro oggetti e fuggirono verso il sud. Dopo quattordici miglia cadevano tutti al suolo. Si erano già rassegnati ad attendere la morte, allorquando uno di essi, che si era un po’ allontanato, tornò presso i compagni annunciando di aver scoperto della legna e le tracce d’una slitta. Quelle liete notizie danno un po’ di vigore a quei disgraziati. Accendono il fuoco, si riscaldano, poi due di loro partono per cercare qualche capanna. Poco dopo essi venivano ricoverati da alcune famiglie di samoiedi che si erano stabilite su quella terra desolata. Quelle povere genti si recarono tosto in cerca degli altri e li portarono alle proprie capanne, prodigando loro le più affettuose cure. Quei sei marinai, così miracolosamente salvati, passarono parte della primavera fra i samoiedi, poi costruitasi una scialuppa poterono raggiungere l’isola di Vaigatz, dove poi i russi li rimpatriarono. – E del capitano Tobiesen, cosa accadde? – domandò il carpentiere. – Il governo norvegese, avvertito del caso disgraziato, mandò una nave a cercarlo, ma tutte le indagini riuscirono vane. La Fraya ed i suoi disgraziati marinai erano stati, probabilmente, inghiottiti dall’Oceano Polare. – Capitolo V Nei paraggi dello Spitzbergen Il 17 luglio il tempo, che fino allora si era mantenuto bensì quasi sempre coperto, ma relativamente calmo, cominciò a cambiarsi. Una densa nebbia volteggiava in alto, turbinando, mentre dal settentrione soffiavano, di quando in quando, delle poderose folate di vento, delle vere raffiche freddissime. Larghe ondate, con le creste irte di candida spuma, rotolavano fragorosamente, rompendosi impetuosamente contro la nave. Venivano dalla parte dello Spitzbergen, le une dietro alle altre, accennando ad aumentare. Alcuni ghiacciuoli danzavano disordinatamente ora sulle creste ed ora negli avvallamenti. La Stella Polare, scossa vigorosamente, trabalzava, poi ricadeva pesantemente sollevando larghi sprazzi d’acqua. Le sue vele sbattevano fortemente scrollando i pennoni, mentre per la coperta rotolavano le corcome di canapa. Le cabine erano in soqquadro. Le sedie cadevano, i quadri si spostavano, i mobili oscillavano percuotendo le pareti, e le casse e cassette danzavano disordinatamente. Fra i muggiti delle onde si udivano, ad intervalli, i lamentosi guaiti dei cani. Le povere bestie, non abituate a quegli scrollii incessanti, si lagnavano e se la prendevano gli uni cogli altri, mordendosi a sangue. Le guide, non ancora abituate alle onde, quantunque avessero già compiuta due anni prima la traversata dell’Atlantico, non avevano osato restare molto sul ponte; chi più chi meno cominciavano a soffrire i primi sintomi del mal di mare, accompagnati da certi sforzi che allagavano, a poco a poco, le cabine. S. A. R. il duca, Cagni ed il capitano Evensen, si tenevano invece sul cassero non ostante i frequenti trabalzi che subiva la Stella Polare. Coi cannocchiali scrutavano il fosco orizzonte, presentendo già la vicinanza di ghiacci ben maggiori dei palks e degli streams che rotolavano le onde. Sul cielo, assai cupo, si distingueva ad intervalli una luce bianchissima, quel chiarore che proiettano i banchi di ghiaccio. – È l’ice-blink, – disse Andresen al velaio, che lo interrogava. – E indica la presenza di grossi ghiacci, – aggiunse il tenente Querini, che già cominciava a comprendere il norvegese. – Così presto? – chiese il velaio. – Potete dire così tardi, – rispose il giovane nostromo. – Gli anni scorsi, in quest’epoca, non si poteva sempre avanzare. La Stella Polare ha avuto una bella fortuna finora. – Saranno banchi molto vasti?... – Piccoli no di certo, mio caro. Domani la Stella Polare proverà la resistenza del suo scafo. – Credete che siano tali da arrestare la nostra corsa? – chiese il tenente Querini. – Non mi sorprenderei, signore. Tuttavia troveremo qualche passaggio, sia più all’est o più all’ovest. – Eppure ci troviamo ancora lontani dalla Terra di Francesco Giuseppe. – Quattro o cinque giorni di navigazione, se questa tempesta non ci caccia fuori dalla rotta. – Conoscete il Capo Flora? – Sì, signor tenente. – Nansen ne ha dato una descrizione stupenda. È realmente pittoresco? – Splendido, signore. – Credete che troveremo ancora le capanne degli inglesi e quelle di Jakson? – Le nevi non devono averle danneggiate. Non sono situate su banchi di ghiaccio, bensì a terra. – E vi troveremo ancora dei viveri? – chiese il velaio. – Ed anche armi, istrumenti scientifici, libri, carte da giuoco, ed altro. Gl’inglesi che le hanno fatte costruire, perchè servissero di rifugio ai naufraghi od agli esploratori polari, non hanno lesinato. D’altronde erano ricchi signori. Orsù, il mare non pensa di volersi calmare. La nottata non sarà troppo buona. – Nottata di luce, – disse il tenente, sorridendo. – Sì signori, – rispose il nostromo. – Si ha sempre l’abitudine di chiamarla notte, mentre ha poco da invidiare al giorno. – Come aveva ben detto il giovane nostromo, il mare, lungi dal calmarsi, tendeva a diventare sempre più cattivo. Delle raffiche freddissime, capitavano addosso alla Stella Polare, a brevi intervalli, fischiando fra i mille cordami dell’attrezzatura e urlando stranamente fra i pennoni e l’alberatura. Vi erano dei momenti di calma, ma poi le folate si succedevano con maggior frequenza e con maggior forza, facendo crepitare perfino i robusti alberi di vero pino norvegese. Le onde diventavano stranamente selvagge e avevano dei riflessi sinistri. Sferzate dalle raffiche rimbalzavano disordinatamente, si accavallavano con rabbia estrema, polverizzando le loro creste e urtavano poderosamente i fianchi della Stella Polare facendo gemere i corbetti ed i puntali della coperta. Talvolta un nembo di spuma si slanciava fino sulle murate e si rovesciava sulla tolda, sfuggendo poi a fatica dagli ombrinali. I ghiacci aumentavano sempre, però non erano ancora tali da costituire qualsiasi pericolo. Si urtavano fra di loro con cozzi violentissimi, mandando in aria schegge in gran numero; oscillavano sulle creste spumeggianti, scintillando ora come diamanti ed ora come smeraldi, poi strapiombavano negli avvallamenti. Di quando in quando qualche palk o qualche stream veniva ad infrangersi contro i fianchi della nave e la stiva risuonava con cupo rimbombo. La Stella Polare però aveva provato ben altre tempeste che quella! Vecchia navigatrice dei mari Artici, pareva che se ne ridesse della rabbia delle onde. Quantunque molto immersa per l’eccessivo carico, montava intrepidamente i marosi; scuotendosi di dosso la spuma che avvolgeva i suoi bordi, e scendeva senza tema negli avvallamenti, fendendo le acque ed i ghiacci col robusto sperone. Sul tardi le raffiche cominciarono a diventare meno frequenti e meno impetuose ed il cielo a rompersi. Fra gli strappi delle nuvole appariva ad intervalli il sole di mezzanotte, tingendo i vapori d’oro e di rame. I ghiacci, travolti dalle onde, per alcuni istanti scintillavano come masse infuocate di metallo o come una fiamma solida, poi le nubi si rinserrarono e un nebbione cominciò a distendersi sul mare, avanzando lentamente da ponente. – Soffia nebbia dallo Spitzbergen, – disse il primo macchinista al tenente Querini. – Infatti siamo all’altezza di quella terra o meglio della punta meridionale, – rispose il tenente. – Conoscete quell’arcipelago? – Sì, signore. Vi sono stato a cacciare la foca e anche la morsa. – Abbondano su quelle coste? – Se ne trovano ancora non poche, malgrado le stragi immense fatte dai nostri nonni. – È vero che ora quelle isole, ritenute quasi inaccessibili, sono molto frequentate? – Le isole dello Spitzbergen sono diventate un paese da touristes, signor tenente. Una compagnia norvegese ha costituita una linea di navigazione e si è anche costruito un albergo pei visitatori. Ne volete saper di più? Vi è perfino un ufficio postale e si sono stampati dei francobolli spitzbergensi. – Oh!... strana!... – Il comandante della nave che è incaricato di condurre a quelle isole i touristes era prima il signor Otto Sverdrup, il comandante del Fram di Nansen. – Il servizio viene fatto solamente in estate? – In giugno, nel luglio l’albergo si chiude, l’ufficiale postale si imbarca, la nave interrompe i suoi viaggi e allo Spitzbergen non rimangono che gli orsi bianchi, le foche e le morse. – Sicchè quelle isole sono assolutamente inabitabili. – D’inverno di certo, signore. Il freddo vi è eccessivo, scendendo il termometro fino a -50° e talvolta anche di più. – Eppure si direbbe che un tempo quella terra aveva un clima tropicale? – disse il capitano Evensen, prendendo parte alla conversazione. – Quelle isole, ora coperte eternamente di nevi, con ghiacciai immensi, alcuni dei quali misurano perfino tremila metri di larghezza, come quello chiamato dell’Est, un tempo, probabilmente molto remoto, erano coperte di foreste che nulla avevano da invidiare a quelle africane. – È vero, – disse il tenente Querini. – Da osservazioni recenti fatte dal signor Carlo Ribol alle isole dello Spitzbergen risulterebbe che nelle epoche cretacee, giurassiche e terziarie, quelle terre erano coperte da una flora tropicale, poi subtropicale. Quello studioso ha potuto trovare molte piante fossili, avanzi di tigli, di platani, di cipressi e le impronte lasciate fra le rocce, di foglie e perfino di frutta. – Anche nella Groenlandia si sono trovate le tracce di foreste di palme, – disse il capitano Evensen. – Come sulle coste siberiane, nelle Tundras si sono trovati avanzi di mammouth, animali che non potevano vivere che nei climi caldissimi come i loro cugini gli elefanti. – Quale strano cambiamento! – esclamò il macchinista, il quale ascoltava attentamente quella interessante descrizione. – Prima le palme tropicali ed ora i ghiacci eterni!... In seguito a quale spaventevole cataclisma è avvenuto questo cambiamento di temperatura? – Niente cataclismi, – disse il tenente Querini. – Si deve esclusivamente al raffreddamento della terra, lento sì ma costante e che continuerà senza posa. – Voi dunque credete signore, che un tempo questi mari siano stati navigabili? – Certo. – E da quando si sono coperti di ghiacci? – È impossibile stabilirne l’epoca, però non si esclude che mille anni or sono fossero più navigabili del giorno d’oggi. – È vero, – disse il capitano Evensen. – Quando i primi iscoto-danesi si spinsero alla conquista delle terre artiche, fra il 900 e il 1000, l’Oceano Artico non doveva essere ancora coperto di ghiacci così enormi come lo è oggidì. In quelle lontane epoche la Groenlandia non era ancora un deserto di ghiaccio, diversamente Erik il Rosso, non l’avrebbe chiamata Terra Verde. E poi come avrebbero potuto vivere dei buoi nella Groenlandia? Provate a portarne uno oggidì e siete certo che non camperebbe, mentre all’epoca.... – Vivevano dei buoi nella Groenlandia, in quell’epoca? – chiese Andresen. – Sì, portati nel 985 da una spedizione composta di trentacinque navi, comandata da un compagno di Erik. Allora certi tratti della Groenlandia erano ancora coltivabili e furono perciò portate molte sementi e attrezzi rurali. – E anche le spiagge del Labrador e della Nuova Scozia erano meno fredde, – disse il tenente Querini. – Per nulla furono chiamate Vinland, ossia terre del buon vino. Se le viti potevano germogliare, il freddo non doveva essere molto intenso, ammesso però che quelle terre fossero veramente il Labrador e la Nuova Scozia. – Comunque sia, si sa di positivo che in quelle lontane epoche la Groenlandia e le coste nord-americane avevano colonie fiorenti, mentre oggidì non vi sono su quei medesimi luoghi che povere tribù di esquimesi in continua lotta con la fame, – disse il capitano. – Ciò vuol dire che il clima allora era più clemente e che i grandi banchi di ghiaccio non avevano ancora cominciata la loro formidabile discesa. – E che cosa è avvenuto di quelle colonie? – chiese Andresen. – Sono misteriosamente scomparse, – rispose il capitano. – Probabilmente l’avanzarsi dei ghiacci deve aver molto influito sulla distruzione di quelle colonie. Dispersi, quei coloni si saranno fusi cogl’indigeni se invece non sono stati distrutti dagli stessi abitanti dell’America o da qualche spaventevole epidemia. – È probabile, – concluse il tenente. Capitolo VI La «Stella Polare» fra i ghiacci Dopo la mezzanotte, una densa nebbia che s’avanzava da ponente, si distese a poco a poco sul mare, avvolgendo completamente la Stella Polare. Spinta dal vento freddissimo che era passato prima sui banchi di ghiaccio del polo, si condensava a vista d’occhio, turbinando in modo strano. Ora s’alzava come un immenso velo ondeggiante; ora s’abbassava bruscamente, schiacciandosi, per modo di dire, contro la superficie del mare, lasciando fuori gli alberetti della nave, poi tornava a turbinare, addensandosi ora da una parte ed ora dall’altra. La Stella Polare aveva rallentata la sua marcia, poichè vi era la probabilità che andasse ad urtare contro qualche ice-berg che la nebbia impediva di scorgere a tempo. Tutti erano saliti sulla coperta e cercavano, ma invano, di spingere gli sguardi attraverso a quei vapori sempre crescenti. Un’umidità straordinaria regnava intorno alla nave. La nebbia, raffreddandosi, cadeva in forma di pioggia e bagnava ogni cosa. Sgocciolavano i pennoni, sgocciolavano i cordami, le vele, le vesti che indossavano i marinai. Di quando in quando in mezzo a quei vapori si udivano i cozzi sinistri dei ghiacci od il frangersi delle onde contro qualche piccolo banco. Sopra la nave passavano, come ombre, degli uccelli marini, perduti nel nebbione. Qualcuno si fermava sulla murata senza dimostrare paura alcuna della presenza dei marinai. Erano per lo più gabbiani, strolaghe e procellarie, volatili che nemmeno nell’inverno abbandonano quei climi freddissimi. La Stella Polare continuava ad avanzarsi con precauzione, fendendo il nebbione che s’addensava sempre più dinanzi ad essa. Era ancora lontana dalla Terra di Francesco Giuseppe e navigava in un mare assolutamente sgombro di scogliere, ma temeva sempre l’incontro di grandi ammassi di ghiacci. Il capitano Evensen, che aveva fatto un gran numero di campagne in quelle regioni, sentiva la presenza di quei bianchi fantasmi. – Non devono essere lontani, – rispondeva a coloro che lo interrogavano. – Ci vengono incontro. – Ad un tratto, ad avvalorare i suoi timori, si udì la voce di Andresen gridare: – Badate! L’ice-blink! – In mezzo alla nebbia, dinanzi alla prora della Stella Polare, si cominciava a discernere quella luce biancastra che riflettono i ghiacci. Tutti si erano slanciati verso prora. In mezzo ai vapori si udivano le onde muggire cupamente come se s’infrangessero contro un ostacolo e s’udivano pure dei rombi strani e degli scricchiolii. Qualche enorme massa di ghiaccio, che la nebbia impediva ancora di discernere, doveva trovarsi dinanzi alla Stella Polare. – Che sia qualche ice-berg? – chiese il tenente Querini ad Andresen. – Temo, signore, che si tratti di ben’altro! – rispose il nostromo. – D’un banco? – Sì, signor tenente. – E non potremo passare? – Forse vi sarà qualche canale ma con questa nebbia non sarà cosa facile a trovarlo. Anche scoprendone uno, chi oserebbe cacciarvisi dentro? Potrebbe essere chiuso ed intanto il ghiaccio potrebbe pure rinchiudersi attorno a noi. – Ghiacci a poppa! – gridò in quel momento un marinaio. – Ci si stringono addosso, – disse Andresen. – Che la Stella Polare debba subire la sorte del Tegetthoff di Payer? Deve essere stato imprigionato in questi paraggi. – Una viva emozione regnava a bordo, impadronendosi di tutti, anche del capitano Evensen. Si trattava della libertà della nave. Se i ghiacci si stringevano, la Stella Polare poteva venire presa e trattenuta forse per lunghi mesi e fors’anche per qualche anno come la nave di Payer. Il capitano Evensen, assieme a S. A. R. il Duca e Cagni cercavano indarno di rendersi un conto esatto del pericolo che li minacciava. Il nebbione impediva loro di poter distinguere i ghiacci. Dopo un breve consiglio, decisero di mettersi in panna e di attendere che la nebbia si alzasse. Il vento soffiava da ponente e vi era speranza che aumentando scacciasse verso levante quelle masse vaporose. Intanto Andresen aveva comandato di far portare in coperta dei buttafuori, solide aste dalla punta ferrata, che vengono adoperati per respingere i ghiacci e li aveva fatti distribuire lungo i bordi. Qualche ora dopo la Stella Polare giungeva dinanzi ad una barriera di ghiaccio, la quale scintillava stranamente fra la nebbia. Era una vera muraglia, assolutamente inattaccabile e così compatta che i poderosi speroni delle moderne corazzate a nulla avrebbero giovato. – Ci siamo, – disse Andresen al tenente Querini. – Di qui non si passa!... – E da poppa si avanzano altri ghiacci ancora!… – esclamò il tenente. – Siamo quasi prigionieri, signore. Abbiamo alle spalle alcuni ice-bergs i quali pare che abbiano un desiderio vivissimo di piombarci addosso. – Che perdano l’equilibrio? – Qui le acque non sono ancora molto fredde e fondono facilmente la base di questi massi di ghiaccio. Compromesso così l’equilibrio, un brutto momento l’ice-berg fa un mostruoso capitombolo e guai alla nave che si trova vicino!… O viene schiacciata come una nocciola o sollevata dalle punte che emergono e rovesciata. – E non si può indovinare quando quei colossi stanno per precipitare? – Sì, signor tenente. Quando dalle sommità degli ice-bergs cadono dei frammenti di ghiaccio, i quali producono sull’acqua l’effetto di quei goccioloni che precedono un temporale di primavera, è segno non dubbio che sta per avvenire il capitombolo. Si può indovinarlo osservando gli uccelli marini che nidificano fra quei massi enormi. Quando fuggono tutti mandando acute strida, la nave che si trova presso la montagna natante deve prendere il largo precipitosamente. – Udite quei goccioloni? – No, signore, – rispose Andresen. – Per ora gli ice-bergs che ci stringono da poppa non hanno alcuna intenzione di capovolgersi. – Allora tutto va bene. – Sì, pel momento, – disse il nostromo ridendo. La Stella Polare intanto manovrava in modo da non farsi cogliere fra i ghiacci che s’avanzavano da poppa e la barriera che le chiudeva la via del nord. Ora retrocedeva, ora poggiava a babordo ed ora a tribordo, sottraendosi destramente a quei bianchi fantasmi che erravano capricciosamente fra il denso nebbione. Ora si vedevano apparire scintillanti, malgrado i vapori che li attorniavano, poi scomparivano, per ritornare a mostrarsi in altra direzione. Di quando in quando s’udiva uno scroscio violentissimo seguìto da sorde detonazioni, e un’onda correva ad infrangersi contro i fianchi della Stella Polare, sollevandone bruscamente lo scafo. Era qualche ghiaccio che aveva fatto il capitombolo, fortunatamente fuori di portata della nave. Talvolta invece si udivano dei rombi che provenivano dal campo di ghiaccio, rombi che si propagavano straordinariamente fra l’umida atmosfera. Allora si vedevano confusamente fuggire bande di uccelli marini e non pochi passavano fra i cordami della nave. S. A. R., Cagni ed il capitano Evensen, non stavano un momento fermi. Passavano da poppa a prora guardando se i ghiacci si avvicinavano, e davano ad ogni istante comandi per far deviare la rotta lentissima già, della Stella Polare. Il timore di venire rinserrati dai ghiacci ed immobilizzati si leggeva sui loro volti. Però conservavano tutti un ammirabile sangue freddo e comandavano le manovre con voce calma e tranquilla. Intanto i ghiacci ora spinti dal vento ed ora portati dalle onde e dalla corrente, continuavano a girare intorno alla nave. Mentre il banco scendeva verso il sud, gli altri, come se subissero un’attrazione strana, cercavano di saldarsi al colosso. – Come la finirà?... – chiese Querini al macchinista che era salito in coperta, lasciando il comando della macchina a Torgrinsen. – Mi pare che cominci a soffiare vento da ponente, signore, – rispose Stökken. – Se dura e se si rinforza, spazzerà queste nebbie. – Sì, – disse Andresen che era vicino a loro. – Il vento ha girato e pare che prenda forza. – Che moto hanno questi ghiacci?... – chiese il tenente. – Da levante a ponente, signore, – disse il capitano Evensen, che s’era unito al loro gruppo. – La corrente polare in questi luoghi deriva verso la Groenlandia, almeno tutto lo fa supporre. – Ecco una cosa importante da studiarsi. Se si fosse certi della vera direzione delle correnti polari, si potrebbero evitare molte catastrofi. – La soluzione del problema sarebbe di grande interesse per le navi che vanno alla pesca delle balene, signore. Quei poveri naviganti, appunto perchè non hanno una esatta conoscenza delle correnti, talvolta si vedono piombare addosso i ghiacci in modo così improvviso da non poterli evitare. Anche quest’anno una numerosa flottiglia che navigava in mare libero, in poche ore è stata imprigionata e quasi distrutta dai ghiacci. Se le correnti che ammassano i banchi in così breve tempo fossero state studiate e conosciute da quei balenieri, il disastro si sarebbe potuto evitare. – E non si cerca di studiarle? – chiese il tenente. – So che la Società geografica di Filadelfia si sta occupando seriamente di ciò. Ha deciso di far costruire dei gavitelli di forma conica, lunghi trentasei pollici, con un diametro di dodici, composti di doghe di quercia cerchiate in ferro. Un’apertura praticata superiormente si aprirà e si chiuderà mediante una vite in rame. Ogni gavitello porterà un numero e conterrà una bottiglia suggellata, entro la quale il capitano di ciascun naviglio collocherà un documento riferente la data dell’immersione, l’esatta longitudine e latitudine del punto di lancio in mare, il nome della nave e del suo comandante. I capitani delle navi in crociera per la pesca delle balene o per la caccia delle foche, riceveranno l’avviso di ricercare e raccogliere quei gavitelli, di aprirli, di prendere nota del contenuto e di rimetterli in acqua dopo d’averli ben tappati. Dovranno poi mandare alla Società geografica di Filadelfia un rapporto riferente il luogo esatto del loro ritrovamento e tutte le particolarità ed indizii interessanti e tali da far conoscere approssimativamente il viaggio che i gavitelli, trasportati dalle correnti, hanno compiuto. Si spera in tal modo, dopo due o tre stagioni, di poter ottenere una direzione esatta delle correnti polari. – Che si speri anche di poter scoprire un qualche passaggio libero comunicante fra l’Atlantico ed il Pacifico?... – Sì, signor tenente, – rispose il capitano. – Questo è anzi il punto più importante dell’esperimento. – Credete voi, signor Evensen, che questo passaggio esista?... – Uhm!... Ho i miei dubbi, signore, – rispose il capitano, raggiungendo il Duca che era salito sul castello di prora per meglio osservare la parete di ghiaccio. La situazione della Stella Polare non accennava a mutare. Erano già trascorse sei ore e la nebbia non s’era ancora alzata, nè i ghiacci si erano allontanati. La minaccia continuava, con una ostinazione incredibile. I bianchi fantasmi del nord, vagavano costantemente attorno alla nave come se fossero smaniosi di rinserrarla addosso al banco e di stringerla fra le loro formidabili pressioni. La pazienza cominciava a scappare a tutti, eppure nulla potevasi tentare se il nebbione non si alzava. Nessuno dubitava dell’esistenza di uno o più canali attraverso quel ghiaccione, ma dove cercarli?... La prudenza consigliava di non tentare alcuna investigazione per non andare addosso a qualche ice-berg pericolante. Per sedici lunghissime ore la Stella Polare errò dinanzi alla muraglia, evitando destramente le strette dei ghiacci che la minacciavano a poppa, poi un vigoroso colpo di vento di ponente cominciò a sconvolgere le nebbie. Le masse di vapore ondeggiavano burrascosamente, alzandosi ed abbassandosi. S’apriva uno squarcio, poi si rinchiudeva, quindi tornava ad aprirsene un altro più lontano. Le raffiche di ponente che si succedevano con maggior frequenza, incalzavano i vapori, aumentavano gli strappi. Finalmente quel velo pesante e umido, che opprimeva gli animi di tutti, cominciò ad alzarsi, fuggendo, in ondate immense, verso levante. I ghiacci, che fino allora si scorgevano vagamente, comparvero quasi tutti d’un colpo. Dinanzi alla Stella Polare s’estendeva una massa enorme, un floe, ossia campo di ghiaccio formato dal congelarsi dell’acqua di mare. Aveva una estensione notevole e presentava immense spaccature. Le pressioni che doveva aver subìto nelle regioni più settentrionali dovevano averlo danneggiato assai, tuttavia presentava una fronte ancora troppo compatta per lo sperone della Stella Polare. Numerosi uccelli marini avevano preso dimora su quel banco e si vedevano volteggiare in grossi stormi i gabbiani, le urie, le oche e le strolaghe, gridando giocondamente. La Stella Polare aveva ripresa la marcia innanzi, fiancheggiando il banco. Era urgente trovare un passaggio, poichè altri ghiacci navigavano verso il sud, tendendo a riunirsi al banco. Poco dopo però giungeva dinanzi ad un’apertura capace di lasciar passare la nave. Esaminata coi cannocchiali, fu constatato, con gioia generale, che tagliava il banco in tutta la sua larghezza. Con un’abile manovra il capitano Evensen lanciò la Stella Polare entro quel canale. Il pericolo non era lieve. I due pezzi del banco potevano, da un momento all’altro, rinsaldarsi e chiudere la nave, disgrazia già toccata al tenente Payer col suo Tegetthoff. Ma la Stella d’Italia proteggeva la Stella Polare, ed il valoroso Duca che muoveva alla conquista del nevoso polo. La nave, spinta dal vento e dall’elica e audacemente manovrata, filò celeremente lungo il canale, superando felicemente quella prima prova. Poco dopo l’immenso oceano si svolgeva dinanzi agli sguardi degli esploratori, libero completamente fino agli estremi limiti dell’orizzonte. Libero proprio non si poteva veramente dire, ma navigabile di certo, poichè i ghiacci che oscillavano fra l’onde non erano tali da costituire un serio pericolo, nè da arrestare la corsa della Stella Polare. – Se il diavolo non ci mette la coda, – disse Andresen a Torgrinsen, il secondo macchinista, – noi giungeremo alla Terra di Francesco Giuseppe, senza fare altri cattivi incontri. Al nord l’orizzonte è limpido ed il mare quasi sgombro di ghiacci. Quindi, se tutto va bene, fra due o tre giorni daremo fondo al Capo Flora. – Credi che non incontreremo nessun altro campo di ghiaccio?... – No, – rispose il giovane nostromo. – Non vedo l’ice-blink verso il settentrione, e questo è un indizio sicuro che non troveremo altri ghiacci di grande estensione. – Le nebbie possono arrestarci ancora! – Bah!... S. A. R. non è persona da arrestarsi due volte. Questi italiani hanno un motto invidiabile: Sempre avanti, Savoia!... E perdinci, avanti ci vanno davvero e andranno molto lontano. – Sono i nipoti dei primi navigatori polari, mio caro Andresen. – Lo si vede: avanti, sempre avanti, a dispetto dei venti, dei ghiacci, delle nebbie e delle tempeste. Questi marinai dei climi temperati danno dei punti a noi norvegesi ed anche agli inglesi. Vuoi una scommessa?... Io sono certo che questi uomini, guidati dal Duca, sorpasseranno il nostro Nansen. – Nansen!... – Non lo credi?... Cento corone contro una pipata di tabacco. – Dinanzi a tanta fiducia, io mi ritiro, Andresen. – Sì, perchè perderesti anche la tua pipata di tabacco, – disse il giovane nostromo, ridendo. – E da che cosa deriva tanta fiducia?... – Sai tu chi ha scoperto pel primo la Terra di Francesco Giuseppe?... Non era nè un norvegese, nè un danese, nè un americano. – So che era un austriaco. – Sì, ma il suo equipaggio era formato da tirolesi e da dalmati, che è quanto dire italiani, abitanti dei climi temperati. – E quegli italiani sono andati bene innanzi, mentre noi uomini dei climi freddi... – Abbiamo avuto Nansen. – Ed essi ora avranno anche... – Un duca, un principe di sangue reale, audace, intrepido, risoluto a tutto, pur di spiegare, più innanzi che sarà possibile, ai venti del polo, la sua gloriosa bandiera tricolore. – Capitolo VII Terra!... Terra!... Dopo la vigorosa raffica di ponente, il tempo era migliorato. Il nebbione, scacciato da quei luoghi s’era accumulato verso levante; anche le nubi che per tanti giorni avevano coperto ostinatamente il cielo, impedendo agli esploratori di fare il punto, cominciavano a rompersi, lasciando vedere, qua e là, qualche zona azzurra. Il sole faceva capolino fra quegli strappi, facendo scintillare meravigliosamente i ghiacci che vagavano per quel mare infinito, avanguardia d’altri ben maggiori che stavano scendendo al di là dell’orizzonte. Quei fasci di luce gialla, davano strane tinte a quei figli delle regioni pallide, facendo perdere loro il triste aspetto che sogliono avere quando il cielo è coperto di brume. Taluni, percossi in pieno, parevano masse di bronzo ardente; altri sembravano piramidi di marmo, incrostate di opali enormi e di perle d’oriente; altri ancora avevano striature azzurre di cobalto, o verdi come gli smeraldi. Intorno a loro l’acqua prendeva pure tinte strane: erano bagliori d’oro con linee di fuoco che tutto d’un tratto diventavano opache, con guizzi verdi, azzurri o bianchi, a seconda del rifrangersi dei raggi solari. La Stella Polare, sfuggita al pericolo, s’avanzava fieramente su quel mare tranquillo, impaziente di avvistare le rive della Terra di Francesco Giuseppe. Una leggera brezza, che soffiava da ponente, gonfiava le sue vele, spingendola sempre più al nord, nel mezzo di quell’Oceano Artico che rinserrava nel suo centro il misterioso polo. L’equipaggio, disperso per la tolda, si godeva quel po’ di sole che da tanti giorni non aveva più veduto. Tutti erano di buon umore, eccettuati i cani che come al solito si azzuffavano ferocemente, mordendosi a sangue. A prora, sul castello, i capi della spedizione osservavano attentamente l’orizzonte coi cannocchiali, per accertarsi se i grandi banchi erano ancora molto lontani. Parevano sorpresi di vedere il mare sgombro dopo d’aver fatto l’incontro del floe. – Che cosa ne pensate signor Evensen? – domandò il tenente Querini. – Io penso, signore, che la fortuna protegge la Stella Polare, – rispose il baleniere. – Gli altri anni difficilmente si trova il mare così sgombro in questi paraggi. – Che abbiamo trovato il famoso mar libero?... – chiese il tenente, ridendo. – Non dovrebbe trovarsi qui, signore, bensì al nord delle isole americane, al di là del canale di Robeson. – E chi lo ha veduto?... – Quantunque io abbia i miei dubbi sul mare libero che esisterebbe intorno al polo, molti viaggiatori hanno asserito d’averlo scoperto. Kane, su riferta del suo mastro d’equipaggio, il Morton, ha pel primo affermata l’esistenza del mare libero, incontrato al di là d’un immenso campo di ghiaccio, lungo cento e ottanta chilometri, e dove le acque avevano una temperatura di 2° 26 sopra zero, mentre il freddo esterno toccava i 46° sotto lo zero. Ha inoltre affermato che quel mare aveva maree regolari che attestavano la sua ampiezza. Dopo Kane è la volta di Parry, il quale raccontò al suo ritorno, d’aver viaggiato sopra ghiacci che diventavano sempre meno spessi, di passo in passo che s’avanzava verso il nord. È da allora che nacque la credenza di una grande corrente d’acqua tiepida, girante attorno al polo, corrente ammessa da scienziati di vaglia come il Maury, il Peterman, il Behm, ed altri. – Ma i balenieri non credono a questo famoso mare libero, è vero? – No signore, perchè noi non l’abbiamo mai veduto. – Me lo avete detto ancora, signor Evensen, pure qualche cosa ci deve essere di vero, e fino a prova contraria non si può respingere l’esistenza di quella grande corrente. – Oh no!... Il Fram ha provato l’influenza di quella corrente. – E anche la Jeannette, la quale, al pari del Fram è stata trascinata, assieme ai ghiacci che la tenevano prigioniera, sempre verso ponente, con tendenza ad avvicinarla al polo. È una cosa importante da studiarsi, e tutte le Società geografiche dovrebbero riunirsi a quella di Filadelfia e stabilire, in diverse isole polari, delle stazioni d’osservazione. In tal modo potrebbesi studiare anche la direzione dei venti e chiarire molti fenomeni che sono ancora ben poco noti. – L’idea di stabilire una rete di osservatori intorno al polo, non è nuova, signor tenente, – disse il capitano. – Il signor Carlo Weiprecht, uno degli esploratori della Terra di Francesco Giuseppe, l’aveva già proposta nel 1882. – E non fu attuata?... – Sì, in parte. – E quali risultati ha dato?... – Disastrosi, signore. Conoscete la storia del brigadiere generale Greely?... – Un po’. – Ve la narrerò io, signore, giacchè la nave non richiede momentaneamente i nostri servigi. È una delle più emozionanti. Come vi dissi, il signor Weiprecht aveva rivolto un caldo appello ai diversi Stati onde si organizzassero delle spedizioni destinate a fare delle osservazioni intorno al polo. Gli Stati Uniti d’America furono i primi a rispondere all’appello del valoroso scienziato, e ne diedero l’incarico al brigadiere generale Greely, un uomo già pratico delle regioni polari. La spedizione si componeva d’un medico francese, il dottor Pavy, di due sottotenenti di fanteria, otto sergenti, due caporali, nove soldati e di due esquimesi. Essa doveva spingersi fino alla baia Lady Franklin, una delle più prossime al Polo Nord e costruirvi un osservatorio. Portava viveri per un anno, ed erasi stabilito che se nessuna spedizione di soccorso avesse potuto raggiungerla, dovesse lasciare la stazione il 1° settembre del 1883. Il 25 agosto del 1883, il Proteo sbarcava Greely ed i suoi compagni nella baia, poi riprendeva la rotta verso il sud. Da quel momento non si seppe più nulla degli arditi esploratori. L’inverno era stato rigidissimo quell’anno, perciò si avevano dei gravi timori per quei ventiquattro uomini abbandonati in mezzo ai ghiacci. Come era stato stabilito, l’anno dopo si mandava una nave con viveri abbondanti. Il Nettuno, tale era il nome della nave di soccorso, lascia Terranuova e si dirige verso il nord, ma i ghiacci l’arrestano presso l’isola Littleton, e tutti i tentativi per superare quelle barriere riescono vane. Il comandante del Nettuno sbarca sull’isola i viveri destinati alla spedizione, poi ritorna, per non venire rinserrato dai ghiacci che già lo minacciavano da tutte le parti. Il governo americano, inquieto per l’assenza completa di notizie da parte di quei valorosi esploratori, arma il Proteo ed anche questo, dopo una difficilissima navigazione, viene arrestato presso il Capo Sabine. I ghiacci gli si stringono addosso, lo accerchiano, lo schiacciano e l’oceano Artico lo inghiotte. Il suo equipaggio viene salvato con molti stenti da una nave baleniera che incrociava in quei paraggi e ricondotto in patria. Quando il governo degli Stati Uniti apprese la notizia di quel disastro, la costernazione fu generale. Tutti ormai erano convinti della perdita totale dei membri della spedizione. Quei disgraziati non avevano viveri che per un solo anno e non era possibile rifornirli prima del ritorno della nuova stagione. L’anno seguente, appena lo stato dei ghiacci poteva permetterlo, due nuove navi vengono mandate: il Bear ed il Thelis. Esse dopo molti sacrifici riescono a raggiungere l’isola Littleton e trovano intatti i viveri sbarcati dal Nettuno. Greely non vi si era dunque recato. Si fanno delle esplorazioni lungo le spiagge dell’isola e si riesce a trovare in un cairn un rotolo di carte. Appartenevano a Greely e contenevano le note della spedizione fino al 21 ottobre del 1883. Le due navi stavano per abbandonare l’isola, essendo tutti convinti della morte degli esploratori, quando sulla cima d’una rupe si vide una forma umana. Le due navi s’arrestano e fanno segnali colle bandiere. Quell’uomo scende penosamente la rupe agitando una piccola bandiera americana. Era così sfinito che ogni dieci passi cadeva a terra. Finalmente i marinai delle due navi lo raggiungono, lo sollevano e lo portano al capitano del Bear. Lo si opprime di domande e si viene a sapere che egli apparteneva alla spedizione, e che sette persone erano sopravvissute ai terribili freddi dell’inverno polare. Quell’uomo era ridotto in uno stato compassionevole. Era un vero scheletro, e le sue mascelle, agitate da un tremito convulso, appena riuscivano ad aprirsi. «Vive Greely?... «Sì. «Dove si trova?... «Nella tenda, ma la tenda è caduta!... è caduta!... è caduta.» E ripeteva macchinalmente questa frase. Pareva che la caduta della tenda fosse la sua principale preoccupazione. Il comandante ne sapeva perfino troppo. Organizza rapidamente una colonna di soccorso fornendola di viveri e di cordiali e corre in cerca di Greely. Dietro ad una rupe trovano la tenda. Era mezza caduta, non avendo per sostegno che un solo bastone. Si solleva la tela indurita dal freddo, la si taglia a colpi di coltello e si trova presso l’entrata un cadavere colle gambe irrigidite, gli occhi vitrei e fissi nel vuoto, con una mascella quasi staccata; più innanzi trovano un altro disgraziato senza mani e senza piedi, con un cucchiaio attaccato al moncone del braccio destro. Quest’ultimo per quanto in uno stato così spaventevole respirava ancora. In mezzo alla tenda vi erano altri tre uomini: due stavano accoccolati, tenendosi fra le mani la fronte; il terzo si teneva strette le ginocchia. Questi aveva la barba lunga e incolta, aveva gli occhi brillanti e spalancati e indossava una sucida veste da camera tutta a brandelli. «Chi siete voi?» gli chiese il capitano. L’uomo dalla veste da camera lo guarda come inebetito, poi risponde: «Il.... il.... maggiore.... Greely.... Sette di noi.... vivono ancora.... siamo qui.... morendo.... da uomini.... ho fatto quanto ho potuto....» Poi ricadde esausto. Quei disgraziati furono portati a bordo ed a poco a poco si riebbero, ma su ventiquattro, diciassette, fra i quali il dottor Pavy, erano morti di fame e di stenti fra i ghiacci polari!... – Una catastrofe che fa riscontro, in piccole proporzioni, a quella di Franklin, – disse il tenente. – O meglio a quella della Jeannette, signore, – concluse il capitano Evensen. Intanto la Stella Polare continuava la sua rapida marcia verso il nord. La Terra di Francesco Giuseppe non doveva essere molto lontana. Quantunque il cielo si fosse nuovamente coperto, impedendo di rilevare esattamente la latitudine e la longitudine, tutti erano convinti che fosse vicina. I ghiacci aumentavano. Parecchi ice-bergs navigavano lentamente verso ponente, vomitati certamente dai ghiacciai della Terra di Francesco Giuseppe. Erano per lo più di forma piramidale, però ve n’erano alcuni che sembravano immense colonne tozze, sormontate da strani capitelli. Quei giganti delle terre artiche sfilavano silenziosamente, sordi alle carezze delle onde, seguìti o preceduti da lunghe file di hummoks, di streams e di palks. Di quando in quando qualcuno, perduto l’equilibrio, si capovolgeva con immenso fracasso, sollevando ondate mostruose. S’immergeva per alcuni istanti, poi una nuova punta, diversa dalla prima, usciva impetuosamente fra la spuma e si rizzava superbamente verso il cielo, riprendendo la sua marcia. Innumerevoli uccelli marini volteggiavano al di sopra di quei giganti, inseguendosi, divertendosi, poi si calavano in mezzo alle onde dalle quali uscivano stringendo nel becco qualche pesciolino o qualche crostaceo. – Trovano cibo abbondante, – disse Andresen, il quale osservava attentamente il mare. – Navighiamo fra la zuppa delle balene. – Da cosa lo arguisci? – chiese Stökken. – Non vedete quelle macchie brune che spiccano sulla tinta verde cupa dell’acqua? – Infatti le vedo. – Quelle macchie sono formate da miriadi di granchiolini in forma di gamberetti, del diametro di due millimetri, chiamati boete dai balenieri e molto ricercati dai cetacei. Non sarei sorpreso se qualche balena emergesse improvvisamente. – Sono vasti quei banchi di granchiolini? – Talvolta occupano delle estensioni immense. Ne ho veduti di quelli che misuravano quindici leghe su una larghezza di una lega ed uno spessore di quattro o cinque metri. – Sono le praterie delle balene dunque. – Lo avete detto, – rispose Andresen. – Quando si trovano questi banchi, si seguono e si è certi d’incontrare, presto o tardi, qualche cetaceo. – Non ne vedo però. – Eppure per di qui ne è passato qualcuno. – Come lo sai? – Non vedete delle materie untuose, che scintillano come argento, ondeggiare fra la boete? – È vero, Andresen. – È la traccia lasciata da una balena. Quando quei colossi lanciano dagli sfiatatoi quelle nubi di vapore che voi sapete, assieme all’acqua vomitano pure delle materie grasse che poi rimangono a galla. – Speriamo d’incontrare qualcuno di quei cetacei. – Non mi sorprenderei, – rispose Andresen. – Siamo sui luoghi di pesca. – L’indomani, il nebbione, che non si era definitivamente allontanato, tornò a invadere il mare avvolgendo pure la Stella Polare. Quel ritorno della nebbia, da nessuno desiderato, poteva rendere difficile l’approdo alla Terra di Francesco Giuseppe. Il Capo Flora non era lontano ed i ghiacci erano diventati numerosissimi. Piccoli banchi e gruppi di ice-bergs navigavano in tutte le direzioni, alcuni spinti dalla corrente, altri, più elevati, dal vento. Fortunatamente, nel pomeriggio la nebbia cominciò ad alzarsi, e per qualche istante l’orizzonte apparve sgombro verso il settentrione. Tutti i cannocchiali si erano puntati in quella direzione, con la speranza di poter scorgere la Terra sospirata, ma invece non si scorgevano che ice-bergs. Tutti erano saliti in coperta, e alcuni marinai si erano spinti fino sulle coffe, poi più in alto, fino alle crocette, scrutando l’orizzonte. Una viva ansietà regnava fra tutti: la terra stava là, al nord, a poche diecine di miglia, ma sarebbe stato possibile approdare? Lo avrebbero permesso quei ghiacci che diventavano sempre più numerosi quasi avessero congiurato di sbarrare il passo alla Stella Polare? Alle dieci pomeridiane, nel momento in cui un vigoroso colpo di vento spazzava nuovamente la nebbia addensatasi verso il nord, un grido risuona in alto, fra i pennoni: – Terra!... Terra!... – Fra le brume dell’orizzonte, alla pallida luce del sole, non ancora prossimo al tramonto, si delineavano vagamente le alte vette della Terra di Francesco Giuseppe. PARTE TERZA Capitolo I La scoperta della Terra di Francesco Giuseppe L’arcipelago Francesco Giuseppe è noto solamente da ventisette anni. Prima del 1873 nessuno aveva mai supposto che in quella direzione s’estendessero vastissime isole, quantunque moltissimi balenieri si fossero spinti sovente fino a quei lontani paraggi per inseguire e catturare i giganti del mare. Questo arcipelago si estende all’est dello Spitzbergen, fra il 79° 50’ e circa l’83° di lat. nord e fra il 42° e 65° di long. est, e si compone di parecchie grandi isole e di molte minori, ma per lo più mal definite, non essendo state tutte accuratamente visitate, in causa degli immensi banchi di ghiaccio che le circondano e degli enormi ice-bergs che vengono incessantemente vomitati da immensi ghiacciai. Le più note sono la Terra Alessandro, quella di Zichy, di Wilczeck, poi più al nord vi sono le terre di Oscar, di Petermann, e quella di Gillis, tutte pochissimo conosciute, l’ultima specialmente la cui esistenza fu persino messa in dubbio. Tutte queste terre, divise per lo più da canali male definiti, eccettuato quello Britannico, meglio studiato, sono circondate da un numero infinito d’isole e d’isolotti, alcune però di dimensioni ragguardevoli, come quella di Mac Clintock, di Hooker, di Rawlinson, di Northbrook, di Salisbury, del Principe Giorgio, ecc. Per lo più queste terre polari sono montuose, con coste molto frastagliate e molto elevate, che formano dei fjords somiglianti a quelli della Norvegia e con ghiacciai immensi, di cui alcuni misurano la lunghezza di sessanta chilometri su una larghezza di venti. La cima più alta è il monte Richthofen, che si trova nella terra di Zichy, elevantesi, se i calcoli sono esatti, millecinquecento e ottanta metri. Tutto questo ammasso di terre, nel suo sviluppo presentemente conosciuto, forma un sistema regionale artico della vastità dello Spitzbergen; però si ha ragione di credere che, meglio esplorato, risulterebbe ben maggiore, essendo poco note le terre che si trovano a settentrione. Un vasto canale, l’Austria Sound, separa in tutta la sua lunghezza questo vasto arcipelago, cominciando dal capo Frankfurt, ma verso l’81° 40’ si biforca formando un altro braccio considerevole, il Rawlinson Sound, il quale si dirige verso il nord-est. L’aspetto che presentano queste terre durante la stagione invernale, non potrebbe essere più desolante. Un abbagliante lenzuolo di neve, che ha lo spessore di parecchi metri, copre per sei e talvolta per otto mesi tutte quelle isole, non permettendo di scorgere il più piccolo pezzo di terra o di roccia. È una successione continua di montagne coperte di ghiaccio, di coni e picchi nevosi, di coste che sembrano scavate nel ghiaccio, stretto da giganteschi ice-bergs e da banchi che non hanno confine. Nessun essere umano si trova lassù: gli esquimesi che hanno, a poco a poco, popolate tutte le terre polari, non sono ancora comparsi sulle isole dell’arcipelago Francesco Giuseppe, come non sono apparsi allo Spitzbergen. Solamente gli orsi bianchi, le foche ed i trichechi popolano quelle terre, assieme agli uccelli marini, oche bernide, urie, strolaghe, gabbiani, gazze marine, procellarie, ecc. Per quasi cinque mesi, una notte eterna, rotta solamente, di quando in quando, dagli splendori delle aurore boreali, si estende sull’arcipelago. Durante quell’oscurità la vita floreale si spegne. Muoiono i muschi, muoiono i piccoli papaveri, le meschine sassifraghe, i minuscoli salici. Non si vedono che nevi e ghiacci, crepitanti, detonanti, orribili bufere che soffiano dal nord spazzando tutte le isole, pesanti nebbioni che salgono dal mare e che tutto avvolgono. Quando però il sole, dopo centotrentacinque o centoquaranta giorni di tenebra continua, comincia ad apparire, innalzandosi sempre sull’orizzonte fino a che non tramonta quasi più, anche su quelle terre desolate la vita si risveglia. Le pianticelle cominciano a spuntare attraverso la crosta gelata, dapprima timidamente, poi più vigorosamente; le rupi, denudate del loro involucro invernale, si coprono di muschi, i papaverini dai petali d’oro riappariscono, gli uccelli marini che sono fuggiti verso il sud durante i freddi intensi, ritornano a stormi immensi, le foche e le morse ripopolano le rive, scaldandosi ai tepidi raggi dell’astro diurno. Ahimè! Quell’orgia di luce è ben breve! Quella vita ha una durata ben meschina. Agli ultimi d’agosto le prime nevi ricominciano a cadere, i ghiacciai rovesciano in mare, con orribili rimbombi, i loro ice-bergs, i campi di ghiaccio ricompariscono e l’inverno torna a piombare. Guai alle navi che tardano ad abbandonare quei paraggi! Chissà se torneranno, l’anno seguente, in patria. La scoperta di queste isole la si deve alla spedizione austriaca del Tegetthoff, comandata da Payer, tenente della marina austro-ungarica, e composta quasi esclusivamente d’italiani del Tirolo e della costa Dalmata. Il Tegetthoff era salpato da Bremerhafen, alla foce del Weser, il 13 giugno 1872 coll’intenzione di esplorare i mari situati all’est dello Spitzbergen e di tentare la scoperta del passaggio del nord-est, spingendosi possibilmente fino allo stretto di Behering. Al nord della Nuova Zembla, la nave veniva invece imprigionata da un immenso wake1 e trascinata lentamente prima verso il nord-est, e dopo lunghi e capricciosi giri verso il nord-nord-ovest. L’inverno polare sorprende gli esploratori in pieno oceano Artico, senza che si siano potuti liberare dalla loro prigione di ghiaccio, malgrado gli sforzi reiterati dell’equipaggio, di Payer e di Weyprecht, che ne erano i comandanti. L’inverno fu terribile. La nave, stretta fra le tremende pressioni dei ghiacci, corre parecchie volte il pericolo di venire fracassata assieme a coloro che la montano, pure resiste vittoriosamente. La primavera del 1873 non apporta nessun felice cambiamento. Il Tegetthoff, sempre rinserrato nel wake, viene trasportato alla deriva verso il nord-nord-ovest, descrivendo una specie di semi-cerchio interrotto da immensi angoli. L’estate s’avanzava ed i due comandanti, con vera angoscia si credevano destinati a tornarsene in patria senza nave e senza aver eseguito nessuna parte del loro programma, quando nel pomeriggio del 30 agosto, a 79° 43’ di lat. ed a 59° 33’ di long. i due comandanti scorgono, verso il nord, attraverso le nuvole indorate dal sole, alcuni picchi. Payer e Weyprecht dapprima rimangono come sorpresi, come affascinati, non volendo credere ai loro occhi. Credevano d’aver dinanzi degli ice-bergs, poi vedono delinearsi invece un superbo rilievo alpestre. Non vi è più dubbio: una terra si alza ai confini dell’orizzonte. Un grido sfugge dai loro petti. – Terra!... Terra!... La terra è là!... – Quel grido fu tale, che in un attimo non vi fu un solo ammalato a bordo, – scrive Payer. – In un attimo la prodigiosa notizia si propaga in tutti gli angoli della nave e tutti si precipitano sul ponte per assicurarsi coi propri occhi della verità della cosa. Era proprio vero. La deriva ed il banco di ghiaccio avevano fatto ciò che non avevano potuto ottenere il coraggio e la perseveranza di quegli audaci esploratori. Non rimaneva più che riconoscere l’estensione e la natura di quel paese magicamente uscito dal caos polare. Gli esploratori erano però nell’impossibilità, almeno pel momento, di poter porre i piedi su quella terra che si delineava ormai distintamente all’orizzonte. La nave non poteva accostarsi, essendo sempre rinserrata nel suo banco di ghiaccio. La deriva era forte e se alcuni dell’equipaggio avessero osato inoltrarsi attraverso i banchi, sarebbero probabilmente stati separati dalla nave. Tuttavia nel primo impeto di entusiasmo, quegli uomini si slanciano sui banchi di ghiaccio, come se avessero potuto raggiungere così facilmente quella terra che sempre più emergeva. Giunti all’estremità del wake s’accorgono che sono ancora a quindici miglia da quella costa. Non potendo andare più innanzi scalano una montagna di ghiaccio per cercare di distinguere meglio la configurazione di quel misterioso paese, di cui i navigatori non avevano mai sospettata l’esistenza. Fu dall’alto di quell’ice-berg che gli austro-ungarici battezzarono quelle terre col nome di Francesco Giuseppe in onore del loro sovrano. Dal Capo Tegetthoff, così chiamata la prima altezza scoperta, fino ai contorni indecisi che si prolungavano verso il nord-ovest, la fronte rilevata abbracciava non meno d’un grado di latitudine; ma poichè le parti più meridionali si trovavano molto lontane dalla nave, i membri della spedizione mancavano di elementi per determinare, anche approssimativamente, la configurazione topografica della terra scoperta. Intanto la deriva spingeva lentamente la nave fra quelle grandi isole che continuavano a delinearsi in varie direzioni. Il 31 ottobre il Tegetthoff si trovava a tre sole miglia da un promontorio assai basso. Era il momento atteso dagli esploratori per visitare quelle terre che da tanto tempo apparivano ai loro occhi senza poter porvi sopra i piedi. Payer, seguìto da alcuni compagni, scala gli hummoks che circondano la nave e si slancia, attraverso i banchi di ghiaccio, giungendo felicemente su quella costa tanto sospirata. «Il suolo su cui posammo il piede, – narra il fortunato esploratore, – era composto di un miscuglio di neve, di roccia e di ghiaia d’ogni specie, insieme congelati, ed era il più orribile del mondo; ma per noi fu come un ridente vestibolo del paradiso. Meravigliati della nostra conquista, spingevamo lo sguardo curioso in ogni crepaccio di rupe, toccavamo amorosamente ogni masso e senza lesinare, adulavamo ogni fenditura riempita di ghiaccio chiamandola un ghiacciaio. La costituzione geologica del paese era identica a quella delle isole del Pendolo, che si trovano sulle coste occidentali della Groenlandia; qui come laggiù, la roccia era una dolerite. Quanto alla vegetazione, in quel luogo era d’una povertà incredibile, consistendo solo in alcuni umili licheni. Non renne, non volpi; tutta l’isola, giacchè questa prima terra da noi esplorata era un’isoletta, pareva assolutamente priva di esseri viventi. Ascesa un’alta scogliera, abbracciammo con lo sguardo, al sud, il panorama rigido del mare fino a parecchie leghe al di là della nave. Quale grandioso spettacolo di desolazione!... E quanta attrattiva esercitava su noi quella specie d’escrescenza rocciosa dove eravamo approdati!... Nessun paesaggio soleggiato di Ceylan avrebbe prodotto su di noi un’impressione così poetica. I nostri cani sembravano dello stesso parere giacchè galoppavano pieni di lena e saltellavano, abbaiando allegramente, di balzo in balzo, di promontorio in promontorio. Chiamammo quella terra Isola di Wilczek.» Fu solamente nella primavera del 1874, dopo d’aver passato l’inverno in quei paraggi, che gli audaci esploratori poterono riprendere le loro escursioni, usando slitte tirate da cani. Uccisero parecchi orsi bianchi e molte foche, esplorarono il Capo Tegetthoff, e si spinsero al nord per parecchie miglia. Durante quelle corse perderono però un loro compagno, il povero macchinista Kriseh, ucciso dallo scorbuto, l’unica vittima di quella fortunata campagna. Il movimento dei ghiacci, i quali non cessavano di derivare, li obbligò finalmente a far ritorno alla loro nave. Il 20 maggio gli esploratori abbandonavano il Tegetthoff, che non avevano potuto liberare dai ghiacci e cominciavano il ritorno. Furono fortunati poichè alcune settimane più tardi venivano raccolti da una nave russa che pescava sulle spiagge della Nuova Zembla e condotti sani e salvi a Vardö, dove giungevano il 3 settembre. Gli arditi viaggiatori avevano esplorato dapprima le isole Hochstetter e Wilczek, poi, nel marzo dell’anno seguente, l’isola Hall, Caccia alle foche. quindi l’isola Hohenloe, poi la Terra d’Austria della isola Rodolfo, spingendosi fino al Capo Fligety a 12° di lat. e creduto d’intravedere più al nord delle montagne chiamandole Terra di Petermann e quindi altre ancora chiamate Terre del Re Oscar. Come si vedrà in seguito queste due terre non esistevano affatto e doveva spettare alla spedizione italiana accertare la loro inesistenza. Dopo Payer il signor De Bruyne, col Wilhelm Barentz intraprendeva l’esplorazione di quel vasto arcipelago, toccando l’isola Northbrook il 7 settembre del 1879, isola sulla quale si trova il Capo Flora, prima mèta della Stella Polare. Quindi lo segue il signor Leight Smith, a bordo dell’Eira, che in questo viaggio delinea meglio la Terra Alessandro e fa numerose raccolte zoologiche, botaniche e geologiche di molto interesse. Nel 1894 il signor Jackson sbarca al Capo Flora, dove costruisce due capanne provvedendole di viveri, di armi, di coperte, di carbone, e vi sverna, ma l’anno dopo è costretto a far ritorno in Norvegia. Nel 1896 a bordo del Windword ritorna alla Terra di Francesco Giuseppe dietro preghiera del signor Harmsworth, per andare in cerca della spedizione di Nansen. Studia ed esplora tutto il bacino orientale completando le ricerche di Payer e di Leight Smith ed è così fortunato da raccogliere Nansen ed il suo compagno Johansen. Ma molto ancora rimaneva da scoprire, e doveva toccare all’illustre norvegese. Questo ardito esploratore passò un inverno intero in quelle regioni, dopo il suo abbandono del Fram, in compagnia del suo fedele Johansen, il quale divise con lui le fatiche, i patimenti ed i pericoli. Questi ultimi furono i veri Robinson della Terra di Francesco Giuseppe, sulla quale rimasero dal 26 agosto del 1895 al 19 maggio del 1896, ossia fino al loro incontro con la spedizione comandata da Jackson. Capitolo II Il Capo Flora Mentre la spedizione austro-ungarica in quella stessa latitudine e quasi nello stesso mese aveva incontrato grandi banchi di ghiaccio dinanzi alle isole della Terra di Francesco Giuseppe, la Stella Polare, nel momento in cui avvistava il Capo Flora, trovava, per una fortuna veramente straordinaria, il mare quasi libero. Era un felice augurio, poichè l’assenza di quei grandi banchi che avevano impedito al Tegetthoff di accostare la terra scoperta, lasciava sperare una rapida e buona navigazione attraverso il Canale Britannico, via scelta per spingersi più tardi verso il nord. Al grido di: – Terra!... Terra!... – tutti si erano precipitati verso prora, volgendo gli sguardi verso il nord, dove si vedevano biancheggiare alcuni picchi nevosi, semi-nascosti fra le brume che ondeggiavano all’orizzonte. Una viva emozione era dipinta su tutti i volti. I comandanti, i marinai, le guide stesse parevano commossi. Era ben quella la terra che doveva servire di base d’operazione pel futuro viaggio verso il polo. Quegli audaci dovevano provare in quel momento la medesima emozione che aveva provata il grande navigatore genovese, vedendosi apparire dinanzi agli occhi la prima isola americana, o quella, così vigorosamente descritta da Payer, quando gli si delineò dinanzi il Capo Tegetthoff. – È proprio terra? – chiese Ollier al tenente Querini. – A me paiono monti di ghiaccio. – Dinanzi a noi sta il Capo Flora dell’isola Northbrook. – E quando sbarcheremo? – Domani. – Sono ansioso di porre i piedi su quella costa, signor tenente. – Ed io non meno di voi. Abbiate pazienza e vi giungeremo. – Nessuno pensò a coricarsi, nemmeno i marinai norvegesi. Tutti temevano di vederla scomparire da un momento all’altro o di venire respinti da banchi di ghiaccio, per quanto non se ne vedessero, almeno pel momento, in alcuna direzione. La Stella Polare s’accostava lentamente, correndo bordate. Il capitano Evensen, non meno commosso degli altri, comandava la manovra con voce più rimbombante del solito, mentre S. A. R. e Cagni interrogavano l’orizzonte coi cannocchiali. Essendovi ancora della nebbia verso il nord, non si poteva sapere se la baia che si estende dietro il Capo Flora era bloccata dai ghiacci o sgombra. Non scorgendosi però al largo che dei ghiacciuoli di nessuna importanza, vi era da sperare di poter trovar anche dietro il Capo, un ancoraggio sicuro, almeno provvisoriamente. Di miglio in miglio che la Stella Polare s’avvicinava, la costa si delineava più distintamente. La nebbia, che a poco a poco si alzava, spinta da un freddo vento che soffiava da libeccio, permetteva di discernerla più chiaramente. Era una costa assai elevata, tutta frastagli, con punte, insenature, promontorii, rocce, scogliere, ma non offriva più il desolante spettacolo che a prima vista era comparso agli occhi dei naviganti. In lontananza si scorgevano bensì picchi nevosi in gran numero, e colline ancora coperte di ghiaccio, però verso la costa si vedevano delle alture verdeggianti, coperte di muschi d’un verde vivissimo, brillante, cosparse di fiorellini, d’un aspetto incantevole. Entro le spaccature, nei valloncelli, in fondo alle piccole insenature vi erano distese di muschi e di licheni, ma non un albero, nè un pino, nè una betulla, nè un abete, nè il più piccolo cespuglio. Questi alberi, che pur si trovano sulle coste della Siberia, che vegetano anche nei climi freddissimi, non nascono in quelle terre, che in un tempo, molto remoto certamente, vedevano germogliare rigogliose le palme tropicali!... Su quelle spiagge infinite bande di uccelli marini, volteggiavano in tutte le direzioni. Le scogliere erano piene di lumme, uccelli che abbondano straordinariamente anche sulle isole dell’America del nord e sulle spiagge della Groenlandia, dove vengono anche chiamati bacalao bird. Questi volatili nidificano a milioni intorno alle coste delle terre polari e producono un baccano continuo, assordante, essendo d’indole molto rumorosa. Oltre a questi, si vedevano pure in gran numero grosse oche, uccelli eider, gabbiani, urie, strolaghe, e legioni di piccoli auk. S’alzavano, s’abbassavano, s’incrociavano, fra un gridìo assordante, senza spaventarsi per la vicinanza della nave. Anzi, parecchi, scorgendola, avevano spiccato il volo verso di essa come per dare il benvenuto a quegli arditi naviganti dei tiepidi mari del mezzogiorno. – Quale abbondanza di volatili, – disse il tenente Querini ad Andresen. – Si vede che qui non hanno ancora imparato a temere l’uomo. – Talvolta si lasciano uccidere a bastonate, signor tenente, – rispose il giovane mastro. – Vi saranno anche delle foche entro quei seni? – Ne troveremo qualcuna, signore, non dubitate. In questa stagione hanno già cominciato ad emigrare, però un certo numero rimane sempre su queste terre. – Ed anche dei trichechi? – Sono più rari, nondimeno se ne troveranno anche di quelli. – Mi pare di scorgere delle capanne all’estremità della baia. – Sono quelle erette dalla spedizione Jackson, signore, – rispose Andresen. – Vi troveremo anche molti viveri, e forse qualche avviso della Cappella. – Deve essere una nave mandata a raccogliere la spedizione Wellmann, è vero? – Sì, signore. – Dove sarà la spedizione? – Sembra che siasi recata a esplorare il Canale Britannico. Se non è perita, la Cappella la ricondurrà in patria. – Mentre chiacchieravano, la Stella Polare, approfittando dell’alzarsi della nebbia, si spingeva rapidamente innanzi per dar fondo presso la costa e precisamente di fronte alle capanne di Jackson. Alcuni leggeri ghiacci, di poca consistenza, vagavano nei dintorni della costa, frangendosi gli uni con gli altri; ostacoli di nessun conto pel robusto sperone della nave. Al menomo urto cedevano e passavano, frantumati, sotto lo scafo, senza più riunirsi, essendo la temperatura mitissima, di appena 4° sopra lo zero. La costa, rientrando, formava una specie di baia aperta, la quale si delineava ormai perfettamente. Era tutta verdeggiante di muschi e sgombra di nevi; solamente in lontananza si scoprivano sempre dei picchi nevosi, sormontanti dei ghiacciai probabilmente immensi. Il capitano Evensen fece preparare le ancore e manovrò la nave in modo da dirigerla dinanzi alle capanne della spedizione inglese di Jackson. Alle sei antimeridiane la Stella Polare entrava felicemente nell’insenatura e dava fondo ad alcune gomene dalla spiaggia al riparo del Capo. L’effetto che produceva quell’asilo era dei più splendidi. Dappertutto muschi e licheni, d’un verde brillantissimo, sparsi sulle rocce, sui pendii, sulle scogliere, punteggiati di fiori vaghissimi, di papaveri dai petali d’oro, di poa arctiche, di glycerie, di pediculare purpuree, di sassifraghe rosse, bianche e gialle, di ranuncoli, di hesperie, i garofani delle regioni polari, di monties dai petali candidi come la neve. Numerosi borgomastri (laries glaucus) pigolavano sulle rupi, mentre in alto volteggiavano stormi chiassosi di piccoli plectrophanes nivales, di urie nere, di rondinelle e di eiders. Qualche oca bernida passava, fischiando, attraverso la baia o andava a posarsi, tranquillamente sulle capanne degli inglesi. Dinanzi a quell’inatteso spettacolo, grida di stupore sfuggivano da tutti i petti. A ognuno sembrava impossibile che quella baia fosse una delle più settentrionali del mondo e che quella costa appartenesse a quella terra di desolazione, perduta al di là del circolo artico e della quale avevano udito parlare con terrore. Dov’erano i ghiacci eterni che avevano trovati gli esploratori del Tegetthoff? Dov’era l’orrido selvaggio popolato di foche e di ferocissimi orsi bianchi? Le guide valdostane asserivano che quei valloni verdeggianti somigliavano alle vallate delle loro Alpi; i marinai norvegesi non vedevano che un lembo della loro terra frastagliata dai pittoreschi fjords. Ed avevano ragione: ma non avevano ancora veduto l’orribile inverno polare. Messe in acqua le scialuppe, S. A. R. ed i membri della spedizione, impazienti di posare i piedi su quella terra polare, la prima che calcavano da quando avevano lasciata l’Italia, sbarcarono dinanzi alle capanne della spedizione Jackson. Prima cosa che attrasse la loro attenzione fu una carta, attaccata sulla parete di una delle casupole, con la quale si avvertiva la spedizione che la nave baleniera la Cappella, sarebbe ripassata il 15 agosto per prendere le lettere che i membri della Stella Polare avessero creduto di lasciarvi. Come si disse, la Cappella era stata inviata dal governo norvegese alla Terra di Francesco Giuseppe a cercare la spedizione Wellmann, della quale non si aveva avuto più notizie, ma che si supponeva si trovasse occupata ad esplorare le spiagge del Canale Britannico. Le capanne erette dalla spedizione di Jackson, la stessa che aveva raccolto Nansen ed il suo compagno Johansen, di ritorno dalla loro famosa esplorazione, erano deserte. Pareva che più nessuno le avesse visitate dopo la partenza degl’inglesi e dopo l’arrivo della Cappella. Più che capanne erano baracche informi, costruite in legno e tela da vele, sufficienti però a riparare i naufraghi che le tempeste od i ghiacci avessero costretto a cercare rifugio al Capo Flora. Gl’inglesi vi avevano lasciato provviste copiose, consistenti in the, cioccolata, biscotti, carni conservate; più armi, munizioni, libri, disegni, carte da giuoco, istrumenti astronomici. Mentre il Duca e Cagni, dopo visitate le capanne e percorso un tratto di spiaggia, inoltrandosi sui banchi di ghiaccio che si estendevano fra la riva e le scogliere, cominciavano subito le loro osservazioni di gravità, di longitudine e di latitudine, facendo uso d’un orizzonte artificiale, le guide e gli altri ufficiali esploravano i dintorni, sparando fucilate contro i numerosi uccelli marini. Il tenente Querini, soprattutto, abilissimo cacciatore, ne faceva cadere in gran numero, menando strage di urie, di gazze marine e di pinguini. Le guide invece si erano subito arrampicate su per le rocce, con la speranza di trovare qualche orso bianco, ma non riuscirono invece che a distinguere ad una grande distanza, sdraiati in prossimità della spiaggia, dei corpi nerastri, di forma allungata, che dal tenente Querini furono riconosciuti per foche e morse. – Che sia possibile catturarli?... – chiese Ollier al tenente, il quale continuava a sparare contro i volatili che gli passavano a tiro. – Domani il Duca andrà a sparare contro quegli anfibi, – rispose il tenente. – Oggi è troppo occupato nei suoi calcoli. – Ci fermeremo molto qui?... – Due o tre giorni, cioè il tempo necessario per scaricare delle provviste sufficienti per otto mesi. – Vi sono quelle lasciate dagl’inglesi, signore. – Sono di proprietà dei naufraghi, e siccome noi non abbiamo ancora naufragato e provviste ne abbiamo a esuberanza, faremo il nostro deposito particolare. – Allora noi nel ritorno verremo ancora qui. – E chi ve lo dice, Ollier? – Se teniamo qui delle provviste... – Si depositano per misura di precauzione. Supponete che i ghiacci spezzino la nostra nave; cosa avverrebbe di noi, su questa terra desolata, se non avessimo un rifugio ben provvisto? – È vero, signor tenente. E dove metteremo i nostri viveri? – Nella capanna più grande che è quella che abitava Jackson e che abitò anche Nansen. – E poi continueremo verso il nord? – Sì, Ollier. – E fino dove ci avanzeremo? – Fino a che ce lo permetteranno i ghiacci, poi andremo innanzi coi cani e le slitte. Se poi... – Signor tenente!... – esclamò ad un tratto Ollier. – Cosa desiderate? – Vedo i miei compagni che salgono rapidamente quel valloncello! Che abbiano trovate le tracce di qualche orso? – Mi pare che vadano cercando dei fiori. – Vedo che gesticolano. – Indovino il loro motivo. Vedo anche il dottor Cavalli che fa gesti di stupore. – Cosa possono aver trovato?... – Dei fiori appartenenti alla medesima specie di quelli che nascono sulle nostre Alpi. La flora polare non è gran che diversa da quella alpina. Ecco perchè i vostri compagni sembrano meravigliati.– C’è da stupire, signore. Ad una così enorme distanza trovare le medesime piante che nascono sui margini dei nostri ghiacciai!...– Il clima non è molto differente, mio caro Ollier. Siamo in luglio e non abbiamo che 2°; sulle vostre montagne, in questa stagione, non ne avete che pochi di più. Continuiamo la nostra caccia. Questi uccelli si lasciano uccidere così facilmente!... Quale fortuna troverebbero qui i nostri arrabbiati cacciatori della laguna veneta!...– Saranno mangiabili?... Io temo che puzzino di pesce. – Il cuoco che abbiamo imbarcato ad Arcangelo saprà prepararli a perfezione. Se fosse quello norvegese che avevamo prima, non avrei alcuna fiducia, ma di questo canavesano sì. È veramente un eccellente cuciniere.1 – Signor tenente, se lasciassimo gli uccelli per la selvaggina più grossa? – disse la guida, che da qualche istante teneva gli sguardi fissi verso l’estremità occidentale dell’insenatura. – Vedo due grossi animali sdraiati su di un banco di ghiaccio. Sono usciti or ora dalle acque. – Il tenente, che si era alzato sulla punta dei piedi, guardò nella direzione indicata dalla guida e scorse infatti due grossi animali che si avvoltolavano in mezzo alla neve. – Sono due morse, – disse. – Sì, signore, – affermò una voce presso di loro. Si volsero e si trovarono dinanzi a Stökken, il primo macchinista, il quale era pure sceso a terra armato di fucile. – Volete venire anche voi? – chiese Querini. – Pel momento non v’è nulla da fare a bordo, signor tenente, – disse il macchinista. – Allora andiamo. – Capitolo III La caccia ai trichechi Mentre l’equipaggio della Stella Polare, dopo d’aver assicurata la nave con due ancore, una verso il mare e l’altra verso le scogliere, ammonticchiava sulla tolda le provviste da recarsi poi a terra, ed il Duca e Cagni continuavano le loro osservazioni, i tre cacciatori si mettevano in cammino per andare a sorprendere i due trichechi o morse, come vengono chiamati quei grossi anfibi. La distanza da percorrere non era molta, però la via era tutt’altro che facile, essendo rotta da crepacci, da rupi, da strati di nevischio in dissoluzione, in mezzo ai quali si affondava fino alle ginocchia. Girando un piccolo vallone, i cacciatori poterono raggiungere un passaggio meno difficile, il quale doveva condurli in prossimità dei banchi sui quali giocherellavano, con piena sicurezza, i trichechi. Vi era ancora della neve sul terreno, frammista a muschi ed a licheni, ma di già quasi disciolta, e sotto le rupi, al riparo dei freddi venti del nord, si scorgevano gruppetti di fiori, spuntati timidamente, per lo più papaveri e glycerie, d’aspetto graziosissimo. Ve n’erano però alcuni che colpirono subito la guida, facendogli dimenticare, per un momento, i due trichechi. – Signore!... – esclamò, avvicinandosi verso un crepaccio e mostrando al tenente due fiorellini. – Voi avevate ragione quando poco fa mi dicevate che la flora alpina non era molto diversa da quella polare. Ecco qui due piante che crescono anche sulle nostre montagne. – Se vi fosse qui il dottor Cavalli, che è il botanico della spedizione, le raccoglierebbe con piacere per mandarli poi in Italia, – disse il tenente. – Ma forse, a quest’ora, ne avrà raccolte anche lui di simili. – Le conoscete signore?... – Sì, una è la saxifraga oppositifolia e l’altro un papaver nudicante d’Islanda, piante che crescono anche sulle nostre Alpi1. Lasciamo andare però questi fiori e occupiamoci dei trichechi, o quegli anfibi se ne andranno senza aver fatta la conoscenza coi nostri fucili. – E cerchiamo di non farci scorgere prima di essere a tiro, signor tenente, – aggiunse Stökken, il quale parlava abbastanza correntemente il francese. – Io conosco molto bene quegli animali e so quanto sono diffidenti. – Li avete cacciati altre volte? – Sì, signor tenente. Ho preso parte ad una spedizione all’isola Jean Mayen. – Allora vi daremo la carica di capo cacciatore, – disse il Querini ridendo. I due anfibi non si erano ancora accorti della presenza dei loro nemici; continuavano ad avvoltolarsi fra la neve che copriva il banco di ghiaccio, godendosi i pallidi raggi del sole. Questi abitanti dei climi freddissimi si trovano ancora in gran numero sulle isole artiche ed anche sul continente antartico, nonostante la caccia feroce, spietata, che da tre secoli danno loro i pescatori inglesi, americani, russi, danesi e norvegesi. Dagl’inglesi vengono chiamati cavalli marini, dai norvegesi rosmar, dagli esquimesi awak, ma sono meglio conosciuti sotto il nome di trichechi o di morse. Nel loro pieno sviluppo sono lunghi ordinariamente quattro metri e qualche volta anche di più, toccando non di rado anche i cinque, con una circonferenza di tre o quattro metri. Il loro peso varia fra i novecento ed i mille chilogrammi. Hanno la testa piccola in proporzione alla rotondità del corpo, con un muso corto e largo, il labbro superiore assai carnoso e più sporgente dell’inferiore, baffi grossi e sempre irti come quelli di un gatto in collera e gli occhi piccoli e brillantissimi. I loro denti canini, che sporgono fuori dalla mascella superiore, sono lunghi ottanta ed anche novanta centimetri e danno a questi anfibi un aspetto formidabile. Sono di un avorio bellissimo, compatto, con una grana più fina di quella degli elefanti e pesano ciascuno perfino tre chilogrammi. La pelle di questi animali è sprovvista di peli, di colore grigio più o meno chiaro ed è rugosa, irta di prominenze che derivano da ferite, essendo di umore battagliero. Chi li vede per la prima volta, non può fare a meno di provare un certo senso di terrore. Infatti l’aspetto di questi mostri è tutt’altro che rassicurante, specialmente quando mostrano minacciosamente le loro zanne, muggendo come tori. Specialmente i pescatori novellini si spaventano assai, perchè i trichechi, quando sono in grosso numero, non hanno timore di accostarsi alle scialuppe. Spinti da una irresistibile curiosità, poichè ferocia non ne hanno, appena scorgono una scialuppa le muovono incontro con gran furia, sollevando delle vere ondate e, raggiuntala, cercano di aggrapparsi, con le zanne, ai bordi, per meglio guardare le persone che la montano. Lasciati tranquilli si accontentano di seguire la barca, muggendo e nuotando vigorosamente; assaliti cercano di rovesciarla e qualche volta vi riescono. In mare possono talvolta riuscir pericolosi, in terra la cosa è diversa, non movendosi che stentatamente. Non cercano di opporre resistenza e si lasciano ammazzare con facilità. È però difficile accostarli quando sono sulla spiaggia, avendo essi la precauzione di disporre delle sentinelle quando vogliono dormire. Il tenente Querini, il macchinista e la guida, dopo d’aver percorsa una valletta, erano sboccati in mezzo ad alcune rocce che distavano qualche centinaio di metri dai due trichechi. – Temo di vederli sparire prima che possiamo giungere a buon tiro, – disse Stökken. – E per quale motivo? – Il vento soffia dietro di noi e gli anfibi che si trovano sottovento ci sentiranno. Ecco, guardate: hanno interrotto i loro giuochi e rizzano la testa. – I diffidenti!... – esclamò il tenente, con malumore. – Sono furbi, signore. I continui massacri fatti dai balenieri li hanno resi prudenti. – Affrettiamo la marcia; forse giungeremo a buon tiro prima che si inabissino. – I tre cacciatori, tenendosi nascosti dietro le rocce, raddoppiarono il passo, cercando contemporaneamente di non far rumore. Già li credevano a portata dei loro vetterli, quando i due anfibi, che da qualche tempo davano segni d’inquietudine, si trascinarono frettolosamente sul margine del banco, lasciandosi cadere pesantemente in acqua. – Perduti! – esclamò il tenente. – Forse non ancora, – rispose il macchinista. – Possono essersi nascosti sotto il banco di ghiaccio e siccome hanno bisogno di tornare a galla per respirare, non è improbabile che si mostrino ancora. – Corriamo!... – Con passo veloce superarono la distanza che li divideva dalla spiaggia e si arrischiarono sul banco di ghiaccio il quale non cedette sotto i loro passi, quantunque crepitasse minacciosamente. I tre cacciatori, giunti all’orlo, si curvarono sull’acqua e videro distintamente un’ombra gigantesca guizzare sotto i flutti, portandosi verso il largo. – Ah! I bricconi! – esclamò il macchinista. – Fuggono fuori dalla baia!... – Ecco che riappariscono per respirare, – disse il tenente. – Ma sono a cinquecento metri e non mostrano che il naso, – rispose il macchinista. – Che non si possa catturarne nemmeno uno? – Ne troveremo altri, signor tenente. Non diventano radi che all’avvicinarsi dell’inverno e siamo ancora lontani da quell’epoca. – Ditemi, signor Stökken, è vero che una volta i trichechi erano immensamente numerosi su queste terre? – Una volta sì, ma ora scarseggiano dovunque. Io so che duecento anni or sono, nella sola isola degli Orsi se ne uccisero mille in una sola giornata. – Mille avete detto! – esclamò il tenente. – Sì, signor Querini, mille, e quei cacciatori erano tutti norvegesi. So pure che al principio del 1700 se ne uccidevano ancora dai settecento agli ottocento in una stagione di caccia. Ora bisogna sudare molto e navigare a lungo per ucciderne due o trecento. Tuttavia i trichechi sono ancora numerosi sulle spiagge dello Spitzbergen. – E di che cosa si nutrono questi bestioni? – Di molluschi, di alghe e di pesci. Si dice anche che mangino le giovani foche. – È vero che sono vendicativi? – Sì, signor tenente. Quando sono in molti e uno viene ucciso, accorrono subito per vendicarlo, però di rado riescono nel loro intento. Sono masse enormi, nondimeno mancano di mezzi di difesa efficaci e soccombono facilmente sotto i colpi dei cacciatori. Io ho veduto una volta una povera madre, alla quale era stato ucciso il piccino, seguire a lungo la barca dei pescatori, mandando gemiti strazianti. – Mi hanno anche detto che se vengono uccisi in mare affondano. – Sono perduti, signore. Non conviene sparare contro di essi quando non sono a terra. È per questo che gli esquimesi li cacciano con la fiocina, legando prima la fune su di un palo conficcato in qualche banco di ghiaccio. – Rendono molto i trichechi? – Circa novanta lire ciascuno, compresa la pelle ed il grasso da cui si ricava dell’olio. – E si vendono i denti? – Sì, signor tenente, – rispose il macchinista. – Si pagano in ragione di otto lire al chilogrammo se i denti sono grossi e cinque i piccoli. – E se ne uccidono molti ora di questi anfibi? – chiese il tenente. – Dai quindici ai ventimila, secondo le annate. – Che stragi!... – Che non dureranno molto, signore. Al pari delle foche scemano tutti gli anni e finiranno collo scomparire. – Come le balene. – Sì, signor tenente. Anche i grandi cetacei cominciano a diventare rari in questi mari ed è necessario spingersi molto al nord per catturarli. – Mentre un tempo si pescavano nel mar di Biscaglia, – disse il tenente. – Volete che ritorniamo, signore? – chiese Ollier. – Considerato che le foche e le morse non hanno alcuna intenzione di fare la nostra conoscenza, andremo a far le schioppettate contro i volatili. Quelli almeno non sono molto diffidenti, anzi! – Perlustrato il banco, i tre cacciatori fecero ritorno alla spiaggia, prendendo la via che conduceva alle capanne degl’inglesi. Quando vi giunsero, S. A. R. e Cagni avevano terminato le loro osservazioni, le quali avevano dato per risultato che il Capo Flora si trovava a dieci minuti più ad est di quello che davano le carte geografiche schizzate dai precedenti esploratori. Anche il dottor Cavalli era ritornato con una copiosa mèsse di piante polari e le guide con parecchi uccelli che avevano uccisi presso i banchi di ghiaccio. Fatta la colazione, abbondante come al solito, l’equipaggio norvegese, aiutato dalle guide, diede principio allo scarico dei viveri che dovevano servire di riserva nel caso che la spedizione fosse stata costretta a ripiegare verso il Capo Flora. Casse, cassette, barili, furono ammonticchiati nelle scialuppe e sbarcati sul margine del banco di ghiaccio, da dove le guide, aiutate da alcuni marinai, li trasportavano nella capanna di Jackson, destinata come magazzino della spedizione. La temperatura, non ostante la presenza dei ghiacci, era così dolce che le guide, abituate ai freddi alpini, lavoravano in maniche di camicia, non senza stupore dei norvegesi i quali credevano che quegli uomini, nati nei climi tiepidi della regione italica dovessero aver paura dei geli polari. All’indomani, mentre S. A. R. ed i suoi ufficiali si recavano a fare delle fucilate contro alcune foche che erano comparse presso il promontorio, le guide ed i marinai continuarono lo scarico dei viveri. Casse e barili di carni conservate, di biscotto, di frutta secche, di limoni destinati a combattere lo scorbuto, di carni salate, di bottiglie di vino e di liquori, e sacchi di carbone venivano ammucchiati, in bell’ordine, nella capanna trasformata in magazzino. Non furono dimenticate nemmeno le armi e le munizioni, nè le stufe, nè le coperte, nè le tende, onde la spedizione, nel caso che dovesse perdere la nave, potesse trovare ogni cosa senza dover ricorrere alle provviste lasciate dagl’inglesi. Anche quattro scialuppe furono portate a terra. S. A. R. ed i suoi ufficiali, di quando in quando tornavano alla costa per sorvegliare lo scarico, controllando scrupolosamente le casse ed i barili che venivano sbarcati. Il 23 luglio lo sbarco però, non ancora terminato, fu bruscamente interrotto dalla comparsa dei ghiacci. Il vento, levatosi quasi improvvisamente, aveva spinto, in direzione del Capo Flora, una grande quantità di ghiacci galleggianti, ice-berg, streams e palks tutti di dimensioni tali da poter riuscire pericolosi alla Stella Polare. Non vi era tempo da perdere. Spinti da una libecciata violenta, s’accostavano rapidamente, minacciando d’imprigionare la nave. Il capitano Evensen, accortosi del pericolo, richiamò lestamente a bordo l’equipaggio, di cui una parte era a terra, occupato al trasporto dei viveri e si rimise alla vela per trovare un altro ancoraggio più sicuro. S. A. R. e Cagni erano già a bordo, a sorvegliare la manovra. Il nuovo ancoraggio fu subito trovato, poche gomene più lontano, dietro una fila di scogliere, capaci di arrestare la minacciosa invasione dei ghiacci. Un enorme ice-bergs, alto duecento e più metri e largo non meno di sessanta, una vera montagna di ghiaccio, era già entrato nella baia, dondolando spaventosamente. Guai se la Stella Polare si fosse trovata sul suo passaggio!... L’avrebbe inevitabilmente schiacciata come un semplice guscio di noce. L’indomani, domenica, fu ripreso lo scarico dei viveri, con non poco rincrescimento da parte delle guide alpine, molto propense a santificare il giorno festivo. La sera stessa – sera per modo di dire – lo scarico era terminato. Nella capanna erano stati accumulati viveri sufficienti per otto mesi, per assicurare la ritirata alla spedizione nel caso che una disgrazia, non improbabile, dovesse colpire a morte la valorosa nave. Capitolo IV Il Canale Britannico Il 26 luglio la spedizione, dopo d’aver rinchiusa in una cassetta la corrispondenza per la Cappella che doveva ripassare il 15 agosto, salpava definitivamente per spingersi più innanzi che poteva e cercare una baia dove poter passare il tremendo inverno polare. Al sud del Capo il mare era quasi libero, non essendosi veduti che pochi banchi di ghiaccio di pochissimo spessore, quindi tutti avevano la speranza di trovare acque sgombre anche al nord, in direzione del British Channel, ossia del Canale Britannico. L’intenzione del Duca e dei suoi ufficiali era quella di risalirlo fino a che lo permettevano i ghiacci, per poter poi, nella successiva primavera, tentare l’esplorazione con le slitte. La temperatura, relativamente dolce, oscillando sempre fra il +2° ed il 4°, dava a sperare che la discesa dei grandi banchi non fosse ancora incominciata e che quindi la Stella Polare potesse spingersi molto a settentrione. Girato il Capo Flora, la nave piegò verso l’est, toccando l’isola Bell e passando fra le coste della Terra Alessandra e le isole Mabel e Bruce ed imboccando poi il canale di Nightimgale. Il mare era discretamente buono. Solamente di quando in quando dal largo, s’avanzava qualche grossa ondata, la quale andava a rompersi, con lunghi muggiti, sulle scogliere dell’isola Makel e degli isolotti vicini. Al nord-ovest però, sopra la costa dell’Isola Principe Giorgio, si vedeva sempre vagare il nebbione, ma pel momento il vento lo manteneva lontano dal Canale Britannico. Tutti erano saliti in coperta, ansiosi di sapere se il canale, anche verso il nord, si presentava navigabile. S. A. R. non lasciava la passerella e discuteva animatamente coi suoi ufficiali e col capitano Evensen, mentre le guide, Cardenti e Canepa, raggruppati sul castello di prora, guardavano la costa, sulla quale si vedevano apparire non poche foche e anche qualche grosso tricheco. I gabbieri salivano di frequente sulle coffe, spingendosi anche fino sulle crocette per abbracciare maggiore orizzonte. Da lassù avevano scorto molto ghiaccio nel Canale Britannico, ma pareva che non dovesse offrire molta resistenza a giudicarlo dalla sua tinta azzurrognola. Doveva essere ghiaccio nuovo, formatosi di recente e quindi di poco spessore. – Se non troveremo dei veri banchi, andremo bene innanzi, – disse Andresen al tenente Querini ed a Stökken che lo interrogavano. – Il ghiaccio nuovo non ha mai molto spessore e avesse anche un metro la Stella Polare non si troverebbe imbarazzata a romperlo. – Sarà tale anche più al nord? – chiese il tenente. – Ho i miei dubbi, signore. Vedo lassù un certo riflesso abbagliante che mi dà molto da pensare. – È l’ice-blink è vero? – Vi è ancora troppa nebbia per poterlo affermare; tuttavia credo di non ingannarmi. – Se non potremo attraversare i banchi prenderemo un’altra via, – disse il tenente. – S. A. R. è risoluto a cercarsi un passaggio lungo la Terra Alessandra, se qui non si potrà andare innanzi. Lo ha detto or ora. – Il Duca non è uomo da arrestarsi a mezza via, lo so, – disse Andresen. – Ci trascinerà innanzi a dispetto dei ghiacci e del freddo. – Mi rincrescerebbe che la Stella Polare dovesse cambiare rotta, – disse il macchinista. – E per quale motivo? – chiese Andresen. – Desidererei vedere la Cappella la quale deve trovarsi in questo canale. – Per sapere se ha trovato la spedizione Wellmann? – Sì, Andresen. – Se non troviamo ostacoli che ci arrestino la incontreremo, – disse il tenente Querini. – Ecco i primi ghiacci!... Avanti a tutto vapore e diamoci dentro a tutta forza. – Ad un miglio dalla nave, si vedeva il mare coperto da lastroni di ghiaccio, addensatisi sulle spiagge settentrionali dell’isola Bruce e dietro ad essi una superficie liscia come uno specchio, azzurro-pallida, che scintillava vivamente, riflettendo la luce del pallido sole. Fin dove giungeva lo sguardo, il Canale Britannico appariva ingombro di ghiacci e non erano solamente banchi lisci. In mezzo si vedevano ergere alcuni ice-bergs, i quali erano stati arrestati nella loro corsa ed imprigionati. S. A. R., il capitano Cagni, il tenente Querini ed il dott. Cavalli, tennero un breve consiglio col capitano Evensen, temendo che la nave, avanzandosi fra quelle masse di ghiaccio, potesse venire presa e subire le sorti del Tegetthoff o del Fram di Nansen. Prevalse la volontà del giovine principe. – Andiamo innanzi, – aveva detto. – Tentiamo la sorte. – Furono dati in macchina i comandi per ottenere la massima pressione, poi la Stella Polare mosse arditamente all’assalto del pak. I ghiacci non erano completamente compatti. La loro superficie mostrava qua e là dei crepacci considerevoli che potevano essere canali. Si trattava di frantumare il ghiaccio che li separava dalla nave, di raggiungerli e di filare lungo essi fino a toccarne altri che si scorgevano più a settentrione. Una viva emozione si era impadronita di tutti, particolarmente degli italiani che mai si erano trovati ad una simile battaglia. S. A. R. però si mostrava sereno e tranquillo. Certo confidava nella robustezza della sua nave e un po’ anche nella fortuna, nello Stellone d’Italia. La vecchia baleniera, spinta a tutto vapore, procedeva rapida, fendendo rumorosamente le acque e scartando bruscamente i ghiacci galleggianti che trovava sul proprio cammino. L’elica mordeva frettolosamente le acque e la macchina sbuffava rumorosamente facendo tremare i puntali ed i corbetti, mentre torrenti di fumo nero, mescolato a scorie, irrompevano dalla ciminiera a gran getti. La nave raggiunge il pak, lo sormonta con uno stridore rapido e duro, poi ricade di peso e sfonda il primo margine, facendo rimbalzare i ghiacci a destra ed a sinistra. Un getto d’acqua spumeggiante s’alza dinanzi la prora mentre la stiva rimbomba sordamente. Il ghiaccio ha ceduto e un largo solco s’apre dinanzi alla nave, ma non basta. – Macchina indietro!... Avanti a tutto vapore!... – La Stella Polare indietreggia per prendere lo slancio, poi si avventa, come toro infuriato, contro il pak, investendolo vigorosamente. Il ghiaccio che aveva uno spessore di sessanta o settanta centimetri, s’apre con uno scroscio orrendo e un altro crepaccio si forma più innanzi. L’urto è così forte che i marinai e le guide cadono sulla coperta, l’uno addosso all’altro. Anche il giovane Duca ed i suoi ufficiali si urtano, mentre la nave si sbanda. Non importa!... Avanti ancora, avanti sempre! Un canale s’apre poco lontano e si prolunga attraverso il pak. – Raggiungiamolo!... – grida il Duca. La Stella Polare infuria. Il suo sperone, a prova di scoglio, assale nuovamente il banco. La nave urta poderosamente, spezza, lacera, frantuma fra scrosci orrendi e trabalzi disordinati; s’impenna come un cavallo vivamente spronato, s’alza, poi ricade con un rimbombo sonoro che si ripercuote lugubremente nelle profondità della stiva. A quei colpi, a quegli scrosci sempre più violenti, gli uccelli marini fuggono mandando strida di spavento, mentre le foche che sonnecchiano presso i loro buchi o sui margini del campo di ghiaccio, s’inabissano fragorosamente, nuotando attraverso i canali. Un passaggio appare dinanzi alla prora. Fin dove giungerà?... Sarà sufficiente per la mole della nave? Non importa. – Avanti! – comanda il Duca. La Stella Polare s’avanza fra i ghiacci frantumati dal suo sperone, rovescia e spezza i lastroni, urta impetuosamente gli hummoks, i palks, gli streams, attacca nuovamente il pak e passa dall’altra parte, slanciandosi nel canale. Il pericolo è grave. Quell’apertura, sotto le pressioni dei ghiacci, può da un momento all’altro rinchiudersi, stringere la nave come fra una morsa e farla prigioniera, ma nessuno vi pensa. Bisogna andare innanzi e s’andrà, a dispetto degli ostacoli e delle pressioni. S. A. R., dal ponte di comando, a fianco di Cagni e di Evensen, comanda intrepidamente la manovra. Ha gli occhi a tutto e non cessa di dare comandi. – Macchinista, a tutta forza!... Attenti all’urto!... Un altro canale al nord!... Avanti!... – La Stella Polare s’avanza faticosamente, ma senza tregua. Quando il ghiaccio non cede all’urto, indietreggia, prende lo slancio, poi si avventa ferocemente addosso all’ostacolo. Gli alberi tremano fino alla scassa, i madieri gemono, i pennoni oscillano, gli oggetti dispersi pel ponte trabalzano, gli uomini cadono, i cani mandano ululati lamentevoli, ma la voce limpida e squillante del giovane Duca risuona sempre eguale: – Avanti! – Sì avanti, sempre avanti Savoia! – grida Cardenti, il bollente marinaio italiano. Un altro banco viene attaccato, sminuzzato e la Stella Polare guadagna un altro canale, filando a tutto vapore. – Ne avremo per un bel pezzo, – mormora Andresen. – Riusciremo a trovare un po’ di mare libero? – Non avete speranza? – chiese il tenente Querini, che s’era spinto fino al castello di prora per rendersi conto dello spessore dei ghiacci. – Temo, signore, che saremo costretti a tornare indietro. Vedo dei numerosi ice-bergs all’orizzonte e quei colossi non cederanno allo sperone della nostra nave. – Vi possono essere dei canali. – Lo dubito, signore, – rispose il giovane mastro. – Che siamo costretti a cercare un passaggio sulla Terra Alessandra? – Pur troppo. – Allora non incontreremo la Cappella. – Può darsi che quella nave a quest’ora si trovi prigioniera. – Orsù, non disperiamo ancora. – Credo che vi sia poco da sperare, tenente, – disse il capitano Evensen, che lo aveva raggiunto a prora. – Se un vigoroso colpo di vento non sbarazza il canale, saremo costretti a dare indietro. – Cosa dice S. A. R.? – Di continuare la lotta per ora. Pare che vi sia un canale libero verso il nord, però temo molto che noi riusciamo a raggiungerlo. – Credete che vi sia mare libero più al nord? – Sì, signor tenente. – Allora continuiamo l’attacco. – La Stella Polare non si arrestava. Continuava ad assalire vigorosamente il pak, aprendosi lentamente la via. Disgraziatamente di passo in passo che si avanzava, il ghiaccio opponeva maggior resistenza, aumentando di spessore. E questo non era il tutto. Fra il pak v’erano degli ice-bergs, i quali presentavano una fronte assolutamente inattaccabile. Dopo alcune ore di assalti incessanti e sempre più vigorosi, S. A. R. si convinse della inutilità di quegli sforzi. La Stella Polare s’era mostrata d’una solidità a prova di scoglio, come si suol dire dai marinai, però non si doveva abusarne. Quegli urti incessanti potevano indebolire la ruota di prora e compromettere più tardi tutto lo scafo, quando forse si doveva aver da fare con le tremende pressioni. Fu quindi deciso di ritornare senza indugio verso il sud e di cercare un passaggio lungo le coste meridionali della Terra Alessandra. Questo progetto dispiaceva a tutti, poichè nel Canale Britannico vi erano maggiori probabilità di spingersi più rapidamente a settentrione e di trovare inoltre delle baie ben riparate per lo svernamento. Inoltre la Terra Alessandra era poco nota e per girarla occorreva un tempo relativamente lungo. Non si poteva d’altronde fare diversamente dal momento che i ghiacci ostruivano completamente il Canale Britannico, impedendo l’avanzata. La Stella Polare girò adunque di bordo, speronando i ghiacci che minacciavano di serrarlesi addosso e riprese la via del sud approfittando dei canali che aveva poco prima aperti. Il tempo si era rischiarato, essendosi la nebbia diradata. sfera, che nei giorni scorsi era sempre rimasta opaca, brillava d’un dolce splendore, mentre il sole si avvicinava al nord tuffandosi obliquamente, essendo prossimo il tramonto. Un arco abbagliante, circondato da nuvolette rosse, brillava verso il settentrione, proiettando sul cielo riflessi d’oro e facendo scintillare le acque dei canali. Il colore dei campi di ghiaccio e degli ice-bergs era meravigliosamente variato. Sul cielo smaltato d’oro dai riflessi del tramonto, essi spiccavano in violetto cupo; a oriente e ad occidente erano color delle ametiste, degli zaffiri e degli smeraldi, tinte che a poco a poco illanguidivano fino a diventare bianco-perlacee. A mezzodì invece, i ghiacci che si rinserravano dinanzi alla nave, come se avessero voluto impedirle il ritorno, parevano d’argento greggio con qualche venatura d’oro fuso. La Stella Polare, insensibile a quelle bellezze che solamente nelle regioni polari si possono ammirare, s’accaniva contro quegli ostacoli risplendenti delle più vaghe tinte che si possa immaginare. La sua prora percuoteva fieramente i banchi, con fragori assordanti, spezzando, lacerando, sfondando. Staccava lastroni, li frantumava col proprio peso e li ricacciava indietro dove l’elice, turbinante, finiva per sminuzzarli. Parte dell’equipaggio, stanco per quella lunga lotta, si era ritirato per prendere un po’ di sonno, molto difficile però, con quei continui colpi, a gustarsi, ma il giovane Duca ed i suoi ufficiali non avevano abbandonata la coperta. Il giovane animoso, fra Cagni ed Evensen, comandava la manovra, additando i canali che si dovevano raggiungere ed incoraggiando tutti con la voce e con l’esempio. Eppure, anche fra quelle pericolose manovre, si mostrava, come sempre, ilare, sereno, trovando il tempo di rivolgere una parola affabile a tutti, ad ufficiali ed a semplici marinai e ridendo di quei continui trabalzi che mandavano a gambe levate uomini e cani. L’indomani la Stella Polare, che aveva rifatto il cammino pericoloso, passando dinanzi al Capo Forbes ed alla baia di Barter che si apre sulle coste orientali della Terra Alessandra girava la punta Stephens muovendo verso quella di Grant, che è la più meridionale. La sua corsa verso l’ovest non doveva durare molto. Dinanzi alla baia di Cook ed in direzione del Capo Grant i ghiacci si erano accumulati in così gran numero da arrestare la marcia della valorosa nave. Dovunque si vedevano giganteggiare floe-bergs e banchi immensi. – Altezza, – disse il capitano Evensen, rivolgendosi al Duca. – La via ci è chiusa e tutti i nostri sforzi non riuscirebbero a sfondare quegli ostacoli. Volete un consiglio? Ritorniamo nel Canale Britannico e lavoriamo di sperone. – Capitolo V Lotta coi ghiacci Il lupo di mare aveva ragione. Se si voleva ritentare la corsa verso il nord non vi era da far altro che ritornare nel canale Britannico e ricominciare la lotta contro quei banchi di ghiaccio, molto meno resistenti di quelli che ingombravano le coste della Terra Alessandra. S. A. R. quantunque fosse molto contrariato da quel ritorno, dovette arrendersi alle ragioni del vecchio baleniere. Sfondare quelle barriere gigantesche, rinforzate dagli ice-bergs, non era possibile. La nave avrebbe corso il pericolo di farsi imprigionare fra i ghiacci e di rimanervi per tutto l’inverno e forse per qualche anno ed a questo nessuno ci teneva. Fu quindi deciso il ritorno, con la speranza di trovare qualche passaggio attraverso i ghiacci del Canale Britannico. La Stella Polare riprese quindi la via del sud-ovest per rimontare più tardi verso il nord attraverso alle isole del canale di Nightimgale. Essendo il cielo nuovamente rischiarato, lasciando vedere, di tratto in tratto, qualche raggio di sole, sui banchi di ghiaccio, e presso le spiagge, si vedevano comparire numerose foche. Anzi qualcuna era apparsa perfino presso la nave, tuffandosi però così rapidamente da non lasciar tempo al Duca ed ai suoi ufficiali di prendere i fucili. Quegli anfibi appartenevano per lo più alla specie conosciuta sotto il nome di foche dai fianchi neri o di Groenlandia. Sono lunghi poco più d’un metro, e hanno il pelo fitto, corto, grigio fulvo o bruno molto oscuro, coi fianchi nerissimi ed il petto bianco argenteo. Sul dorso poi hanno un disegno a foggia di ferro di cavallo molto allungato. Le femmine, un po’ più piccole dei maschi, si distinguevano facilmente, avendo il pelame giallastro col disegno del dorso nero-azzurrognolo. Alcune tenevano strette fra le zampe delle piccole foche quasi bianche, le quali vagivano come bambini. – Sono appena giunte, – disse il primo macchinista al tenente Querini che lo interrogava. – Si fermeranno qua fino ai primi freddi, poi se ne torneranno al sud. – È vero che queste foche intraprendono delle lunghe emigrazioni? – Sì, signor tenente. Emigrano in branchi numerosissimi percorrendo centinaia e centinaia di miglia per trovare dei ricoveri convenienti. – Sono facili a uccidersi? – Anzi le più difficili poichè, contrariamente alle abitudini delle altre foche, non s’accostano mai alle terre, vivendo sempre sui banchi di ghiaccio. In tal modo non è possibile sorprenderle e circondarle. Gli esquimesi però ne uccidono ogni anno molte centinaia, usando delle fiocine, alle quali attaccano prima delle vesciche piene d’aria. – Forse per impedire agli anfibi uccisi di affondare? – chiese il tenente. – Sì signore. – E gli esquimesi traggono molti utili da queste foche. – Se dovessero venire a mancare, quei poveri abitanti molto probabilmente sarebbero costretti a morire di fame e di freddo. È dalle foche dai fianchi neri o kadolik, come vengono chiamate in Groenlandia, che traggono il loro principale sostentamento e molte cose ancora necessarie alla loro esistenza. La carne la divorano avidamente, l’olio estratto dal grasso lo bevono a libbre, del sangue, fatto prima bollire con acqua di mare, ne fanno delle pallottole che poi lasciano gelare, coi tendini fanno fili, colle scapole fanno spatole da remi, colla pelle vesti molto calde. Che più? Cogli intestini fanno impannate per le finestre. – È almeno buona la carne? – Puah! – fece il macchinista. – È di color bruno e sa di pesce rancido e di salvatico. – Questi anfibi scemeranno rapidamente colle cacce accanite che fanno gli esquimesi. – Sono ancora molto numerosi, signor tenente. E poi non è già nella Groenlandia che si fanno i grandi massacri. Bisogna andare nelle isole del mare di Behering. Là si fanno delle stragi orrende, tali anzi che il governo americano ha dovuto porvi un argine con delle leggi severe. – Sono le foche orsine che si uccidono colà, è vero? – Sì, signor tenente e non si trovano che su poche isole, alle Prebytoff e su quelle del Comandante. Nè più al sud, nè più al nord capita di vederne. – È molto strano che quelle foche abbiano simili preferenze. – E ciò ad onta che tutti gli anni i cacciatori facciano dei massacri spaventevoli. Quelle foche, che vengono anche chiamate gatti marini, si riuniscono sulle spiagge di quelle isole verso la fine di maggio. Arrivano in branchi immensi, capitanati dai maschi e si accampano nei luoghi già precedentemente scelti da alcuni vecchi esploratori. Da quel momento ogni rumore deve cessare sulle isole: si proibisce agli abitanti di fare fuoco anche contro i volatili e le volpi, per non spaventare gli anfibi. Gli accampamenti sono assai curiosi a vedersi. I maschi più robusti prendono posto presso l’acqua, assieme alle loro femmine, più in alto, verso le rocce si radunano i giovani minori di tre anni, quindi più su ancora i vecchi che non hanno la forza di difendere le proprie mogli. Fra i primi, i secondi ed i terzi vi sono delle zone neutre che tutti possono percorrere, ma guai se uno entra nell’accampamento dell’altro! Viene immediatamente assalito ed ucciso. La legge americana votata nel 1858 ha stabilito che si rispettino le femmine ed i maschi superiori ai quattro anni. I cacciatori quindi, giunta l’epoca delle stragi, si gettano fra le zone neutre, lasciano fuggire i maschi e le femmine del primo accampamento e spingono le altre foche entro terra per poi massacrarle a colpi di bastone ferrato. – E se ne ammazzano molte? – chiese il tenente, il quale ascoltava attentamente quegli interessanti particolari. – Delle migliaia, signore. Ancora pochi anni or sono la Compagnia dell’Alaska ne uccideva dalle settanta alle ottantamila in una sola stagione. – Che massacri!... E non scemano? – Sì, ma lentamente, essendo quelle foche straordinariamente prolifiche. Signore, abbiamo ancora molti ghiacci al di là del Capo Flora. Vedete? – Sì, signor Stökken. S. A. R. si arrabbierà di certo. – Abbiamo avuta già troppa fortuna, signor tenente. – Non basta, signor Stökken; ne avremo dell’altra o almeno sapremo procurarcela. – Verso il sud-ovest si vedevano numerosi banchi, mentre il giorno innanzi quelle acque erano quasi sgombre. Quei ghiacci venivano dall’ovest, trascinati dalla grande corrente polare che rade le coste siberiane e che va a lambire le spiagge orientali della Groenlandia, risalendo poi, molto probabilmente, verso il polo. Erano però banchi di poco spessore che non davano fastidio alla solida prora della nave. Passando fra i canali aperti fra banco e banco, la Stella Polare poté facilmente girare l’isola Bruce, raggiungere lo stretto di Miers e quindi rimontare faticosamente il Canale Britannico. Non ostante quelle continue lotte contro i ghiacci, la vita di bordo non subiva alcuna variazione. S. A. R. ed il capitano Cagni facevano le loro osservazioni, rilevavano le coste, misuravano la profondità del mare, gettando di frequente degli scandagli e non dimenticavano di gettare in acqua, ogni giorno, quattro bottiglie bene turate, racchiudenti la data e la latitudine e la longitudine del punto di lancio. La vita di bordo era stata d’altronde regolata da S. A. R. e tutti avevano le loro mansioni. Anche le guide alpine non erano lasciate in ozio, quantunque non abituate a navigare. Non potendo prendere parte alla manovra, non riuscendo a distinguere un paterazzo da un semplice gherlino, avevano ricevuto ordini speciali. Alle sei e mezzo dovevano alzarsi, alle sette occuparsi dei cani, pulire i canili e dare da mangiare alle bestie, alle nove pulizia delle cabine destinate agli ufficiali, e degli abiti di questi, poi secondo pasto dei cani, quindi libertà assoluta. Anche i pasti erano stati regolati dal Duca. Alle otto colazione, a mezzogiorno pranzo, alle sei e mezzo cena, e sempre pasti abbondanti e variati, bene preparati dal cuoco italiano imbarcato ad Arcangelo in surrogazione del norvegese che non accomodava a nessuno. Anzi lo avevano chiamato scherzando, l’avvelenatore. Alla sera poi, a chi non toccava il quarto, era concesso di leggere, o scrivere e di giocare alla dama, ai tarocchi o al domino e le partite si seguivano fino a che i giocatori venivano sorpresi dal sonno. Il 27 luglio la Stella Polare s’impegnava in mezzo ad immensi campi di ghiaccio, accumulatisi nel Canale Britannico. Fin dove giungeva lo sguardo non si scorgevano altro che ammassi di ghiaccio di forme irregolari, stretti attorno ad alcuni ice-bergs fluttuanti pericolosamente. S’aprivano, poi si rinserravano, quindi tornavano a stringersi sotto le pressioni che esercitavano degli sforzi poderosi. Di quando in quando detonavano come se delle mine scoppiassero nel loro seno, poi dei cumuli si formavano qua e là alzandosi in forma di piramidi per poi sfasciarsi con cupi rimbombi. A tutti sembrava impossibile di dover forzare quelle barriere, ma il Duca la pensava diversamente. – Passeremo, – aveva detto al capitano Evensen. – Lo tenteremo, – aveva risposto il vecchio baleniere. E la Stella Polare s’era scagliata a tutto vapore in mezzo a quei banchi speronando furiosamente tutti gli ostacoli che incontrava. La spedizione giocava una carta pericolosissima, perchè la nave poteva venire, da un momento all’altro, imprigionata; ma tutti avevano cieca fiducia nell’esperienza del vecchio baleniere e nella calma audacia del giovane Duca e di Cagni. La lotta era cominciata con vero furore. La Stella Polare investiva i banchi poderosamente, vi balzava sopra fracassandoli col proprio peso, poi retrocedeva per riprendere lo slancio, quindi tornava ad avventarsi. Gli urti si succedevano agli urti senza tregua. Gli alberi oscillavano e tremavano, i bagli ed i puntali scricchiolavano e la stiva rimbombava cupamente. Non importa: avanti, avanti ancora!… Il nord è là, avanti pel nord!… Di quando in quando sui campi di ghiaccio si vedevano apparire delle foche e dei trichechi. Non dimostravano molta paura, anzi stavano a guardare con curiosità la nave, esponendosi ai colpi di fucile che sparavano contro di loro il Duca ed i suoi ufficiali. Fu così che un magnifico tricheco ed una foca vennero uccisi e poi issati a bordo, con grande disperazione del cuoco, il buon Iginio Zini, il quale temeva di dover cucinare quei bestioni che non conosceva e che puzzavano fortemente di pesce e di olio rancido. Durante quella corsa fra i ghiacci, anche un orso bianco si lasciò accostare a tiro di fucile e fu abbattuto da una scarica ben diretta che lo fulminò sul margine d’uno streams. Il bestione, che misurava quasi due metri e pesava circa seicento chilogrammi, fu passato nella dispensa senza che il cuoco protestasse, anzi si mise in quattro per preparare degli eccellenti piatti di carne orsina, da tutti molto gustati, specialmente dalle guide alpine. Il 29 luglio, dopo una traversata faticosissima, la Stella Polare si trovava in mezzo a tali banchi di ghiaccio, da dubitare assai dell’avanzata. Dai diversi canali aperti fra le innumerevoli isole che fiancheggiano le terre di Zichy, i ghiacci affluivano in numero straordinario, invadendo le acque del Canale Britannico. Erano palks, floe, streams ed ice-bergs, i quali si stringevano gli uni addosso agli altri con detonazioni e urti assordanti. Si cozzavano impetuosamente fracassandosi, si sgretolavano, si rovesciavano con mille scricchiolii. – L’affare diventa serio, – disse Stökken, il quale aveva lasciata la macchina. – Non so se riusciremo a passare. Cosa dite, capitano Evensen? – Il vecchio baleniere che osservava i ghiacci dal castello di prora assieme al tenente Querini ed Andresen, fece col capo un segno di dubbio. – Avremo da sudare.... freddo, – rispose. – È la corrente che li trasporta? – chiese il tenente Querini. – Sì, signore, – rispose il capitano. – Sempre da levante a ponente e forse questi ghiacci vengono dalle coste della Siberia. – Siete proprio certo dell’esistenza di questa corrente? – Conoscete il disastro della Jeannette, signor tenente? – Sì, signor Evensen. – Ebbene cosa direste se vi dicessi che dei rottami di quella nave sono stati ritrovati sulle coste orientali della Norvegia?... Eppure voi sapete che la Jeannette è andata a picco presso l’isola Bennet, di fronte all’arcipelago delle Isole della Nuova Siberia. Dopo un tale fatto come si può dubitare della direzione della corrente che viene dalla Siberia? – Questo è vero, signor Evensen. Un tremendo naufragio quello della Jeannette. – Una catastrofe che fa riscontro a quella dell'Erebus e del Terror comandate dall’ammiraglio Franklin. – La conoscete nei suoi particolari? – Sì, signor tenente, e mi ricordo dell’emozione profonda prodotta fra tutti i naviganti artici. – Sono morti quasi tutti, è vero? – Sì, signor tenente. La sfortuna perseguitava quei valorosi americani e divenne più tremenda quando furono costretti ad abbandonare la loro nave. – Quanti riuscirono a raggiungere la foce della Lena? – Le due scialuppe maggiori poterono toccare quelle spiagge desolate; la terza invece scomparve durante la tempesta che aveva colto quegli arditi esploratori dopo l’abbandono della loro nave, nè più mai nulla si seppe di coloro che la montavano. – E quanti uomini poterono salvarsi? – Tredici soli; gli altri venti morirono tutti, chi annegati e chi di fame nel delta della Lena e fra questi anche il comandante della Jeannette, lo sfortunato De Long, trovato morto assieme ai suoi undici compagni. – E della scialuppa guidata dal tenente Chipp non s’ebbe più alcuna notizia? – Nessuna, signor tenente, non ostante le accurate ricerche fatte dai superstiti della spedizione e dai russi. – Un terribile disastro che può forse toccare anche a noi, – disse il tenente Querini. – Speriamo che la fortuna ci sia propizia, signore. Vi è qualche cosa che ci protegge. – Sì, la Stella d’Italia. – Così si dice, – rispose il capitano Evensen, ridendo. Note Capitolo VI Le prime pressioni Il 31 luglio la Stella Polare era più che mai alle prese coi ghiacci. I banchi si accumulavano incessantemente attorno alla nave, minacciando di rinserrarla da ogni parte e di imprigionarla prima che avesse potuto trovare una baia acconcia per svernare. Lo spettacolo che presentavano quei ghiacci era terribile. Detonavano incessantemente, scricchiolavano, zuffolavano sotto le formidabili strette, s’agitavano burrascosamente, s’alzavano o s’abbassavano con cupi boati. Pareva talvolta che sotto d’essi il mare fosse in tempesta e che cercasse, con sforzi poderosi, di rompere quella crosta gelata che lo teneva prigioniero. Di quando in quando delle colonne o delle piramidi sorgevano bruscamente dai banchi in causa delle incessanti pressioni, si accavallavano paurosamente, poi diroccavano con immenso fracasso, lanciando lontani i blocchi di ghiaccio, come se una mina fosse scoppiata nel loro seno. La Stella Polare però non si arrestava. Lanciata a tutto vapore continuava ad investire poderosamente i banchi, squarciandoli con grande impeto e filando velocemente attraverso le spaccature. S. A. R., Cagni ed il capitano Evensen cercavano ansiosamente i canali e quando riuscivano a scoprirne uno, lanciavano la nave in quella direzione per scorrerlo prima che le pressioni lo richiudessero. La lotta era dura, pure la speranza di poter varcare quegli ostacoli e guadagnare il mare libero, che supponevano ritrovare più a settentrione, sosteneva tutti. – Avanti!... Avanti ancora!... – era il comando che usciva incessantemente dalle labbra dell’animoso principe. E la Stella Polare, non ostante l’aumentare dei ghiacci ed i pericoli continui, avanzava sempre, passando di squarcio in isquarcio, di canale in canale. Il 1° agosto però, mentre si era cacciata in un canale, questo bruscamente si chiuse, rinserrando improvvisamente la nave e facendola piegare su di un fianco. Tutti gli altri banchi avevano seguìto quel movimento stringendosi gli uni contro gli altri e facendo scomparire bruscamente gli spazi che poco prima li dividevano. Si era in tal modo formato un banco immenso, che pareva non avesse confini. Le pressioni si erano manifestate con una potenza incredibile. I ghiacci muggivano, tuonavano, sibilavano, scrosciavano con un baccano assordante e ondeggiavano sinistramente, imprimendo alla nave delle brusche oscillazioni da babordo a tribordo. Il fasciame, sotto quelle strette, crepitava ed i puntali s’inarcavano: lo scafo gemeva come si lamentasse di quelle ruvide carezze. Fortunatamente i larghi fianchi della vecchia baleniera si sollevavano gradatamente, sfuggendo così alla stretta. Diversamente i ghiacci avrebbero infallantemente sfondati i corbetti ed il ghiaccio avrebbe finito per congiungersi attraverso la stiva. Però anche i margini del banco si sollevavano e giungevano fino ai bordi della nave, minacciando di rovesciarsi in coperta. A bordo ci fu un momento di grande ansietà. Guai se le pressioni avessero dovuto continuare: la nave forse non avrebbe potuto resistere a lungo. I cani, spaventati da quei muggiti e da quelle detonazioni, urlavano lugubremente. I comandi si succedevano ai comandi. S. A. R., Cagni ed il capitano Evensen, curvi sulle murate, guardavano i ghiacci, portandosi ora a babordo ed ora a tribordo, mentre i marinai, coi buttafuori, cercavano di respingere i ghiacci che continuavano a sollevarsi fino ai bordi. Fortunatamente le pressioni a poco a poco cominciarono a scemare di violenza. Le detonazioni ed i muggiti si fecero più rari, le colonne e le piramidi, spinte fuori dal banco dalla forza delle pressioni, diroccarono un’ultima volta, poi si manifestarono qua e là dei crepacci che si allungavano in tutte le direzioni. – Il pericolo è passato, – disse il primo macchinista al tenente Querini. – Credete che le pressioni non si rinnovino? – Pel momento no, signore, – rispose il giovane nostromo. – Potevano guastarci la nave? – Sfondarla, signore. Nessuna forza può resistere alle strette dei ghiacci. – Possiamo essere contenti della nostra nave. – Sì, signor tenente. Ha subìta la prima prova meravigliosamente, quantunque non abbia i fianchi rotondi come il Fram di Nansen, si è sollevata bene. – Allora possiamo sperare che resista anche durante l’inverno. – Lo sapremo più tardi, signore, – rispose Andresen, sorridendo. – Chissà quali pressioni dovremo subire più a settentrione. Ecco laggiù dei nuovi canali: forse passeremo. La Stella Polare, sfuggita alla terribile pressione, aveva ripresa la corsa assalendo rabbiosamente i banchi. Tutti avevano fretta di uscire da quelle strettoie e di raggiungere il mare libero. Il capitano Evensen, pratico di quelle regioni, aveva data l’assicurazione che non si tarderebbe ad incontrare acque libere, e quel lupo di mare non doveva ingannarsi nelle sue previsioni. Fino al 4 agosto la Stella Polare potè spingersi, faticosamente, verso il nord, passando di canale in canale e assalendo i ghiacci che la stringevano da tutte le parti, poi fu nuovamente arrestata verso l’80° di latitudine nord, nei pressi dell’isola Eaton, da imponenti ammassi di ghiaccio. Nel momento in cui si vedeva impedita la corsa, un grido mandato da un marinaio fece accorrere tutti in coperta: – Una nave dinanzi a noi! – Non era effetto di qualche miraggio o di rifrazione. Una vera nave, grande quasi quanto la Stella Polare, era imprigionata fra i banchi di ghiaccio, a parecchie miglia di distanza. – Non può essere che la Cappella, – disse il capitano Evensen. – Ecco una bella occasione per far sapere nostre notizie in Europa. – Che non sia qualche altra nave? – chiesero parecchi membri della spedizione italiana. – No, signori, conosco troppo bene la Cappella per ingannarmi. Quella è la nave che è andata in cerca della spedizione Wellmann. – Cerchiamo di raggiungerla, – disse il Duca. La cosa, almeno nel momento, appariva molto dubbia poichè un banco immenso e compatto impediva alle due navi di congiungersi. Attaccarlo a colpi di sperone era assolutamente impossibile, presentando uno spessore straordinario; aprirsi un canale coi picconi era del pari impossibile, considerate le poche braccia disponibili che vi erano a bordo. Sarebbe stata una fatica enorme e forse senza successo, poichè vi era da temere che alla notte il ghiaccio spezzato si risaldasse. – Aspettiamo che il vento disgreghi il banco o che le pressioni aprano dei canali, – disse il capitano Evensen. – Per ora non vi è nulla da tentare. – Credete che quella nave abbia incontrata la spedizione Wellmann? – domandò il dottor Cavalli. – Lo suppongo, signore. – Era venuta ad esplorare queste terre? – chiese il tenente Querini. – Sì signore. – Mi pare che il signor Wellmann abbia già fatto qualche altro viaggio nelle regioni polari. – Alcuni anni or sono ha tentato ancora di spingersi verso il polo, dirigendosi al nord dello Spitzbergen, ma non ebbe fortuna. I ghiacci lo trascinarono al sud, spingendolo su quelle isole. Si dice però che quella spedizione fosse stata allestita con poca serietà. – Da quando si trova su queste terre? – È partito il 27 luglio dell’anno scorso, con un seguito numeroso, sbarcando al Capo Tegetthoff, poi la sua nave fece ritorno in Norvegia. – E non si è più saputo nulla? – chiese il tenente. – Si sa che il Wellmann doveva svernare sul quel Capo per poi spingersi direttamente verso il polo nella prossima primavera. Che si sia spinto molto innanzi o che sia stato sfortunato, lo sapremo forse presto. – Che si aprano i ghiacci? – Lo spero, signore. Il vento, presto o tardi, li spingerà altrove. Guardate lassù, verso il nord non vedete come l’orizzonte è azzurro? Ciò indica che là vi è il mare libero. Armiamoci di pazienza e aspettiamo. – L’indomani la Stella Polare, avendo trovato un canale, potè inoltrarsi di alcune miglia, con molta fatica però e anche con molto pericolo. La Cappella dal canto suo era riuscita a guadagnare il mar libero, ma prima di riprendere la rotta verso il sud voleva attendere la Stella Polare per ricevere la corrispondenza. A mezzo di bandiere aveva già segnalato di rimanere in panna in attesa che la nave del Duca potesse liberarsi dai banchi di ghiaccio, ed aveva pure segnalato di aver a bordo la spedizione Wellmann. Non fu che il 6 agosto, all’una pomeridiana, che la Stella Polare, dopo d’aver assalito vigorosamente gli ultimi banchi di ghiaccio, potè finalmente raggiungere il mare libero, abbordare la Cappella e salutare i superstiti della spedizione Wellmann. Capitolo VII L’incontro con la «Cappella» La spedizione Wellmann, raccolta dalla nave baleniera, aveva avuto un tale rovescio da non incoraggiare certo i membri della spedizione italiana. Ritornava in pessimo stato, con un uomo di meno e senz’esser riuscita nel suo intento di raggiungere il polo. Come abbiamo detto, il signor Wellmann, un americano già pratico delle regioni polari, era partito dalla Norvegia l’anno precedente, sbarcando al Capo Tegetthoff il 30 luglio, dove piantava i suoi quartieri d’inverno, mentre la nave che lo aveva trasportato fino a quel luogo, s’affrettava a tornare in patria. Aveva per compagni tre americani, tre scienziati, il naturalista De Hoffman, il fisico Harline ed il meteorologo e botanico luogotenente Baldwin, più cinque marinai norvegesi. Stabiliti i quartieri d’inverno, il Wellmann, approfittando della buona stagione, si era subito spinto fino all’80° di latitudine nord, costruendo una casupola sulla costa orientale della terra di Wilczeck. Quella stazione fu chiamata pomposamente col nome di forte Mac-Kinley, in onore del presidente degli Stati Uniti, e vi furono messi a guardia due marinai norvegesi Paolo Bjorwig e Bernt Bentzen. Quest’ultimo era già stato compagno di Nansen durante la deriva del Fram. Per quale motivo i due norvegesi erano stati lasciati soli nella capanna? Lo si ignora. Certo fu una imprevidenza che quei due disgraziati dovevano pagare ben cara. Mentre i due marinai rimanevano soli su quella spiaggia deserta, alle prese coi terribili freddi della regione artica e cogli orsi bianchi, la spedizione era ritornata al Capo Tegetthoff per svernare. Verso la metà di febbraio del nuovo anno, il signor Wellmann ed i suoi compagni lasciavano i quartieri d’inverno per spingersi verso il nord e rilevare i due marinai norvegesi. Giunti al forte Mac-Kinley, come era da prevedersi, non trovarono vivo che il Bjorwig. Il povero Bentzen era morto due mesi prima, ucciso dallo scorbuto, ed il superstite aveva trascorso parte dell’inverno accanto al suo disgraziato compagno, che non era riuscito a seppellire!... Non ostante quel triste avvenimento, la spedizione aveva continuata la sua corsa verso il nord, con la speranza di poter giungere, con una rapida marcia, se non al polo, almeno nelle sue vicinanze e di sorpassare la latitudine toccata da Nansen. Raggiunse felicemente l’82° di latitudine, scoprendo al nord di Treeden Island, la prima terra scoperta da Nansen, nuove isole, poi dovette arrestarsi in causa d’un grave avvenimento. Il signor Wellmann, caduto in un crepaccio, si era spezzata una gamba, costringendo la spedizione ad un sollecito ritorno per salvare il proprio capo. Rifece adunque le trecento miglia già percorse, trasportando il signor Wellmann sulle slitte, e raggiungendo i quartieri d’inverno del Capo Tegetthoff. Ma qui un nuovo disastro l’attendeva. Verso la metà del marzo, quando la spedizione stava per riprendere la sua corsa verso il nord, un terribile terremoto rovesciava parte delle baracche, uccidendo parecchi cani e distruggendo la maggior parte delle slitte. Fu l’ultimo colpo che immobilizzò gli americani nei loro quartieri d’inverno. Il 27 luglio la spedizione, quando già si era rassegnata a passare un altro inverno su quelle terre desolate, veniva raccolta dalla Cappella, mandata appositamente in quelle regioni per raccoglierla. L’incontro della Stella Polare con la nave baleniera fu commovente. Fu trasmessa la posta, poi dopo affettuosi addii la prima riprendeva la sua corsa verso il nord, mentre la seconda, forzando i ghiacci, giungeva felicemente al Capo Flora dove raccoglieva le lettere depositate da S. A. R. il Duca, da Cagni, da Querini, da Cavalli, dalle quattro guide e dai due marinai della spedizione, Canepa e Cardenti1. La Stella Polare, trovato il mar libero, dopo tante lotte coi banchi di ghiaccio, aveva ripreso frettolosamente il largo per raggiungere, il più presto che era possibile, le terre settentrionali dell’arcipelago Francesco Giuseppe. Come già si sa, il piano del Duca era quello di spingersi innanzi più che poteva, per poi tentare l’avanzata con le slitte, quindi premeva a tutti di raggiungere una latitudine elevata. Lo svernamento doveva fissarsi molto al nord, su qualche baia riparata, che si sarebbe indubbiamente trovata su qualche costa. I rifugi non dovevano mancare, ma si trattava di trovarli il più tardi possibile, cioè fino all’incontro cogli ice-fields inattaccabili, ossia cogli immensi campi di ghiaccio. Il tempo, disgraziatamente, andava sempre più abbuiandosi e quantunque si fosse in piena estate, di quando in quando, dal settentrione, soffiavano venti freddi i quali accennavano ad aumentare. Delle nebbie ondeggiavano costantemente pel cielo, impedendo a S. A. R. ed ai suoi compagni di fare le loro osservazioni. Si sentiva già per l’aria l’avvicinarsi del terribile inverno polare: ed erano in pieno agosto!... La Stella Polare però non si arrestava per cercare la baia che doveva servirle di svernamento. Approfittava di quel po’ di mare libero per spingersi verso il settentrione. I ghiacci tuttavia non mancavano. Nell’immenso canale si vedevano errare capricciosamente, in balia delle onde, banchi di ghiaccio ed ice-bergs in buon numero, che però lasciavano degli spazi sufficienti pel passaggio della nave. – Non andremo molto lontano, – disse un giorno l’ingegnere Stökken al tenente Querini che stava chiacchierando con le guide. – L’inverno si avanza a gran passi. – Di già? – chiese il tenente, stupito. – Guardate, signore: gli uccelli marini cominciano a fuggire verso il sud e questo è un brutto indizio. – Andremo egualmente innanzi, signor Stökken. – Non vi fa paura l’inverno polare? – Se non ha fatto paura al mio glorioso avo perchè dovrebbe spaventare me? – Cosa volete dire, signor tenente?... – Che un mio avo si è pure spinto nei mari freddi, senza aver avuto paura dei ghiacci, – rispose il tenente. – Ed in quell’epoca, ve lo assicuro, non si aveva ancora molta conoscenza coi mari nordici. – Cosa mi raccontate, signor tenente? – Una storia vera, signor Stökken. – Un vostro antenato s’è spinto fino a questi paraggi? – Oh!... Non molto innanzi, signor Stökken, però per quei tempi era già un viaggio considerevole. Rimonta nientemeno che al 1431. – È stato adunque uno dei primi naviganti, anteriore ai Verazzano ed ai Caboto. – Sì, signor Stökken. Narrano le antiche cronache che questo mio avo, Pietro Querini, gentiluomo veneziano, si era proposto di visitare le regioni situate al di là del circolo artico, impresa molto difficile in quei tempi, non conoscendosi che molto imperfettamente le terre nordiche. – Lo credo, signor tenente. A quell’epoca era malissimo nota anche la mia Norvegia. – Era partito con sessantotto marinai, ottocento barili di malvasia, legnami lavorati e spezie, genziana e parecchie altre merci di valore, spingendosi fino a settecento miglia dall’Islanda. Una tempesta tremenda aveva abbattuti gli alberi e spezzato il timone, sicchè i marinai furono costretti a cercare rifugio in due scialuppe. Una contenente venticinque uomini scomparve, nè mai più nulla si seppe; l’altra, con quarantasette, errò lungo tempo sul mare, lottando con la fame e con la sete. Quando il 4 gennaio del 1432 quella scialuppa potè toccare le coste della Norvegia, quei quarantasette uomini erano ridotti solamente a tredici. – Un vero disastro. – Sì, signor Stökken. – Ed il vostro avo, morì? – No, potè giungere a Bergen dove ebbe festose accoglienze, recandosi più tardi a Londra, prima di tornare in patria. – Signore, – disse l’ingegnere, con voce grave. – Auguro al pronipote del navigatore di ritornare pure in patria carico di allori e di gloria. – Grazie, signor Stökken, eppure... – Cosa volete dire, tenente? – Io non lo so, tuttavia temo che i ghiacci polari debbano portare sventura al pronipote, – rispose il tenente, con accento malinconico. – Follie, signore. – Speriamo che siano tali, signor Stökken. – Intanto la Stella Polare continuava la sua corsa fra le innumerevoli isole che ingombrano la parte settentrionale del Canale Britannico, ma non era veramente una corsa, poiché i ghiacci di tratto in tratto le ostacolavano la marcia, facendole perdere molto tempo preziosissimo. Talvolta lo sperone della nave non bastava a rompere i margini dei banchi, ed allora i marinai dovevano scendere sul ghiaccio e attaccarlo col piccone e con le seghe, fatica straordinaria, ma che però tutti sopportavano senza lagnarsi. Non ostante quei continui ostacoli, il buon umore regnava costantemente a bordo. S. A. R. d’altronde incoraggiava tutti a compiere il loro dovere, ora con una buona parola, ora con uno scherzo, ora con un sorriso e si studiava di mantenerli tutti in buona salute con pasti abbondanti e svariati, nei quali il cuoco canavesano si distingueva sempre con generale soddisfazione. Chi dava noia erano sempre i cani. Cogli uomini si mostravano docili, specialmente con le guide alpine incaricate della loro pulizia e del loro nutrimento; viceversa poi si azzuffavano ferocemente fra di loro, mordendosi a sangue facendo un tale baccano che talvolta i marinai non riuscivano a udire gli ordini dei comandanti. Ad ogni momento le guide erano costrette ad accorrere per separarli affinché non si ammazzassero. Al nord della Terra di Francesco Giuseppe, la selvaggina continuava a mantenersi numerosa. Ogni giorno si vedevano branchi di foche e di morse che giocherellavano sui margini di ghiaccio, offrendo così l’occasione agli ufficiali di fare delle belle fucilate. Specialmente S. A. R. non mancava quasi mai ai suoi colpi, da vero nipote di Vittorio Emanuele, il valente cacciatore di stambecchi. Quelle foche non appartenevano tutte ad una sola specie. Oltre a quelle comuni chiamate laggar dai norvegesi e che s’incontrano dovunque, e quelle groenlandesi a ferro di cavallo sul dorso, se ne vedevano anche parecchie di grandi dimensioni, prima mai vedute dalla maggioranza dei membri della spedizione italiana. Erano le crestate o foche dal berretto, le maggiori della famiglia, e che posseggono una specie di vescica cutanea lunga venticinque centimetri e alta venti, che l’anfibio quando è irritato gonfia, ma che quando è in riposo lascia ricadere sul naso. Queste foche misurano due metri dal muso all’estremità deretana, hanno la testa molto grossa, il muso gonfio, le unghie ricurve e assai robuste e la coda larga. Il loro pelame è setoloso, un po’ sollevato, color bruno nocciuola o nero a macchie ovali. Sono meno numerose delle altre, anzi è raro a trovarle in parecchie, e sono di umore battagliero e anche le più difficili a uccidersi, essendo il loro berretto quasi impenetrabile alle palle. Assalite si difendono coraggiosamente e non di rado riescono a rovesciare le barche montate dai pescatori. Oltre le foche si vedeva comparire anche qualche orso bianco, però non si avvicinavano quasi mai a portata di fucile, e quando udivano qualche sparo s’affrettavano ad allontanarsi prendendo un galoppo piuttosto rapido. – Sono diffidenti, – diceva Cardenti. – Quando però saremo a terra, voglio farmi preparare dei manicaretti d’orso bianco. – Verso gli ultimi d’agosto la Stella Polare giungeva nei pressi dell’isola Elisabetta, una terra assolutamente deserta, dalle coste ripide, contornate da vecchi ice-bergs e coperta in gran parte da nevischio. Fu presso quell’isola che la valorosa nave fece l’incontro di banchi enormi, tali da impedirle di poter procedere più oltre. Canali non se ne vedevano in alcuna direzione. Il ghiaccio era dovunque massiccio, assolutamente inattaccabile. – Che siamo costretti a retrocedere o trovare qui qualche baia ove svernare? – chiese il tenente Querini al capitano Evensen. – Siamo appena all’81° grado e S. A. R. vuole toccare almeno l’82°. – Se vi giungeremo. – Questi ghiacci s’apriranno, signore, – disse il capitano, guardando lontano. – Ci sono delle pressioni laggiù, e domani troveremo qualche canale. – E dove andremo a svernare? – Non lo possiamo sapere ancora. Sarei però contento se potessimo giungere almeno alla baia di Teplitz. M’hanno detto che colà si può trovare un buon ancoraggio. – E più innanzi non potremo trovarne? – chiese il tenente. – Chi può dirlo?... Queste terre non sono conosciute. Solamente Nansen le ha percorse in gran fretta. – È in questi paraggi che ha svernato assieme a Johansen? – Sì, signor tenente. Si rimane ancora meravigliati nel pensare come quei due uomini soli, senza viveri, abbiano potuto passare l’inverno polare in queste regioni. – Dove hanno precisamente svernato?... – A 81° 13’ di latitudine nord ed a 55° ½ di longitudine est. Quasi alla nostra stessa latitudine. – Devono aver sofferto molto durante quei lunghi mesi. – Non troppo, signore. Altri sarebbero forse morti, ma quei due avevano delle fibre di ferro. – È del signor Nansen che si parla? – chiese Ollier avvicinandosi al tenente, mentre il capitano Evensen si dirigeva verso prora per osservare i ghiacci. – Sì, – rispose Querini. – Il capitano mi diceva che il famoso esploratore aveva svernato in questa latitudine. – Aveva molti compagni, signor tenente. – Uno solo, mio caro Ollier. – E la sua nave? – L’aveva abbandonata per cercare di spingersi verso il polo. Essendo stata rinchiusa dai ghiacci e trasportata verso l’ovest, Nansen l’aveva lasciata. – E hanno passato l’inverno fra queste terre in due soli? – E quello che è peggio senza viveri, avendo consumati quelli che avevano portato dalla nave, durante la loro corsa verso il nord. – Raccontate, signor tenente. Come hanno potuto sopravvivere? – Mercè una gran dose di energia veramente sovrumana e di un coraggio straordinario. Dopo d’aver toccato l’86° grado, superandolo anzi di alcune miglia, Nansen era stato costretto a ritornare per mancanza di viveri ed in causa della deriva dei ghiacci, i quali lo portavano indietro non ostante le sue lunghe marce. Così vennero a cercare rifugio su questa terra per passare l’inverno polare. – E la loro nave?... – Era ormai molto lontana. I ghiacci l’avevano spinta verso l’ovest, in direzione dello Spitzbergen, quindi non potevano contare in nessun modo su di essa. Quei due coraggiosi però non si smarrirono. Non avendo viveri ed approssimandosi l’inverno, dettero una caccia spietata alle foche ed agli orsi bianchi per avere cibo e combustibile durante i grandi freddi. Raccolte le provviste, si fabbricarono una capanna con pietre, terra e muschi, pelli di foche e con alcuni pezzi di legno trovati sulle spiagge, probabilmente trasportati dalle correnti marine. Non mancarono di costruirsi perfino il camino, adoperando, in mancanza di pietre adatte... neve e ghiaccio!... – E cosa bruciavano per riscaldarsi?... – Il grasso delle foche e degli orsi bianchi. – E che cosa mangiavano? – Alla sera si friggevano un pezzo di foca in una padella d’alluminio, e al mattino si preparavano un bollito di carne d’orso. – Frittura di foca!... Puah!... – La fame non ragiona, mio caro Ollier, – disse il tenente. – E si erano preparati anche dei letti? – Uno, composto d’un sacco di pelle d’orso entro cui si cacciavano insieme per mantenersi più caldi: di sotto avevano messo uno strato di pietre più o meno levigate. – Dovevano dormire molto male. – Lo hanno confessato poi. La loro occupazione principale durante tutto l’inverno, fu infatti quella di cambiare le pietre per meglio livellarle, senza però riuscirvi. – E come passavano il loro tempo? – Mangiando e dormendo, non potendo uscire dalla loro capanna in causa del freddo intenso e della neve che la bloccava. – Sarà stata almeno comoda, signor tenente. – Non aveva che tre metri di lunghezza e poco più di uno e mezzo di larghezza, – rispose il tenente. – Una vera cella da prigionieri. E non avevano alcuna occupazione per ingannare il tempo? – Sì, una: quella di scegliere il ghiaccio migliore per fonderlo onde poter avere sempre acqua da bere. – Potevano mangiarlo senza scioglierlo. – Con quei freddi il ghiaccio, messo in bocca, produce delle infiammazioni pericolose. – Potevano giocare alle carte. – Non ne avevano. – Addomesticare almeno degli animali. – Veramente le volpi non mancavano, anzi ve n’erano sempre moltissime sul tetto della loro capanna in attesa delle ossa spolpate che gli esploratori gettavano al di fuori, ma non si lasciavano prendere. – Che noia, signor tenente, – disse la guida. – Certo, ma quello che più soffrirono fu la sporcizia delle loro vesti. Avrebbero dato uno dei loro fucili per poter avere un po’ di biancheria pulita, o per lo meno un po’ di sapone. – E come si salvarono poi? – Furono raccolti la primavera seguente dalla spedizione Jackson che trovarono nei pressi del Capo Flora. – E dovremo provare anche noi tante tribolazioni, signor tenente? – È probabile, Ollier. – La guida rimase un momento silenziosa, poi disse: – Se le ha superate un norvegese, perchè non dovrebbero provarle e vincerle anche degl’italiani?... Signor tenente, al momento delle grandi prove, tutti saremo pronti. – Sì, per l’onore della spedizione, – rispose Querini con voce grave. L’indomani, come anche questa volta aveva predetto il capitano Evensen, un canale lunghissimo s’apriva in direzione del Capo Mac-Clintock dell’isola di Salisbury, permettendo alla Stella Polare di riprendere la corsa verso il nord. La sua marcia non durò molto. I ghiacci, richiusisi nuovamente, in causa delle continue pressioni, l’arrestarono poche miglia più al nord, a 81° 14’ di latitudine. Fu quello l’unico giorno in cui i membri della spedizione poterono, dopo d’aver lasciata la Cappella, fare il punto, essendosi il tempo mantenuto quasi sempre coperto. Quella seconda fermata non fu molto lunga. Le pressioni se talvolta stringevano i banchi, talora li sgretolavano aprendo nuovi canali. La Stella Polare adunque, sebbene faticosamente, riprese la sua corsa, seguendo la via percorsa da Nansen e da Johansen nel loro ritorno. Potè così avvistare il Capo Hugh Mill, le coste della Terra Carlo Alessandro ancora appena delineata, quindi raggiungere la Terra del Principe Rodolfo, la più settentrionale dell’Arcipelago, passando dinanzi alla baia di Teplitz. Ohimè! Quella corsa non doveva durare a lungo. Dopo d’aver costeggiata la parte settentrionale dell’isola del Principe Rodolfo, girando il Capo Fligely, agli ultimi di agosto si trovava dinanzi a tale massa di ghiacci da farle perdere ogni speranza di spingersi più a settentrione. Era giunta allora all’82° 14’ di latitudine boreale, toccando quasi il punto raggiunto da Parry, settantun anno prima, dopo una lunga e faticosa corsa con le slitte attraverso i campi di ghiaccio dello Spitzbergen settentrionale. Capitolo VIII La baia di Teplitz L’immensa ed impenetrabile barriera di ghiaccio che aveva arrestato tante spedizioni anche molto più al sud, stava di fronte alla Stella Polare, risoluta a non aprirsi dinanzi alla sua prora. Erano ghiacci vecchi, forse ghiacci eterni mai sciolti dai tiepidi raggi della breve estate: erano masse enormi, bastioni colossali dalle fronti smisurate, montagne di forme strane, piramidi, cupole semi-sfondate, guglie, comignoli, punte acute: una vera selva di ostacoli assolutamente inattaccabili, resistenti all’assalto del ferro, dell’acciaio e alle formidabili esplosioni delle mine. Era insomma il caos polare, il principio dell’immensa calotta di ghiaccio che da migliaia di secoli forse, tiene prigioniero il polo. Non un canale su quelle immense distese di ghiacci, nemmeno un semplice crepaccio. Il cielo, al di sopra di quei banchi senza limiti, di quegli ice-fields, biancheggiava stranamente pel riflesso di quelle masse enormi. Era l’ice-blink che scintillava in tutta la sua purezza, luce strana, abbagliante, che nemmeno i pesanti nebbioni possono offuscare completamente. In alto volteggiavano pochi uccelli marini. Andavano, tornavano, s’alzavano o s’abbassavano senza mai dare uno strido, come se anche la loro voce si fosse gelata. Sui banchi invece poche macchie brune, che spiccavano vivamente su quel candore, indicavano delle foche. Stavano accanto ai loro buchi, aperti pazientemente da esse per potersi tuffare e quindi venire a respirare. – È finita, – aveva detto il capitano Evensen. – Per di qui non si passa. – E dove trovare una baia? – fu chiesto dai membri della spedizione. – Se S. A. R. vuole un consiglio, gli direi di tornare verso il sud e cercare rifugio nella baia di Teplitz, – rispose il capitano. – Forse è la migliore, nè saprei davvero trovarne altre che facciano per noi. D’altronde la Stella Polare ha avuto persino troppa fortuna, ed ha toccato una latitudine che io temevo di non raggiungere. Signori, ritorniamo prima che i ghiacci ci blocchino qui. – Il consiglio del vecchio lupo di mare fu accolto all’unanimità, avendo tutti somma fiducia nella sua esperienza. D’altronde ogni passaggio era chiuso e non rimaneva che di tornare indietro e senza perdere tempo. Poteva avvenire un movimento fra i ghiacci che rinchiudesse la Stella Polare e forse per sempre. Prima però di decidersi, la nave percorse un lungo tratto di quella fronte massiccia, con la speranza di trovare più lontano qualche passaggio, poi, veduto che non vi era alcuna probabilità, S. A. R. diede il comando di mettere la prora verso il sud-est. Anche il ritorno però non era facile. Un movimento era avvenuto anche più al sud, ed i ghiacci si erano accumulati verso l’est rendendo la navigazione penosa. Ad ogni istante la Stella Polare doveva prendere la rincorsa e lavorare di sperone per aprirsi il passo. I cozzi si succedevano incessantemente mandando di frequente i marinai a gambe all’aria e facendo urlare spaventosamente i cani. Le costole della nave tremavano, scricchiolavano e gli alberi oscillavano fino alla scassa. Fortunatamente il tempo si manteneva, se non bello, almeno calmo. Il cielo era coperto, però le nebbie non scendevano a coprire il mare. Il freddo invece era aumentato, toccando talvolta i 7°, ma nessuno se ne lagnava di certo. Erano rose in confronto ai terribili freddi dell’inverno polare. Fu ai primi di settembre che la nave potè giungere, dopo una traversata molto faticosa, nella baia di Teplitz. Questa baia si apre sulle coste occidentali della Terra Principe Rodolfo, a 81° 45’ di latitudine, ed è una delle più ampie che si trovano in quell’immenso arcipelago chiamato di Francesco Giuseppe. L’ancoraggio vi era buono, ma non era escluso il pericolo che i ghiacci potessero entrare, bloccando completamente la nave. Al largo ve n’erano già moltissimi, di dimensioni notevoli, i quali, spinti dal vento e dalla corrente, accennavano già a stringersi verso la costa. Comunque fosse, quel rifugio fu salutato con vero entusiasmo da tutti. Quella continua lotta contro i ghiacci che durava già cinque settimane aveva stancato assai e marinai e ufficiali; tutti desideravano un po’ di riposo sulla terra ferma. Erano d’altronde giunti ad una latitudine molto elevata, ossia a soli otto gradi dal polo, trovandosi quella baia a 81° 43’ di latitudine nord e a 38° di longitudine est. – Otto gradi! – aveva esclamato il bollente Cardenti. – Una corsa per un marinaio!... – Nemmanco, – aveva soggiunto Canepa. – Una semplice passeggiata!... – Ancorata solidamente la nave, la quale doveva servire da quartier generale, italiani e norvegesi fecero subito i preparativi di svernamento per passare alla meno peggio la lunga notte polare, già non molto lontana. I naviganti che svernano in quelle fredde latitudini, prima che i grandi geli sopravvengano, devono prendere delle misure eccezionali dettate dall’esperienza dei primi esploratori polari. Ordinariamente si comincia innanzi tutto a trasportare a terra i canotti e una buona parte di viveri, per evitare il pericolo di rimanere privi degli uni e degli altri, nel caso che la nave venga fracassata dalle pressioni, pericolo molto probabile in quelle regioni. Prese queste prime precauzioni, si prepara la nave. Le vele vengono staccate e rinchiuse nei magazzini, le antenne e gli alberetti calati, le cime degli alberi bene avviluppate, poi si copre la tolda, da prora a poppa, con un tetto di tavole, si rizzano delle pareti di legno, turando le fessure con carta incatramata, in modo da formare una specie di salone destinato per le passeggiate. Si lasciano alcune finestre per la luce e per la ventilazione della nave. Ciò fatto si raschia e si lava con acqua di calce la stiva la quale ordinariamente viene convertita in sala comune, adattando al di sotto del boccaporto maestro una stufa col tubo molto ricurvo per avere meno dispersione di calore con sotto un barile destinato a raccogliere la neve sciolta ed avere sempre acqua. Si turano infine tutte le aperture e sul ponte si sparge cenere o sabbia le quali non tardano ad incrostarsi. Disgraziatamente all’equipaggio della Stella Polare doveva mancare il tempo di prendere quelle misure. La nave si era appena ancorata quando fu dato il segnale di pericolo. I ghiacci si avanzavano verso la costa, minacciando di bloccare anche la baia. Erano massi enormi, di aspetto imponente e pauroso, i quali cappeggiavano sotto l’urto delle onde, mosse dal vento del nord. – Temo per la nostra nave, – disse il primo macchinista al tenente Querini, a cui si era legato d’una calda amicizia. – Che quei ghiacci vengano ad assediarci? – Sì, signor tenente. Se non m’inganno vi è qualche corrente che viene a rompersi su queste coste. – La nave è solida e opporrà un serio ostacolo, – rispose il tenente. – Siamo stati perfino troppo fortunati finora, signore. La nostra buona stella potrebbe stancarsi di proteggerci. Guardate come si muovono quei ghiacci. S’avanzano a vista d’occhio. – Signori! – gridò Evensen in quel momento. – Quei banchi ci faranno passare un brutto momento. – Quel primo giorno però passò relativamente tranquillo. L’indomani invece i ghiacci si addossarono alla costa tanto velocemente che in poche ore tutta la baia ne fu piena. La Stella Polare, immobilizzata sulle sue àncore, si vide a poco a poco mancare intorno lo spazio finchè fu completamente rinserrata. Alla notte le prime pressioni si fecero udire. La nave, serrata da ogni parte, crepitava sotto le strette dei ghiacci. Un fremito sonoro la scuoteva dalla chiglia alla sommità degli alberi, mentre i banchi detonavano cupamente. Il ghiaccio si alzava gradatamente attorno alla nave, spostandola violentemente. Sotto le formidabili strette, schizzava fuori, per modo di dire, dai blocchi, i quali s’accavallavano confusamente innalzandosi otto e perfino dodici metri. I bordi erano parecchi metri più sotto e v’era il pericolo che quei massi, non ostante gli sforzi dell’equipaggio il quale adoperava disperatamente i buttafuori, crollassero sul ponte. Scheggioni ne cadevano in gran numero, rimbalzando per la coperta e minacciando di ferire l’equipaggio. Lo spettacolo era bello ed insieme terribile. Fortunatamente la nave, invece di lasciarsi stringere sfuggiva a quelle morse sollevandosi. Succedevano però, di quando in quando, dei momenti di calma. I ghiacci, come se si stancassero, riprendevano per un po’ di tempo la loro immobilità, poi tornavano ad agitarsi, ad incurvarsi, a frantumarsi. Qua e là s’aprivano dei crepacci che dopo pochi momenti si rinchiudevano violentemente, facendo schizzare alta l’acqua marina. Allora si udivano rombi sonori come se dei carri carichi di lastre di metallo corressero sfrenatamente sui campi di ghiaccio. Poi nuova sosta, quindi zuffolii, scricchiolii, boati, detonazioni e nuovo movimento dei ghiacci. Le piramidi, le colonne, le guglie si formavano dovunque per poi sfasciarsi fragorosamente. Quantunque il pericolo che correva la Stella Polare fosse grave, tutti gli uomini conservavano un sangue freddo ammirabile. Gli italiani anzi guardavano quello spettacolo più con curiosità che con apprensione. S. A. R., il capitano Cagni e Querini davano comandi con voce tranquilla, come se non avessero fatto altro che navigare in quei mari, destando l’ammirazione dello stesso capitano Evensen. Intanto la Stella Polare, sollevata dai ghiacci, continuava a spostarsi, inclinandosi a poco a poco su di un fianco. Tremava tutta ed i puntali si curvavano sotto le poderose strette, mentre la tolda s’inarcava. Sui suoi fianchi i ghiacci continuavano ad accumularsi, ora innalzandosi ed ora abbassandosi. Vi fu anzi un momento in cui raggiunsero l’altezza di dodici metri!... Guai se quelle masse fossero precipitate in coperta!... Già l’equipaggio, spaventato, aveva abbandonato i suoi posti, gettando i buttafuori non ostante le grida tranquillanti del Duca e dei suoi ufficiali. Quando le pressioni finalmente cessarono ed i ghiacci cominciarono a riaprirsi, la Stella Polare si trovava così rovesciata su di un fianco da non permettere all’equipaggio di tenersi in piedi. Un enorme blocco s’era incastrato sotto la chiglia e teneva la nave sollevata, impedendole di riprendere la sua posizione normale. – Bisogna farlo saltare, – aveva detto S. A. R. – Sì, – aveva risposto il capitano Evensen. – La nostra nave non può rimanere così inclinata. Una nuova pressione potrebbe succedere e guastarci le murate ed il fasciame. – Polvere e dinamite non ne mancavano a bordo. Si trattava di scavare semplicemente una mina nel banco di ghiaccio e di farla scoppiare. Alcuni marinai, sotto il comando d’un ufficiale, furono incaricati di fare le mine e di farle scoppiare. La dinamite ebbe ben presto ragione del banco. Sgretolato dalla forza dell’esplosione, s’abbassò bruscamente, permettendo così alla nave di riprendere il primitivo appiombo. Non era però finita. Pareva che per la Stella Polare dovesse sonare la sua ultima ora. Si sarebbe detto che i ghiacci del polo volevano punirla di essersi inoltrata tanto verso il settentrione. L’indomani nuove pressioni si manifestarono fra i banchi col solito accompagnamento di boati, di fischi, di muggiti e di detonazioni assordanti. L’8 settembre, alle sei e mezzo, mentre il cuoco stava accendendo il fornello, un urto formidabile, tremendo, scuotè la Stella Polare facendo accorrere sul ponte comandanti, ufficiali, marinai e guide. Un enorme banco di ghiaccio aveva urtato la nave con tale impeto, da farla traballare. Subito le pressioni ricominciarono con forza estrema. I ghiacci si strinsero addosso alla nave, scrollandola furiosamente. I fianchi scricchiolano sotto le crescenti strette, i puntali s’incurvano, la tolda minaccia di spezzarsi. Alcuni madieri cedono e s’aprono. Un grido formidabile s’alza: – La nave fa acqua!... – Pur troppo la notizia era vera. Le pressioni avevano sfondato alcune tavole alla linea di galleggiamento e l’acqua entrava a torrenti inondando la stiva e la sala delle macchine. Il signor Stökken si era precipitato sul ponte, gridando: – Alle pompe!... I fuochi delle caldaie stanno per spegnersi!... – Il momento era terribile: la Stella Polare stava per affondare. In mezzo alla confusione cagionata da quella catastrofe inattesa, il Duca, Cagni, Evensen, Querini e lo stesso dottor Cavalli non avevano, per buona fortuna, perduto il loro sangue freddo. – Alle pompe: marinai!... – aveva comandato S. A. R. con voce energica. – Le guide e gli altri nella stiva a salvare il carico!... – Non vi era un momento da esitare: l’avarìa poteva essere grave e causare la perdita della nave. Era quindi cosa urgente portare a terra quante provvigioni si potevano e soprattutto i cani, se non si voleva troncare d’un sol colpo la futura marcia verso il polo. Mentre alcuni marinai forzavano la porta della camera comune per sfuggire all’acqua che invadeva rapidamente la cabina, e altri si precipitavano alle pompe, le guide con Cardenti e Canepa s’erano precipitate nella stiva per gettar fuori il carico. Tutti lavoravano febbrilmente: ufficiali e marinai. Perfino S. A. R. e Cagni non rimanevano inoperosi, gettando sul ghiaccio le casse che venivano portate in coperta. L’acqua intanto continuava ad entrare in gran copia. Cadeva con sordo fragore nella stiva, gorgogliando cupamente e disperdendosi per la cala. I fuochi delle caldaie erano stati già spenti ed il personale di macchina aveva abbandonato il posto precipitandosi alle pompe. Alcuni marinai correvano affannosamente sui banchi, portando frettolosamente a terra le casse che venivano gettate dalla coperta della nave. I cani erano già stati liberati e si erano rifugiati sulla costa, galoppando disperatamente in mezzo alle nevi. E tuttociò in mezzo al fracasso assordante dei ghiacci, ai rombi, alle detonazioni, al moto convulsivo dei banchi, ad un continuo pericolo soprattutto per le guide e pei marinai italiani che si trovavano nella stiva mentre la nave affondava sotto i loro piedi. I comandi s’incrociavano, ma senza confusione: S. A. R., il capitano Cagni ed il capitano Evensen conservavano sempre una calma ammirabile, che dava lena e coraggio alla ciurma. Ad un tratto un avvenimento inatteso, insperato, successe. Un banco s’era nuovamente cacciato sotto la nave, sollevandola gradatamente. Era la salvezza, poichè la Stella Polare, senza quel felice avvenimento, si poteva considerare come totalmente perduta. – Non affondiamo più! – aveva esclamato Stökken, il quale era disceso nella sala della macchina per constatare il progresso dell’acqua. La notizia era così straordinaria che dapprima non fu creduta. Ben presto però tutti dovettero arrendersi all’evidenza dei fatti. Non solo la Stella Polare si era rialzata, ma veniva anche spinta verso la costa dal movimento dei ghiacci. – Ecco una fortuna inaspettata!... – esclamò il tenente Querini. – Siete ben certo, signor Stökken, che l’acqua non aumenta. – Anzi sfugge dall’apertura, signore, – rispose il macchinista. – Tuttavia non dobbiamo abbandonare le pompe nè crearci illusioni troppo ottimiste. La nave può scivolare sul banco e fare ancora acqua. – Ed infatti poche ore dopo la Stella Polare tornava ad abbassarsi, imbarcando nuovamente acqua. Per ventiquattro ore gli esploratori lavorarono alle pompe con accanimento, con la speranza di poter salvare la nave, mentre alcuni di loro continuavano a portare a terra viveri, armi, coperte, tende ed istrumenti, passando di banco in banco. Finalmente fu dato l’ordine di abbandonare la nave. Era la domenica. La Stella Polare, dopo d’aver vittoriosamente vinti i ghiacci, pareva ormai irremissibilmente destinata a soccombere. Fu con vero dolore che ufficiali e marinai diedero un addio alla valorosa nave. S. A. R. scese per l’ultimo col capitano Cagni e con Evensen. Era pallido e aveva il cuore stretto e non meno commossi erano gli altri. Un’ora dopo, italiani e norvegesi si accampavano sulla desolata costa della baia di Teplitz. Capitolo IX Accampamento a terra Contrariamente a tutte le previsioni, l’ultima ora della Stella Polare non era ancora sonata. Quando tutti ormai la piangevano come perduta, fu veduta la valorosa nave alzarsi nuovamente sotto la spinta dei ghiacci che si erano accumulati sui suoi fianchi e navigare lentamente verso la costa. Camminava coi ghiacci i quali la sorreggevano da tutte le parti, come immensi gavitelli, impedendole di riempirsi d’acqua e di affondare. Essa andò ad incastrarsi fra la riva ed i banchi, dove rimase finalmente bloccata in tale modo, da non avere più speranza di poterla liberare fino al nuovo anno. Cosa importava? Era salva almeno pel momento e l’equipaggio poteva ancora salvare una infinita quantità di casse, di barili e di oggetti indispensabili che rinchiudeva nella sua stiva e nelle sue cabine. Intanto furono subito preparati gli attendamenti per porsi al riparo dai primi geli. Non essendo la nave più servibile, era stato deciso di svernare a terra, evitando così le pericolose pressioni. Per buona ventura, il Duca aveva previsto anche questo caso e aveva dotata la spedizione di vaste tende, capaci di combattere efficacemente i terribili freddi dell’inverno polare. Una soprattutto, misurava otto metri quadrati e doveva diventare, durante i grandi freddi, il quartier generale della spedizione. Tutti adunque si misero alacremente al lavoro per allestire gli accampamenti. Mentre alcuni marinai vuotavano la nave, che era stata imprigionata a soli duecento metri dalla spiaggia e molto sbandata, altri rizzavano le tende e costruivano, sulla morena, con casse vuote, gli alloggi pei cani, scegliendoli secondo i loro umori e le loro simpatie onde non si mordessero, come pur troppo avevano sempre fatto dal giorno del loro imbarco. Il primo a prepararsi l’alloggio fu naturalmente il cuoco. Bravo uomo quel canavesano, attivo, intelligente e di umore sempre lieto. E poi, figuratevi! Era stato bersagliere nel nono reggimento sotto il comando del colonnello Manassi!... Come non poteva essere un uomo allegro?... La sua abilità poi come cuoco era indiscutibile e aveva soddisfatto tutti. Si ricordava sempre di essere stato il capo ranciere del nono reggimento, un ranciere invidiato da tutti gli altri corpi e segnalato come un cuoco modello. Aveva subito piantati i suoi fornelli e messe in ordine le sue pentole, proibendo severamente a tutti di mettere i piedi nel suo santuario culinario. L’attendamento e l’erezione dei magazzini destinati a conservare i viveri, richiesero parecchi giorni, ma finalmente tutto fu pronto. La bandiera italiana fu piantata sulla tenda maggiore, i letti formati da sacconi di pelle d’orso furono disposti in bell’ordine, le stufe collocate a posto e messa in regola perfino la piccola biblioteca, formata esclusivamente di libri marinareschi ed avventurosi. Vi erano però anche le Memorie di Napoleone I. Erano stati perfino eretti dei gabinetti scientifici per le osservazioni. All’intorno, la neve era stata spazzata via e la terra spianata alla meglio. Le guide avevano costruito perfino delle stradicciuole. – Non ci manca che un giardino, – disse un giorno Canepa. S. A. R. prese la palla di rimbalzo. – Perchè non si potrebbe seminare qualche fiore? – chiese a Savoi. – Si potrebbe tentare, Altezza, – rispose la guida. Ed il brav’uomo, felice di accontentare il Duca, si mise subito all’opera dissodando un pezzo di terra che era meglio esposta al sole e aiutato dal dottor Cavalli, il botanico della spedizione, seminò... con poca speranza di raccogliere. Assicurata la Stella Polare e disarmatala, e preparato l’accampamento, con tutto il confortabile possibile, gli esploratori, in attesa dei grandi freddi, cominciarono a spingersi verso l’interno per conoscere un po’ la terra sulla quale avevano deciso di svernare e anche per dar la caccia alla selvaggina che si mostrava abbastanza numerosa. Si erano notate tracce di orsi bianchi, di volpi bianche e si erano vedute numerose foche e morse lungo le coste. Mentre le guide ed i marinai facevano lunghe corse, conducendo con loro anche i cani onde allenarli, S. A. R. e Cagni facevano osservazioni astronomiche, rilevavano le coste e facevano esperimenti di gravità per mezzo delle oscillazioni del pendolo, adoperando quello inventato ultimamente dal colonnello austriaco Sternek e che avevano imparato ad adoperare nei sotterranei del Palazzo Madama di Torino sotto la guida del dottor Amonetti. Non ostante quelle molteplici occupazioni, non dimenticavano nemmeno essi la caccia, inseguendo le foche e le morse o facendo strage di uccelli marini. Così catturarono un giorno una foca bellissima sull’orlo d’un banco di ghiaccio, mentre le compagne s’inabissavano precipitosamente. Orsi bianchi non ne erano ancora comparsi nei dintorni, però le guide ed i marinai avevano scoperte numerose tracce di quei formidabili plantigradi, in direzione del Capo Germania, alla base delle montagne che s’innalzano lungo quella costa. Era quindi da sperarsi e da augurarsi d’incontrarne, somministrando essi una carne eccellente, gradita da tutti i membri della spedizione. Quegli animali infatti non tardarono a mostrarsi, attirati dall’odore della cucina del bravo Zini. Un bel giorno ne furono sorpresi alcuni a ronzare in vicinanza dell’accampamento. Erano orsacchiotti dalla pelliccia candida, di statura non molto grossa, pure egualmente pericolosi. Inseguiti dai marinai e dalle guide furono lesti a prendere il largo, riguadagnando i banchi di ghiaccio, ma la fame non doveva tardare ad attirarli. Intanto il freddo aumentava sensibilmente e le giornate si accorciavano con rapidità, annunciando la terribile notte polare. Frequenti nebbioni piombavano sulla baia di Teplitz, accompagnati da venti furiosi, rigidissimi, che facevano screpolare la pelle del viso e delle mani. – L’autunno se ne va rapidamente, – disse un giorno il macchinista al tenente Querini. – Le furiose nevicate non tarderanno a rovesciarsi su questi luoghi e ci imprigioneranno nelle nostre tende. – Ed infatti non tardarono a succedersi, fugando gli ultimi uccelli marini. Gli altri erano già emigrati in stormi immensi verso il sud, in cerca d’un clima più mite e del mare libero, non potendo più pescare fra quegli immensi campi di ghiaccio. La neve, poco dopo che era caduta si solidificava, non tanto però da poter provare le slitte, ma sufficientemente per provare gli sky così tanto vantati dai norvegesi. S. A. R. ne aveva acquistati parecchi in Norvegia, quindi diede ordine di metterli alla prova, non essendo cosa facile addestrarsi a quei pattini. Le guide, sulle quali molto si contava per la futura marcia al polo, furono le prime a metterli alla prova sotto la direzione dei marinai norvegesi, poi si addestrarono S. A. R. ed i suoi ufficiali. Questi sky sono pattini di legno molto lunghi, piatti nella parte inferiore, a punta ricurva sul davanti e un po’ arrotondati di dietro. Sono larghi dieci o dodici centimetri e in lunghezza misurano dai sei agli otto piedi, secondo l’altezza dell’uomo che deve portarli. Hanno dei legacci dinanzi e di dietro per assicurare i piedi e talvolta sono foderati di pelle, come quelli usati dai siberiani. Non è però cosa facile adoperare questi strani pattini. I norvegesi cominciano da piccini e se ne servono in modo meraviglioso; per coloro che cominciano ad adoperarli la prima volta, la faccenda è seria e lunga. Innanzi tutto è necessario abituarsi a tenere gli sky sempre vicini ed in direzione parallela se non si vuole urtarli nella parte posteriore; poi tenerli sempre aderenti alla neve e non sollevarli, dovendosi scivolare e non camminare, poi dare al corpo un movimento particolare che non s’acquista se non con una lunga pratica. Con questi sky i norvegesi fanno delle corse straordinarie, raggiungendo delle velocità sorprendenti. Sorpassano facilmente le alci e le renne e perfino le lepri, che uccidono con una bastonata. Le montagne più aspre non sono d’ostacolo per loro. Le salgono con facilità sorprendente e le discendono a precipizio, balzando di dirupo in dirupo. Si sono veduti dei montanari fare dei salti di quindici e perfino di venti metri, cadendo in piedi sui loro lunghi sky. Degli esploratori polari, solo il Nansen ne aveva fatto la prova e con buon successo, tanto nel suo primo viaggio in Groenlandia, quanto nella sua corsa al nord della Terra di Francesco Giuseppe, ed aveva consigliato il Duca a prenderne con sè. La scuola degli sky fu però dura da principio, malgrado le istruzioni dei marinai norvegesi. I capitomboli si succedevano ai capitomboli, con grande divertimento dei maestri e con grande collera degli scolari; pure con la pazienza tutti riuscirono, bene o male, a servirsene, ma dobbiamo dire che le guide preferivano camminare con le loro gambe. Pur continuando a esercitarsi cogli sky, italiani e norvegesi non trascuravano la caccia per provvedersi di carne fresca e di grasso di foca e di morsa, prima che l’inverno rendesse impossibili le corse attraverso le nevi ed i ghiacci. Gli orsi erano tornati a mostrarsi nei pressi dell’accampamento assieme a numerose volpi, le quali s’avvicinavano audacemente alle tende per disputarsi ingordamente gli avanzi della cucina. Gl’italiani ed i norvegesi ricorrevano a tutte le astuzie per mandare qualche buona palla nella testa degli orsi, e sovente riuscivano ad abbatterne. Anche il Duca prendeva parte attiva alla caccia assieme ai suoi ufficiali, ed essendo un abilissimo tiratore, quasi mai mancava ai suoi colpi. Un giorno anzi che s’era allontanato dall’accampamento in compagnia di due guide e d’un marinaio norvegese, riusciva a ucciderne tre in pochi minuti. Quella splendida cattura però poco mancò non costasse la vita ai suoi compagni di caccia. S. A. R. dopo abbattute le fiere era ritornato all’accampamento a chiamare altri uomini perchè aiutassero le guide a trascinare gli orsi nelle tende. Mentre i suoi compagni attendevano il suo ritorno, un quarto orso, di statura enorme, era improvvisamente comparso dietro un rialzo del terreno, mettendosi poi a correre addosso ai cacciatori. Il pericolo era grave, poichè i tre uomini non avevano che un solo fucile. Il norvegese, spaventato, se l’era data a gambe fuggendo in direzione dell’accampamento, ma i due italiani erano rimasti fermi al loro posto. — Mira bene, — disse colui che non aveva il fucile. — Se sbagli, la morte è sicura. — Il suo compagno fortunatamente non era un uomo impressionabile e sapeva maneggiar bene il fucile. Mira attentamente, e a venti metri fa fuoco, abbattendo di colpo la fiera. Come si disse, era uno dei più grossi, e S. A. R. fu lieto di quella nuova cattura, ma lo fu maggiormente il cuoco, il quale con quella carne regalò alla spedizione dei piatti squisiti. Capitolo X L’inverno polare L’inverno polare si avvicinava a grandi passi coi suoi nebbioni, le sue nevicate furiose, i suoi venti gelati, soffianti quasi costantemente dal settentrione. Le giornate s’accorciavano sempre più, con una rapidità che sgomentava le brave guide, Canepa, Cardenti ed anche il cuoco, costretto ormai a tener sempre accesa la lampada al di sopra delle sue pentole. In quelle latitudini elevate, il sole si mostra per la prima volta, dopo la lunga notte polare, il 12 marzo, e non compare che al mezzodì e solo per pochi minuti. S’alza tutti i giorni, aumentando la sua ascensione con tale rapidità che il 30 marzo non tramonta quasi più, limitandosi a toccare l’orizzonte alla mezzanotte per poi nuovamente ricomparire. Durante l’equinozio d’autunno, l’astro diurno ha già ridotto la sua permanenza sopra l’orizzonte a sole dodici ore ed il 2 ottobre non si mostra che per pochi minuti, verso il mezzodì. Dopo quell’epoca scompare per non mostrarsi nuovamente che il 2 marzo dell’anno seguente. Però l’oscurità completa non dura che dal 29 novembre fino al 13 gennaio, oscurità che viene rotta solamente dalla luna quando il cielo non è coperto da nebbie, e dagli splendori dell’aurora boreale. Gli esploratori che vedevano accorciarsi rapidamente le giornate ed aumentare considerevolmente il freddo, affrettavano i loro preparativi di svernamento. Avevano di già rinforzato le tende perchè potessero resistere ai tremendi uragani di neve, che in quelle regioni durano delle settimane intere; avevano collocato a posto le stufe, preparati i loro sacconi d’inverno, raddoppiate le provviste di carbone, allestiti i recipienti destinati a fondere la neve e avevano indossate le loro vesti pesanti. Maglie islandesi, berretti di lana o di pelle foderati di pellicce, grossi calzettoni di lana, guanti di feltro o di lana a dita riunite e che giungono fino al gomito; arrarak, che sono specie di giacche che s’infilano per la testa, secondo l’uso esquimese, fabbricate con grosso panno e fornite di cappuccio ed i polsi orlati di pelle di lupo, e stivaloni di pelle di foca o di renna con grosse calze di lana, furono messi a disposizione di tutti. Poco dopo, le nevicate cominciarono con rabbia estrema, mentre la luce diminuiva sempre. Addio partite di caccia, addio passeggiate, addio osservazioni! La prigionia stava per incominciare, una prigionia di tre e forse di quattro mesi ininterrotti. Fortunatamente il Duca aveva regolate le cose in modo da bandire la noia, questo nemico pericolosissimo degli esploratori artici. Al mattino sgombro generale della neve, che gli uragani incessanti accumulavano attorno all’accampamento; poi pulizia delle vesti e loro disgelo e pasto ai cani; quindi lavori diversi per preparare la futura spedizione; alla sera lettura, o musica, o danza, o giuochi di carte, di domino, di dama e dell’oca. L’effetto che producevano i pezzi di musica sonati dal piano melodico sistema Racca, o cantati dal grafofano, mentre al di fuori muggiva l’uragano e la neve cadeva a larghe falde, era dei più strani. E le arie si succedevano alle arie: Marcia reale, Bohème, Manon, Mefistofele, Cavalleria, Rigoletto, ecc., alternate a ballabili svariati. – Gli orsi devono divertirsi anch’essi, – diceva Cardenti. E forse non aveva torto, poichè durante quelle allegre serate non era raro di veder ronzare, nei dintorni dell’accampamento, qualche coppia d’orsi bianchi affamati. Che amassero la musica come gli ippopotami del Nilo o che cercassero le costolette dei suonatori? Nessuno lo seppe mai dire con precisione, nemmeno il cuoco che pretendeva conoscere quei bestioni... perchè li cucinava alla perfezione!... Non ostante quei continui lavori e quei passatempi, il freddo, che aumentava rapidamente, specie quando soffiava il vento del nord, non mancava di produrre i suoi effetti su tutti. L’energia veniva meno, i lavori sembravano eccessivamente pesanti a tutti, ed una specie di torpore invadeva di quando in quando i membri della spedizione. Però la temperatura si manteneva abbastanza elevata, soprattutto nella grande tenda, anzi talvolta era necessario lasciar entrare un po’ d’aria. All’esterno invece la temperatura oscillava fra i trenta ed i quaranta gradi sotto lo zero, e quando gli esploratori erano costretti a uscire per sbarazzare la neve o per recarsi ai magazzini a far carbone, tornavano con le vesti coperte da uno strato di ghiaccio. Era quello il momento terribile pel cuoco, poichè quelle vesti, per sgelarle, venivano senz’altro appese sopra il fornello della cucina. Zini sagrava come un turco e protestava fieramente, gridando che la sua cucina non era un asciugatoio e nemmeno un armadio, e che le sue pentole nulla avevano da fare colle vesti, ma poi finiva in una allegra risata. Il suo buon umore non veniva mai meno. Quando il tempo lo permetteva, gli esploratori uscivano ad ammirare gli splendori dell’aurora boreale. Ormai la luce era completamente scomparsa e al di fuori regnava una notte così buia, da non poter distinguere un oggetto a dieci passi di distanza. Quando poi scendeva la nebbia, non si poteva nemmeno scorgere la punta del naso. Quella cupa tenebra però di quando in quando veniva rotta dalle aurore polari. Quali splendori allora!... Quale abbondanza di luce!... Era quello lo spettacolo che più colpiva la fantasia delle guide e dei due marinai italiani. Talvolta appariva verso ponente, vicino all’orizzonte. Cominciava con una massa luminosa formante un immenso drappo pieghettato, poi una striscia gigantesca, una specie di nastro, s’innalzava gradatamente fino allo zenit. Pareva formato d’un pulviscolo luminoso, a tinte svariate e aveva delle contrazioni rapidissime. Dopo quel primo nastro altri ne succedevano, correndo con velocità straordinaria da ponente a levante ed invadendo tutta la volta celeste. Ora invece correvano in senso contrario, con continue vibrazioni che ferivano gli sguardi. Le tinte cangiavano e tutti i colori dell’iride si succedevano, si trasformavano e si fondevano. Era una vera gazzarra di tutte le tinte immaginabili. Altre volte invece si delineava un grand’arco luminoso il quale lanciava verso il cielo fasci di luce tremolanti, che impallidivano, a poco a poco, verso le loro estremità superiori. Lo spettacolo era allora più imponente. I ghiacci riflettevano tutte le tinte, apparendo ora come immensi rubini, o topazi, o smeraldi, od opali immersi in un bagno di sangue. Anche le nevi che coprivano l’isola scintillavano di mille colori, mentre la luna, quasi vergognosa, impallidiva tanto da non potersi quasi più discernere. Quei fenomeni non duravano molto, ma quanta meraviglia destavano in tutti!... Il freddo non tratteneva gli esploratori sotto le tende quando si manifestavano. Talvolta invece, se il vento del nord non soffiava troppo impetuoso e la neve non cadeva, i membri della spedizione si recavano a visitare la Stella Polare per accertarsi che le pressioni non la guastavano al punto da non poter più servirsene. La povera nave, inclinata su di un fianco, coi suoi madieri sfondati, la sua stiva e la sala delle macchine ingombra di ghiaccio e la coperta piena di neve, offriva un ben triste spettacolo. Pure, la sua fodera o cintura da ghiaccio che consiste in un fasciame di greenkeart, legno resistentissimo ed elastico nel tempo stesso, destinato a proteggere l’opera viva delle navi baleniere, aveva resistito vittoriosamente alle pressioni. Anche la sua prora, rivestita di travi, con traverse di puntellamento e riempita di legname in modo da formare un blocco solo dello spessore di quattro metri, non aveva sofferto. Si era alzata gradatamente, sfuggendo alle strette dei ghiacci, ma era enormemente carica di neve gelata, tanto anzi da dover richiedere un lungo lavoro per renderla navigabile. Ed intanto il freddo aumentava sempre e gli uragani di neve si succedevano con violenza estrema. Era stato a tutti rigorosamente proibito di toccare gli oggetti di metallo per non riportare delle scottature dolorose e di servirsi di bicchieri di vetro per non correre il pericolo di lasciare la pelle delle labbra attaccata agli orli. Perfino i cucchiai e le forchette erano state bandite dalla tavola, usando invece oggetti di legno o di corno. Il pane aveva acquistato una durezza estrema mettendo a dura prova i denti di tutti; la carne si doveva spaccare a colpi di scure; il legno era diventato compatto come l’osso, e se non gelavano i vini ed i liquori era perchè il cuoco aveva presa l’abitudine di conservarli nel suo santuario, presso la stufa. Le scatole di carne o di pesce conservato, di verdure sotto aceto, di frutta, dovevano prima venire sgelate per poterle rendere mangiabili. Quantunque le stufe bruciassero incessantemente, anche sotto la grande tenda, certi giorni, la temperatura si abbassava e quando gli uomini incaricati di sbarazzare la neve che si accumulava in grandi masse attorno all’accampamento, entravano, al contatto col calore emanato dai fornelli, venivano subito avvolti in una nuvola di nebbia che poi cadeva al suolo sotto forma di nevischio. La salute però si manteneva buona e lo scorbuto, questo terribile male che coglie quasi sempre gli esploratori polari, rimaneva lontano. Il segreto stava tutto nell’alimentazione, sana, svariata e sempre abbondante, e nelle frutta e nelle verdure somministrate a tutti senza risparmio. Anche la noia non riusciva a far breccia. Ogni sera vi era spettacolo svariato: concerti, rappresentazioni buffe, partite accanite alle carte e discussioni scientifiche attorno ad un punch fiammeggiante o ad un the fumante. Solamente le guide di quando in quando, provavano la nostalgia delle loro lontane montagne e non sapevano rassegnarsi a quella cupa tenebria che regnava costantemente al di fuori. I loro vigorosi organismi soffrivano anche per quella inazione forzata. Delle settimane intere sotto la tenda, senza poter mettere il naso fuori in causa dei furiosi uragani di neve, era troppo per quei montanari. Però dobbiamo dire che non si lamentavano; tutte le loro domande non avevano che un solo scopo: sapere quando sarebbe tornato il sole per cominciare la marcia verso il polo. Passarono però anche gli uragani ed il tempo cominciò un po’ a ristabilirsi. Fuori perdurava sempre l’oscurità ed il freddo oscillava costantemente fra i 30° ed i 40° sotto lo zero, ma la neve si era bene rassodata ed era giunto il momento di provare le slitte ed i cani, tanto più che la luna illuminava benissimo quelle immense pianure. I cani, che già si risentivano molto di quella lunga prigionia, non desideravano che di fare delle scorrerie attraverso le nevi. Brave bestie!… Nansen non aveva niente esagerato a vantarle. Valevano ben di più dei cani esquimesi, specie di lupi selvatici, testardi, maligni, niente affezionati ai loro padroni. Galoppavano splendidamente sotto le slitte, trainandole un po’ all’impazzata da principio, e senza risentire il peso. Vi era però un male; al pari dei loro confratelli groenlandesi, quando vedevano passare qualche volpe le correvano tutti addosso e vi era non poco da fare per far loro riprendere la direzione primitiva. Talvolta la lunga frusta a manico corto non bastava a richiamarli all’obbedienza. Le loro corse indiavolate dovevano però portare sfortuna al capo della spedizione ed al suo aiutante, il capitano Cagni. Era la vigilia di Natale. Mentre sotto la grande tenda fervevano i preparativi per la solennità che si voleva festeggiare con un lauto banchetto, brindisi, concerto, fuochi d’artificio, S. A. R. vedendo che il tempo prometteva di mantenersi bello e che la luna illuminava bene le pianure, aveva deciso di fare una corsa in islitta. Si era unito al capitano Cagni, Querini, Cavalli, Petigaux, Fenoillet e ad un marinaio. Le slitte erano partite di gran corsa sollevando nembi di nevischio ed i cani, sempre lieti di sgranchirsi le gambe, abbaiavano allegramente. Dopo un lungo tragitto le slitte stavano per ritornare all’accampamento, quando scoppiò improvvisamente una così furiosa tormenta di neve da far perdere la direzione a tutti. La neve cadeva fitta fitta turbinando, in causa del ventaccio. Il capitano Cagni precedeva la carovana e lo seguiva subito S. A. R. Le due guide, per non smarrirsi completamente, stavano per mandare innanzi i cani perchè richiamassero l’attenzione degli uomini rimasti all’accampamento, quando il capitano Cagni sentì improvvisamente mancare la terra sotto di sè. I cani, nella loro pazza corsa, erano precipitati giù da un dirupo da un’altezza di sette od otto metri trascinando con loro la slitta ed il capitano. Prima che questi avesse potuto alzarsi e dare il segnale di pericolo anche la slitta montata dal Duca precipitava e fu un vero miracolo se non gli cadde addosso. Rimasero un momento intontiti, poi cercarono di uscire da quella specie di trappola, non avendo riportato che delle escoriazioni di poco conto. La neve cadeva allora con rabbia estrema ed il freddo era diventato così intenso da costituire un vero pericolo. Un cane era morto, schiacciato da una delle due slitte. Fortunatamente le guide non erano lontane e riuscirono a trarli dal cattivo passo. Intanto gli uomini rimasti al campo, vedendo la tormenta aumentare, si erano messi in moto sonando le campane e accendendo delle fiaccole. Quando gli esploratori giunsero alla tenda fu constatato che S. A. R. aveva il medio e l’anulare della mano sinistra congelati, e Cagni l’indice della mano destra. Fu subito tentata, dal dottor Cavalli, la scongelazione, ma i rimedi a nulla valsero pel Duca. La carne ormai era diventata come morta ed il sangue non arrivava più fino alle estremità delle due dita. Le due falangi furono di necessità amputate, operazione che il Duca subì con calma stoica, rimanendo a letto un solo giorno. Ciò non impedì però che la festa di Natale fosse solennizzata con grande sfarzo: banchetto poco meno che luculliano, innaffiato da eccellenti bottiglie di champagne, musica e fuochi d’artificio. Quanti augurii in quel giorno e quanti evviva all’Italia, al Re e alla buona Regina che, come nelle altre occasioni, si era ricordata di quei bravi marinai, regalando loro delle scatolette contenenti svariati doni di valore, sino allora gelosamente custoditi dal Duca. Capitolo XI Verso il polo Il triste inverno polare è finalmente passato. Verso la metà di gennaio già un barlume di luce era apparso sull’orizzonte, in direzione della Terra Carlo Alessandro, luce scialba scialba, appena spuntata e già scomparsa. Era un buon segno: il sole s’avvicinava e la lunga notte polare era al termine. Nei giorni seguenti la luce cominciò ad aumentare. A mezzodì appariva e si manteneva sempre più sull’orizzonte, diffondendosi pel cielo. Con quanta ansietà la spiavano tutti!… Freddo e neve, nessuna cosa li tratteneva sotto la tenda all’ora in cui compariva, tutti si precipitavano fuori per contemplarla. Quella luce era la vita: era la fine di quella tetra notte, durata tante settimane. Era il momento di fare i preparativi per la marcia verso il polo. Già i primi uccelli erano giunti e pareva che volassero tutti incontro al sole, mentre le foche e le morse facevano la loro comparsa godendosi quel po’ di luce pallida e priva di calore. Nel campo si lavora febbrilmente per allestire la prima spedizione. Si preparano le slitte e si rinforzano, onde possano resistere meglio agli urti; si scelgono con gran cura i viveri, le armi, le munizioni, le vesti per poter sfidare i rigori intensi del freddo, le lampade a spirito, non potendo caricare le stufe sui leggeri veicoli, e si esaminano attentamente i kajah, quei piccoli canotti usati dagli esquimesi, formati di pelli montate su uno scheletro leggerissimo e che possono essere necessari per attraversare i canali. Il Duca sorveglia tutto, esamina tutto e dà consigli a tutti, quantunque sia molto sofferente per le amputazioni subìte. È però molto crucciato di non essere in caso di prendere parte alla spedizione in causa delle non ancor rimarginate ferite, che gli impediscono di affrontare il freddo esterno sotto la minaccia di vederle incancrenire. Il 20 febbraio tutto è pronto per la partenza. La carovana, al comando di Cagni, si compone di dodici persone. Querini, Cavalli, le quattro guide, Cardenti, Canepa e tre norvegesi. Tutti sono di buon umore e risoluti a spingersi verso il polo con una marcia rapida. I cani latrano giocondamente. Gli addii sono commoventi. S. A. R. stringe vigorosamente la mano a tutti, rammentando loro che si tratta dell’onore italiano ed incitandoli a fare il loro dovere ed essere obbedienti al capo della spedizione. Passa in rivista gli uomini, i cani e le slitte e dà, con voce commossa, il segnale della partenza. Le fruste scoppiettano, i cani abbaiano e la carovana si mette in marcia fra gli urrà dei norvegesi che rimangono a guardia del campo e della Stella Polare. Quel primo tentativo non doveva avere felice successo. Forse era ancora troppo rigido il clima per poterlo sfidare e per poter dormire sotto piccole tende appena riscaldate da lampade. La spedizione non è ancora giunta all’altezza del Capo Germania che scoppia un furioso uragano di neve. È una tormenta formidabile che non si può sfidare impunemente e che accieca e soffoca uomini e cani. I termografi a minimo segnavano sui palks –52°, il che non provava che quella fosse la temperatura più bassa, poichè gli apparecchi non potevano indicare di più. Come resistere a simili temperature?… Per maggior disgrazia i cani, che non sanno più trovare i passaggi migliori fra quel turbinìo di neve, spezzano le slitte contro le asperità dei ghiacci. Il disastro è completo e la spedizione, impotente a reggere a quei freddi terribili, non ostante la sua energia ed il suo buon volere, si vede costretta, due giorni dopo la sua partenza, a ritornare all’accampamento da cui era partita così piena di speranze. Quella decisione fu certamente saggia e probabilmente salvò la spedizione da una morte certa, poichè le burrasche di neve dopo quell’epoca si successero costantemente e con tanta furia da mettere in serio pericolo perfino gli accampati. Vi fu anzi un giorno che la neve cadde in tanta copia da seppellire completamente le tende, costringendo gli accampati a rimanere prigionieri per ventiquattro ore. Attorno si era formata una tale barriera di ghiaccio da non poterla superare nemmeno con le funi. La buona stagione però, quantunque lentamente, s’avanzava. Le nebbie si sfollavano rapidamente, gli uragani di neve diventavano meno frequenti, il freddo scemava ed i ghiacci non subivano più pericolose pressioni. Anche il sole si manteneva ormai sopra l’orizzonte, bassissimo anche a mezzodì vero (+4°), ma la luce crepuscolare durava anche a mezzanotte, essendo l’arco di depressione dell’astro -12°. Intanto i preparativi per la seconda spedizione venivano spinti alacremente innanzi, sotto la direzione del Duca e del capitano Cagni. L’equipaggiamento era stato scelto con cura estrema e così pure erano stati scelti i viveri. La nuova spedizione doveva essere un po’ più numerosa della prima e anche meglio organizzata. L’11 marzo tutto era pronto per la partenza. La carovana si componeva di tredici slitte, di tredici uomini e di cento e quattro cani. Tutti gli italiani, eccettuati il Duca, che si trovava ancora in condizioni tutt’altro che buone in causa dell’amputazione delle dita, ed il cuoco, vi prendevano parte, unitamente al capitano Evensen, il primo macchinista, il signor Stökken, che si era offerto volontariamente di prendervi parte, ed a due marinai. La carovana doveva spingersi più innanzi che era possibile, poi rimandare gradatamente dei drappelli, per mantenere agli ultimi e più resistenti, i viveri necessarii per marciare alla conquista del polo. L’11 marzo adunque la carovana lasciava l’accampamento, conducendo con sè gran copia di viveri, diretta verso il Capo Germania prima, poi verso il Capo Fligely, per poi raggiungere la terra di Osborne, ammesso che fosse veramente un’isola. I ghiacci erano cattivi, tanto che i cani penavano assai ad avanzare. Dappertutto sorgevano punte aguzze, o vi erano spaccature, strati di neve non ancora rassodata dove le slitte sprofondavano facilmente, minacciando di cadere entro i canali d’acqua marina. Tutti, le guide specialmente, avevano un gran da fare ad aprire una via fra tanti ostacoli. Ora erano costretti ad abbattere a colpi di piccone, una punta che impediva il passaggio alle slitte, più oltre dovevano spianare la via, più innanzi costruire ponti di ghiaccio. Ad ogni istante le slitte si rovesciano, le corde si spezzano, casse e cassette cadono e bisogna rifare il carico, oppure i cani, poco obbedienti per natura, fanno corse improvvise sulla pista d’una volpe e capitombolano in qualche crepaccio, imbrogliando le corde e guastando i veicoli. Anche le cadute degli uomini sono frequenti. Ora è il ghiaccio che frana improvvisamente sotto i loro piedi, ora è la neve che si sprofonda. La rifrazione, così comune in quelle regioni, giuoca di frequente dei brutti tiri, ingannando l’occhio. Talvolta gli esploratori credono di varcare un piccolo crepaccio e saltano.... cadendo invece in fondo ad un canale largo parecchi metri. La rifrazione aveva ingannato la misura, facendola apparire breve mentre era molto più larga. Talvolta invece è il vento del nord, freddissimo, che rende penosa la marcia. Solleva nembi di nevischio che avvolgono la carovana, acciecandola, e che screpola dolorosamente le carni del viso quantunque protetto dal cappuccio abbassato. Malgrado tanti ostacoli e tante fatiche, la carovana si avanza animosamente, seguendo le coste della Terra Principe Rodolfo. Alle sei si rizzano le tende e s’accampa in mezzo ai ghiacci. Gli uomini divorano avidamente il pasto preparato in fretta, cucinato sulle lampade, poi si cacciano nei sacconi di pelle d’orso, stringendosi gli uni addosso agli altri per conservare maggiormente il calore. Le vesti sono incrostate di ghiacciuoli, gli stivali sono diventati così duri da non poterli levare bisognerebbe farli a pezzi. Nessuno osa levarsi i grossi guanti di pelle: facendolo sanno bene di correre il pericolo di aver le mani gelate e di dover subire l’amputazione. Al mattino la carovana si rimette animosamente in marcia, dopo di aver sgelati gli occhi che durante la notte si sono coperti di un velo di ghiaccio. La via è orribile. Giganteschi ice-bergs e piramidi e cupole innumerevoli sbarrano la via alle slitte. Passaggi non ve ne sono, eppure nessuno vuole ritornare. Attaccano gli enormi massi con le piccozze, li demoliscono pezzo a pezzo, aprono un passaggio, una galleria, un sentiero e vanno innanzi. Ma quali fatiche richiedono quelle poche miglia guadagnate in ventiquattro ore!... È un lavoro da titani che snerva rapidamente ed esaurisce l’energia ed il vigore di tutti. Ad ogni momento è necessario scaricare le slitte per superare quei passaggi aperti con tanta fatica o staccare i cani da alcune per attaccarli alle altre, causando una perdita di tempo prezioso. E gli ostacoli, lungi dallo scemare, aumentano invece a tal punto che certi giorni la carovana, dopo un lavoro schiacciante, non riesce a percorrere più di cinquecento metri!... Si sarebbe detto che il polo moltiplicava dinanzi a quegli audaci le barriere di ghiaccio onde non fosse dato loro di accostarlo. Il capitano Cagni, non ostante le immense fatiche che doveva sfidare, durante le fermate non obliava le osservazioni astronomiche, prendendo doppie altezze del sole coll’orizzonte artificiale, meridiane ed extra-meridiane e determinando le longitudini coi cronometri Pongines, i quali serbavano incolume il tempo di Greenwick. Non dimenticava pure di fare osservazioni di pressione e di temperatura. Il freddo intanto si manteneva crudissimo, rendendo difficili gli accampamenti. Quaranta, quarantadue, quarantacinque gradi sotto lo zero! Altro che Alpi!... Anche le guide si lamentavano, quantunque abituate ai geli delle loro alte montagne. E nondimeno per nove giorni quell’ardito drappello lotta tenacemente, sfidando fatiche, freddi, uragani di neve, ice-bergs, spinto da un solo desiderio: quello di guadagnare via, di andare innanzi. Il 13 marzo il primo drappello composto del capitano Evensen e di due marinai norvegesi torna alla baia di Teplitz. Il 20 marzo quando la carovana distava circa settanta chilometri dalla baia, il capitano Cagni, che vedeva diminuire i viveri, decide di rimandare al campo un secondo drappello, composto del tenente Querini, del macchinista Stökken e della guida Ollier e di una slitta tirata da dieci cani. Furono dati loro i viveri per dieci giorni, gl’istrumenti necessarii per fare il punto, onde non si smarrissero in mezzo a quei ghiacci sconfinati. Essendo il tempo buono era da presumersi che il drappello potesse giungere felicemente all’accampamento in otto od al massimo in dieci giorni. Gli addii di Querini e dei suoi compagni furono commoventi. Si sarebbe detto che tutti presentivano di non dover più rivedere quei bravi camerati che avevano diviso con loro, fino a quel giorno, le fatiche e le privazioni. Tutti seguirono con lo sguardo un po’ triste quel drappello finchè lo videro scomparire in mezzo agli ice-bergs che coprivano i campi di ghiaccio. Ahimè!... Non dovevano più rivederli a Teplitzbay!... Il polo voleva delle vittime anche dalla spedizione italiana e se le prese. Il grosso della carovana intanto, guidato da Cagni, muoveva verso il nord, avanzando faticosamente. Aveva ormai lasciato da qualche tempo le coste settentrionali della Terra del Principe Rodolfo e s’avanzava attraverso i banchi di ghiaccio, lottando tenacemente contro i continui ostacoli. La via diventa sempre più aspra, le fatiche aumentano ed il freddo anzichè diminuire, incrudelisce. Non importa!... Avanti, avanti ancora, avanti sempre!... Cagni ne dà l’esempio incoraggiando tutti con la voce e coi fatti e rammentando a tutti che vi è molta gloria da raccogliere. Ma il 21 marzo dei dubbi cominciano ad assalire il capo della spedizione. Potranno i viveri bastare per raggiungere il polo?... Questo pensiero lo decide a dividere ancora la carovana ed a rimandare un altro drappello alla baia di Teplitz. Avevano allora raggiunto l’83° di latitudine settentrionale e molta strada vi era ancora da fare per raggiungere l’estremo punto del mondo. Cagni affida al dottor Cavalli l’incarico di ricondurre indietro il terzo drappello non tenendo con sè che il marinaio Canepa e le due guide Fenoillet e Petigaux. Si danno alcune slitte, viveri per venticinque giorni e la comitiva prende la via del ritorno a marce forzate per non rimanere senza provviste prima di giungere alla baia. Il capitano Cagni, coi suoi valorosi compagni, sei slitte e quarantacinque cani, riprende la marcia verso il nord, deciso a spiegare la bandiera italiana più innanzi che gli sarà possibile. Eccoli in mezzo ai campi di ghiaccio dell’oceano Polare. Non più terre in vista, non più isole. Ghiacci, poi ancora ghiacci e quindi ghiacci di nuovo, poi nebbioni, poi uragani di neve, poi ostacoli di ogni specie. La marcia diventa terribile; non importa, avanti ancora, avanti sempre fino all’esaurimento completo dei viveri e delle forze. Essi sono come smarriti in mezzo a quel caos del gelo: avanti!... I banchi trepidano sotto i loro piedi, quei banchi mai calpestati prima da alcun essere umano: avanti!... Le nebbie avvolgono la piccola carovana come se volessero soffocarla: avanti ancora!... Nessuno ostacolo può arrestare quei quattro audaci perduti ai confini del mondo!... La marcia invece di rallentare diventa più rapida. Il vento del settentrione che soffia costantemente ha gelato il mare, ed i ghiacci non sono più cattivi come nei primi giorni. Quanti pericoli però!... I banchi talvolta sussultano, muggiscono, detonano, si spaccano sotto lo sforzo poderoso delle pressioni, minacciando ad ogni istante di inghiottire uomini, cani e slitte. Un giorno il ghiaccio cede improvvisamente sotto i piedi del capitano e di Petigaux ed i due arditi esploratori cadono in acqua. Si sarebbero probabilmente annegati come Bellot, lo sfortunato esploratore francese, se i loro compagni non fossero subito accorsi a trarli sul pak, bagnati fino alla midolla delle ossa, ma più vivi di prima. Incredibile a dirsi!... Quel bagno con 40° sotto zero non ebbe alcun effetto disastroso. L’indomani il capitano e Petigaux erano ancora in marcia!... Di passo in passo che si avanzano verso il polo il tempo è pessimo. Venti freddissimi soffiano costantemente, screpolando le carni agli esploratori, e nevi e nebbie calano sul pak. Il polo aumenta gli ostacoli dinanzi a quei prodi che vogliono squarciare il velo che lo nasconde. Pure l’animoso drappello non si arresta ancora. Marcia con accanimento, guadagnando faticosamente metro per metro. Ancora uno sforzo!... Ancora delle miglia!... Un altro è guadagnato, un altro ancora!... Non mancano che duecentoquaranta miglia... L’86° è superato!... Nansen sta per essere vinto!... Avanti l’Italia!... Anche il punto toccato dal fortunato esploratore norvegese è oltrepassato. Sono giunti più innanzi di tutti!... Stanno finalmente per calcare col piede quel punto ricercato per quattro secoli da tanti audaci e che ha costato tante vittime. Ma no!... Un pericolo tremendo minaccia la spedizione: la fame!... I viveri sono quasi consumati e non si vedono nè animali, nè volatili su quei campi di ghiaccio. Cosa fare? Andare innanzi ancora? Il ritorno poi sarebbe la morte di tutti. Bisogna cedere. A 86° 33’ ed a 65° di longitudine Greenwick, la spedizione, sfinita, esausta e già alle prese con la fame, s’arresta. È impossibile andare più innanzi. Il polo è la morte. È il giorno di San Marco, patrono di Venezia. Spiegano la bandiera italiana al gelido vento polare, più innanzi di tutti quelli che si sono avanzati in quelle regioni dei ghiacci eterni e s’accampano per solennizzare meglio che possono il felice avvenimento. Il tempo, rimessosi al bello, permette al capitano Cagni di prendere, per due volte, la latitudine e la longitudine, poi quei valorosi si allestiscono un modesto pranzetto, che divorano ai confini del mondo, a sole duecentosette miglia dal polo. Allo champagne – ne avevano conservato religiosamente una bottiglia – Cagni, dopo un breve discorso, brinda al Re, a S. M. la Regina, al Duca, all’Italia. I ghiacci del polo ripetono di eco in eco gli urrà dei valorosi e per la prima volta il nome d’Italia si propaga rimbombante fra quegli ice-bergs che forse contano secoli e secoli di esistenza. Ma bisogna affrettarsi a ritornare. Ogni ora che passa può essere un giorno di fame: è necessario ritornare alla baia di Teplitz senza indugio. Seppelliscono nei fianchi d’un ice-berg due bottiglie di ferro smaltato contenenti tre copie di una breve relazione del viaggio, poi il 26 aprile riprendono animosamente la via del sud. Non è un ritorno: è una vera fuga precipitosa. I viveri diminuiscono a vista d’occhio e la fame sta per sorprenderli in mezzo ai campi di ghiaccio, così lontani dai loro compagni. La fuga diventa rapida, affannosa. Dormono appena, poi riprendono la corsa fra le nevi, le bufere, le nebbie, i venti gelati. La fame li sospinge. I viveri vengono finalmente meno e sono ancora così lontani dalla Terra del Principe Rodolfo. Per maggior sventura i ghiacci che vanno alla deriva verso l’ovest li allontanano sempre più. I cani cadono, uno ad uno, sotto i colpi degli esploratori e servono di cibo. Possono chiamarsi fortunati quei poveri uomini quando hanno il tempo di cucinare quella carne nauseante che puzza fortemente di selvatico. Certi giorni si vedono costretti a mangiarla cruda, ancora gocciolante di sangue caldo. E camminano, camminano, passando di banco in banco. Nessuna terra allieta la loro vista; nessun essere vivente si mostra. Dove sono? In mezzo al deserto di ghiaccio. Verso la metà di maggio il capitano Cagni, che ha potuto fare il punto, s’accorge di essere trascinato all’ovest della Terra del Principe Rodolfo. I banchi di ghiaccio avevano derivato in quella direzione, trascinandoli con loro, minacciando di allontanarli sempre più dalla baia di Teplitz. Quella scoperta li sgomenta. Cosa sarà di loro se la deriva gli spinge nel mare di Vittoria?... Potranno prender terra alle isole che circondano le terre settentrionali del Principe Giorgio, o di Alfredo Harmsworth o all’isola Arthur o a quella più lontana di Albert Edward? È qui che comincia la lotta contro la deriva. Marciano con accanimento spingendosi verso l’est per raggiungere la baia di Teplitz, la loro salvezza. Il disgelo viene ad accrescere l’orrore della loro situazione. I ghiacci si sciolgono, i banchi si assottigliano e non reggono più il peso delle slitte e degli uomini. Da un momento all’altro possono trovarsi senza sostegno, in pieno mare, e sono così lontani dalla baia!... L’angoscia comincia ad impadronirsi di loro e per un momento Cagni ha intenzione di spingersi risolutamente verso il sud, di attraversare la Terra del Principe Giorgio e quella d’Alessandro e di raggiungere il deposito di viveri del Capo Flora. Ma la lunghezza del viaggio e la mancanza dei viveri lo spaventano e decide, con felice pensiero, di tentare ancora uno sforzo supremo per condurre i suoi compagni alla baia di Teplitz. L’isola di Giorgio Harley appare ben presto ai loro sguardi e dopo d’aver corso venti volte il pericolo di annegare, riescono, passando di banco in banco, a raggiungere le sue coste occidentali. Da questa passano sull’isola Ommaney, la quale si trova di fronte al capo Hugh Mill, all’ovest della Terra Carlo Alessandro. Sono ancora molto lontani dalla Terra Principe Rodolfo e dalla baia di Teplitz, ma non disperano ancora. Lottano in velocità coi ghiacci che derivano, marciando con accanimento disperato e ricorrono a tutti i mezzi per guadagnare via. Si servono perfino dei banchi di ghiaccio come di zattere per attraversare i canali. La Terra Carlo Alessandro è sorpassata!... Avanti ancora, uno sforzo supremo e le coste meridionali della Terra Principe Rodolfo compariranno. Vagano sulla punta estrema della Terra Carlo Alessandro, descrivendo giri capricciosi a seconda della direzione dei ghiacci, toccano finalmente il capo Brorok ed il 23 giugno, dopo un viaggio di centoquindici giorni rivedono la Stella Polare e cadono nelle braccia del Duca. Erano esausti, sfiniti dalla fame e dalle immense fatiche sopportate e ritornavano con tre sole slitte e sette cani. Tutti gli altri erano stati divorati durante quella precipitosa ritirata. Capitolo XII Il ritorno Mentre il capitano Cagni ed i suoi valorosi compagni si spingevano audacemente verso il polo, una profonda angoscia regnava alla baia di Teplitz. Il dottor Cavalli ed il suo drappello erano tornati felicemente all’accampamento dopo ventiquattro giorni di marcia e non vi avevano trovato quello comandato dal tenente Querini, che avrebbe dovuto giungervi quindici giorni prima. Nè S. A. R. nè alcuno dei suoi compagni avevano veduto il secondo drappello, quantunque avessero mandato uomini fino al capo Fligely, sospettando il ritorno d’una parte degli esploratori. Cos’era adunque avvenuto del tenente, della guida Ollier e del macchinista Stökken?… Si erano smarriti in mezzo agli immensi campi di ghiaccio od erano periti?… Il Duca, inquieto per la loro scomparsa e conoscendo quanti pericoli nascondono i ghiacci, non rimase inoperoso. Saputo dal dottor Cavalli che il drappello si era diviso dal grosso della spedizione il 21 marzo e che aveva viveri per soli dieci giorni a razioni intere, oltre a dieci cani, organizzò subito delle carovane di soccorso. Furono mandati marinai al Capo Germania, al Capo Fligely, sulle coste settentrionali della Terra Principe Rodolfo ed in direzione dell’isola Osborne, a perlustrare quelle coste ed i banchi di ghiaccio. Si era saputo che qualche giorno dopo che il drappello di Querini aveva abbandonato il grosso della spedizione, una bufera di neve era scoppiata verso le coste settentrionali della Terra Principe Rodolfo e si sperava che quei tre disgraziati si fossero smarriti all’ovest dell’isola. Le ricerche continue ed affannose non avevano dato alcun risultato. Nessuna traccia nè del tenente, nè dei suoi due compagni, nè della slitta, nè dei cani. Cosa era adunque accaduto? Bisognava per forza convenire che tutti avevano dovuto trovare la morte in mezzo ai banchi di ghiaccio. Certo l’uragano di neve li aveva spinti tutti dentro qualche canale od il ghiaccio si era aperto sotto i loro piedi e l’oceano Artico li aveva inghiottiti. Il Duca, vivamente impressionato, non cedette nondimeno dinanzi ai primi scoraggiamenti. Formò nuovi drappelli di soccorso mandandoli verso l’ovest e verso l’est della Terra Principe Rodolfo e stabilì un piccolo campo al Capo Fligely, perchè sorvegliasse i banchi di ghiaccio che si estendevano al nord dell’isola. Sperava ancora di vedere un dì o l’altro ritornare il povero tenente, pel quale aveva nutrito sempre un vivo affetto, ed i suoi due compagni. Vane speranze. I giorni passavano, ma nessuna buona nuova giungeva mai al campo, finchè Cagni ritornò e senza aver incontrato, durante il periglioso ritorno, gli smarriti. Lo scoraggiamento cominciò ad invadere anche il Duca. Comprese finalmente che tutto era finito e che quei valorosi erano morti. – La nostra spedizione fu utile alla scienza, – disse quel giorno che comprese essere vano qualsiasi tentativo. – È stata da forti italiani, ma non fu felice. – Non avendo però l’assoluta certezza che il tenente ed i suoi compagni fossero periti, al Capo Cave furono depositati dei vestiti di pelle, delle provviste per venti persone e per dieci mesi e delle lettere in lingua italiana e norvegese, colle quali s’avvertivano gli scomparsi di attendere in quel luogo la ventura primavera o di raggiungere possibilmente il Capo Flora in attesa d’una spedizione di soccorso. Era tutto quello che potevano fare il Duca ed i suoi compagni. Intanto l’estate s’avanzava a rapidi passi e s’avvicinava il momento dell’imbarco. Già i marinai norvegesi erano riusciti ad accomodare alla meglio l’avaria subita dalla Stella Polare. La povera nave però aveva gravemente sofferto in causa delle pressioni dei ghiacci e la sua macchina si era guastata. Anche la prora era stata danneggiata molto e le costole presentavano una solidità molto dubbia. Era un’impresa tutt’altro che facile ritornare in Europa con simile nave, attraverso a mari ancora ingombri di ghiaccio. Nel maggio, dopo d’aver imbarcato gran parte dei viveri e degli oggetti che erano stati portati a terra, fu fatto il primo tentativo per liberare la nave dai ghiacci che la rinserravano. Tutti avevano compreso che un altro svernamento sarebbe stato fatale alla povera nave, di già ridotta in così pessimo stato, quindi si erano messi alacremente all’opera. Con mine fu fatto saltare parte del banco su cui si trovava la Stella Polare, poi coi picconi fu sbarazzata del ghiaccio che si era incrostato dovunque, in coperta, lungo le murate, sulle bancazze e sulla cintura. Se erano però riusciti, dopo molte fatiche ed un lungo lavoro, ad aprire un piccolo bacino attorno alla nave, la baia rimaneva chiusa ostinatamente dai banchi, nè pareva che vi fosse, almeno pel momento, nessuna probabilità che dovessero rompersi. Anzi anche il bacino gelava durante la notte costringendo l’equipaggio ad un lavoro incessante. Passarono così due lunghi mesi fra continue speranze e delusioni e già tutti erano convinti di dover cominciare il ritorno a bordo delle scialuppe e di raggiungere il Capo Flora, quando verso i primi di agosto i ghiacci cominciarono a screpolarsi. Il 15 un vento furioso cominciò a muoverli, lasciando finalmente libera la Stella Polare. L’imbarco fu precipitoso. Temevano, ritardando qualche po’, di correre il pericolo di rimanere ancora prigionieri e di dover ritirarsi sulle scialuppe. La nave era molto danneggiata, è vero, ma valeva ben più delle baleniere e dei canotti. La Stella Polare, speronati gli ultimi ghiacci che le impedivano il passo, mise subito la prora verso il sud per raggiungere, più presto che era possibile, la Terra Carlo Alessandro e quindi cacciarsi nel Canale Britannico. Il tempo era pessimo ed il mare ingombro di banchi e di floe-bergs, i quali tendevano ancora a riunirsi. La Stella Polare però, navigando con prudenza e con destrezza, potè sfuggire alle loro strette, avvistare le coste della Terra Carlo Alessandro e quindi le due isolette di Neale e di Elisabetta. La sua corsa, molto faticosa e continuamente interrotta dall’aumentare dei ghiacci, non durò che due giorni. Il 17 agosto la nave veniva nuovamente bloccata nel Canale Britannico, nei pressi dell’isola Eaton e così strettamente da dubitare che potesse più mai liberarsi. Però la fortuna che aveva fino allora protetta la spedizione, anche questa volta non le mancò. Il 29 agosto, quando già facevano i preparativi per abbandonare la nave, i ghiacci si ruppero nuovamente e la nave poteva raggiungere felicemente il canale de Bruyne. Scendendo lungo il canale e battagliando continuamente coi banchi di ghiaccio, il 30 agosto doppiava il Capo Barentz, poi piegando verso occidente, dopo poche ore giungeva al Capo Flora, dove si arrestava fino al 31 per dare un po’ di riposo all’equipaggio ed al capitano Evensen, il quale era caduto accidentalmente nella stiva ferendosi al capo. L’indomani la spedizione dava un addio alla Terra di Francesco Giuseppe, un addio molto triste perchè in quelle desolate regioni lasciava, forse ancora vivi, tre dei suoi valorosi compagni: Querini, Ollier e Stökken. Poveri esploratori, cosa sarà accaduto di voi? Errate ancora smarriti fra quei ghiacci orribili, fra i nebbioni e le bufere tremende del polo od i vostri corpi dormono il sonno eterno nei profondi abissi dell’oceano Artico? La Stella Polare, lasciato il Capo Flora, prende definitivamente la via del sud, la via del ritorno. Cammina lentamente perchè è scarsa di vele e la sua macchina funziona male avendo l’elica torta e le caldaie in disordine. A trenta miglia dalle coste europee corre ancora un grave pericolo in causa dei grossi e pesanti floe-bergs che la stringono di nuovo, pure riesce, dopo una traversata penosa e molto lenta, ad avvistare finalmente le coste settentrionali della Norvegia. Il 5 settembre, al largo di Hammerfest, presso l’isola di Rolfso, incontra una nave, la prima che vede dopo la sua partenza dalla Terra di Francesco Giuseppe. Quella nave è l’Herta, una piccola baleniera di Sandyfjord, di duecentocinquantatre tonnellate, con una macchina di centottanta cavalli indicati, al comando del capitano Bade. Era la nave mandata in cerca del Duca dal Re Vittorio Emanuele, per comunicargli la tremenda notizia del più grande delitto del secolo: l’assassinio di Re Umberto. A bordo aveva i signori cav. Silvestri ed il conte Tarsis, incaricati di lasciare al Capo Flora la corrispondenza della Casa Reale. La nave stava appunto tornando dalla Terra Francesco Giuseppe, non avendo potuto approdare in causa dei ghiacci. Una scialuppa venne messa in acqua ed i signori Silvestri e Tarsis recano al Duca, mentre gli equipaggi si salutano con urrà entusiastici, la ferale notizia. È un colpo di fulmine che scoppia a bordo della Stella Polare. La prima notizia che i fortunati esploratori dovevano ricevere dall’Europa, doveva essere l’assassinio del Re buono e cavalleresco!… La commozione fu immensa. S. A. R. estremamente commosso, si rinchiuse nella sua cabina dove rimase due giorni, mentre la Stella Polare, invece di appoggiare su Hammerfest, riprendeva nuovamente il viaggio verso il sud. Il 9 settembre la Stella Polare, fra gli urrà della intera popolazione, accorsa in massa a salutare gli arditi esploratori, approda a Trondhiem, e due giorni dopo S. A. R. e Cagni facevano la loro entrata trionfale in Christiania, la capitale della Norvegia, a fianco di Nansen e seguìti da uno stuolo di scienziati. Tutti rammentano le grandi accoglienze fatte a S. A. R. ed al capitano Cagni in Norvegia, in Danimarca ed in Italia: tutti ricordano l’infinito numero di dispacci mandati dalle più notevoli autorità italiane ed estere all’audace organizzatore della spedizione polare, perchè io ne parli. Risuona ancora per l’aria l’eco degli entusiastici applausi, ben meritati, di Torino, di Roma, di Napoli e di Venezia. Fu un vero ritorno trionfale, giusta ricompensa a coloro che per la gloria d’Italia e della scienza avevano percorse quelle gelide terre polari per quattordici mesi. E quali i risultati della spedizione? Splendidi senza dubbio. La spedizione italiana ha avuto il vanto di superare tutti gli esploratori che da trecent’anni, con costanza invidiabile, marciarono alla conquista del polo, superando perfino lo stesso Nansen. Oltre a ciò la spedizione ha cancellate le Terre di Petermann e di Oscar non avendole vedute in alcun luogo, ha preso numerosi rilievi, rettificando la cartografia dell’arcipelago Francesco Giuseppe, prima molto imperfetta; ha corretto molti errori di longitudine e di latitudine fatti dai precedenti esploratori; ha fatto un gran numero di osservazioni magnetiche ed astronomiche e molti esperimenti di gravità, e numerosissimi scandagli lungo le coste. Ha poi portato con sè un bel numero di piante, di pelli di foche, di trichechi e di orsi bianchi. Con tuttociò sembra che S. A. R. non sia ancora completamente soddisfatto di aver spinto la spedizione così vicina al polo e d’aver fatto spiegare la bandiera italiana più innanzi di tutte le nazioni marinaresche del mondo. Si dice che mediti un’altra grande spedizione al polo nord. Lo farà? Glielo auguriamo per l’interesse della scienza, per la gloria d’Italia. Quello che si sa di positivo, si è che nella ventura primavera una nave verrà inviata all’arcipelago Francesco Giuseppe con la speranza, ahimè! troppo vaga, di poter ritrovare quei tre coraggiosi che sono scomparsi fra le nebbie e le nevi della terribile regione polare. Povero Querini!... Povero Ollier e povero Stökken!... Il polo voleva le sue vittime e ha preso le vostre giovani esistenze. FINE