CAPITOLO I. Il naufragio dell’Eira. — È vero ciò che si dice, signor Linderman? — A proposito di cosa, signor Wilkye? — Che la spedizione polare organizzata dai vostri compatriotti, è miseramente naufragata? — È vero, rispose con voce secca, colui che si chiamava Linderman. — Dunque il vostro illustre esploratore polare, è stato vinto dai ghiacci anche questa volta? — Cosa v’importa? — By-God!... Ad un onorevole membro della società geografica degli Stati Uniti, può interessare molto. — Me lo dite con una certa ironia, signor Wilkye, da farmi supporre che voi siate contento che il mio compatriota Smith non sia riuscito. — Può essere, signor Linderman. Che volete? Sarei più contento che scoprisse il polo un americano, anzichè un inglese. — Infatti, si è veduto come l’hanno scoperto i vostri compatriotti della Jannette. — La loro missione era diversa, signor Linderman. La Jannette andava in cerca di un passaggio libero fra lo stretto di Behering e quello di Davis, e non del polo nord. — Ed è naufragata miseramente, disse il signor Linderman, con ironia. — Ma se si fosse diretta verso il polo, senza perdere tanti mesi a cercare il passaggio, forse sarebbe riuscita. — A farsi schiacciare dai ghiacci qualche mese prima. — Troppa fretta, signor Linderman. — Eh!... Pretendereste voi che gli americani debbano riuscire in tutto?... E chi credete che siano gli inglesi?... Degli uomini di carta-pesta forse?... I miei compatriotti navigavano già nei mari polari, quando in Europa non si sapeva ancora che esistesse un’America. — Colpa dei vostri grandi navigatori che non l’hanno scoperta prima, questa America che dà tanta ombra al vostro paese, rispose con accento acre il signor Wilkye. Ci voleva un italiano, un Cristoforo Colombo, per far sapere ai vostri navigatori che esisteva un altro continente! — Basta!... M’avete seccato abbastanza. — To!... Un flemmatico inglese che prende fuoco come uno zolfanello! Avete mai veduto una cosa simile, signori miei?... Un allegro scroscio di risa echeggiò intorno ai due litiganti. Il signor Linderman s’alzò rosso come una peonia di China e lasciò cadere, sul tavolo che gli stava dinanzi, un pugno così formidabile, da far traballare le tazze ricolme o semi-piene di birra che vi stavano sopra. — Calmatevi, signor Linderman, disse una voce. Volete diventare idrofobo? — E vi prego di non rovesciare le nostre tazze, disse un’altra. Che diavolo!... Metterete in subbuglio tutto il club!... Un secondo scroscio di risa, più fragoroso e più allegro di prima, echeggiò intorno al tavolo dinanzi al quale stavano sedute otto o dieci persone, fumando nelle pipe monumentali o dei puros o dei veri londres. — Volete farmi scoppiare? gridò il signor Linderman. — C’è del tempo! esclamò il signor Wilkye. Un inglese non scoppia così presto!... — Se continuate ancora, vi dico che salto in aria come una caldaia caricata a quaranta atmosfere. — Non avete raggiunta la pressione necessaria, disse uno dei bevitori. — Ma, infine, si può sapere il motivo di tutto questo chiasso? chiese un pezzo d’uomo, grasso come un bove, con una folta barba rossa tagliata a becco, e che all’aspetto sembrava qualche negoziante. Come è vero che sono un onorevole membro della società degli uomini grassi di Chicago, non ho capito ancora niente. — Cosa volete saper voi di spedizioni polari, Bisby? disse il signor Linderman, bruscamente. — È vero che io non mi occupo che del prezzo delle carni salate, rispose l’uomo mastodontico, ma, giacchè siedo fra voi, onorevoli membri della società geografica, voglio che mi illuminiate. — È vero, dissero parecchie voci. Nemmeno noi sappiamo su che cosa voi discutiate. — Dell’infelice fine fatta dalla spedizione dell’inglese... — Scozzese, rettificò il signor Linderman. — È tutt’uno per noi. Dunque vi dicevo che si discuteva sul naufragio della spedizione di sir Beniamino Leight Smith. — È andata a picco l’Eira? chiesero tutti, con una certa emozione. — Gli ultimi dispacci hanno recato l’annuncio, che i superstiti della spedizione sono stati raccolti nello stretto di Matotekine. — Quando? — Il 25 agosto, disse Wilkye. — È vero, signor Linderman? chiesero parecchie voci. — Sì, rispose seccamente l’inglese. — Ma chi è, innanzi a tutto, questo signor Beniamino Leight Smith? chiese l’onorevole membro degli uomini grassi. Io vi ho detto che non m’intendo... — Che dei prezzi della carne salata, lo sappiamo, signor Bisby, rispose un bevitore. — Sì, narrate, signor Wilkye, dissero gli altri. Manchiamo dei particolari della spedizione. — Lasciatemi vuotare la mia tazza di birra e vi narrerò ogni cosa. · · · · · · · · · · · Questa discussione, che minacciava di diventare molto acre fra il signor Linderman e il signor Wilkye, aveva luogo in uno dei locali della sezione della Società geografica americana di Baltimora, la sera del 26 ottobre dell’anno 1892. Questa sezione, che contava fra i suoi membri i più ricchi yankees della città, armatori, geografi, esploratori, negozianti che si piccavano di occuparsi di scoperte geografiche, quantunque ignorassero l’esistenza di qualche continente, ogni sera era popolatissima, essendo in quel tempo assai fiorente. Non crediate però che, in quelle sale, quei bravi americani si limitassero a discutere di geografia e di esplorazioni. Oibò!... Affaristi per eccellenza e grandi bevitori come sono in generale tutti gli abitanti degli Stati dell’Unione, s’occupavano molto dei loro affari, e fra una discussione e l’altra, fra la scoperta di un nuovo fiume, o di un’isola, o di un nuovo popolo di selvaggi, o fra qualche comunicazione della presidenza, parlavano dei prezzi degli zuccheri, dei caffè, delle carni salate, del pesce secco o dei porci di Chicago e bevevano come otri, alternando birra e bicchieri di wisky e di grogs. Però dobbiamo dire che fra quei numerosi membri contavansi delle persone di valore, dei distinti geografi che s’occupavano con vera passione delle scoperte e dei valenti esploratori che avevano già intrapreso dei lunghi viaggi su tutti e cinque i continenti. Fra questi primeggiavano soprattutto i signori Wilkye e Linderman, due fieri antagonisti che mai si trovavano d’accordo sullo stesso terreno, pel semplice motivo che uno era americano e l’altro inglese. Il signor Wilkye, un yankee purosangue, malgrado non contasse in quel tempo che trentadue anni, era già noto negli Stati dell’Unione. Figlio di un ricco costruttore di velocipedi, morto più volte milionario, aveva già intrapreso lunghi viaggi e compiuto assai ardite esplorazioni sulle coste della Groenlandia, spingendosi fino allo stretto di Smith, sulle spiagge della Terra della Regina e della baia di Baffin, perdendo la nave che aveva armata a proprie spese, rimasta prigioniera fra i ghiacci, dopo due svernamenti. Oltre a ciò, professava un vero culto pel velocipedismo ed aveva fama di esserne uno dei più resistenti campioni. Aveva già fondato parecchi Club e di molti era il presidente. Il secondo, invece, era un ricchissimo armatore, proprietario di una trentina di navi a vela ed a vapore e di un grandioso cantiere, ed era pure noto pei suoi numerosi viaggi intrapresi in tutte le regioni del globo e particolarmente nei mari australi del circolo polare. Bei tipi entrambi però, audaci, risoluti, decisi a tutto. Erano tutti e due di statura atletica, con membra poderose, muscoli di ferro, abituati ai più duri esercizi del corpo; erano diversi soltanto nelle tinte. Mentre l’americano aveva i capelli e la barba nera e la pelle bruna, che tradivano un incrocio di razze nordiche colle meridionali, l’altro invece aveva i capelli e la barba rossi e la pelle rosea come un anglo-sassone. Riprendiamo ora il filo della nostra veridica istoria. Il signor Wilkye, dopo d’aver vuotata la sua tazza di birra per umettarsi la gola, disse: — Questa spedizione inglese, così miseramente naufragata... — Tagliate corto, lo interruppe Linderman. — Adagio, caro signore, disse l’americano. Il signor Bisby deve essere illuminato. — Grazie, amico, disse il negoziante di carni salate. — Questa spedizione, dunque, era stata organizzata da Leight Smith, un uomo che aveva già conoscenza dei mari polari. Era partita da Peterheaand il 14 giugno dello scorso anno, diretta al polo, portando provviste per quattordici mesi. Componevasi di Smith, d’un capitano, d’un chirurgo e di ventidue marinai. Il 23 luglio l’Eira, tale era il nome della nave, giunse alla terra Francesco Giuseppe, ma colà si vide la strada chiusa dai ghiacci. La spedizione ritornò, sperando di trovare un altro passaggio, ma presso le isole Bell la nave veniva imprigionata dai campi di ghiaccio. Il 7 agosto riusciva ad aprirsi un varco ed a ripartire, ma otto giorni dopo veniva rinchiusa dai ghiacci presso il capo Flora, ed il 21 affondava sotto la pressione dei banchi. L’equipaggio s’accampò a terra, passò l’inverno vivendo di carni d’orsi bianchi e di morse e il 22 giugno di questo anno s’imbarcava nei canotti che aveva salvato, cercando di guadagnare le coste della Russia settentrionale. Dopo sei settimane impiegate ad attraversare un immenso campo di ghiaccio, giungeva al mare libero ed approdava alla Nuova Zembla. Ora il telegrafo annunziò che la spedizione è stata raccolta nello stretto di Matotkine dallo steamer Hope comandato da sir Allen Young, che era stato mandato in cerca dell’Eira dal governo inglese. Ecco il motivo della nostra discussione. — Io non m’intenderò che di carni salate, ma mi pare, signor Linderman, che quella spedizione abbia fatto una magra figura, disse Bisby. — Andate a parlare di buoi, voi! esclamò l’inglese con tono acre. Cosa ne sapete voi di spedizioni polari? — Sono un membro della Società Geografica anch’io e... — Degli uomini grassi che non s’occupano che di mangiare. — Ma io dico che se quei signori che montavano quel bastimento fossero stati americani..... — Si sarebbero affogati, signor negoziante di carni. La fine della vostra Jannette, informi1. — Ma, disse uno dei bevitori, che non si possa proprio andarci al polo, signor Linderman? — Sì e no. — Eh!... esclamò Wilkye. — Sì e no, ripetè l’inglese. Io dico che, finchè cercheranno di andarvi con delle navi che camminano come le lumache, le lasceranno fra i ghiacci. — Vorreste andarci a piedi? chiesero alcuni. — No, lo scorbuto, le fatiche, i grandi freddi ridurrebbero i marinai in tali condizioni, da non poter avanzare per lungo tempo. — E allora? — Io sono convinto che con una nave rapidissima si potrebbe giungervi. — Vorrei vederla alla prova, disse Wilkye. Io invece affermo che solo con dei velocipedi montati da uomini robusti si potrebbe raggiungere il polo. Un oh! di sorpresa echeggiò nella sala, a quella strana affermazione. Il signor Linderman proruppe invece in una clamorosa risata. — Si è mai udita una cosa simile! esclamò. Ma voi impazzite, signor Wilkye... — Con vostro permesso, non ancora. — Ma vi pare!... — Cosa vi trovate di così strano? Ragioniamo, signor Linderman. — Ma fin che lo desiderate. Sarei curioso di conoscere il vostro sbalorditivo progetto. — Una nave credete che possa spingersi fino all’80° di latitudine? — Sì, se la stagione è propizia. — Quale distanza corre dall’80° di latitudine al polo? — Dieci gradi..... — Ossia 600 miglia geografiche. Questa distanza sarà immensa per un equipaggio che deve percorrerla a piedi, traendosi dietro i viveri, le scialuppe, le slitte, le tende per l’accampamento, insomma tutto il pesante bagaglio necessario; ma cosa sono 600 miglia per un velocipedista? Sei giorni di viaggio, sette, ammettiamone pure otto. — È vero! esclamarono gli astanti, con vivo stupore. — Dunque in sette od otto giorni un velocipedista destro, robusto, può giungere al polo; in altrettanti voi ammetterete che possa ritornare. — Ma i viveri, la tenda, la cucina per riscaldarsi le vivande... — Si possono portare, signor Linderman. — Non datemi da bere delle frottole. Vorrei vedere anch’io alla prova i vostri soci del Club velocipedistico. — Vi dico che riuscirebbero meglio di una rapida nave. — Storie! — Sono pronto a dimostrarvelo coi fatti mentre voi, signor inglese, non osereste farlo! esclamò l’americano, riscaldandosi. Il signor Linderman impallidì, poi s’alzò e, percuotendo per la seconda volta il tavolo, esclamò: — È una sfida che voi, signor americano, gettate a me? — Prendetela come volete, mi troverete sempre pronto. — Credo che siate ricco, voi. — Almeno così si dice. — E che abbiate del tempo da perdere. — Sì, signor Linderman. — E che non abbiate tanto cara la vostra pelle. — Peuh!... L’ho giuocata tante volte!... — E ci tenete? — A cosa, signor Linderman? — Ad andare al polo?... — Scherzate? chiesero gli astanti. — No, parlo seriamente, disse l’inglese con voce grave. Io andrò alla scoperta del polo con una delle mie navi che fila venti nodi all’ora e voi, se non avete paura, ci andrete coi vostri velocipedi. — Sia!... — Fra otto giorni metterò a vostra disposizione la mia nave e andremo a sbarcare sulle terre australi. — Australi?... — Sì, signor Wilkye. Scelgo un terreno quasi vergine; andremo a scoprire il Polo Sud, anzichè quello Nord. La stagione è propizia, poichè nelle regioni australi comincia l’estate. — Accettato, ma una osservazione prima. — Parlate. — Gli affari sono affari e non voglio dovere all’Inghilterra, che ora voi rappresentate, alcun debito. Fissate il prezzo pel trasporto di undici persone. — Duemila dollari. — Benissimo. — Ho una osservazione da fare anch’io, ora. — Parlate. — Quando saremo giunti sulle spiagge delle terre australi, ricordatevi che io sono inglese e voi americano e che ognuno agirà per proprio conto. — Saremo nemici. — Mortali nemici, signor Wilkye. Io lotterò esclusivamente per la mia bandiera. — Ed io per la mia. — E non vi porgerò aiuto alcuno. — E nemmeno io. — Basta così: fra otto giorni, all’alta marea, noi salperemo. — A due bandiere. — Cosa volete dire? — Che sul picco della randa, accanto alla bandiera inglese voglio si spieghi quella degli Stati dell’Unione. — Avete ragione: pagate, e il diritto vi spetta: fra otto giorni vi attendo dinanzi ai miei cantieri!... CAPITOLO II. Un uomo che va al polo per ingrassare. Il 3 novembre, ossia otto giorni dopo la scena descritta, una nave a vapore della portata di trecentosessanta tonnellate, attrezzata a goletta, fumava dinanzi ai grandiosi cantieri del signor Linderman, situati all’estremità del quartiere di Fell’s Point. Era una bella nave, che aveva più l’aspetto di un yacht di piacere, che d’uno steamer. Il suo sperone, tagliato ad angolo retto come quello dei moderni piroscafi, i suoi fianchi stretti, la sua alta alberatura, la davano subito a conoscere per una nave da corsa; i suoi ampi sabordi che s’aprivano sul quadro di poppa, le sue numerose cabine situate perfino sopra coperta, la minuziosa pulizia che regnava sul ponte, la lucentezza de’ suoi metalli, l’ordine perfetto che si ammirava da prua a poppa, indicavano che il suo proprietario l’avea destinata a ben altro motivo che a quello del trasporto dei carichi americani o d’oltre Atlantico. Da tre giorni era uscita dal cantiere di raddobbo del signor Linderman e l’istesso giorno il suo equipaggio, che era molto numeroso, aveva cominciato a caricare cassette, casse, colli, valigie, botti, enormi involti e pacchi in così grande quantità, da attirare l’attenzione non solo degli sfaccendati che passeggiavano sul quai, ma anche degli equipaggi delle navi ancorate lì presso. La curiosità degli uni e degli altri era però rimasta insoddisfatta, poichè l’equipaggio di quella nave, come se obbedisse ad un ordine ricevuto già prima, non avea dato che delle risposte molto evasive ed oscure. Tutto quello che gli sfaccendati e gli equipaggi avevano potuto sapere si riassumeva in quattro parole: Il signor Linderman parte. Il 3 novembre quella nave misteriosa, poco prima dell’alba, aveva acceso i suoi fuochi, si era scostata dalla banchina per essere più pronta a prendere il largo; avea ritirate le gòmene che la tenevano ormeggiata a terra, conservando la sola catena attaccata al gavitello galleggiante, ed aveva posto in acqua la grande baleniera. Il suo equipaggio, composto di ventisei marinai, s’era allineato sulla coperta, come in attesa del proprietario, e non fiatava. Il secondo ed il capitano passeggiavano invece sul ponte di comando, lanciando di quando in quando degli sguardi a terra. L’alta marea stava per toccare la sua massima altezza, quando una lancia montata da due rematori e da un uomo grasso come un rinoceronte, con una barba rossa tagliata a becco, un faccione rossastro che somigliava a quello della luna veduta all’orizzonte dopo un tramonto infuocato d’estate, e con certe braccia e certe gambe che sembravano colonne, venne ad ormeggiarsi sotto la scala di tribordo. L’uomo mastodontico s’alzò soffiando come una foca, e con un vocione da rompere i timpani più solidi, chiese: — Ehi!... della nave!... È giunto il signor Wilkye? — No, rispose il capitano, curvandosi sulla murata. — Ed il signor Linderman? — Non ancora. — Fa lo stesso: sarò il primo io. Si caricò d’una grossa coperta di lana che non doveva pesare meno di venti chilogrammi e salì faticosamente la scala, brontolando contro i costruttori che l’avevano fatta fabbricare così stretta da permettergli a malapena di passare. Dietro di lui salirono i barcaiuoli portando altre pesanti coperte, poi valigie enormi e per ultimo una grande pelle di bisonte. Il capitano, sceso dal ponte, gli mosse incontro salutandolo cortesemente, poi gli chiese: — A chi ho l’onore di parlare? — Col signor Bisby, comandante. — Non vi conosco, signore. — Come! esclamò l’uomo grasso, sbarrando due occhi grossi come quelli d’un bue. Non conoscete Bisby, il negoziante di carni salate e... — Ma vi dico... — Membro della sezione Geografica di Baltimòra? — Non ho questo onore. — Fa lo stesso: io sono il signor John Bisby. — Con vostro permesso non fa lo stesso, rispose il capitano. Il vostro nome non figura fra le persone che devono imbarcarsi. — Vi dico che fa lo stesso, rispose l’uomo grasso, piccato. Oh che?... Si pretenderebbe che io chiedessi a voi il permesso d’imbarcarmi?... Per mille quintali di carne salata!... Voglio andare al polo anch’io, se vi garba!... Pago... e basta!... — Ed io vi ripeto che non vi conosco, che non ho ricevuto alcun ordine a vostro riguardo e perciò vi prego di andarvene. — Io andarmene! tuonò l’uomo grasso, con un vocione da essere udito a due chilometri di distanza. Per chi mi prendete voi? Per un mariuolo forse? Vi dico che voglio andare al polo poichè voglio diventare il presidente degli uomini grassi e gettare giù di scanno quel signor Dorkin, che infine non pesa che dodici libbre più di me. To! c’era motivo di far lui presidente per poche libbre?... Cosa ne dite? Il comandante della goletta non rispose: guardava il signor Bisby con certi occhi stupiti, come se avesse dinanzi un pazzo o per lo meno un gran originale. — Mi avete capito? chiese l’uomo grasso, dopo un istante di silenzio. — Niente affatto, signore. Io non so comprendere cosa c’entrano gli uomini grassi col polo e questa nave col signor Dorkin, che non ho l’onore di conoscere. — Come! esclamò Bisby, scandolezzato. Non conoscete il signor Dorkin? — No, e non mi occupo di saperlo. Vi dico e vi ripeto però di lasciare questa nave. — Con o senza vostro permesso, io vi dico che non la lascierò. — Sarò costretto a farvi prendere dai miei marinai e condurvi a terra per forza, disse il capitano con tono reciso. — Vorrei vederlo! esclamò l’uomo grasso, diventando rosso come una melagrana matura. Condurre me a terra e per forza! Corpo di centomila quintali di carne salata!... Mi credete un bamboccio? Peso centodieci chilogrammi e sei ettogrammi e, malgrado i miei quarantadue anni, ho ancora dei buoni nervi per dare una lezione di boxe al primo che alza una mano su di me. Vi dico che voglio andare al polo!... — Cos’è questo baccano? chiese una voce. Il signor Bisby, che pareva fosse lì lì per scoppiare, si volse verso la scala e si trovò dinanzi al signor Wilkye, che era giunto allora a bordo di una scialuppa. Vedendolo, l’uomo mastodontico gli gettò le braccia al collo con tale impeto, che per poco non lo rovesciò gridando: — Ah! Caro amico! Giungete in buon punto!... Figuratevi che questi arrabbiati marinai, volevano condurmi a terra per forza! — È vero, signor Bak? chiese Wilkye, volgendosi verso il capitano, che s’era levato cortesemente il berretto. — Verissimo, signore. Nell’elenco delle persone che devono prender parte alla spedizione, non trovo il nome di Bisby ed avevo pregato il signore di ritornare a terra. — È un nostro amico, signor Bak. — Lo udite? chiese l’uomo grasso con aria trionfante, rivolgendosi al capitano. Senza di voi, Wilkye, qui stava per nascere una zuffa. — Ma cosa siete venuto a fare qui, Bisby? chiese Wilkye. Vedo intorno a voi delle coperte e delle valigie. — Venivo a domandarvi di prendere parte alla spedizione polare. — Voi! esclamò Wilkye, al colmo dello stupore. Ma siete pazzo, Bisby? — E perchè, caro amico? — Ma vi pare? Voi venire al polo?... Voi affrontare i disagi di una simile campagna, tra i freddi intensi? — Me ne infischio io del freddo! Ho portato con me una pelle di bisonte. — E credete che basti? chiese Wilkye, scoppiando in una risata. Ci vuole altro che una pelle di bisonte per quei freddi! — Chi ve lo dice? — Lo proverete più tardi. — Non importa: ho deciso di venire al polo anch’io, caro amico. Sono arcistufo di udire i miei onorevoli colleghi della Società geografica a dirmi, ogni qualvolta che succede una discussione, cosa ne sapete voi di spedizioni? Cosa ne sapete voi di geografia?. Così ho deciso di viaggiare anch’io e di accompagnarvi al polo. — Avete mai viaggiato? — Ho attraversato due volte il lago Ontario. Non basta? Wilkye scoppiò in una sonora risata. — Bel viaggio! esclamò. È la traversata d’una scodella d’acqua. Soffrite almeno il mal di mare? — No, anzi, in quelle due traversate ho mangiato per quattro, quantunque il lago fosse burrascoso. Poi prese il suo amico per un braccio e, traendolo verso poppa, gli disse con fare misterioso: — Vengo al polo perché ho una speranza. — Quale? — Una domanda prima, caro amico: è vero che nelle regioni polari si è costretti a mangiare assai? — Sì, per mantenere una forte dose di calorico nel corpo, onde combattere meglio il freddo. — Vittoria! urlò Bisby. — Impazzite? — No, Wilkye. L’anno venturo diverrò presidente degli uomini grassi di Chicago. — In qual modo? — Perché mangerò tanto da diventare grosso come un elefante e getterò di scanno Dorkin, l’attuale presidente. — Ma se siete già troppo grasso! — Non basta, amico mio, non basta. Urrah pel polo!... Ma... non conducete con voi nessuno? Volete andare solo al polo? — No, Bisby. Ho condotto con me due valenti velocipedisti e sei bravi marinai. — Non li vedo. — Sono imbarcati fino da ieri. — Ed il signor Linderman? — Sarà qui presto... to’!... Eccolo che giunge. Infatti una terza scialuppa, montata dal signor Linderman e da sei remiganti, s’avvicinava rapidamente. Il capitano scese la scala e lo ricevette sulla piattaforma inferiore. L’armatore gli strinse la mano, poi salì sul ponte e strinse quella del suo rivale. Vedendo avanzarsi Bisby, non poté trattenere un’esclamazione di meraviglia. — È deciso di venire al polo con noi, disse Wilkye, prevenendo la sua domanda. Egli desidera d’istruirsi. — Ben venuto sulla mia nave, disse l’armatore. C’incaricheremo noi della vostra istruzione, Bisby. — Grazie, amico, rispose il mercante di carne salata. Vi sarò obbligatissimo. — Vi prevengo, però, che la vita dell’esploratore è poco allegra. — Non mi spaventa. — Che laggiù fa molto freddo. — Mi coprirò per bene. — Che possiamo soffrire anche la fame. — Oh! Questo poi... Poi, alzando le spalle: — Bah!... Mangerò delle foche, se sarà necessario, o degli orsi bianchi. — Non ve ne sono. — Delle renne. — Nemmeno. — Dei buoi muschiati. — Niente. — To’!... esclamò Bisby, al colmo della sorpresa. Ma cosa narrano gli esploratori, che al polo vi sono tanti animali? — Ma il polo australe non è quello settentrionale. — Ma che! Deve essere lo stesso. — Vi dico di no. — Chi ve lo dice? — Ve lo dimostrerò quando sbarcheremo sulla Terra di Palmer o di Graham. — Signore, disse in quel momento il capitano, avvicinandosi. Abbiamo la massima pressione e la marea è alta. — È stato imbarcato tutto? — Tutto, signor Linderman. — I velocipedi del signor Wilkye, i viveri... — Non manca nulla, signore. — Desiderate nulla d’altro, signor Wilkye? — No, rispose l’americano. — Partiamo adunque. — Ma i nostri amici? chiese Bisby. — Li abbiamo salutati ieri sera, disse Linderman. Avanti, signor Bak! Al comando dato dal capitano, alcuni marinai scesero sul gavitello galleggiante e staccarono la catena, che venne subito ritirata a bordo. Tosto l’elice si mise in movimento facendo spumeggiare l’acqua attorno alla poppa; dalla ciminiera uscirono neri nuvoloni di fumo e la goletta si mise a filare verso l’uscita del porto, passando fra un gran numero di navi ancorate. Bisby, Linderman e Wilkye, ritti sul cassero, guardavano la città che si estendeva dinanzi a loro, ma che impiccioliva rapidamente. I due rivali parevano tranquilli; ma il negoziante di carne salata sembrava estremamente commosso e si grattava nervosamente la testa. — Sarà un po’ di emozione, diss’egli, dopo un lungo silenzio, pure vi confesso, amici miei, che mi sento scombussolato. I due rivali si misero a ridere. — Il polo vi farebbe di già paura? chiese ironicamente l’armatore. — Non è il polo, ma... se non si tornasse più? — Bell’esploratore che siete voi! — Comincio ad esserlo ora; è quindi perdonabile la mia emozione. La cosa però mi sembra strana, perchè quando ho attraversato il lago Ontario non lo ero affatto. — Lo chiamate un viaggio di esplorazione quello? — No, ma infine... — Vi vedremo alla prima burrasca, Bisby. — Non mi fa paura. — O fra i ghiacci del polo. — Indosserò la mia pelle di bisonte. — Vi farà molto quella!... Addio Baltimora e chissà se ti rivedremo. — Diavolo! brontolò Bisby. Che funebre augurio. In quell’istante la goletta, superata l’estremità della gettata ed il faro, si lanciava a tutto vapore sulle acque azzurre della profonda baia di Chesapeak. CAPITOLO III. A bordo della «Stella Polare». La Stella Polare, tale era il nome della goletta del signor Linderman, era una vera nave da corsa, capace di percorrere circa cinquecento miglia in sole ventiquattro ore, essendo dotata di una velocità di venti nodi all’ora ed anche di più, a tiraggio forzato. Non doveva quindi impiegare molto a percorrere la baia di Chesapeak, che ha una lunghezza mediocre. In tre ore, continuando con quella velocità, che il signor Linderman pareva deciso a mantenere, poteva avvistare i due capi Charles ed Henry, che la rinserrano verso l’Atlantico. Guidata da uno dei suoi migliori timonieri, filò diritta verso Annapolis, piccola città che dista poche miglia da Baltimora, passò dinanzi ai numerosi battelli ancorati dinanzi alla spiaggia e scese verso il sud, fendendo impetuosamente le acque, le cui ondate andavano ad infrangersi, con sordi fragori, sulle frastagliate coste occidentali. Alle sette del mattino la Stella Polare aveva già raggiunto la foce del Potomac, grosso fiume che scaricasi nella suddetta baia, ed alle 9, dopo aver avvistato il forte Monroe che difende la foce del James, sulle cui sponde sorge la città di Norfolk, superava il capo Henry, lanciandosi a tutto vapore sulle onde dell’Oceano Atlantico. Bisby, che non aveva abbandonato il cassero della rapida nave, vedendo stendersi dinanzi a lui quell’immensa massa d’acqua che pareva non avesse confine e scorgendo le coste americane allontanarsi e rimpicciolire con fantastica rapidità, emise un sospiro così profondo da essere udito da Wilkye e Linderman. — Ohe, Bisby! esclamò l’americano, sorridendo. Mi pare che l’Oceano Atlantico vi faccia un po’ d’effetto. — Diamine! rispose il negoziante di carni salate, con aria imbarazzata. Vi confesso che tutta quest’acqua produce su di me una certa impressione. Non credevo che l’oceano fosse così vasto. — Speravate di scorgere le coste europee? — Non dico che avessi questa speranza, ma vedo che ci allontaniamo dalle coste, mentre potremmo tenerci vicini. — Ho fatto mettere la prua verso le Bermude, disse Linderman. Preferisco girare al largo ora, per evitare le isole Lucaie e le Antille e muovere diritto sul capo S. Rocco. In tal modo non incontreremo la grande corrente del Gulf-Stream, che sale verso Terranova lambendo le spiagge americane. — Avete ragione, signor Linderman, rispose Wilkye. Perderemo meno tempo. — Ma ditemi, caro amico, avremo da percorrere molta acqua, prima di giungere alle terre polari? chiese Bisby. — Circa cinquemila miglia. — Per mille quintali di carne salata! Che estensione ha dunque quest’oceano? — Considerevolissima, Bisby. La sua lunghezza, che va da un polo all’altro, è stata calcolata a ottomila miglia. — Non sarà però così largo, suppongo. — Oh no! Anzi, in certi punti l’oceano si restringe assai. Tra le coste della Groenlandia e della Norvegia, per esempio, non ha che una larghezza di ottocento miglia; fra quelle del Brasile e della Sierra Leone ne ha millecinquecento, e fra quelle della Florìda e del Marocco o della Plata e del capo di Buona Speranza, supera le tremilaseicento. — Una estensione d’acqua così immensa deve avere anche delle profondità considerevoli. — Dei baratri spaventevoli, Bisby. Gli ultimi scandagli fatti dalle navi da guerra hanno dato degli abissi capaci di sommergere delle montagne altissime. Fra l’Islanda e l’Inghilterra, per esempio, ve n’è uno profondo novemila piedi e largo milleduecento miglia; ma questo è nulla a paragone di molti altri. Fra le Canarie e Madera se n’è misurato uno di quindicimila piedi e fra le isole Azzorre e la costa del Portogallo un altro che oltrepassa di qualche po’ quella cifra. — Che discesa, se la Stella Polare dovesse andare a picco sopra uno di questi baratri! esclamò Bisby rabbrividendo. Ma... — Cosa desiderate? — Devo dirvi che sono immensamente contento di essermi imbarcato. — Perchè, amico mio? — Perchè comincio a credere che ingrasserò come un elefante. Ho fatto una lauta colazione prima di uscire di casa ed ecco che provo di già una fame formidabile. L’aria di mare mi conferisce straordinariamente. — Temevo il contrario, disse Linderman, sorridendo. Se il mal di mare non vi coglie, ingrasserete, Bisby. Se lo desiderate, andiamo pure a far colazione. Lasciarono il ponte e scesero nella sala da pranzo, dopo d’aver dato ordine allo stewart di preparare la colazione. Il signor Linderman, da vero gran signore, nulla aveva risparmiato per rendere la sua nave comoda ed elegante. Il salotto da pranzo della sua Stella Polare poteva gareggiare con quelli dei più splendidi steamer transatlantici. I puntali, in forma di colonne, erano dipinti di bianco ed adorni di fregi; le pareti sparivano sotto un grosso feltro, eccellente riparo contro i grandi freddi; il tavolato era coperto di tappeti soffici e variopinti; i sabordi che davano la luce, erano riparati da vetri dello spessore di mezzo pollice e in fondo, una grande stufa di ferro, non aspettava che i primi geli per mettersi a russare. Udendo suonare la campana che annunciava la colazione, il capitano Bak, comandante della goletta, era già disceso e li aspettava nel salotto. L’armatore, Wilkye e Bisby stavano per sedersi, quando entrarono due giovanotti. — Permettete, signori, disse Wilkye alzandosi, che vi presenti i miei due compagni di viaggio, il signor Ugo Peruschi, italiano naturalizzato americano, e il californiano John Blunt, due dei più valenti velocipedisti del Club di Baltimora. — Siano i benvenuti a bordo della mia nave, disse Linderman, porgendo a loro la mano. Mi auguro che siano due buoni rivali. — Lo saranno, signor Linderman, disse Wilkye. Hanno accettato con vero entusiasmo di seguirmi al polo e lotteranno fino all’estremo per la causa dell’America. — Ed i miei marinai non saranno da meno dei vostri compagni, ve lo assicuro, signor Wilkye, disse l’armatore. — Lo vedremo in seguito. — Osereste dubitarne? chiese Linderman piccato. — Non ho mai avuto quest’intenzione. Alludevo al vostro progetto e alle difficoltà che dovranno superare i vostri uomini. — Ne parleremo quando saremo di ritorno. — Basta, signori, disse Bisby. Io ho fame. — Avete ragione, signore, disse il capitano. Non è il momento di guastarsi il sangue, ora che il viaggio è appena cominciato. Al momento opportuno ognuno lotterà pel trionfo della propria bandiera. Si assisero attorno alla tavola e assalirono vigorosamente i beef-steaks, le patate arrostite nel burro e il pane burrato. Due parole innanzi a tutto sui due compagni di Wilkye. Erano entrambi giovani, poichè non avevano che ventiquattro o venticinque anni, ma erano diversi nei tipi. L’italiano, naturalizzato americano, era un bel giovanotto, alto, magro, tutto muscoli, colla pelle abbronzata, i lineamenti arditi; l’altro, invece, era di statura bassa con spalle larghe, petto ampio, braccia e gambe grosse, ma nervose, che dinotavano una forza poco comune ed una resistenza straordinaria. Era bruno come il compagno, ma i suoi lineamenti non erano così arditi; doveva essere invece un uomo dotato d’un sangue freddo e d’una calma tale, da dare dei punti ai migliori campioni della razza anglosassone. Questi due velocipedisti formavano l’orgoglio del Club di Baltimora, ed i loro nomi erano sempre figurati primi in quasi tutte le gare velocipedistiche date nelle città dell’Unione Americana. Erano noti soprattutto per la loro resistenza ed avevano di già compiuto delle corse di parecchie centinaia di miglia, vincendo i migliori campioni, non solo canadesi, ma anche inglesi. Come aveva detto il signor Wilkye, avevano accettato con entusiasmo la difficile e pericolosa impresa di seguirlo nelle terre dei mari del Sud, decisi a sfidare i terribili freddi delle regioni polari, purchè trionfasse la bandiera americana. La colazione in pochi minuti fu divorata. Bisby, che si trovava molto bene sulla Stella Polare, e che non voleva perdere tempo, diede un saggio della capacità del suo stomaco e della sua buona volontà d’ingrassare rapidamente, facendo sparire in un batter d’occhio una mezza dozzina di beef-steaks, un canestro ricolmo di biscotti e quattro litri di birra. Malgrado ciò asseriva di avere nel suo stomaco un posticino ancora libero, ma che si riservava di riempirlo nella seconda colazione delle 4 pomeridiane. Terminato il pasto, americani ed inglesi accesero le loro pipe e intavolarono i discorsi fra un sorso di wisky e di gin. — Signor Wilkye, disse Linderman, se non vi dispiace, finchè abbiamo tempo, vorrei farvi una domanda che riguarda la vostra spedizione, perché io ignoro ancora dove dovrò sbarcarvi. — Infatti, signore, non vi ho ancora detto su quale spiaggia io intendo di discendere. — Sulla nostra rotta abbiamo parecchie terre e per me poco mi cale di sbarcarvi su quella di Luigi Filippo, o di Trinity, o di Palmer o più lontano ancora, a quella di Graham, o a quella d’Alexandra. — Io desidererei sbarcare sulla costa che è più vicina al polo. — Ritengo però, che non spererete di seguirmi fin dove lancierò la mia nave. Voi avete i velocipedi ed io i miei uomini che saranno costretti a procedere colle loro gambe. — Ma fin dove credete di giungere colla vostra nave? Il polo sud non ha le immense aperture che presenta il polo nord. — E chi ve lo dice? — Gli esploratori hanno trovato quasi dovunque una costa che s’oppose al loro avanzarsi. — È vero, ma le loro esplorazioni si sono fermate a metà via. Chi vi dice che al sud della Terra di Graham, fra questa e quella Alexandra, non esista un passaggio? Ambo le coste s’incurvano in dentro e i più suppongono che la Terra Alexandra sia semplicemente un’isola. Raggiunto quel punto, la mia nave si troverà già al 70° di latitudine e quel passaggio può condurci, se non direttamente al polo, almeno molto vicino. — La vostra è una supposizione, signor Linderman. — Sarà un tentativo che potrò ripetere altrove. La mia Stella Polare è dotata d’una velocità straordinaria e potrà rifare la via percorsa nel colmo dell’estate, cioè nel gennaio e anche prima. — Avrete un osso duro da rodere. — Ed anche voi, signor Wilkye. Voglio vedere cosa faranno i vostri velocipedi fra le nevi e quando la temperatura scenderà a 40° o 50° sotto lo zero. — Mi basteranno pochi giorni per toccare il polo. — Lo vedremo, disse l’armatore, con ironia. Orsù, dove dovrò sbarcarvi? — Se non vi rincresce, alla Terra di Graham, al di là dello stretto di Bismark, di fronte alle isole Krogman, Peterman e Boot. — Non sarete che al 65°.40' di latitudine, ossia ad una distanza di mille cinquecento e ottanta miglia dal polo. Come farete a percorrere una simile distanza coi velocipedi, che non possono portare un bagaglio pesante? — Ho pensato a tutto, signor Linderman, ed ho tutto calcolato scrupolosamente. — Ma dei vostri sei marinai che avete imbarcati, cosa farete? — Mi seguiranno. — Al polo? — Non ho questa pretesa, ma mi aiuteranno nell’impresa. — Ma voglio venire anch’io al polo, disse Bisby. — Ci vorrebbe una macchina apposita per portarvi, disse Wilkye, ridendo. Resterete coi miei marinai. — Ci verrò, vi dico. Le mie gambe sono solide e ci andrò a piedi. — Con quel freddo? disse l’armatore, ironicamente. — Ho la mia pelle di bisonte. — Vi farà molto! — E vorreste che io rimanessi indietro? Voglio vederlo anch’io, questo famoso polo. — Ma cosa credereste di vedere? chiese Wilkye. — Io non lo so, poichè non m’intendo che di carni salate, ma giacchè da molti anni partono navi per scoprirlo, suppongo ci sia qualche cosa di straordinario. — Niente affatto, Bisby. — Ma allora, per cosa vanno al polo? Spiegatemi voi il motivo. — Ci vanno per accertarsi dell’esistenza di un mare libero di ghiacci e per chiarire, se nei paraggi settentrionali od australi, vi si goda una temperatura meno fredda delle regioni che li circondano. — Cosa dite?..... — Dico che gli scienziati sono concordi nell’affermare che al di là della barriera dei ghiacci che circondano i poli, vi sia un clima più mite, e perciò da anni e anni arditi navigatori affrontano i rigori polari per accertare questa supposizione. Questo è il movente principale, ma vi sono annesse altre questioni importantissime per la scienza, soprattutto questioni meteorologiche. — Ci vanno per una curiosità adunque? — Sì, se volete chiamarla con questo nome, ma quanti problemi che tormentano gli scienziati, si scioglierebbero se si potesse giungere al polo. Forse l’inclinazione dell’ago magnetico, la formazione delle aurore boreali, ecc. non sarebbero più un mistero impenetrabile. — Se sapevo così.... mormorò Bisby, non sarei venuto, amico. Credevo di vedere qualche cosa di meraviglioso. — Ma laggiù ingrasserete, Bisby. Mangerete per dieci, con quel freddo. — Purchè non mangi tutte le provviste e ritorni magro come un’aringa!... Che disgrazia mai sarebbe!... — È probabile, aggiunse Linderman, crollando il capo e come parlando fra sè. I morti di fame nelle regioni polari non si contano quasi più. — Che lugubre augurio, mormorò Bisby, rabbrividendo. Ah! cane d’un polo!.... CAPITOLO IV. Dalle Bermude alle Falkland. La mattina del 4 novembre, la Stella Polare, che aveva mantenuto una velocità di quindici miglia all’ora, avvistava le Bermude ad una distanza di sette leghe. Queste isole sorgono in pieno Oceano Atlantico, e la loro scoperta rimonta al 1522, nella cui epoca furono per la prima volta visitate dal navigatore spagnuolo Bermudes. Fu secondo l’inglese Pommers, che vi fu spinto dai venti nel 1609, rimanendovi per oltre nove mesi, essendo la sua nave naufragata. Sono in numero di quattrocento, ma poche sono le abitabili, parecchie essendo semplici scogliere. Bermuda è la più grande avendo ventidue chilometri di lunghezza e due di larghezza; poi vengono S. Giorgio, S. David, Somerset, ecc. Vi sono parecchi buoni ancoraggi, ma quanto è triste il soggiorno in quelle isole perdute in mezzo all’Atlantico! L’aridità dei loro monti e delle loro coste, la tinta grigia, nebbiosa del loro cielo, i loro villaggi che sono formati da casette basse, costruite con una pietra molle come la pomice e coperte di foglie di palmizio; il puzzo che tramandano i pesci messi a seccare sulle spiagge, gli uragani formidabili che di frequente le devastano, danno loro un aspetto che non è certo rallegrante. Pure contano circa diecimila abitanti, per la maggior parte negri, tutti valenti marinai che pescano da mane a sera e che lavorano accanitamente le terre per non morire di fame. Nei mesi di marzo e di aprile, quella popolazione cresce, giungendovi i pescatori di balene, essendo quelle isole di frequente visitate dai giganti dei mari. Quantunque siano poco fertili, pure dànno aranci, cotone, tabacco e frumento il quale matura due volte all’anno. Producono certe specie di ginepri (juniperus bermudiana) i quali raggiungono un’altezza da sedici a venticinque metri e servono per la costruzione di leggeri navigli. I viveri sono però carissimi, mancando quasi totalmente il bestiame e la selvaggina. Non vi sono che pochi volatili e brutti ragni neri e grossi, che tessono ragnatele così resistenti da prendere perfino gli uccelli. — Ecco delle isole che non avranno lunga vita, disse Linderman che le osservava assieme a Wilkye ed a Bisby. — E perchè? chiese quest’ultimo. — Pel motivo che le onde dell’Atlantico, che le investono furiosamente, le rodono costantemente. — Sono parecchi secoli però, che oppongono una fiera resistenza, disse Wilkye. I polipi coralliferi sanno costruire robustamente le loro isole. — Non sono di natura vulcanica? — No, signor Linderman. Le Canarie, le Azzorre, Sant’Elena, Tristan da Cunha e S. Paolo sono tutte isole vulcaniche, ma queste sono state costruite dai polipi coralliferi. — Ma chi sono questi signori polipi? chiese Bisby. Voi sapete che io non m’intendo che... — Di carni salate, lo sappiamo, disse Wilkye. Vi dirò adunque allora, signor curioso, che quei polipi che le hanno costruite, sono esseri infinitamente piccoli, che vivono sotto le acque in gran numero. Si radunano per lo più sulle cime dei monti sottomarini, vi fondano le loro colonie, vivono, muoiono e morendo formano, coi loro corpicini, degli strati rocciosi d’una robustezza infinita. — Ma non comprendo come possano costruire delle isole, finchè lavorano sott’acqua. — Adagio, signor curioso. Di strato in strato, quei piccoli fabbricatori si alzano verso la superficie dell’Oceano, ed ecco costruita l’isola. Alcuni, dotati forse di maggior vitalità, continuano a costruire sopra l’acqua nutrendosi della spuma delle onde ed alzano ancora l’isola. Più tardi le piogge, convertiranno quello strato calcareo in terriccio; i cadaveri dei pesci o le alghe ingrasseranno quella terra, il vento porterà dei semi, gli uccelli popoleranno l’isola, quindi verrà l’uomo. Non vi pare che sia semplice tuttociò? — Sì, ma anche meraviglioso! esclamò Bisby stupefatto. Ah! com’è bella la scienza!... Ed io che la credevo inventata per far ammattire le persone!... Viaggio fortunato!... Tornerò in America grasso e scienziato!... Intanto la Stella Polare filava a tutto vapore verso il sud, allontanandosi rapidamente dalle Bermude, che una fitta nebbia già avvolgeva. L’Oceano Atlantico era un po’ agitato e scrollava vivamente la leggera goletta. Dall’est venivano, brontolando minacciosamente, lunghe ondate colle creste irte di candida spuma e venivano a sfasciarsi sul tribordo con grande fracasso, lanciando, fino sulle murate, larghi sprazzi. Nessuna nave vedevasi in quei paraggi, nemmeno una di quelle barche da pesca che sono tanto numerose nei pressi delle Bermude. Solamente in acqua si vedevano alcune coppie di delfini che giuocherellavano nella scìa biancheggiante della nave ed in aria parecchi stormi di quegli uccelli acquatici detti rincopi, somiglianti alle anitre; volatili disgraziati, poichè hanno il becco inferiore di molto più corto del superiore, rendendo così a loro molto difficile la pesca. Indicano la vicinanza dei tropici, poichè infatti quasi mai si scostano da quello del Cancro e da quello del Capricorno. Fu segnalato anche un grosso stormo di quei bizzarri pesci che i marinai chiamano volanti e gli scienziati Exocoetus volitans o eyanoplerus. Questi pesci sono senza dubbio i più stravaganti abitatori degli Oceani, ma sono contemporaneamente anche i più disgraziati, poichè sono cacciati in acqua ed in aria. Ve ne sono di due specie: gli uni piccoli, toccando appena una lunghezza di venti centimetri, colla pelle azzurra ed argentea che li fa rassomigliare a grosse sardine; gli altri invece sono lunghi un piede, ma bruttissimi tanto che si stenterebbe a mangiarli, se non si sapesse che sono invece deliziosi. La pelle di questi ultimi è rossastra, le pinne sono nerastre, il loro capo somiglia ad un casco irto di pungiglioni bizzarri e adorno di barbe che dànno loro un aspetto tutt’altro che attraente. S’incontrano per lo più nei climi caldi, ma a centinaia ed anche a migliaia, e vengono accanitamente inseguiti dai delfini, dai tonni, dai pesci velieri e dai pesci-cani. Non possedendo armi difensive, quei disgraziati pesci cercano la loro salvezza in aria. Essendo dotati d’uno slancio poderoso e possedendo delle pinne assai lunghe e larghe, si slanciano fuori dell’acqua, vibrano quelle pinne rapidamente, tanto che a guardarle non si scorgono quasi più e spiccano una volata che dura circa 40 secondi. Non crediate però, che i loro voli siano molto lunghi ed alti; perchè di rado percorrono più di centosettanta o duecento metri, mantenendosi ad un’altezza dai settanta centimetri ad un metro. La banda segnalata dall’equipaggio della Stella Polare pareva in preda ad un vivo terrore. Senza dubbio era stata assalita dai delfini o dai velieri. S’alzavano in tutte le direzioni con un sordo ronzìo, incrociandosi in tutti i versi, facendo balenare ai raggi del sole la loro pelle azzurro-argentata e bruno-dorata. Volavano all’impazzata senza badare dove ricadevano, sempre pronti a risalire appena toccata l’acqua, per sfuggire ai denti degli affamati nemici. Disgraziatamente, fuori dall’Oceano, non avevano scampo, poichè si vedevano piombare su di loro in grossi stormi, non solo i rincopi, ma anche i fetonti dalle ali forcute, gli alcioni dal fulmineo volo e perfino alcune procellarie, i funebri uccelli delle tempeste. Parecchi di quei pesci, nella loro cieca fuga caddero sulla tolda della goletta e andarono a finire nella dispensa del cuoco, con grande soddisfazione di quel ghiottone di Bisby, che cominciava a lamentarsi della mancanza di carne fresca. Il 5 la Stella Polare tagliava il tropico del Cancro presso il 319° di longitudine a mille miglia dalle isole Bahama e metteva prua verso il capo Orange, volendo passare al largo delle Piccole Antille, isole che non godono troppo buona fama in causa dei frequenti uragani che le visitano, mettendo a dura prova le navi che percorrono quei paraggi. Il 7 già l’equipaggio della goletta avvistava l’isola di Fonseca che è la più orientale delle Antille, la prima quindi che s’incontra venendo dall’Europa o dai porti dell’Africa settentrionale. Quel giorno, l’oceano che fino allora si era mantenuto calmo, cominciò a montare, mentre il cielo si abbuiava rapidamente nascondendo il sole. Dall’est soffiavano, di quando in quando, raffiche impetuose, le quali sollevavano la superficie dell’Atlantico in ondate enormi e nel seno delle nubi rullava, ad intervalli, il tuono, mescendosi ai muggiti ed ai cozzi furiosi delle acque. La tinta dell’oceano, che fino allora erasi mantenuta d’un azzurro carico, si alterò diventando verdastra. — Questo cambiamento di tinta lo dobbiamo ai flutti di fondo, disse Wilkye, che si trovava sul ponte in compagnia dell’inseparabile Bisby, il quale non lo lasciava un solo istante. — Cosa sono questi flutti di fondo? chiese il negoziante. — Sono ondate formidabili che si formano là dove il fondo del mare ha dei bruschi rialzi. Forse sotto di noi il fondo si alza in forma di dirupate montagne. — Sicchè le onde urtandovi contro rimbalzano. — Proprio così, amico mio, e rimbalzando muovono le sabbie del fondo. — Quante cose sapete voi! Ma, ditemi, senza quei flutti di fondo, sarebbe sempre uguale la tinta degli oceani? — No, Bisby, varia in molti luoghi. Generalmente la tinta degli oceani è azzurro-verdastra, che diventa più chiara avvicinandosi alle coste dei continenti, ma alcuni mari hanno colori diversi. Alle isole Maldive, per esempio, terre che si trovano nell’oceano Indiano, l’acqua che le circonda è nerastra. — Sorgono adunque sopra un mare d’inchiostro? Ciò deve produrre un effetto poco allegro. — Nel golfo di Guinea, in Africa, l’acqua è invece biancastra. — Un mare di latte! Deve essere bizzarro. — Fra la Cina ed il Giappone vi è un mare le cui acque sono giallastre e perciò fu chiamato Mar Giallo; presso la California, invece, il mare assume tinte o riflessi rossastri, e presso le Canarie e le Azzorre l’acqua è verde. — Ma da cosa derivano tutte queste tinte? — Il colore azzurro-verdastro dell’oceano, deriva senza dubbio dalle stesse cause che fanno parere azzurri i monti veduti ad una certa distanza e che danno all’atmosfera quel colore azzurro che chiamasi cielo. In taluni luoghi, però, la maggiore o minor intensità della tinta deriva dalla maggiore o minore profondità delle acque o dalla salsedine. Infatti, la grande corrente del Gulf-Stream, che è più salata dell’acqua dell’oceano, è più cupa; in altri luoghi è più oscura in causa della maggior quantità di corpuscoli in sospensione e sui quali viene a rifrangersi la luce solare. — Ma i mari gialli, rossi, bianchi.... — Hanno altre cause. Taluni sembrano tali, ma in realtà non lo sono; assumono quelle tinte per illusioni ottiche. Il Mar Rosso però, deve la sua tinta ad un essere microscopico intermedio fra l’animale ed il vegetale, ad una specie particolare di oscillaria. — È vero che ci sono anche dei mari limpidissimi? — Sì, Bisby, ma la loro limpidezza non è immensa, nè tale da permettere di scorgere il fondo marino. Quella limpidezza si osserva per lo più negli oceani situati presso le regioni polari e specialmente nell’oceano Antartico; anche nei mari situati fra i tropici, la trasparenza è notevole. In taluni luoghi si possono vedere dei pesci nuotare ad una profondità di ben centotrenta metri. — Un’altra domanda. — Sono a vostra disposizione. — Hanno voluto farmi credere che l’acqua del mare, oltre contenere il sale, ha pure dell’argento. — È vero Bisby; il mare contiene tanto argento, tanto ferro, rame e piombo da arricchire tutti i popoli, se quei metalli si potessero estrarre. Si afferma che l’argento che contiene è così enorme, da superare tutto quello che possiede la popolazione della terra, più quello che contengono ancora le miniere del Perù e del Messico. — Ma perchè non lo estraggono? — Perchè bisognerebbe far evaporare un mare per ottenere forse tre o quattro chilogrammi del prezioso metallo, ed il carbone occorrente per tale immensa evaporizzazione, costerebbe cento volte il doppio. — Ma allora la massa d’acqua che circonda la nostra terra deve essere immensa. — Tale da formare una sfera sedici o diciassette volte più grande di quella che darebbe la terra dei nostri continenti e delle nostre isole riunite. — Che disgrazia!..... Avrei voluto tentare il ricupero di così enormi ricchezze. — Siete americano e ciò non mi sorprende. I progetti colossali sono una specialità della nostra razza. Andiamo sotto coperta, Bisby, che le onde invadono il ponte. L’Atlantico cominciava ad assalir con furore la goletta, facendola beccheggiare e rollare violentemente e lanciando sul ponte di essa vere ondate, le quali correvano impetuosamente da prua a poppa, rovesciando gli uomini di quarto. Si dovettero chiudere i sabordi di poppa e le aperture di babordo e di tribordo per non inondare le cabine e le sale, ed imbrigliare i fiocchi che erano stati spiegati per dare alla nave un po’ di stabilità. Fortunatamente la Stella Polare filava come una rondine marina e nella notte attraversò quella porzione dell’Atlantico sferzata dalla bufera. Due giorni dopo avvistava il capo Orange che è situato fra il confine della Gujana Francese ed il Brasile; il 10, poco prima del tramonto, fu rilevato dal capitano Bak il capo di S. Rocco, che è il più avanzato, verso oriente, delle coste dell’America del Sud. Il 14 la Stella Polare passava al largo del Rio della Plata e il 16 gettava l’ancora nel porto di Egmont, stazione principale delle isole Falkland, dove contava di rifornirsi di carbone, prima di avventurarsi fra i gelidi mari del polo australe. CAPITOLO V. Le coste della Patagonia. Le isole Falkland o Maluïne si trovano presso l’estremità dell’America meridionale a circa quattrocentocinquanta chilometri dallo stretto di Magellano ed a trecentotrenta dall’isola degli Stati. Sono novantadue, ma la maggior parte sono piccole e non abitabili; due solamente sono vaste e popolate: West Falkland e Ost Falkland e sono separate da un canale detto di S. Carlo. Sono sterili per lo più, hanno montagne poco elevate e le pianure sono formate di strati di quarzo, di pirite, di ocra gialla e rossa e di buona torba. Malgrado i reiterati tentativi degli isolani, su quelle terre non crescono che erbe le quali raggiungono uno sviluppo enorme, formando dei veri boschetti; tutti gli alberi trapiantati colà muoiono in breve, eccettuati alcuni importati con grandi spese dal Canadà, come i tithymalus spinosi, gli epipachis e le azoldaracks. Malgrado ciò, gli abitanti non sono esposti al pericolo di morire di fame, poichè su quelle isole si propagano rapidamente gli animali bovini, acquistando una fecondità straordinaria. Infatti gli ottocento capi di bestiame colà importati dagli Spagnoli nel 1780, sono diventati ora 10,000, malgrado il continuo consumo e l’esportazione di carni salate. Fino al 1700 rimasero sconosciute; i primi a visitarle furono alcuni naviganti di S. Malò che le chiamarono Maluine, poi furono occupate dagli Spagnoli, quindi dagli Inglesi i quali fondarono parecchie borgate, specialmente nei porti di Egmont, di Etienne e di Volunter e nei dintorni della baia di Melville. Oggi sono diventate importanti stazioni pei balenieri, e tutti gli anni al principiare della stagione calda, si radunano colà navi baleniere per fare le loro provviste, prima di affrontare i ghiacci polari ed i giganti della creazione. La Stella Polare contava di fermarsi poche ore, il tempo strettamente necessario per completare la provvista di carbone che era assai scemata in quella rapidissima corsa. Accostatasi alla banchina, di fronte ai magazzini, l’equipaggio sbarcò per sollecitare l’imbarco del combustibile. Linderman, Wilkye, Bisby e i due soci del Club, approfittarono per sgranchirsi le gambe e fare una gita nei dintorni del porto. Vi era ben poco però da vedere a Porto Egmont. Alcune misere abitazioni, sette od otto alberi, dei boschetti di erbe giganti, dei buoi che pascolavano pacificamente fra le ubertose praterie, enormi quantità di pesci messi a seccare e due bastimenti che caricavano una materia rossastra o grigia, che tramandava un puzzo insopportabile. — Che specie di robaccia imbarcano quelle navi? chiese Bisby, che si turava il naso. — Guano — rispose Wilkye. — Cos’è? Ho udito parlare altra volta di questo guano, ma non so precisamente cosa sia. — È un concime animale misto ad ammoniaca ed a fosfato di calce, elementi necessari ad ogni buona vegetazione. Se ne fa un consumo enorme ed a centinaia si contano i bastimenti che lo caricano per conto di grandi piantatori delle Antille, delle isole Mascarene e delle Indie orientali. Esso ha la proprietà di raddoppiare o di triplicare i raccolti. — E vengono qui a caricarlo? — Alcune navi sì, ma i grandi depositi si trovano alle Chincha, isole situate presso le coste del Perù. — Ma chi produce quel prezioso concime? — Vedete volare laggiù, presso quelle isole, quegli stormi di uccelli? Sono sarcillos, piqueros, gaviotas, alcatraces, paiaros ninos, patillos, ecc., e sono loro che depongono il guano. — Non vi comprendo bene, Wilkye. Ho la testa un po’ dura io. — Mi spiegherò meglio. Quei milioni di uccelli, che appartengono alla specie marina, pescano, si rimpinzano di pesci, poi tornano sulle isole e cominciano una lenta e laboriosa digestione, poichè vi sono alcuni che sono così ghiotti, che non si possono muovere per lunghe ore e altri che sono costretti a rigettare dei pesci interi. Formano in tal modo degli strati di sterco, i quali, cogli anni, si alzano gradatamente e si fossilizzano. Non piovendo quasi mai in queste regioni australi, quegli escrementi si condensano e si comprimono, senza che ne vada perduta una sola particella. In tal modo a poco a poco si formano dei veri huaneras, cioè delle cave di guano. Basta solo che gli uomini vadano a lavorarle. — Cosa facile, poichè suppongo che quegli escrementi non siano molto resistenti. — È vero, ma l’estrazione è difficile, Bisby. Fra quei depositi, allorchè sono lavorati, s’innalza una polvere gialla e salina e tali esalazioni ammoniacali da asfissiare. Non vi sono che i cinesi ed i negri che s’adattino a tale lavoro e sono costretti a scavare il guano di notte, poichè la polvere sospesa in aria ed il riverbero del suolo, di giorno rendono la temperatura insopportabile. — Sono grandi quei depositi, Wilkye? — Alle Chincha s’innalzano sovente per trenta e più metri. — Quanti secoli devono essere stati necessari agli uccelli! — Molti, senza dubbio. — Vi è una sola specie di guano? — No, due: il guano blanco, che consiste in escrementi recenti e il guano pardo che è il più vecchio. — E si pagano cari? — Il governo peruviano, che è proprietario delle isole Chincha, ricava parecchi milioni, poichè l’esportazione di quelle isole tocca annualmente le 400,000 tonnellate. Quando visiteremo le isole dell’Oceano australe, troveremo dei grandi depositi, Bisby, e... — Un momento!... Vedo una bilancia!... Bisby, abbandonando bruscamente il compagno, s’era precipitato verso un gruppo di uomini cenciosi e luridi che stavano pesando degli ammassi di guano, prima di caricarlo sulle navi. Respinse bruscamente quegli uomini, gettando addosso a loro una manata di dollari, rovesciò il guano e si sedette trionfante sulla grande bilancia, accennando di pesarlo. Un istante dopo un formidabile urrah usciva dalla gola del negoziante. — Ohe, Bisby, siete impazzito?... chiese Wilkye. — No, amico mio, gridò l’omaccio. Urràh! urràh! — Ma cosa avete trovato infine?... — Ho... ho... che sono cresciuto di due libbre!... Capite, amico mio, due libbre guadagnate in pochi giorni! Urràh pel mare!... Viva il polo!... Diventerò presidente della Società degli uomini grassi e detronizzerò Dorkin! Un fischio acuto echeggiò in quell’istante nella baia. — A bordo! disse Wilkye. La Stella Polare sta per ripartire. — Sì, a bordo, a bordo!... gridò Bisby, che pareva fosse impazzito per la gioia. È sul mare che io ingrasso! Ah! non averlo saputo prima! A quest’ora sarei grasso come un ippopotamo! L’equipaggio della goletta aveva completato le provviste di carbone e il capitano Bak chiamava a bordo le persone che si trovavano a terra. La macchina era sotto pressione e dalla ciminiera uscivano fitte nubi di fumo nerissimo. Linderman, Wilkye, Bisby ed i due velocipedisti si affrettarono a imbarcarsi. La Stella Polare si scostò dalla banchina, uscì dal porto e s’inoltrò nel canale di San Carlo, passando fra le due isole maggiori di West Falkland e di Ost Falkland. Le spiaggie di quelle isole apparivano aride, ruinate e sventrate dall’eterno corrodere delle onde e affatto deserte. Solo di quando in quando, in fondo a qualche baia, appariva qualche capanna o sull’alto delle rupi si scorgeva qualche uomo occupato a raccogliere i tussak, specie di vimini che crescono presso le spiaggie e che vengono adoperati nella costruzione delle capanne, o dei canestri e delle stuoie. Su quelle isole, la popolazione è scarsa, assai, quantunque abbiano una superficie di 11,500 chilometri quadrati. Si contano tutt’al più quattrocento abitanti, compresa la piccola guarnigione inglese che è accasermata a Porto Guglielmo, all’ingresso meridionale dello stretto di Berckeley, ove vi è la sede del governo. Abbondavano invece gli uccelli i quali volteggiavano in grandi stormi presso le spiagge, mandando grida discordi. Si vedevano, oltre gli uccelli che producono il guano, gran numero di pinguini, volatili assai agili quando si trovano in acqua, tanto anzi che sovente furono confusi colle rapide bonite, ma goffi e pesantissimi quando si trovano a terra; poi bande di chioni, appartenenti alla famiglia dei trampolieri, grossi come piccioni, colle penne bianche, il becco corto e conico e gli occhi racchiusi entro un cerchio rossastro, e stormi di aptenatidi, uccelli grossi come le oche, colle penne color ardesia sul dorso e bianche sotto. Anche qualche animale si mostrava fra le scogliere di quelle isole: erano warrah, una specie di lupi assai grassi ma però niente affatto aggressivi ed eccellenti a mangiarsi. La Stella Polare, percorso il canale, s’addentrò in mezzo ad un vero labirinto d’isole, d’isolotti e di scogliere, passando successivamente dinanzi a Borbon, Salvas, Kermolinas, Swan, Peble, Lively, ecc., poi uscì in pieno mare, filando parallelamente alla costa patagone, ma a tale distanza che quella terra appariva visibile come una leggiera sfumatura. — È laggiù che vivono gli uomini più alti del globo? chiese Bisby a Wilkye ed a Linderman che osservavano la costa coi cannocchiali. — Sì, rispose l’americano. — Ma che sia vero che sono di statura colossale? Mi hanno detto che gli uomini più alti della razza bianca, non giungono alla loro cintola. — Frottole, disse Linderman. I primi navigatori che .... sull’alto delle rupi si scorgeva qualche uomo.... (pag. 45) li hanno veduti hanno affermato questo, ma hanno solennemente mentito. — E perchè, signor Linderman? chiese Wilkye. — Perchè si è positivamente constatato che la statura dei Patagoni di rado supera i due metri. È bensì vero che taluni navigatori ne hanno veduti di quelli assai alti, come Falkner che nel 1740 ne misurò uno che era alto due metri e trentatre centimetri; Mayne e Cunningham che videro un capo alto due metri e otto centimetri, ma sono eccezioni. — Eppure, signor Linderman, io credo che i Patagoni un tempo siano stati assai più giganteschi ed anche altre tribù indiane dovevano aver delle stature eccezionali. I navigatori Le-Maire e Schouten, che visitarono la Patagonia nel 1615, asserirono di aver trovato degli scheletri umani che avevano undici piedi d’altezza, cioè circa quattro metri e trentatrè centimetri. — Ci credete? — Oh non sono i soli che hanno veduto scheletri così mostruosi. Il signor Halmas, che percorse il Perù nel 1515, vide delle ossa umane di una lunghezza eccessiva, ma che, secondo lui, dovevano rimontare ad epoche assai remote; Gentil vide quelle ossa nel 1715 e ne accertò l’esistenza; Acosta, che fu nel Messico nel 1588, trovò pure degli scheletri giganti ed i messicani presentarono a Cortez delle tibie e dei teschi enormi. — Adunque, se si deve credere a queste cose, l’America deve essere stata popolata da tribù di giganti. Ma allora, da chi deriva la razza ramigna? — Ecco quello che ancora si ignora, signor Linderman. È derivata dall’incrocio di due razze, dalla nera e dalla mongola od è una razza speciale? — Taluni scienziati propendono per quell’incrocio? — Sì, signor Linderman. — Ma quei negri e quei mongoli devono essersi fusi in tempo remotissimo. — Certamente. — Pure mi sembrerebbe una ipotesi assai ardita, calcolata la distanza che corre fra l’Africa e l’America; per i mongoli non deve essere stata cosa difficile non avendo avuto da attraversare che lo stretto di Behering. — Voi non dovete però ignorare che gli antichi fanno menzione dell’Atlantide, ossia di una grand’isola che si sarebbe sommersa più tardi, ma che si trovava a non molta distanza dalle coste africane ed europee. Se è realmente esistita, non doveva essere impossibile agli africani di raggiungere l’America, malgrado l’imperfezione delle loro barche. — Ma quei giganti americani, come sono scomparsi? — Non lo si sa, ma forse l’antica razza a poco a poco è deperita. Tuttavia, nei Patagoni conserva ancora dei campioni notevoli. — Ed anche di quelli straordinariamente deperiti. — Cosa volete dire, signor Linderman? — Che se in Patagonia vi sono ancora dei giganti, a poche centinaia di metri da loro vivono dei pigmei o quasi. — Infatti, ciò è vero. Al di là dello stretto di Magellano, che in tali punti misura una così breve larghezza che si potrebbe attraversarlo scagliando un ciottolo, vivono i Fuegiani, che si possono considerare gli indiani più piccoli della razza americana. La loro statura non supera i quattro piedi e cinque pollici, ossia un metro e quarantotto centimetri. — E come mai questa diversità di statura ad una distanza così breve? chiese Bisby, che prestava somma attenzione a quel dialogo. — Forse perchè appartengono ad un’altra specie e forse in causa del clima che è più freddo e dei patimenti, vivendo come le bestie selvagge ed essendo sempre alle prese colla fame, rispose Wilkye. — Sono almeno uomini belli? — Sono i più brutti della razza umana ed i più miserabili. Fra poco ne vedremo qualcuno costeggiando la Terra del Fuoco ed avrete occasione di persuadervene. CAPITOLO VI. I furori del Capo Horn. Il 17 novembre la Stella Polare, che affrettava la marcia per raggiungere le regioni polari prima del solstizio di estate, che in quelle desolate terre scade il 21 dicembre, si trovava già nei paraggi dello stretto di Magellano. In sole trentadue ore, tenuto conto del tempo impiegato a uscir dai canali delle isole Falkland, entro i quali aveva dovuto diminuire considerevolmente la velocità, aveva superato la distanza che divide Porto Egmont dalla punta meridionale della Patagonia, che è di quattrocentocinquanta chilometri. Lo stretto di Magellano, scoperto nel 1520 dal celebre navigatore omonimo che per primo compiè il giro del mondo, dalla parte dell’Oceano Atlantico ha una larghezza di chilometri cinquantuno fra i capi di Las Vergines e di Espirito Santo, mentre verso il Pacifico è largo cinquantasei fra i capi Pilares e Vittoria. La sua lunghezza è invece di cinquecentotredici chilometri, descrivendo molte curve. Traversare l’imboccatura orientale, fu l’affare di poco più di due ore per la Stella Polare e ben presto si trovò presso le coste della Terra del Fuoco, che doveva girare fino al capo Horn per poi mettere la prua verso le terre del polo australe. Le spiagge di quella grande isola, che completa l’aguzza estremità dell’America meridionale e somigliante ad una berretta da notte, apparivano poco rientranti e sporgenti, mentre quelle occidentali sono invece frastagliatissime. Infatti dalla parte esposta agli sguardi dell’equipaggio della goletta non v’è che una sola baia, quella di San Sebastiano e pochi capi, quelli di Penas, di Sant’Ines, di San Paolo e di San Diego. Su quelle sponde, che s’alzavano a grande altezza, non si scorgevano che dei faggi e più su, sui fianchi delle colline, delle quercie, ma nessuno di quei brutti abitanti di color oscuro, coi lineamenti ributtanti, che errano fra quelle terre semi-gelate, sempre in cerca di cibo. Grandi stormi di uccelli svolazzavano però e taluni venivano a volteggiare attorno alla Stella Polare, mandando rauche grida. L’oceano attorno a quelle coste era irato; grandi ondate si frangevano e rifrangevano contro le scogliere con lunghi muggiti, paragonabili a scariche di artiglierie, mentre dalle gole dei monti nevosi scendevano, di quando in quando, quei furiosi colpi di vento che i balenieri chiamano williwaws. Di passo in passo che la goletta filava verso il sud, il cielo si oscurava. Una specie di nebbia d’una tinta speciale, saliva dalle regioni antartiche e volteggiava qua e là, spinta da un vento freddo che pareva provenisse dagli immensi campi di ghiaccio che coprono le terre polari per undici e talvolta tutti i dodici mesi dell’anno. Già numerosi ghiacciuoli, piccoli hummok, piccoli streams che hanno la forma circolare e dei palks che sono invece di forma allungata, s’avvoltolavano fra la spuma delle onde, urtandosi e stritolandosi rumorosamente. L’elica della Stella Polare, che turbinava senza posa, li frantumava in gran numero, mentre l’affilato sperone di acciaio li spezzava con lunghi stridii. Gli uccelli marini diventavano più radi e si vedevano grandi bande fuggire verso la costa della Terra del Fuoco, temendo senza dubbio di non resistere alla furia della burrasca che già brontolava nelle regioni australi. Solamente i Megalestris antarctici, specie di gabbiani che somigliano un po’ ai falchi, con ali ampie, becchi corti ma robusti, e penne bruno-oscure, volteggiavano sopra le onde e si tuffavano arditamente negli avvallamenti, sfidando le ire dell’oceano. Il capitano Bak, dopo aver consultato il barometro che s’abbassava a vista d’occhio, si era affrettato a prendere delle misure per non lasciarsi cogliere dalla tempesta impreparato. Conosceva la triste fama di quei paraggi, dove i venti non hanno più direzione e dove le onde raggiungono altezze spaventose e soprattutto la sinistra celebrità del temuto capo Horn, vero spauracchio dei naviganti. Fatte assicurare saldamente le imbarcazioni alle grue, aveva fatto rinforzare le manovre fisse, preparare le rande ed i fiocchi per essere pronto a farli spiegare nel caso che avvenisse qualche guasto nella macchina; chiudere ermeticamente i sabordi, sgombrare la coperta di tutte le cose inutili e per colmo di precauzione, preparare le pompe. Compiuti quei preparativi, comandò di affrettare la marcia, per attraversare lo stretto di Le-Maire prima che l’uragano scoppiasse. Voleva trovarsi libero, lontano da quelle coste pericolose e poco conosciute ed affrontare la natura irritata in pieno oceano. Là, almeno, aveva un solo nemico da sfidare. Linderman e Wilkye erano saliti in coperta e guardavano con occhio tranquillo le ondate che correvano all’assalto della goletta. Bisby era con loro, ma il povero negoziante di carni salate aveva perduto la sua calma. Guardava con ansietà il cielo che sempre più si oscurava, impallidiva ogni volta che la Stella Polare s’inclinava sul tribordo o sul babordo, si attaccava con suprema energia alle murate allargando per bene le gambe, profondi sospiri gli uscivano di tratto in tratto e pareva che avesse la lingua incollata al palato. Aveva però energicamente rifiutato di ritirarsi sotto coperta e non aveva nemmeno deposto il suo cappello a cilindro, malgrado quei furiosi colpi di vento. Il mare intanto montava sempre: pareva che l’oceano Antartico e l’oceano Atlantico volessero misurare le loro forze e cimentarsi in una lotta titanica, mostruosa. Ondate alte dieci e perfino dodici metri, causate dai cosiddetti flutti di fondo, si rompevano con furore estremo contro le coste della Terra del Fuoco e ritornavano al largo più irate di prima, prendendo in mezzo la Stella Polare. Passavano bruscamente sotto la chiglia sollevando impetuosamente la goletta e scuotendola come fosse una semplice piuma, ribollivano come se il fondo dell’oceano si fosse tramutato in una caldaia ardente e si slanciavano sui capi di banda inondando la coperta da prua a poppa. Il vento, ormai scatenato, ululava fra il sartiame e scuoteva i boscelli, i cordami e gli alberi, mescendo le sue urla ai muggiti dei marosi e al frangersi dei ghiacci. La Stella Polare però, malgrado quel formidabile rimescolamento degli elementi e la sua piccola mole, si comportava valorosamente. Lanciata a tutto vapore, squarciava con impeto i flutti e sormontava agilmente le montagne mobili, sfidando intrepida l’uragano. Di quando in quando, dei massi di ghiaccio la urtavano, ma i suoi fianchi erano solidi e non cedevano e scappava subito via. Altre volte vi cadeva in mezzo e li frantumava col proprio peso, con un cupo rimbombo che si ripercuoteva fino in fondo alla stiva. Il capitano Bak, avvolto nel suo pastrano di tela cerata, stava ritto sul ponte di comando, tranquillo come si trovasse su di una nave insommergibile. Comandava la manovra con voce calma ma squillante, tenendo gli occhi fissi verso il sud, per cercare di scoprire per tempo l’isola degli Stati che forma, colla punta estrema della Terra del Fuoco, lo stretto di Le-Maire. Alle sette di sera, quantunque il sole dovesse brillare ancora, l’oscurità era così fitta, che non si poteva distinguere un oggetto qualsiasi alla distanza di cento passi. I due oceani lottavano con furore inaudito; mai forse, prima di allora, il capitano Bak aveva affrontato un simile uragano. Alla luce dei fanali di prua, altro non scorgevasi che un furioso rimescolamento d’acqua. Le onde si succedevano alle onde e irrompevano sempre più tremende sulla coperta della nave. Il capitano Bak aveva pregato l’armatore, Wilkye e Bisby di ritirarsi, per tema che qualche onda li trascinasse in mare o che qualche masso di ghiaccio li ferisse, ma si erano rifiutati. Il negoziante di carni salate pareva però esausto e di tratto in tratto, preso da un violento mal di mare, espettorava con tale abbondanza, che pareva una pompa!..... Che gemiti uscivano allora dal suo petto!... E come mandava a casa di belzebù il mare e il polo antartico!... Alle 9 l’oceano apparve, verso il sud, coperto d’un immenso lenzuolo di candida spuma. Il capitano Bak scese dal ponte di comando e avvicinandosi all’armatore, gli disse: — Signore, fra pochi minuti saremo addosso all’Isola degli Stati. Questa spuma mi indica che dinanzi a noi, l’oceano si frange contro una costa. — E così? disse Linderman, con perfetta calma. — Devo impegnarmi nello stretto o girare l’isola? — Credete di poter attraversare lo stretto senza pericolo? — Il pericolo esiste da ambe le parti, nello stretto e fuori. Noi lottiamo contro una bufera tremenda, signore. — Perderemmo molto tempo a girare l’isola; preferisco tentare il passaggio lungo la costa della Terra del Fuoco, per oltrepassare presto il capo Horn. Lontani da queste isole lotteremo con maggiore vantaggio e non troveremo più queste pericolose contro-ondate. — Sta bene signore: avanti a tutto vapore!... Il capitano si recò a poppa e si pose egli stesso alla ruota del timone. In quel supremo istante voleva dirigere egli solo la nave affidatagli dall’armatore; egli non ignorava che una falsa manovra, una esitazione, potevano produrre una catastrofe e voleva assumersi da solo la tremenda responsabilità. Cogli occhi fissi verso il sud e la bussola dinanzi, lanciò la Stella Polare lungo la costa della Terra del Fuoco, speronando i banchi di ghiaccioli che si accumulavano intorno al capo di S. Diego. La rapida nave che divorava la via con una velocità di diciotto nodi e sei decimi, avvolta in nuvoloni di fumo che il ventaccio sbatteva sulla coperta, s’avvicinava allo stretto. Colà, l’oceano Atlantico, non trovando uno sfogo sufficiente, si rompeva con furore spaventevole, scagliandosi contro il capo Parry, che forma la punta estrema della Terra del Fuoco e l’isola degli Stati, le cui coste apparivano, di quando in quando, alla livida luce dei lampi. Era una scena ammirabile ed insieme spaventevole, il vedere quella piccola nave, guidata dal suo audace capitano, sfidare la rabbia di uno dei più vasti oceani!..... Sembrava un moscerino che lottasse contro un titano; ma quel moscerino non aveva paura e non dava indietro; muoveva anzi dritto sul nemico, come fosse deciso a vincere o a morire. Si dice che la fortuna arride agli audaci; così deve essere, poiché la piccola Stella Polare, dopo una lotta terribile contro l’irrompere delle immense ondate e del vento scatenato, verso le dieci di sera si trovava dinanzi al canale di Le-Maire. Fu un momento angoscioso per tutti: perfino Linderman e lo stesso Wilkye, provarono una stretta al cuore ed impallidirono, quando videro la goletta lanciarsi a tutto vapore entro il canale. Guai se la prua trovava uno scoglio!... Lo scafo, quantunque costruito a prova di roccia, non avrebbe resistito e la piccola nave si sarebbe subissata di colpo. Entro lo stretto, il mare dibattevasi con furore estremo. Racchiuso fra le alte e dirupate spiagge della Terra del Fuoco e dell’Isola degli Stati, schiacciato, compresso alle due uscite dall’oceano, si sollevava in ondate mostruose, si rompeva, si polverizzava. Tuonava con tale fracasso sulle due coste, da impedire all’equipaggio di udire i comandi del capitano. Il povero negoziante di carni salate, che non aveva mai affrontato una tempesta, era livido come un morto e domandava con voce fioca, al suo amico Wilkye, se stavano per andare a picco. Esausto dal mal di mare che lo travagliava, impressionato dai muggiti delle onde e dai fischi sempre più striduli del vento, si era accovacciato ai piedi della scaletta del ponte di comando, mandando sordi gemiti. Aveva perduto il cappello a cilindro che trabalzava per la coperta, ma non voleva ancora ritirarsi. Malgrado la sua nausea, voleva vedere dove si andava e non voleva perdere la sublimità di quello spettacolo! Alla mezzanotte la Stella Polare usciva dallo stretto girando la punta Parry, senza aver toccato in alcun luogo e si slanciava verso il sud-ovest per oltrepassare il capo Horn. Ma anche colà, la tempesta infuriava tremendamente. Un altro oceano prendeva allora parte a quella lotta mostruosa: il Pacifico, il quale si avanzava con possenti muggiti fra le isole Herschell, Evout, Lennox, Neue, Pieton, Hermite, S. Diego e tutte le altre che coronano le coste occidentali della Terra del Fuoco, fino all’isola di Camden. I tre oceani, non più frenati dalle terre, si urtavano l’un l’altro sormontandosi, lacerandosi, contorcendosi come se volessero respingersi a vicenda, però le loro ondate non erano più spezzate, ma si spiegavano più libere, pur raggiungendo altezze mostruose. Se ne vedevano alcune che non dovevano misurare meno di sedici metri di elevazione. La Stella Polare continuava tuttavia la sua corsa muovendo dritta verso il capo Horn. Si sentiva più libera, ora che non aveva da temere più le scogliere e da affrontare le contro-ondate. Saliva intrepidamente, leggiera come un uccello, le montagne liquide, scivolava negli avvallamenti, poi tornava a librarsi sulle creste spumeggianti. Il suo rollio ed il suo beccheggio non erano più tormentosi e la sua stabilità era maggiore, specialmente ora che l’equipaggio aveva spiegata la randa del trinchetto, con tre mani di terzaruoli. Alle due del mattino, lunghi muggiti si udirono verso il sud-ovest. Pareva che laggiù il mare si rompesse contro una scogliera. — Il capo Horn! gridò il capitano Bak. Un istante dopo, al chiarore d’un lampo, si discerneva sul fosco orizzonte la temuta isola, l’ultima del continente americano. CAPITOLO VII. Una balena speronata. Il capo Horn ebbe per lungo tempo, ed ha ancora, una fama tristissima, maggiore di gran lunga a quella che aveva il Capo di Buona Speranza. Il solo suo nome per ben due secoli incusse un vero terrore ai naviganti: si parlava di quella gigantesca rupe come di una cosa diabolica e si creavano, su di essa, paurose leggende. Infatti quell’estrema isola dell’America meridionale, perduta sui confini dell’Atlantico e dell’oceano Pacifico, sbattuta sempre dalle onde e spazzata dai gelidi soffi dell’oceano Australe, non poteva certo ispirare molta confidenza. Molte e molte sono state le navi, che trascinate dalle correnti e dalle contro-correnti o sfondate dai ghiacci, trovarono ai piedi del sinistro scoglio la loro tomba. Ora le paurose leggende sono state sfatate ed a centinaia si contano i vascelli che ogni anno girano il temuto Capo, ma ancora si calcolano a quattro o cinque i legni che vanno a fracassarsi, durante la stagione invernale, sulle nere roccie, o che vanno ad arenarsi sulle spiagge vicine. Questo capo Horn, non è però altro che un’isola, ma d’aspetto tetro. Si eleva sotto il 56° di latitudine Sud, poche decine di miglia al di là di quel gruppo d’isole che chiamansi dell’Eremita, le quali cingono le coste meridionali della Terra del Fuoco. È una rupe enorme, isolata, composta di rocce nere sulle quali non nasce alcuna pianta. I suoi fianchi cadono a piombo sull’Oceano, che è quasi sempre agitato e le onde s’ingolfano attraverso alle sue scogliere con cupi fragori. Cornelio Schouten, olandese, che esplorava quelle estreme regioni dell’America meridionale in compagnia di Le-Maire, fu il primo a scoprire quel capo nel 1616, e lo chiamò Horn a ricordo della propria città natia. L’uragano pareva che raddoppiasse la furia attorno a quella gigantesca rupe, quasi volesse confermare la sinistra fama che essa gode. Ondate enormi l’assalivano da tutte le parti, risalendo le scogliere con fragori formidabili e cacciandosi con sordi muggiti, entro le caverne marine, scavate dall’eterna azione delle acque irritate. Sulle nere vette, lividi lampi balenavano tingendo l’oceano d’una luce cadaverica e si udiva lassù muggire tremendo il vento. — Paese infernale! esclamò Bisby spaventato. Se questa è la via che conduce al polo, preferisco starmene per sempre a Baltimora. — È troppo tardi, amico mio, disse Wilkye che conservava sempre un ammirabile sangue freddo. Non crediate però che questo uragano duri eternamente; si calmerà e fra breve saluteremo il sole polare che tramonta a mezzanotte. Infatti di passo in passo che la Stella Polare si allontanava dai paraggi della Terra del Fuoco inoltrandosi nell’oceano Antartico, l’uragano pareva che perdesse rapidamente la sua foga. Il vento, non più arrestato dalle isole, soffiava con meno violenza, conservando una sola direzione, e le onde, non più infrante e respinte, pur conservandosi molto alte, continuavano a spiegarsi liberamente correndo dal sud-est al nord-ovest. Un altro pericolo però minacciava la Stella Polare: era il continuo incontro di banchi di ghiaccio. L’uragano doveva imperversare anche sulle coste delle terre polari e doveva aver staccato numerosi ghiaccioni, i quali salivano verso il nord trasportati dalle onde e dal vento. Erano ancora piccoli quelli che s’incontravano, ma non dovevano tardare a comparire i grossi, i veri ice-bergs e gli ice-fields. La Stella Polare di quando in quando urtava contro dei palks e degli streams di notevole spessore e non li spezzava che con grande fatica e subendo tali urti che gli uomini stramazzavano spesso sul ponte. Il capitano Bak aveva dovuto rallentare la velocità della goletta per non danneggiare lo sperone, ed aveva mandato due marinai sulle crocette, per evitare a tempo i grossi banchi. Ad un tratto però, verso le quattro del mattino, quando cominciava a calare sul procelloso oceano un denso nebbione, avvenne a prua un urto così violento, da far retrocedere la goletta e far cadere sul ponte molti marinai. Quasi subito, fra i muggiti delle onde e gli urti dei ghiacci, si udì echeggiare una nota acuta, potente, che pareva emessa da un enorme tubo di bronzo. — Cosa succede! chiese Wilkye, alzandosi prontamente. — Abbiamo urtato contro un banco forse? chiese Linderman al capitano Bak che correva verso prua. — No, signore, rispose questi. Il colpo sarebbe stato più violento e..... Un’altra nota acuta, potente più della prima, s’alzò fra le onde e una montagna d’acqua si rovesciò sulla prua. — Del sangue! esclamò una voce. — Del sangue? chiesero Wilkye e Linderman. — Che l’oceano sia diventato vino? disse Bisby, che si era risollevato. Quale fortuna, se fosse vero!..... In questa regione, ci si può aspettare anche questa sorpresa. Il capitano Bak si era curvato sulla coperta e con suo grande stupore, vide che l’acqua che sfuggiva attraverso agli ombrinali era rossa. — Macchina indietro a tutto vapore, tuonò. — Ma infine, cos’è accaduto? chiese Linderman. — Abbiamo investito una balena, signore, rispose il comandante. — Una balena che dormiva forse? — O che emerse dinanzi alla prua della nostra nave. — E fuggiamo? — È necessario, signore. Il cetaceo sarà furioso e può scagliarsi contro di noi; basta un colpo di coda per causarci una grossa avaria o un colpo di testa per mandarci a picco. — Eccola!.... Eccola!.... esclamarono i marinai, che si erano affollati a prua. Linderman, Wilkye e Bisby corsero a prua ed a poche decine di metri dalla Stella Polare, che indietreggiava rapidamente per virare al largo, scorsero una massa enorme, lunga almeno sedici metri, che si dibatteva fra le onde, sollevando una coda mostruosa e lanciando in aria, con sordo rumore, due colonne di vapore. Non vi era da ingannarsi: la Stella Polare aveva urtato contro una balena che forse sonnecchiava a fior d’acqua e l’aveva speronata, causandole probabilmente una grande ferita. Un colpo furioso di vento che lacerò la nebbia, spazzandola via, permise ai naviganti di osservare meglio il mostruoso cetaceo ed anche di misurare il pericolo che correvano. La Stella Polare lo aveva speronato in prossimità della testa, un po’ avanti la pinna pettorale sinistra, producendogli una ferita spaventosa, lunga tre metri e profonda uno. Da quell’enorme spaccatura cadeva in mare, a rapide pulsazioni, un torrente di sangue nerastro, spumeggiante, il quale si dilatava rapidamente, arrossando l’acqua per un tratto vastissimo. La pinna, che aveva una lunghezza di tre metri, spaccata alla sua congiunzione, pendeva lungo il corpo del gigante, agitandosi convulsamente. Il cetaceo, che forse era stato colpito a morte, pareva furioso. La sua potente coda, che terminava in una pinna triangolare, larga non meno di sei metri, percuoteva con rabbia estrema l’acqua, sollevando delle ondate altissime, la sua immensa bocca, che misurava tre metri di larghezza su quattro di altezza, si apriva impetuosamente, mostrando i settecento fanoni pendenti dalla mascella superiore e assorbiva l’acqua con sordo fragore. Stette per alcuni istanti immobile, ondeggiando fra il sangue che lo circondava, poi reso pazzo dal dolore e dal desiderio di vendicarsi, si precipitò innanzi con velocità incredibile, muovendo addosso alla goletta che virava allora di bordo. Un grido di terrore echeggiò sulla coperta del legno. Guai se quel mostro lo investiva con quello slancio; un colpo di testa era più che sufficiente per rovesciarlo e mandare tutti gli uomini che lo montavano, a dormire per sempre sotto le fredde onde dell’oceano Australe. Il capitano Bak non era però un uomo da spaventarsi, nè da perdere la sua calma. Prese subito il suo partito. Comprendendo che non poteva sfuggire all’assalto del gigante, possedendo tali mostri una velocità vertiginosa, così rapida anzi da percorrere seicentosessanta metri al minuto, fidando nella robustezza eccezionale della goletta e soprattutto nell’acutezza dello sperone, con un’audacia che poteva chiamarsi anche una pazzia, decise di assalire a suo volta il nemico. — Avanti a tutto vapore! tuonò. Poi, volgendosi verso il timoniere: — Waldek! - gridò. - Attento alla coda e sperona il mostro! Saldi in gambe, voialtri!... — Ma..... volete farci colare a fondo? chiese Linderman. — Silenzio, signore, rispose l’intrepido capitano. Ora comando io e rispondo di tutto!... La balena non distava che tre gòmene. Quella massa enorme, che si scagliava all’assalto con vigore straordinario malgrado l’orribile ferita, faceva paura e perfino Linderman e Wilkye erano diventati pallidi. Mentre colla coda percuoteva furiosamente le onde per precipitare l’attacco, dalla sua gola uscivano note così acute, da poter essere udite a cinque miglia di distanza. La Stella Polare aveva ripreso la sua marcia in avanti e muoveva diritta sull’assalitrice, ma descrivendo un semi-cerchio per non abbordarla di fronte. Il capitano Bak, ritto sul ponte di comando, tranquillo come se si trattasse di far eseguire una semplice manovra, non staccava gli occhi dalla balena. Ad un tratto questa s’inabissò bruscamente, formando una specie di vortice. — Macchina indietro! comandò il capitano. La Stella Polare percorse una dozzina di metri trasportata dal proprio slancio, poi s’arrestò. L’equipaggio, vivamente impressionato, scrutava attentamente le acque per vedere se il cetaceo appariva, temendo che sorgesse improvvisamente sotto la goletta. — Macchinista, attenzione! gridò ad un tratto il capitano. A cinquanta metri dalla goletta, fra due larghe ondate, si scorgeva un remolìo che sempre più si accentuava e si estendeva. Poco dopo apparve un punto nero: era l’estremità del muso della balena; indi apparvero gli sfiatatoi, i quali lanciarono in aria una doppia colonna di vapore biancastro, che saliva in forma di V. — Sperona Waldek! gridò il capitano Bak. La Stella Polare si precipitò innanzi a tutto vapore, colla velocità di venti nodi all’ora. D’improvviso avvenne un urto violento che fece stramazzare sul ponte l’intero equipaggio, e la goletta s’inchinò a poppa, ma trasportata dallo slancio e dalle turbinose evoluzioni dell’elica, balzò innanzi, s’inchinò verso prua come se passasse sopra un banco, e proseguì la marcia. Quasi nel medesimo istante che passava sul dorso del cetaceo, un uomo che si era curvato sul bordo per meglio vedere quell’attacco, spinto innanzi da quell’urto impetuoso, piombava nel vuoto. Quella caduta era stata così improvvisa, che quel disgraziato non aveva nemmeno avuto il tempo di emettere un grido, e per colmo di sventura, nessuno lo aveva veduto. Immaginatevi però quale fu la sua sorpresa nel sentirsi cadere su di una massa viscida, in mezzo ad una specie di canale, entro il quale scorreva un getto di sangue spumeggiante. Una esclamazione di stupore gli uscì dalle labbra: — Per centomila quintali di carne salata!... Ecco una avventura che non ho mai sognata!... Bisby, poichè era lui, si raddrizzò per guardarsi intorno, ma quella massa enorme si alzò bruscamente sulle onde emettendo una nota così formidabile, da assordarlo. — Ohe!... fermi per bacco!... gridò il disgraziato negoziante di carni salate. Ci sono qui io, e se... La frase gli si gelò sulle labbra, mentre i capelli gli si rizzavano sulla fronte: solamente in quel momento si era accorto di essere caduto sul dorso della balena e precisamente in mezzo al solco mortale tracciato dallo sperone e dalla chiglia della goletta. — Gran Dio!... mormorò con voce angosciata. Sono perduto!... Gettò all’intorno uno sguardo smarrito: la goletta, credendo ormai di aver colpito a morte il cetaceo e di averlo quindi ridotto all’impotenza, si allontanava rapidamente e si perdeva fra le nebbie che calavano fitte fitte sull’oceano. Mandò un grido disperato: — Aiuto!... Aiuto Wilkye, amico mio!... Sono... Non poté finire, poiché fu bruscamente rovesciato in fondo all’orribile ferita, entro quella specie di canale, gorgogliante di sangue. Il cetaceo, che non era ancora morto malgrado quella seconda speronata, si alzava sopra le onde, agitando convulsamente la coda e le pinne pettorali. Doveva essere agonizzante, poiché dagli sfiatatoi lanciava, ad intervalli, zampilli d’acqua tinta di rosso. Rauchi brontolii, paragonabili al tuono udito in lontananza e profondi sospiri che parevano muggiti, uscivano da quell’enorme massa, mentre dalle due ferite zampillavano in mare torrenti di sangue. Il povero Bisby, atterrito, livido come un morto, non osava più muoversi. Rannicchiato in fondo alla ferita del cetaceo, si lasciava imbrattare di sangue e di grasso e cercava di scoprire la Stella Polare, sperando di vederla riapparire fra la nebbia. Ad un tratto la balena fu presa da un brivido generale. Alzò lentamente il capo come volesse aspirare una ultima volta l’aria, emise una debole e rantolosa nota, la sua coda si distese inerte, poi si udì un rauco gorgoglio che pareva prodotto dall’irrompere dell’acqua nell’enorme corpo. — Cosa succede? si chiese Bisby, con ansietà. La risposta fu pronta: la balena affondava rapidamente. S’immerse la sua coda, poi il suo capo, indi la massa intera disparve, formando alla superficie dell’oceano un largo risucchio. CAPITOLO VIII. L’assalto dell’albatros. La situazione del povero negoziante di carni salate, stava per diventare estremamente pericolosa. Pure lo credereste? Bisby che infine non mancava di coraggio, salutò la scomparsa del mostro con un sospiro di soddisfazione!... Quel cetaceo gli aveva prodotto un certo terrore, con quella sua enorme bocca che pareva pronta a inghiottire qualunque preda, sicchè trovavasi meglio solo in acqua che su quel dorso viscido. Non sarebbe necessario dire che il negoziante, al pari del maggior numero dei suoi compatrioti, era un abile nuotatore. Aveva fatte le sue prove nella baia di Chesapeake, e un bagno anche prolungato non gli faceva più paura. Il suo corpaccio grasso, d’altronde, lo sorreggeva facilmente e ritardava, almeno per qualche tempo, l’irrigidimento delle membra. — L’avventura si complica, borbottò il negoziante, fendendo vigorosamente le onde. Che il mostro si sia inabissato, ne ho molto piacere, ma se la goletta tarda a ritornare, non so se continuerò a nuotare un paio di ore. Quest’acqua è diabolicamente fredda e mi pare che incrosti dei ghiaccioli addosso ai miei panni. Auff! comincio averne abbastanza di questa spedizione polare e comincio a rimpiangere i miei magazzini. Orsù, coraggio Bisby mio, e cerchiamo di trovare un punto d’appoggio. Dannata nebbia!... Non mi lascia vedere uno scoglio a dieci metri di distanza!... Gettò uno sguardo all’ingiro sperando di scorgere qualche isolotto od i fanali di posizione della Stella Polare, ma invano. Attorno a lui non s’agitavano che le onde, le quali lo assalivano da tutte le parti con sordi muggiti, quasi fossero ansiose d’inghiottire quella preda umana e di seppellirla in fondo ai gelidi abissi dell’oceano australe. Sopra invece, scendeva lentamente il nebbione, stendendosi sopra i flutti come un gigantesco velo grigiastro. — Nulla, mormorò Bisby, rabbrividendo, e l’acqua diventa sempre più fredda. Che a bordo della Stella Polare non si siano ancora accorti della mia scomparsa? Proviamo a chiamare. Con una spinta vigorosa s’alzò sulle onde e gettò tre tuonanti chiamate. Tese gli orecchi e poco dopo, con suo immenso stupore, udì dei ragli sonori. — To! esclamò egli, sbarrando gli occhi. Ma dove mi trovo io?... Che vi siano degli asini che nuotano in quest’oceano?... Oh che sia vicino a qualche isola abitata?... Ma degli asini qui?... C’è da impazzire. Gettò altre due chiamate e anche questa volta vi risposero dei ragli, ma venivano dall’alto. La sorpresa del negoziante di carni salate, non aveva più limiti. — Che in questa strana regione vi siano degli asini che volano?... Veramente non ne ho mai udito parlare e Wilkye mi avrebbe detto qualche cosa. Guardò in alto e vide, attraverso il nebbione, volare delle grosse ombre che parevano uccelli marini, i quali emettevano quei ragli che lo avevano tanto imbarazzato. — Strano paese! esclamò. Si sono mai uditi degli uccelli a imitare gli asini?... Ma... io mi occupo degli uccelli e le mie membra intanto cominciano a irrigidirsi. Se Dio non m’aiuta, non so come finirà questa brutta avventura, e... Non finì la frase. Qualche cosa di grosso gli era piombato improvvisamente addosso, emettendo un rauco grido, e lo aveva urtato così ruvidamente, da cacciarlo sott’acqua, riempiendogli la bocca di quel liquido amaro e salato. Con un vigoroso colpo di tallone rimontò alla superficie, ma si sentì percuotere furiosamente da due ali grandissime e lacerare di colpo una manica. Furioso per quell’assalto inaspettato, rimontò a galla per la seconda volta e vide sopra di sè un grande uccello, di forme tozze e robuste, con le penne biancastre, ma nere sul dorso, con le ali che misuravano per lo meno quattro metri di lunghezza, ed il capo armato d’un becco grosso ed uncinato. Comprese subito con quale avversario aveva da fare. — Un albatros!... esclamò. In guardia Bisby o ci va di mezzo il cranio! Infatti, quell’uccellaccio che si preparava ad assalirlo era un vero albatros. Questi volatili, che i marinai chiamano «navi da guerra» o «pirati del mare» sono senza dubbio i più grossi che s’incontrano nell’oceano Australe, raggiungendo sovente dimensioni tali, da superare le aquile ed i condor dell’America meridionale. Voracissimi come sono, seguono per delle intere settimane le navi per raccogliere gli avanzi della cucina che i cuochi di bordo gettano in mare e pescano da mane a sera, affrontando dei pesci anche grossissimi. Essendo muniti di un becco robustissimo e assai acuto, con un solo colpo possono spaccare il cranio ad un uomo, ma sono però poco coraggiosi. Se affrontano l’uomo caduto in acqua, che forse scambiano per qualche pesce, fuggono davanti alle procellarie e perfino ai gabbiani, e la loro paura è tale che si nascondono sott’acqua. Bisby, che aveva già veduto nei giorni precedenti parecchi di quegli uccellacci, e che non ignorava quale forza posseggono, vedendosi assalito, alzò ambo le mani per proteggersi il capo. L’albatros, che forse credeva di aver da fare con un abitante dell’oceano, non indugiò a ritornare all’assalto. S’alzò di parecchi metri aprendo le sue grandi ali, poi gli piombò addosso con velocità fulminea, cercando di spaccargli il cranio col robusto rostro. Bisby, appena se lo vide vicino, allungò prontamente le braccia ed afferratolo pel collo, si mise a stringerlo con suprema energia. L’albatros, sentendosi soffocare, si dibatteva con furore, cacciava grida rauche, agitava disperatamente le ali cercando di stordire l’avversario, arruffava le penne e coi piedi palmati tentava di colpirlo in viso; ma il negoziante, che si sentiva mezzo sollevato fuor delle onde, stringeva sempre. — Eh mio caro!... gridava. Non ti lascio più e ti strozzerò!... Ah! Birbante!... Volevi spaccarmi il cranio come fosse una nocciuola?... Soffoca, canaglia!... L’albatros, strangolato dalle larghe mani dell’americano, rallentava la sua resistenza. Le sue grida diventavano sempre più rauche, le sue potenti ali non si agitavano che ad intervalli, ed il robusto becco invano si apriva per aspirare una boccata d’aria. Ad un tratto cessò di dibattersi e s’abbandonò addosso a Bisby, il quale affondò sotto quel peso piombatogli improvvisamente sul capo. Tornato a galla, vide l’albatros che galleggiava a pochi passi di distanza. Mandò un grido di gioia. — Il punto d’appoggio è finalmente trovato!... Con due bracciate raggiunse il gigantesco uccello e vi si appoggiò, senza che quello affondasse. Era tempo! Il povero negoziante di carni salate che si trovava da oltre mezz’ora immerso in quell’acqua fredda, non poteva più reggersi. Le sue membra che a poco a poco si irrigidivano cominciavano a rifiutarsi di muoversi, e le sue vesti, già completamente inzuppate, erano diventate così pesanti, da impedirgli di mantenersi a galla. Malgrado avesse trovato quel punto d’appoggio, la sua situazione era sempre gravissima e poteva diventare disperata. La nebbia calava sempre più densa, l’oceano non accennava ancora a diventare tranquillo, il freddo cresceva di momento in momento e la Stella Polare non compariva. Sinistre inquietudini l’assalivano; si credeva ormai abbandonato in mezzo all’oceano Australe. Cosa sarebbe avvenuto di lui, se non incontrava un’isola o uno scoglio qualsiasi? Avrebbe potuto resistere quattro, cinque ore forse, ma poi?... — Se la Stella Polare non mi trova, fra breve sarò morto, balbettò il disgraziato. Sento il freddo salirmi al cuore e non posso più reggermi. Dannata balena!... Se... S’interruppe bruscamente e tese gli orecchi. Gli era sembrato di aver udito una lontana detonazione. — Che mi sia ingannato? mormorò, con inesprimibile angoscia. Che la Stella Polare mi cerchi? Tese ancora gli orecchi rattenendo il respiro, e questa volta, fra i muggiti delle onde, udì distintamente un’acuta detonazione. — Buono!... esclamò, respirando liberamente. Finalmente si sono accorti che il povero Bisby mancava! Radunò tutte le sue forze e si mise a urlare: — Ohe!... Della Stella Polare! Wilkye! Linderman! Capitano Bak! Ove siete voi?... Una terza detonazione e più distinta giunse ai suoi orecchi. Ormai non v’era più alcun dubbio: a bordo della goletta si erano accorti della sua scomparsa e ritornavano a tutto vapore per ritrovarlo. Bisby, che si sentiva mancare rapidamente le forze, raddoppiava le grida e si teneva disperatamente attaccato all’albatros. Passarono alcuni minuti d’angosciosa aspettativa pel disgraziato naufrago, poi in mezzo al nebbione distinse una massa oscura sormontata da due punti luminosi e udì un quarto sparo. Gettò un ultimo grido: — Aiuto.... Wilkye!.... Una voce tuonante, quella del capitano Bak, vi rispose: — Coraggio!... Giungiamo!... La Stella Polare si era arrestata ad una gomena di distanza. Poco dopo una scialuppa montata da cinque uomini, veniva calata in mare e raggiungeva Bisby proprio nel momento in cui questi, completamente assiderato ed esausto di forze, stava per abbandonare l’albatros. — Mio povero amico! disse una voce. — Wil...kye... borbottò Bisby. Gra...zie... ami...co. Quattro braccia vigorose lo afferrarono e non senza fatica lo trassero nell’imbarcazione. Il disgraziato accennò l’albatros. — Vo...glio... man...giarmelo, rantolò. Brrr!... Che fred...do... orri...bile!... Poi le forze gli vennero meno e cadde fra le braccia di Wilkye. La scialuppa ritornò rapidamente a bordo e fu issata sulla Stella Polare, insieme agli uomini che la montavano. Linderman porse a Bisby una bottiglia di wisky, dicendogli: — Bevete, e poi a letto. Siete bravo se non vi prendete un grave malanno. Il negoziante tracannò un dietro l’altro sei lunghi sorsi. — Fa bene, disse. — A letto subito, disse Wilkye. — Un momento. — Parlerete più tardi. — Ma no..... voglio sapere se vi sono degli asini su questo mare. — Siete pazzo, Bisby? — Ma no, ho udito dei ragli e non sono sordo, ve lo assicuro. — Erano uccelli, dei semplici aptenatidi. — Ma ragliavano. — Gridano così. Presto, amico mio, a letto. — Un momento... sono vivo ancora. — Gelerete, vi dico. — Sgelerò poi. Ditemi, sono buoni da mangiare gli albatros? — Hanno la carne dura come quella dei tapiri. — Non importa, disse Bisby gravemente. Cucinatemi il mio albatros: lo mangerò tutto! Poi tracannò un sorso di wisky, e seguì Wilkye sotto coperta, ripetendo: — Lo mangerò! Oh se lo mangerò! CAPITOLO IX. I banchi di kelp. Ritrovato Bisby, la Stella Polare aveva ripresa la sua rapida corsa verso le terre polari del Sud, dirigendosi sulle Shetland australi, considerevole gruppo d’isole che circonda le spiagge settentrionali della Terra di Trinity e di quella di Palmer. La spedizione aveva fretta di giungere presso le coste del continente polare per evitare i grandi banchi di ghiaccio, che si staccano durante le stagioni estive, emigrando poi in gran numero verso le regioni settentrionali e accumulandosi talvolta nei dintorni del lontano capo Horn. È bensì vero che l’estate non era ancora cominciata, ma un ritardo poteva essere disastroso, sia per gli americani che per gli inglesi. In quelle regioni, il sole non è mai caldo e se riesce a sgelare i banchi, le montagne ed i campi di ghiaccio, basta una bufera per saldare ancora quei colossi e chiudere qualsiasi sbocco del continente australe. Era necessario quindi, soprattutto per l’armatore, di trovarsi più al Sud che era possibile al principiare dello sgelo, per tentare l’esplorazione della Terra Alexandra. Solo allora poteva sperare di seguire le spiagge di quell’isola e di spingersi tanto innanzi nel cuore del continente, da avvicinarsi a quel misterioso polo che fino allora nessun essere umano aveva toccato. La velocità della Stella Polare, quindi non scemava. Malgrado la folta nebbia, filava verso le regioni australi, senza deviare dalla rotta stabilita, fendendo con cupo fragore le onde di quell’Oceano, che travolgevano fra la spuma i primi ghiacciuoli, l’avanguardia degli ice-bergs e dei campi immensi di ghiaccio. Una profonda oscurità avvolgeva quel gelido mare, quantunque fosse di giorno. Quel nebbione impediva al sole d’illuminare quella regione, sebbene già dovesse splendere fino ad ora tarda, tramontando alle undici di sera. Il silenzio che regnava era solamente rotto dal frangersi dei ghiacciuoli e dalle rapide pulsazioni della macchina. Talvolta però echeggiavano delle rauche strida e si vedevano giuocherellare, attraverso alla nebbia, degli stormi di uccelli, i quali nuotavano verso le regioni meridionali. Erano bande di Micropterus cinerus, strani uccelli somiglianti ai pinguini, colle penne grigrio-plumbee sul petto e sul collo, bianco-giallastre sotto il ventre, il becco color arancio e grosse sopracciglia biancastre che sembrano occhiali. Hanno il volo pesante, essendo grossi e possedendo delle ali corte, quindi non si alzano quasi mai, ma sono eccellenti nuotatori e possono rimanere sott’acqua anche parecchi minuti. Qualche volta invece volteggiavano in alto degli stormi immensi di grosse procellarie, di berte e anche di quando in quando passava, rasentando gli alberi della goletta, qualche diomedea fuliginosa, grossissimi volatili, chiamati giustamente avoltoi dell’oceano, voracissimi e dotati d’un volo potente, possedendo delle ali che misurano, quando sono spiegate, circa quattro metri di larghezza. A mezzodì, mentre la Stella Polare rallentava la corsa per tema di urtare improvvisamente contro qualche grande banco di ghiaccio, l’elice cessò improvvisamente le sue evoluzioni. Già da qualche minuto pareva che girasse con difficoltà, imprimendo alla nave delle strane scosse, ora rallentando ed ora accelerando le battute. — Abbiamo urtato? chiese Linderman che si trovava in coperta. — È impossibile, signore, rispose il capitano Bak, curvandosi sul bordo. In quel momento il capo-macchinista apparve sul ponte. — Signore, disse, volgendosi verso il capitano. L’elice non funziona più. — Lo vedo, rispose il comandante. Che sia avvenuto un guasto? — No, rispose una voce a prua. L’elica è stata legata. — Legata?... esclamarono Linderman e il capitano. — Sì, signori, disse Wilkye, facendosi innanzi. Noi passiamo sopra una grande piantagione di kelp. — Sopra delle alghe, volete dire? — Sì, signor Linderman. — E credete che non riusciremo a sbarazzarci? — Sarà un po’ difficile, per ora. Vi consiglio di far spiegare le vele; più tardi farete liberare l’elica. — Il vento è favorevole, disse il capitano. Soffia dal nord-ovest e potremo filare comodamente sei o sette nodi all’ora. — Fate — disse Linderman. Al primo fischio emesso dal mastro d’equipaggio, i marinai si affrettarono ad eseguire la manovra. Le rande, le contro-rande e i fiocchi in pochi istanti furono spiegati, e la goletta, obbedendo all’azione del vento e del timone, scivolò leggiera leggiera sul denso strato d’alghe, civettuolamente inclinata sul babordo. Come aveva detto Wilkye, era giunta nel mezzo di un immenso banco di kelp. Queste alghe, che chiamansi Macrocystis pyrifere, nascono solamente nei mari australi e avvertono la vicinanza di bassi-fondi o di isole. Raggiungono delle lunghezze incredibili, poichè sovente misurano settecento, ottocento e perfino mille piedi, ossia circa trecentotrenta metri. Esse fissano le radici in fondo al mare, si ramificano e salgono obliquamente verso la superficie. Alcune sottilissime si tengono celate sott’acqua, ma altre più larghe, in forma di lamine dentellate, emergono. Queste sono le più pericolose, poiché giunte a fior d’acqua si ramificano enormemente, imprigionando di frequente le navi. Esse sono sorrette da piccolissime vesciche aeree e in mezzo a quel caos di nastri giganteschi brulica una quantità di animaletti, come l’uraster, che è di un bel giallo aranciato, l’acanthocyclus gai, che è un crostaceo, il lophyrus granosus e il comholepas oblungus, che sono molluschi e soprattutto dei veri banchi di clios australi, molluschi lunghi tre centimetri, che sono avidamente ricercati dai cetacei; anzi costituiscono la così detta zuppa delle balene. Si dice che il kelp circondi tutto il continente australe, racchiudendolo entro un immenso cerchio. La Stella Polare però passava facilmente sopra quella grande prateria marina. Se l’elica non poteva più funzionare, il vento la spingeva con rapidità verso il Sud, gonfiando le rande e le contro-rande. Pel momento non era il caso di liberare l’elica, poiché quei lunghi vegetali non avrebbero tardato ad imprigionarla ancora. Tutto il giorno la goletta navigò sul kelp, ma verso le otto di sera, nel momento in cui il nebbione si alzava, e che il sole cominciava ad apparire indorando le cupe acque dell’oceano Antartico, le alghe quasi improvvisamente scomparvero. Tosto furono ammainate le vele, la gran scialuppa fu calata in mare e sei uomini andarono a sbarazzare l’elica. Non fu però una operazione facile, poichè le alghe si erano attorcigliate alle pale in siffatto modo, da richiedere una lunga operazione prima di reciderle. Alle nove però, la Stella Polare si rimetteva in marcia a tutto vapore. Quasi nel medesimo istante compariva in coperta Bisby. Aveva dormito una dozzina di ore dopo d'aver bevuto una bottiglia di vino caldo e pareva completamente rimesso da quella brutta avventura che per poco non gli era costata la vita. Si era infagottato in vesti di pelle di foca, si era avvolto maestosamente nella sua famosa pelle di bisonte che gli dava un aspetto di capo indiano e si era messo in testa un cilindro nuovissimo, avendo perduto l’altro nel brutto capitombolo. La sua prima domanda, appena mise piede in coperta, fu questa: — È cucinato il mio albatros? — Il ghiottone! esclamò Wilkye. Tanto vi preme la carne coriacea di quell’uccellaccio? — Cospettaccio!..... se mi preme?..... Ah! voi non sapete che voleva mangiarmi? — Eh via! esclamò Linderman, ridendo. Non siete un gabbiano, nè un pesce. — Mi aveva assalito, signore, e se non lo strozzavo non so se sarei ancora vivo. — Ma come siete caduto? chiese Wilkye. — Ve lo dirò poi; ma voi, non vi eravate accorti della mia scomparsa? — No, Bisby; vi credevamo nella vostra cabina e ci accorgemmo solamente due ore dopo. Siete stato fortunato di farvi trovare, con quel nebbione che scendeva sull’oceano. — Lo credo, ma ora sto benissimo e non ho che un solo desiderio, cioè quello di dare un buon colpo di dente a quel brutto uccellaccio che aveva scambiato la mia testa per un pesce. — Lo mangerete a cena in salsa piccante. — Ma io ho fame! — Fra mezz’ora la campana ci radunerà a cena. — A cena?..... esclamò Bisby stupito. A pranzo, vorrete dire. — No, amico mio: avete dormito dodici ore e sono quasi le 9 di sera. — Ma voi siete pazzo o volete scherzate, Wilkye. Non vedete che splende ancora il sole? — E cosa vuol dire ciò? — Che in nessun paese del globo, alle nove di sera si vede il sole, guardate come è ancora lontano dall’orizzonte. — Questa regione, mio caro Bisby, è diversa dalle altre e l’astro diurno, per ora, non tramonterà che a undici ore, fra pochi giorni a mezzanotte, e fra qualche settimana non si nasconderà più e c’illuminerà per ventiquattro ore continue, anzi per tre o quattro mesi, se continueremo a scendere al sud, e per sei se toccheremo il polo. — Ma che storie strabilianti mi narrate, Wilkye. Volete scherzare, approfittando della mia ignoranza? — No, vi do la mia parola; guardate il mio orologio: segna otto ore e cinquanta minuti ed il sole non accenna a tramontare. — E anche il mio! esclamò Bisby, che cadeva di sorpresa in sorpresa. Ma che paese è mai questo?....... C’è da impazzire, Wilkye. — E perchè amico mio? — Perchè non comprendo questo fenomeno. — Non è un fenomeno e la spiegazione è semplicissima, mio caro Bisby. Nelle nostre regioni settentrionali, sapete perchè le giornate d’inverno si accorciano? — Non ve lo saprei dire; non m’intendo che di carni salate. — Semplicemente pel fatto, che allora il sole volge i suoi raggi più diretti verso le regioni meridionali situate al di là dell’equatore, le quali appunto allora godono l’estate. Il polo nord, essendo il più lontano dall’equatore e quindi anche dal sole che si trova nell’emisfero australe, in causa della rotondità della terra non può ricevere alcun raggio solare. Infatti se Baltimora, e per conseguenza tutte le regioni situate sullo stesso parallelo, all’inverno godono dieci ore di luce, quelle più al nord ne godranno solamente nove, le altre più lontane di otto, sette e via via finchè talune non ne avranno affatto. La stessa cosa avviene nelle regioni australi. Il sole ha passato l’equatore e si allontana sempre più dall’emisfero settentrionale scendendo verso il sud. I paesi situati al di là del circolo antartico, avranno sempre il giorno e la notte, poichè la terra gira, ma il polo che può considerarsi come il perno, rimane quasi fisso, quindi laggiù il sole, durante l’estate non tramonta mai; quando però si allontana e risale nell’emisfero settentrionale, piomba laggiù una notte orrenda che ha l’istessa durata. Aspettate che sopraggiunga l’autunno, e in queste regioni vedrete il sole allontanarsi rapidamente, le giornate scorciarsi presto, finché regnerà un’oscurità così profonda che nè le stelle nè la luna riesciranno a rompere. — Brrr! Mi fate venire freddo, Wilkye. — Ne avrete allora, Bisby, e molto. Queste regioni si copriranno di nevi e di ghiacci spaventevoli e la temperatura discenderà a 40° e perfino a 50° sotto lo zero. — Ho la mia pelle di bisonte: sento che mi fa sudare. — Ora sì, ma allora vi farà ben poco. — E non ritorneremo prima? — Chi può dirlo? Se la Stella Polare viene imprigionata dai ghiacci, saremo costretti a svernare sulle coste della Terra di Graham. — Fra i ghiacci? — Sì, Bisby. — Non mi spiacerebbe vedere quei famosi monti di ghiaccio. Si dice che siano belli. — Volete vederne alcuni? — Sì, Wilkye. — Eccone laggiù una vera flotta: sono ammirabili quegli ice-bergs, ma indicano che lo scioglimento è cominciato sulle coste del continente polare e ci dicono che ben presto, la nostra valorosa goletta, sarà messa a dura prova. CAPITOLO X. L’assalto dei ghiacci. Infatti una vera flotta di ghiacci appariva verso il sud ingrandendo a vista d’occhio, avvicinandosi la goletta rapidamente a loro. Erano dieci o dodici, ma quali giganti!..... Quei figli del gelido polo, che le correnti marine avevano certo staccati dal continente, sulle cui coste forse da secoli sonnecchiavano, mai contaminati, probabilmente, da alcun piede umano, filavano lentamente verso le regioni settentrionali, verso le regioni indorate dal sole. Avevano proporzioni mostruose: taluni avevano una estensione di mezzo miglio ed un’altezza di duecento metri. Figuratevi quali masse, quando si pensa che se hanno un’altezza di cento metri, devono averne trecento di sotto!...... Alcuni di quei giganti dovevano adunque avere uno spessore di ottocento metri! I raggi solari, riflettendosi su quelle superfici bianche venate di un azzurro languido o di verde pallido, sprigionavano qua e là, attorno alle punte o negli angoli, delle tinte superbe. Alcuni di quegli ice-bergs (è il nome che si dà alle montagne di ghiaccio galleggianti) sembravano enormi diamanti incrostati di zaffiri o di smeraldi; altri sembrava che celassero nel loro interno un vero fuoco, poiché le loro estremità riflettevano delle tinte rosse, ed altri ancora, che non potevano ricevere la luce solare, parevano zaffiri ma sposati ad una sostanza ignota e meravigliosa, la quale rifletteva tutti i colori dell’arcobaleno. Cosa strana: quei ghiacci del polo australe non avevano le forme stravaganti che si riscontrano negli ice-bergs dell’oceano Artico. Erano sorprendenti per la loro semplicità, per la loro struttura regolare e tagliata a filo e le loro superfici, viste da lontano, sembrava che fossero state solcate da un aratro. — Quale diversità fra questi ghiacci e quelli del polo Artico! esclamò Wilkye. Gli stessi freddi intensi, ma quale differenza fra le regioni dei due poli!...... — Ma sono belli, stupendi, Wilkye, disse Bisby, che non si stancava di ammirarli. Che masse enormi!...... Quale nave potrebbe resistere ai loro urti? — Nessuna, Bisby. — E ne incontreremo ancora? — Più scendiamo al sud, più diverranno numerosi. — È vero quello che si dice, amico mio, che il polo australe è più difficile da scoprirsi che il boreale? — Sì, Bisby. — E perchè? Forse che laggiù fa più freddo? — No, ma pei ghiacci. Esistendo al polo australe un vero continente, attorno a questo, da secoli e secoli si accumulano immensi ice-bergs e vasti campi di ghiaccio, i quali impediscono alle navi di avanzare. — Ma è proprio vero che esiste un continente? — Tutto lo indica, Bisby. Gli esploratori ne hanno già delineato i contorni, e poi, credete voi che quelle immense montagne di ghiaccio si possano formare in alto mare? No, si formano solamente in vicinanza delle terre. — Ma quel continente, non può invece essere composto di semplici isole unite fra loro da banchi di ghiaccio? — No, poichè non s’incontrerebbero, in tal caso, degli ice-bergs così colossali. Il polo nord è cosparso di isole, ma colà non si vedono montagne di ghiaccio di dimensioni pari a queste. — Deve essere vasto questo continente. — Senza dubbio, Bisby, ma è pure difficile scoprirlo tutto, poichè si afferma che sia circondato da una vasta calotta di ghiaccio che sarebbe larga parecchie centinaia di chilometri. — Dunque voi credete impossibile che Linderman possa, colla sua nave, avvicinarsi al polo? — Sì, Bisby. Egli spera di trovare un passaggio al sud della Terra Alexandra, supponendo che quella sia un’isola, ma invece urterà contro il continente e sarà costretto di arrestarsi a qualche centinaio di miglia dal polo. — E non potrà giungervi a piedi? — Non vi riuscirà, Bisby. Le marcie attraverso ai campi di ghiaccio sono tremende e non si possono sopportare per dei mesi, quando il freddo scende a 45° od a 50° sotto lo zero. — E voi sperate di trovarlo coi vostri velocipedi? — Lo tenterò, Bisby, e se tutto va bene, chissà!..... — Ed io non vi seguirò? — È impossibile: comanderete la riserva dei marinai. — Vi anderò per mio conto. — A piedi? — Colla mia pelle di bisonte. — Quando giungeremo sulla terra di Graham, rinuncierete al vostro pazzo progetto... Ecco che la campana ci chiama a cena. — Pronto, urlò Bisby. L’albatros è mio!..... Mentre il capitano, Linderman, Wilkye ed i due velocipedisti assalivano la cena e Bisby si accaniva contro un gigantesco pezzo di albatros preparato in salsa piccante, ma che non voleva lasciarsi masticare dai denti del ghiottone, tanto era coriaceo, la Stella Polare continuava ad avanzarsi nel cuore dell’oceano australe. La prima flottiglia di ghiacci era scomparsa, ma parecchie altre apparivano in tutte le direzioni. Erano montagne di dimensioni enormi, vasti campi di ghiaccio, dei veri ice-fields, sormontati da cupole bizzarre che sembravano rovine di moschee o torri di mole gigantesca. Non si vedevano, però, nemmeno in quelli, i bizzarri frastagliamenti che si osservano nei ghiacci boreali e tutti conservavano quelle bizzarre arature, quei solchi che si notano nei grandi massi delle regioni australi. Quei colossi sfilavano silenziosamente verso il nord come fantasmi immani, lasciandosi trasportare dal movimento delle onde che volge verso le terre dell’America meridionale. Di tratto in tratto qualche montagna, corrosa alla base dall’acqua che conservava ancora un po’ di tepore, perdeva bruscamente l’equilibrio e piombava in mare con un tonfo assordante, sollevando un’ondata mostruosa, la quale andava a rompersi con cupo fragore contro gli altri ghiaccioni. Allora si vedeva il gigante sparire, poi comparire con un salto immenso, alzando verso il cielo altre punte, oscillare violentemente per parecchi minuti, poi riacquistare a poco a poco la primiera immobilità. La Stella Polare si avanzava con precauzione, tenendosi lontana da quei pericolosi vicini che potevano frantumarla come se fosse un semplice guscio di noce. Aveva rallentato la sua rapida marcia e filava parallelamente a quelle flottiglie, per non lasciarsi prendere in mezzo ed imprigionare. Alle 10 di sera però, nel momento in cui il sole stava per scomparire e che la croce del sud stava per delinearsi in cielo, il nebbione che si era solamente alzato, piombò quasi improvvisamente sull’oceano, rendendo quanto mai pericolosa la marcia della goletta. I ghiacci in breve tempo scomparvero fra quel denso velo e l’oscurità diventò profonda tanto, che gli uomini di prua a mala pena scorgevano quelli di poppa. Il capitano Bak era risalito in coperta, mentre gli esploratori si ritiravano nelle loro cabine, e cercava di evitare l’incontro di quelle masse enormi. Aveva comandato al macchinista di avanzare a piccolo vapore e all’equipaggio di portare in coperta dei buttafuori, specie di lunghi pali che servono a respingere i piccoli massi per evitare che urtino le navi. Malgrado quei preparativi, era assai inquieto. Poteva da un momento all’altro trovarsi addosso una di quelle immense montagne e correre il pericolo di far urtare la nave; poteva pure passare a breve distanza da uno di quei colossi, nel momento che questi perdevano l’equilibrio e farsi schiacciare con tutto l’equipaggio. Un altro motivo, e non meno grave, lo preoccupava: la vicinanza di quella lunga barriera d’isole che si estende dinanzi al continente polare. Le Shetland non dovevano essere lontane e l’isola del Re Giorgio o quella degli Elefanti, potevano trovarsi improvvisamente dinanzi alla prua della Stella Polare. In quelle regioni, così vicine al polo magnetico, il quale non è situato precisamente nel punto ove dovrebbero riunirsi i meridiani, come si crede dai più, ma a 70° di latitudine e a 130° di longitudine secondo Hansten ed a 70° 30' di latitudine e 135° di longitudine secondo Duperrey, non si può basarsi con certezza sulle indicazioni della bussola, poichè questa, per l’attrazione magnetica sbaglia e sovente gli aghi impazziscono, dando direzioni contraddittorie. Così, quando i nebbioni impediscono ai naviganti di fare il punto con gli ottanti per avere la longitudine e la latitudine, le navi sono costrette a procedere a tentoni. In tale situazione si trovava appunto la Stella Polare, la quale s’avanzava senza avere una rotta determinata, col grave pericolo di trovarsi improvvisamente addosso a qualche isola delle Shetland australi. Alle due del mattino, il nebbione era così fitto che non ci si vedeva a quattro passi di distanza. Scendeva a ondate sempre più dense, imprigionando il fumo che irrompeva dalla ciminiera, il quale si addensava sulla coperta della nave accrescendo l’oscurità. Il capitano Bak aveva fatto accendere due lampade a magnesio munite di potenti riflettori, ma quella luce somigliante a quella che producono le lampade elettriche, non si disperdeva e restava, come il fumo, imprigionata fra quella pesante umidità. Il pericolo intanto cresceva. Al largo si udivano sempre più frequenti i cupi cozzi delle montagne di ghiaccio, i lunghi scricchiolii dei piccoli banchi e di quando in quando dei tonfi orribili, che annunciavano la caduta di qualche colosso. Allora delle ondate spumeggianti correvano fra il nebbione e venivano a infrangersi con paurosi muggiti contro i fianchi della nave. Alle tre del mattino, fu veduto uno di quei colossi a breve distanza dal tribordo. Fu un momento d’inesprimibile angoscia per tutto l’equipaggio, il quale si trovava in coperta armato di buttafuori. Il capitano Bak aveva dato il comando di: macchina indietro! La Stella Polare che forse correva il pericolo di investire o di farsi stritolare da quel colosso che si distingueva vagamente fra l’oscurità, retrocesse a tutto vapore, ma ricevette un tale urto, che la stiva rimbombò come se nel suo interno fosse scoppiata una granata. Wilkye, Linderman e Bisby, svegliati di soprassalto, i primi due semi-vestiti e il terzo avvolto nella sua famosa pelle di bisonte, s’affrettarono a salire in coperta, credendo che la goletta si fosse arenata o fosse stata sfondata da qualche ice-berg. — Cosa succede? chiese Linderman, che pareva avesse perduto il suo sangue freddo. — Succede, signore, che noi siamo circondati dai ghiacci e che siamo stati urtati, rispose il capitano. — Ma dove ci troviamo noi? — Lo ignoro io stesso, signore; da tre ore la bussola non dà più esatte direzioni e pare che sia impazzita. — Forse al polo s’alza un’aurora australe, che questo nebbione ci impedisce di scorgere, disse Wilkye. Voi sapete che quel fenomeno meraviglioso altera le bussole, specialmente quando le navi s’avvicinano al polo magnetico. — Ma non siamo che a 61° di latitudine. — Ciò basta, signor Linderman. — La situazione è dunque grave, signor Bak? — Gravissima, signor Linderman, poiché noi siamo fra una vera flotta di ghiacci. — Dannato nebbione!.... Cosa contate di fare? — Avanzare a piccolo vapore. — Sono lontane le Shetland? — Non lo credo. — Non urteremo contro qualche isola? — Il fragore della risacca ce la indicherà. L’oceano è un po’ agitato e le onde si romperanno contro le scogliere. — Avanti, dunque! La Stella Polare, che si era arrestata, riprese la marcia a piccolo vapore, fendendo il nebbione che si scioglieva in una vera pioggia. Tutti gli esploratori, resi edotti del pericolo che correva la goletta, erano saliti in coperta per essere pronti ad ogni evento. Bisby, sepolto sotto la grande pelle, si era cacciato in una scialuppa per essere più pronto a salvarsi e di là si sfogava in un diluvio d’imprecazioni contro la nebbia, i ghiacci ed il polo australe specialmente. Cominciava ad averne fin troppo di quella spedizione che diventava sempre più pericolosa, e di quel clima che non lo faceva ingrassare abbastanza, quantunque mangiasse per quattro e bevesse per sei. Alle quattro del mattino un altro ice-berg, che doveva avere proporzioni enormi, apparve a pochi passi dalla nave, sul babordo. La sua altezza doveva essere immensa, poiché dalla cima si udivano cadere con sordo rumore dei pezzi di ghiaccio che dovevan pesare parecchi chilogrammi. Alcuni di essi rimbalzarono perfino sulla coperta della nave, producendo delle contusioni a parecchi marinai. Fortunatamente era stato scoperto a tempo e la Stella Polare, filando a tutto vapore, potè oltrepassarlo prima di venire urtata. D’improvviso però, mentre il capitano Bak stava per dare il comando di rallentare la corsa, avvenne a prua un urto così violento che le membrature della nave scricchiolarono. Un immenso grido di terrore echeggiò a bordo. I marinai fuggirono disordinatamente verso poppa abbandonando i buttafuori, mentre sul castello di prua rovinavano, con immenso fracasso, dei massi di ghiaccio. Il capitano Bak, Wilkye, Linderman stavano per slanciarsi a prua per rendersi conto della gravità della situazione, quando vennero bruscamente rovesciati. La nave, sollevata da una forza misteriosa, si era inclinata a poppa, mentre la prua pareva che venisse portata in alto. Un secondo urlo di terrore rimbombò in mezzo al nebbione, confondendosi con una serie di stravaganti detonazioni e di violenti scricchiolii: — Aiuto! si udì a urlare Bisby. Ad un tratto la goletta s’alzò, barcollò un istante in aria, librandosi fuori dai flutti, poi si rovesciò sul tribordo con un cupo rimbombo, rotolando gli uomini addosso alla murata. Erasi arenata? No, poichè quasi subito si udì un lungo scricchiolìo, come uno spezzarsi di ghiacci e la nave, sfondando col proprio peso quel punto d’appoggio, ricadde in mare, mentre un tonfo immenso risuonava a breve distanza, seguito poco dopo da muggiti formidabili. Un’ondata spumeggiante, una vera montagna d’acqua irruppe sul ponte, lo attraversò rovesciando tutto sul suo passaggio e sparve fra il nebbione, perdendosi in lontananza. CAPITOLO XI. Sull’Oceano Antartico. Cosa era avvenuto? Quale tremendo pericolo aveva minacciato l’esistenza degli audaci esploratori del polo australe? Come lo avevano evitato e come la valorosa nave, che era stata strappata dai flutti, galleggiava ancora? Se la spiegazione era impossibile per Bisby, non doveva essere difficile pel capitano Bak, per Wilkye e per Linderman, che avevano profonda conoscenza delle regioni polari e dei ghiacci. La Stella Polare che si era lanciata innanzi per sfuggire agli urti del primo ice-berg, era andata a urtare contro un secondo, che si manteneva in equilibrio per un miracolo e che le tagliava la via verso il sud. Quel colpo di sperone era stato sufficiente per farlo cadere e siccome quei colossi hanno una immersione straordinaria, la goletta, che si trovava sopra la base che tenevasi sott’acqua, era stata bruscamente sollevata. Fortunatamente il peso della nave era stato sufficiente per sfondare quella base e la nave era ricaduta in acqua, mentre il gigante si capovolgeva. Guai se non l’avesse spezzata! Sollevata in aria, rovesciata o sull’uno o sull’altro fianco, non sarebbe ricaduta che rotta o capovolta. E guai se l’ice-berg, invece di rovesciarsi in avanti si fosse piegato dalla parte della nave: nessuna corazzata, per quanto grande e solida fosse stata, avrebbe potuto resistere a quel tremendo urto, a quell’enorme peso che forse era di diecimila, di ventimila tonnellate. Se la fortuna aveva protetto gli arditi esploratori delle regioni australi, poteva però da un istante all’altro abbandonarli. Passato quel tremendo pericolo, altri li minacciavano. Tutto intorno alla goletta, altri ice-bergs ondeggiavano, mossi da quell’immensa ondata sollevata dalla caduta del colosso polare, che per poco non l’aveva schiacciata. Alla luce delle lampade di magnesio, che cominciavano a proiettare all’ingiro i loro raggi azzurrognoli, essendosi la nebbia un po’ diradata, si vedevano alzarsi a prua, a poppa, a babordo ed a tribordo, gigantesche pareti di ghiaccio, che avevano degli strani bagliori. Si sarebbe detto che quelle montagne erano ansiose d’imprigionare la goletta, di stringerla, di soffocarla e di schiacciarla. L’equipaggio, che non si era ancora rimesso dal terrore, non ardiva abbandonare le imbarcazioni e rimaneva sordo ai comandi del mastro d’equipaggio, il quale li incoraggiava a riprendere i buttafuori per tentar di respingere l’assalto dei ghiacci. Perfino il capitano Bak, pareva che avesse perduto il suo sangue freddo e la sua sicurezza, e non ardiva dare alcun comando, temendo di compromettere la sorte della goletta. Pure era necessario uscire, e senza perdere tempo, da quel cerchio che poteva da un istante all’altro richiudersi e imprigionarli tutti, oppure spezzarsi bruscamente e schiacciare la nave. — Signore, disse Wilkye, che forse era il solo che non aveva perduto la calma abituale, rivolgendosi verso Linderman che rimaneva muto — bisogna forzare il passaggio o qui tutti ci lascieremo la vita. — Ma dove volete andare? rispose l’armatore. Non vedete che siamo circondati? — Dinanzi a noi, se i miei occhi non s’ingannano, scorgo un passaggio aperto fra due ice-bergs. — Sarà libero? — Io non lo so, ma tutto si deve tentare. — Ma dietro vi possono essere degli altri ghiacci, signore, disse il capitano. Se ne urtiamo uno, può piombarci addosso. — E se restiamo qui, verremo imprigionati. D’altronde non tutti gli ice-bergs sono male equilibrati. — Tentiamo il passaggio, disse Linderman. Se non potremo uscire, ritorneremo. — Ai vostri posti! tuonò il capitano, volgendosi verso l’equipaggio. Se vi preme salvare la pelle, riprendete i buttafuori e respingete l’assalto. Poi curvandosi sul boccaporto: — Ingegnere: macchina avanti!... — Andiamo a fracassarci? chiese Bisby a Wilkye. — Chi può dirlo? — Io ne ho abbastanza del vostro polo e vorrei tornare a Baltimora. Corpo di un bue salato! È una vitaccia da cani questa e che mi garba poco, amicone caro. — Ormai i rimpianti sono inutili, Bisby. Io andrò innanzi, dovessi affrontare la morte ad ogni ora. — Voi, ma io?... — Lottiamo per la scienza. — Me ne infischio della scienza. — Lottiamo per la bandiera dell’Unione Americana. — Sarà una bella cosa, ma io preferirei essere ne’ miei magazzini a far denari. — Zitto: stiamo giuocando la nostra pelle. — Giuocherei quella del bisonte, brontolò il povero negoziante. Auff!..... In che avventura mi sono impegnato!..... La Stella Polare intanto, si avanzava con precauzione fra i ghiacci, che minacciavano di imprigionarla. Il capitano Bak si era messo alla ruota del timone non fidandosi, in quel supremo istante, che di sè stesso, mentre l’equipaggio si era collocato lungo le murate di babordo e di tribordo coi buttafuori, tentando di respingere l’assalto dei colossi polari. Dinanzi alla prua, si distingueva confusamente un passaggio lasciato fra una montagna ed un grande banco e pareva che si prolungasse assai. Se i due ghiaccioni, che le onde e le correnti marine trasportavano, non si chiudevano, la Stella Polare poteva evitare la prigionia. In pochi istanti la distanza fu superata e la nave si inoltrò arditamente nello stretto, procurando di mantenersi in mezzo. Aveva percorso circa tre gòmene, quando verso poppa si udirono dei tonfi che parevano prodotti dalla caduta di massi enormi e dei lunghi scricchiolii. — A tutto vapore! gridò Wilkye. La goletta, a rischio di andarsi a fracassare contro qualche banco che poteva trovarsi al di là dello stretto, si slanciò innanzi come una rondine marina. Un istante dopo, una detonazione spaventevole, paragonabile allo scoppio d’una mina o al rimbombo simultaneo di pezzi d’artiglieria, echeggiava verso il nord, seguita da due tonfi orribili. Le montagne di ghiaccio che minacciavano d’imprigionare la goletta si erano cozzate fracassandosi e si erano rovesciate. Pochi istanti di ritardo e la goletta sarebbe rimasta schiacciata! — Siamo salvi! gridò il capitano. — Urràh per la Stella Polare! urlarono i marinai. — Il mare è libero dinanzi a noi! gridò Linderman. Sia ringraziato Iddio! — Ed io vedo un fuoco, disse una voce. Che laggiù si cucinino delle bistecche?..... Per bacco! Sarebbero le benvenute. — Un fuoco! esclamarono Wilkye e Linderman. — Volete che sia cieco? chiese Bisby, che era stato lui ad annunciarlo. O laggiù si fa cucina o si fondono questi dannati ghiacci. Linderman, Wilkye e il capitano Bak guardarono nella direzione che il negoziante indicava e videro infatti, verso il sud-est, brillare attraverso il nebbione un fuoco che s’alzava e si abbassava. — Che sia una nave? chiese Linderman. I balenieri si spingono fino sulle coste delle Terre di Trinity e di Palmer. — È impossibile, disse il capitano. Con questa nebbia non si può scorgere un fanale. — Può essere il fornello che serve alla liquefazione del grasso di balena. — No, è impossibile, signore. Quel fuoco è lontano e per scorgerlo deve avere dimensioni gigantesche. — Che siano dei naufraghi? — Non lo credo. Non vedete che ora s’innalza ed ora si abbassa? Deve essere una grande colonna di fuoco. — Ditemi capitano, chiese Wilkye. Credete che siamo vicini alle Shetland? — Temo di vederle sorgere dinanzi a noi da un momento all’altro. — E di aver oltrepassato le isole degli Elefanti e del Re Giorgio? — È possibile, signore. Due ore fa mi parve di aver udito, sulla nostra sinistra, dei lontani fragori, come un rompersi di onde contro le scogliere. — Erano senza dubbio le isole Aspland e quel fuoco è prodotto dal vulcano dell’isola Bridgeman. — Ma non vedete che quel fuoco brilla a poca altezza sul mare? Se fosse un vulcano, sarebbe certamente più alto. — V’ingannate, signor Linderman. Quello dell’isola Bridgeman è il più basso che esista sul nostro globo, poiché è alto solamente quindici metri. — Un giuocattolo da ragazzi, disse Bisby. Lo porterei volentieri a Baltimora. — Sì, burlone, disse Wilkye. — Se è l’isola Bridgeman, vuol dire che abbiamo oltrepassato il 62° di latitudine e che la Terra Trinity non è lontana, osservò il capitano. Possiamo piegare con tutta sicurezza verso l’ovest. — Fatelo, disse Linderman. La Stella Polare virò di bordo e si slanciò verso quella nuova direzione che pareva sgombra di ghiacci. Ogni pericolo ormai pareva evitato, tanto più che la nebbia cominciava ancora ad alzarsi e che il sole, che doveva essere ricomparso da un paio d’ore, principiava a foracchiare qua e là quelle masse vaporose cariche di umidità. Gli uccelli cominciavano ad apparire e si vedevano volteggiare in grande numero, salutando l’astro diurno con acute strida. Erano stormi di grosse procellarie che di quando in quando si precipitavano in mare per pescare i clios boreali dai corpi allungati e membranosi e la testa formata da lobi arrotondati, o le cotte australi che sono cartilaginose, bianchicce, armate di pungoli. Si vedevano pure parecchi albatros che se la prendevano colle chimere antartiche, pesci che raggiungono sovente una lunghezza di tre piedi, ossia di un metro, colla pelle bianca argentata, la testa rotonda, il dorso munito di tre pinne ed il muso terminante in una specie di tromba che s’incurva verso la bocca. Malgrado il loro peso, gli albatros, dopo di averle colpite a morte col robusto becco, le estraevano dall’acqua e volavano verso le terre più vicine per divorarsele con loro comodo. Alle otto, quando il nebbione si dileguò, verso il nord apparve una costa alta assai e dirupata, sulla quale si vedevano volare bande immense di uccelli marini. Il capitano Bak, che aveva già visitate altre volte quelle regioni, la riconobbe subito. — È l’isola del Re Giorgio, diss’egli a Wilkye. Voi non vi eravate ingannato; il vulcano che abbiamo veduto era quello di Bridgeman. Ecco laggiù la baia del Re, più oltre lo stretto di Freld e le colline dell’isola di Nelson. — Sì, rispose Wilkye. La Stella Polare è discesa al sud passando in mezzo alle Shetland orientali, fra l’isola del Re Giorgio e quelle di Clarence e degli Elefanti. — Se i ghiacci non ci ostacolano i passaggi, fra tre giorni voi sbarcherete, disse Linderman all’americano. — Lo spero; ho fretta di mettermi in marcia. — E di raggiungere il polo, è vero? chiese l’inglese con leggiera ironia. — Sì, signore. — Coi vostri velocipedi. — Coi miei velocipedi, signor Linderman, rispose l’americano con voce asciutta. — I quali speriamo che non si guasteranno. — E perchè devono guastarsi? — Ma non avete anche pensato, signor Wilkye, che i metalli esposti alle temperature freddissime delle regioni polari, cagionano delle atroci bruciature alle mani che li toccano? — Non è cosa nuova per me, signor Linderman, che ho visitato la Groenlandia e la baia di Baffin del polo settentrionale. — E le vostre gomme credete che resistano? — E la vostra nave, credete che resista alle tremende pressioni dei ghiacci? D’altronde voi non avete veduto ancora i miei velocipedi. — Devono essere capilavori. — E andranno lontani a dispetto della vostra ironia, disse l’americano stizzito. Ci rivedremo al polo, signor Linderman, se sarete capace di giungervi. — Mi credereste forse un pauroso? chiese l’inglese, coi denti stretti. — Non ve l’ho ancora detto, ma vi sfido a raggiungermi al polo. — By-god!... Che fiducia!... Fate già conto di esservi!... Ci manca ancora molto, signor Wilkye, o meglio avete ancora da cominciare. — E voi pure. — La mia nave si avanza verso il sud. — Ed io fra poco vi precederò e pianterò prima di voi la stellata bandiera dell’Unione al polo. — To’!... to’!... esclamò Bisby, intervenendo. Ecco due uomini che minacciano di diventare idrofobi per quel dannato polo, che io regalerei tanto volentieri agli orsi bianchi. Non vale la pena di scaldarsi, amici miei, specialmente con questo freddo. Per Bacco! volete prendervi una polmonite o una costipazione? — È vero, Bisby, disse Wilkye, ridendo. È troppo presto per intavolare delle dispute: siamo ancor lontani dal polo. — Allora andiamo a fare colazione in compagnia: comincia a fare un certo freddo qui, che se non si combatte a colpi di bistecche e a bottiglie, finiremo col diventare di ghiaccio anche noi. — Olà, cuoco, dà un tocco di campana!... Il bravo negoziante prese a braccio i due rivali e li condusse sotto coperta, mentre la Stella Polare filava lungo le Shetland occidentali. CAPITOLO XII. Il continente Australe. Le isole Shetland che si dividono in due gruppi, l’occidentale e l’orientale, si estendono dinanzi alla Terra Trinity, fra quella di Palmer e di Luigi Filippo, occupando uno spazio di circa quattrocento chilometri. Il numero esatto forse non si conosce ancora, essendo state visitate da pochi navigatori, da Delaroche nel 1675 che pel primo scoprì l’isola del Re Giorgio, da Powell nel 1825, da Foster che prendeva possesso delle terre australi nel 1829, e da Biscoe, lo scopritore della Terra di Enderby, di quella d’Adelaide e di quella di Graham nel suo viaggio del 1832. Le maggiori però non sono ignote, anzi sono state accuratamente rilevate. Quella del Re Giorgio, che ha un’ampia baia verso il sud, è la più vasta; vengono quindi quella di Livingston che ha un’alta montagna chiamata Bernard, che si eleva per 3860 piedi; l’isola degli Elefanti pure con monte alto 3490 piedi, Clarence che somiglia ad uno scoglio enorme, Smith col monte Foster che è il più alto di tutti toccando i 6600 piedi, Snow, Greenwik, Robert, Nelson, Gilb, Jameson, Midle, Deception ed altre minori che possono chiamarsi semplici scogli o gruppi di scogliere. Tutte queste isole hanno un aspetto selvaggio e desolante. Le loro coste sono dirupate e sventrate dall’eterna azione delle onde; d’inverno sono coperte di nevi e cinte di immensi campi di ghiaccio che rendono l’approdo quasi impossibile; d’estate si spogliano di parte del loro candido mantello, ma su quelle rocce non crescono che delle magre piante assolutamente insufficienti a nutrire un capo di bestiame, poichè sono muschi, magri licheni appartenenti alla specie degli Usnea melanoscanthoa, pianticelle microscopiche, lecanore, ulve e qualche cespuglio di Drimys Winteri, piante somiglianti ai nostri allori, colle foglie grigio-argentee, ma la cui scorza può adoperarsi con buon successo contro lo scorbuto. Nessun abitante umano vive su quelle terre dell’oceano australe. Se su quelle dell’oceano artico, che pure sono del pari fredde e sterili, si trovano gli Esquimesi, su queste mancano gli uomini, nè si è mai avuto notizia, nè si è mai trovata alcuna vestigia di essere state un tempo abitate. Non vi si vedono che uccelli, i quali nidificano su quelle rocce a migliaia, anzi a milioni, lasciandosi avvicinare dagli uomini e talvolta uccidere a bastonate, tanto sono stupidi. Vi soggiornano pure le foche e gli elefanti marini, ma i quadrupedi mancano assolutamente, poichè non vi sono nè orsi bianchi, nè lupi, nè renne, nè buoi muschiati come nelle regioni artiche. La Stella Polare, avvistata l’isola del Re Giorgio, aveva messo la prua verso il sud-ovest per raggiungere la punta Cookburn che si trova all’estremità dell’ampio golfo di Ughes, e di là girare quella grande penisola o isola che sia, che si estende fra la Terra di Palmer e quella di Graham. Lo stato dell’oceano favoriva una rapida marcia. Quell’ampio spazio d’acqua che si estende fra la catena delle Shetland occidentale e le spiagge del continente, era affatto sgombro di ghiacci. Il vento che soffiava dal nord con qualche violenza, aveva respinto al sud quei pericolosi colossi i quali forse si erano ancora cementati ai grandi banchi che coprono, durante tutto l’anno, quelle gelide terre polari. Non bisognava però fare troppo a fidanza. Nella primavera e nell’estate dominano i venti del sud, e quei ghiacci potevano da un momento all’altro rimettersi in marcia, invadere l’oceano e mettere a mal partito la spedizione anglo-americana. Il capitano Bak non lo ignorava, ed aveva ordinato di avanzare colla massima velocità per potersi trovare alla Terra Alexandra prima che cominciasse lo sgelo, per aver tempo di esaminare quel passaggio che l’armatore supponeva esistesse. La Stella Polare filava quindi a tutto vapore entro quella specie di canale chiamato di Bransfield, che si estende fra il continente e le Shetland, ma che ha la vastità di un vero braccio di mare. Di quando in quando però, la goletta era costretta a deviare e a descrivere dei lunghi giri, per evitare dei grandi banchi di kelp. Quelle alghe gigantesche apparivano dovunque, e contorcendosi per la spinta delle onde, minacciavano d’imprigionare una seconda volta l’elica. Il 25 novembre, la temperatura, che fino allora aveva oscillato fra il due ed il quattro sotto lo zero, bruscamente si abbassò in causa del vento che cominciava a soffiare dal sud. Quantunque il sole brillasse splendidamente, il termometro si abbassò a sette centigradi. L’equipaggio ed i membri della spedizione furono costretti a indossare le pesanti vesti d’inverno e le grosse flanelle di lana, nonchè una casacca di pelle di foca fornita di cappuccio. Il solo Bisby si ribellò, malgrado i consigli del suo amico Wilkye, e si accontentò di avvolgersi nella sua famosa pelle di bisonte, senza rinunciare al suo cappello a cilindro, che secondo lui, era preferibile ai cappucci. A mezzodì alcuni ghiacci, spinti verso il nord da quel gelido vento che soffiava dal sud, apparvero, e per la prima volta il capitano Bak segnalò l’ice-blink. Questo ice-blink indica la vicinanza degli ice-fields, o immensi campi di ghiaccio. È una luce bianca, prodotta dal rifrangersi dei raggi solari sulla superficie dei ghiacci e si riflette in cielo, specialmente quando questo è coperto di nubi. Talvolta questa luce è così vivida che la si distingue anche in mezzo ai fitti nebbioni. Alle quattro pomeridiane la goletta, dopo d’aver evitati alcuni floe, che sono banchi di ghiaccio che si formano in mare pel congelamento dell’acqua, giungeva sulle coste d’un’isola che si trovava sulla sua rotta. Era quella di Deception, che è una delle più note dell’arcipelago delle Shetland australi, ed anche una delle più bizzarre, per la sua forma. È circolare e all’esterno non ha alcuna rada che offra asilo alle navi, ma nel suo interno nasconde senza dubbio il migliore e più sicuro porto di tutte le terre del nostro globo. Vi si entra per una stretta apertura situata verso il sud-est, e chi non ne conoscesse l’esistenza non potrebbe forse scorgerla, essendo racchiusa fra alte rupi o meglio fra colline. Quel comodo porto, che può contenere centinaia di navi, si chiama di Foster dal nome del navigatore che lo scoprì, ma la maggior parte dell’anno è impraticabile in causa dei ghiacci che lo bloccano. Le coste dell’isola apparivano selvagge e in gran parte coperte di neve; il monte che si eleva sulla spiaggia del nord-est, sembrava un gigantesco cono di ghiaccio, il quale scintillava come un immenso diamante ai raggi dell’astro diurno. Migliaia e migliaia di uccelli nidificavano su quelle coste, sui terreni sgombri di neve. Sull’orlo delle rupi, schierati come tanti soldati, seduti sulle loro zampe che sono situate quasi all’estremità del corpo, si vedevano bande di pinguini, stupidi volatili che mandavano rauchi e discordi grida, vedendo passare la nave. Vi erano poi battaglioni di Ænops aura, specie di avoltoi che vivono d’escrementi di foche e che quando vengono uccisi, cadendo, vomitano una quantità di sterco così puzzolente, che non si può accostarsi per raccoglierli! Furono pure vedute anche alcune foche; erano Otarie jubate, chiamate anche leoni marini. Misuravano due metri di lunghezza, avevano il pelame giallo-bruno, e al collo avevano una corta criniera che dava loro un aspetto feroce, quantunque invece siano animali paurosi. Si scaldavano al sole, in prossimità delle spiaggie, per essere pronte a guadagnare il mare al primo segnale di pericolo. Anche un elefante marino fu veduto nuotare presso le coste, ma appena vide la goletta si tuffò e non fu più possibile osservarlo, con grande dispiacere di Bisby, che avrebbe mangiato volentieri la tromba del mammifero. — Mi rifarò cogli uccelli appena saremo sbarcati, diss’egli a Wilkye. Faremo degli arrosti colossali. — Vi sfido a mangiarli allo spiedo. — Forse che non sono buoni? chiese Bisby. — Tutt’altro! Puzzano di pesce e di olio rancido ed alcuni tramandano un fetore insopportabile, cibandosi degli escrementi caldi delle foche. — Puah! — Aggiungete che questi uccelli sono duri, coriacei, contando chissà quanti anni di esistenza, poichè si dice che abbiano vita molto lunga. — Forse qualche decina d’anni? — Delle centinaia, amico mio. — Ecco una cosa che stenterò a credere, Wilkye. Mi pare un po’ grossa, che degli uccelli vivano più degli uomini. — Oh! Ve ne sono moltissimi che vivono dei secoli, Bisby. I cigni sono quelli che hanno l’esistenza più lunga di tutti, poichè in media vivono trecent’anni. — Che uccelli invidiabili! — Dopo quelli vengono i falchi che passano il secolo. Knaver asserisce di averne veduto uno che aveva centosessantadue anni. — Bell’età, per bacco, per un volatile! — Un’aquila di mare catturata già adulta nel 1715, non morì che nel 1819, cioè centoquattro anni più tardi. Un avoltoio dalla testa bianca, preso nel 1706, non morì che nel 1820 in una uccelliera del castello di Schoembrun presso Vienna. Anche i pappagalli ed i corvi invecchiano assai e passano il secolo, ma soprattutto gli uccelli di mare e delle paludi vivono lungamente, e si dice che la loro vita raggiunge quella di parecchie generazioni umane. — E gli uccelli di bosco dei nostri paesi, vivono pure molto? — Abbastanza, Bisby, ma in gabbia abbreviano la loro esistenza. Si sono vedute delle gazze prigioniere vivere venticinque anni e dei merli quindici. — E i galli che sono così succulenti? — Vivono in media vent’anni, mentre i piccioni muoiono a dieci. — Sono gran mangiatori gli uccelli? — Formidabili divoratori; facendo molto consumo di forza muscolare, hanno sempre appetito. — Allora sbaglia il proverbio che dice: mangia come un uccello, per indicare un uomo che vive con poche bricciole di pane. — Vi basti sapere che un uccello grosso come un merlo mangia in un solo pasto tanto, che in proporzione, un uomo dovrebbe divorare un’intera coscia di bue. Se la popolazione del mondo, in proporzione alla grandezza degli uccelli, mangiasse come questi, si è calcolato che occorrerebbero giornalmente cento milioni di buoi. — Basta, Wilkye; coi vostri discorsi mi avete messo indosso un certo appetito, che faccio suonare la campana della cena. — Divoratore!... — Per Bacco!... Se voglio ingrassare e detronizzare Dorkin, bisogna bene che mangi. — Aumentate, almeno? — Non c’è male: sono cresciuto di due chilogrammi. — È molto, in poco più di quindici giorni. — Poco, poco, amico mio, ma conto di guadagnare molto sul continente australe. Durante la notte, la Stella Polare fu costretta a diminuire la sua corsa, essendo il mare cosparso di nuovi massi di ghiaccio che provenivano dal vasto golfo di Ughes, spinti verso il nord dal vento australe. Erano specialmente accumulati attorno alle roccie di Kendal e di Austin, le quali formano un gruppo di scogliere assai pericolose, fra Déception e la costa della Terra di Trinity. Fortunatamente il sole, che brillava sempre, non tramontando che a mezzanotte e solamente per un paio di ore, permetteva di distinguere quei colossi i quali brillavano vivamente rivestendosi dei più bei colori. Mentre quelli che si trovavano presso il continente, scintillavano come diamanti, avendo il sole in faccia, gli altri, che lo avevano dietro, parevano montagne di fuoco. Alla mezzanotte la Stella Polare navigava nelle acque del golfo di Ughes. Questa profonda insenatura che viene formata dalla Terra Trinity all’est e dalla penisola della Terra di Palmer, ha una larghezza di quasi tre gradi, ossia di cent’ottanta miglia e nel suo seno racchiude parecchie isole fra le quali quella di Hossason, che è la maggiore, e quella Possession. Essendo l’atmosfera limpida, si poteva scorgere, senza l’aiuto del cannocchiale, il monte Parry, situato sulla penisola di Palmer, all’entrata della baia di Dalhnam. Alle sette del mattino, Wilkye, che era salito in coperta, segnalava la Terra di Palmer e precisamente il capo Cookburn che ne forma l’estrema punta. Quella costa, scoperta da un cacciatore di foche americano, che si chiamava Palmer, verso il 1822, e che più tardi fu visitata da Foster nel 1829 e da Biscoë nel 1832, è situata fra la Terra Trinity e quella di Graham, ed ha uno sviluppo di circa cinque gradi, dall’est all’ovest. È una regione desolata al pari delle altre, coperta di ghiacci e di nevi e abitata solamente dagli uccelli marini. Forma alcuni golfi come quelli di Ughes e di Dalhnam, ma che sono quasi sempre chiusi dai campi di ghiaccio; ha alcune montagne e lungo le coste poche isole dirupate, sterili, inabitabili per l’uomo. Nessuno ha mai esplorato l’interno, ma tutto induce a credere che formi parte del continente australe. Forse una parte sola è staccata e forma un’isola di grande estensione: questa sarebbe quella gran penisola che si scorge all’ovest, la quale verso l’est si assottiglia considerevolmente, formando due profondi canali uno dei quali chiamasi di Roosen. I ghiacci però, hanno impedito agli esploratori di accertare se quel tratto di terra sia una isola o una penisola. La costa che si mostrava agli occhi della spedizione anglo-americana, era tale da far impallidire i più audaci. Una immensa muraglia di ghiaccio, alta per lo meno ottanta metri, compatta tanto da sfidare lo sperone delle più potenti corazzate ed i più tremendi congegni di distruzione, la cingeva a perdita di vista. Ai piedi di quell’enorme bastione messo a difesa del continente australe, si rizzava un vero caos di ice-bergs, di hummok, di banchi di ghiaccio e laggiù echeggiavano sorde detonazioni, s’udivano cupi brontolii prodotti forse dalle forti pressioni di quei giganti polari, poi scoppi violenti e scricchiolii prolungati. Di tratto in tratto uno di quei monti, compresso dai vicini, perdeva l’equilibrio e piombava con orribile fracasso sui campi di ghiaccio, che sfondava coll’enorme suo peso. Altre volte invece era un masso di dimensioni colossali, del peso di parecchie centinaia di tonnellate, che si staccava dal bastione e si precipitava sopra quel caos di banchi e di ice-bergs. Allora si frantumavano le punte delle montagne, scoppiavano i floe ed i palk, una voragine si apriva là in mezzo ed il mare schizzava fuori con impeto irresistibile, correndo in forma di un’alta ondata, frangendosi e rifrangendosi con lunghi muggiti fra tutti quegli ostacoli. Wilkye, Linderman e il capitano erano assorti nella contemplazione di quello spettacolo, quando si udì Bisby a urlare: — Aiuto!... Un orso marino!... Tre colpi di fucile echeggiarono un istante dopo, formando una sola detonazione, seguiti dalla voce del mastro d’equipaggio che gridava: — È preso!... — Che cosa? chiesero Wilkye e Linderman. — L’orso, rispose Bisby. — No, signori, è un elefante marino, disse il mastro. Eccolo che torna a galla; ci fornirà una cena e quattro barili d’olio. — Mettete una scialuppa in mare, comandò il capitano. L’olio è troppo prezioso in questa regione, per perderlo. CAPITOLO XIII. La Terra di Palmer. Gli elefanti marini appartengono al genere dei mammiferi, all’ordine dei cetacei ed alla famiglia delle foche ma si può dire che per la loro struttura singolare formano un gruppo a parte. Sono senza dubbio i più stravaganti animali delle regioni australi ed anche i più grossi, poichè misurano sovente otto metri di lunghezza e cinque di circonferenza. Non si trovano che in quelle regioni e solamente fra il 35° e il 60° di longitudine, ma spesso salgono verso il nord e sono abbastanza numerosi anche sulle coste della Georgia e delle isole di Tristan d’Acunha e qualche volta si mostrano perfino presso le Falkland e l’isola di Juan Fernandez. I francesi li chiamano éléphants marins, gl’Inglesi éléphants seal, e gli altri macrorini. Comunque sia, questi anfibi sono veri elefanti, parlando dei maschi, poichè posseggono una vera proboscide che diventa lunga un buon piede quando l’animale è irritato e si prepara ad assalire od a difendersi. Quando invece è calmo si accorcia, diviene floscia, ma più grossa. Questi colossi hanno la pelle rugosa, grossa, coperta d’un pelame corto e fitto, color bigio cenerognolo, le zampe natatoie, che somigliano a quelle delle foche, assai sviluppate, occhi grandi e sporgenti, orecchie sprovviste di padiglione esterno, denti ricurvi e robustissimi, senza essere molto lunghi. Le femmine sono diverse però: sono più piccole, hanno il pelo bruno sopra e giallognolo sotto il ventre, non hanno unghie alle dita posteriori, e quel che è più strano, sono prive della proboscide. Abitano le coste delle isole polari o del continente dove si divertono a guazzare nei pantani ed a tuffarsi nel mare, essendo abilissimi nuotatori. In terra invece, pesanti come sono, camminano con fatica estrema, anzi a vederli, si direbbe che soffrano assai, poichè il loro corpo trema come se fosse un enorme sacco di gelatina e i loro occhi s’iniettano di sangue. Malgrado ciò e la lentezza delle loro mosse, essendo costretti a fermarsi per riposare ogni dodici o quindici passi, intraprendono dei veri viaggi per cercare l’acqua dolce, della quale sono estremamente ghiotti. Se ne sono veduti alcuni salire delle rupi alte dieci o dodici metri, per trovare dei serbatoi d’acqua dolce. Non sono, questi anfibi, pericolosi, poichè, non possedendo armi difensive, sfuggono l’uomo che è il solo nemico che hanno da temere. Sono però diffidenti, si tuffano al più piccolo rumore e si possono prendere solamente quando dormono a fior d’acqua. I balenieri ne hanno distrutti moltissimi e continuano a cacciarli con accanimento, poichè se la loro carne è nera e cattiva, la loro lingua è eccellente, la loro pelle è pregiata, adoperandosi nella fabbricazione delle vetture e dei finimenti dei cavalli, e l’olio che si estrae dal loro grasso è uno dei migliori, essendo chiaro, inodore, di gusto non cattivo, poichè non inrancidisce ed è preferibile agli altri olii illuminanti. Da un solo animale si può estrarne perfino millecinquecento libbre, essendo la parte oleifera del loro grasso, densa quanto quella delle balene. Quello ucciso dall’equipaggio della goletta, era stato sorpreso mentre dormiva a fior d’acqua, lasciandosi cullare dalle onde. Svegliatosi bruscamente al rumore dell’elica, aveva subito cercato d’inabissarsi, ma tre marinai, che si erano affrettati ad armarsi di fucili, lo avevano colpito al capo con tale precisione da fulminarlo. La scialuppa messa tosto in acqua fu spinta verso l’elefante marino il quale fu rimorchiato sotto il tribordo della goletta. Si dovette mettere in opera il verricello a vapore per issare quella massa enorme, che pesava non meno di tremila chilogrammi. Fu subito fatto a pezzi, gli venne estratta la lingua che diventa squisita quando è tenuta in sale per qualche tempo, levato il cuore che non è cattivo quantunque sia duro e tiglioso, e venne raccolto il grasso per farlo fondere e quindi filtrare. Il carcame che non serve a nulla, essendo la carne di questi colossi estremamente impregnata d’olio e coriacea, fu gettato in mare a pasto dei pesci. La goletta si era intanto rimessa in moto e filava lungo le coste della Terra di Palmer, per raggiungere lo stretto di Bismark, punto scelto per lo sbarco della spedizione americana. Il capo Grönland, che è situato all’estremità di quella specie di penisola o isola che sia, che si distende fra la baia di Dalhnam e il canale di Roosen, era già visibile ed in mezzo ai ghiacci si distinguevano pure le isolette di Paul che formano un piccolo gruppo. Di chilometro in chilometro che la Stella Polare avanzava al sud, la temperatura diventava più fredda, quantunque l’estate si appressasse. Il sole non poteva vincere le correnti d’aria del sud, che diventano eccessivamente fredde passando sopra gli immensi ghiacci ed i deserti di neve del continente australe. Nondimeno lo sgelo era cominciato ed aumentava dalle undici antimeridiane alle cinque pomeridiane. I ghiacci si fendevano e si staccavano dalle coste del continente, filando verso il nord, e dai fianchi di quei colossi scendevano cascatelle d’acqua, che però gelavano durante la notte. Anche i grandi ghiacciai del continente erano in moto e di tratto in tratto, fra le rocce della costa, piombavano in mare, con orribile fracasso, dei massi enormi che dovevano pesare parecchie centinaia di tonnellate. — Ma da dove vengono questi ghiacci? chiese Bisby a Wilkye, nel momento in cui una vera montagna scivolava in mare. C’è la fabbrica su quelle coste? — Vengono dai ghiacciai che sono numerosissimi sul continente australe. Si potrebbe anzi dire, che tutto l’interno forma un ghiacciaio solo. — Ma questi ghiacciai, cosa sono infine? — Veri fiumi di ghiaccio, Bisby, o meglio ancora, correnti di ghiaccio. — Ma si muovono quei ghiacciai? — Sempre, amico mio. Le nevi che si accumulano durante l’inverno non tardano a congelarsi, ed essendo le terre, per natura, inclinate più o meno bruscamente verso i mari, i ghiacci cominciano a scivolare. La loro marcia è lentissima d’inverno, ma, quando comincia lo sgelo diventa più rapida e camminano finchè giungono al mare. Sono i ghiacciai che gettano gli ice-bergs, poichè questi, come già vi dissi, non possono formarsi in pieno mare e nemmeno intorno alle spiaggie. — La velocità dei ghiacci è considerevole? — Varia, in media, dai dodici ai quindici centimetri per giorno. — Una velocità da lumaca; è eguale in tutto il corso? — No, poichè il movimento è più rapido nel mezzo che ai lati come nei fiumi, più alla superficie che sotto. — Ma allora non è tutto compatto quel ghiaccio? — No poichè si fende, si allarga o si restringe, ma giunge al mare compatto. — Deve essere enorme la massa di ghiaccio che scaricano in mare! — Si calcola che ognuno ne getti non meno di cinquecento milioni di metri cubi. — Esistono solamente qui? — Ve ne sono dappertutto, Bisby. La regione artica ne conta moltissimi: ve ne sono allo Spitzberg, in Groenlandia, nelle isole polari, e molti ve ne sono anche in Asia, in America ed in Europa, fra le più alte montagne. — Vorrei vederne uno, Wilkye. — Ne vedrete più d’uno quando saremo sbarcati sulla terra di Graham. Il 27 novembre, verso le otto del mattino, la Stella Polare giungeva di faccia al monte William, cono colossale che si erge quasi di fronte alle isolette di Rosenthal, a 65° 20 latitudine sud. La veduta che quell’alta montagna dirupata offriva, era spaventevole ed insieme bella. Sui suoi fianchi si vedevano rotolare di tratto in tratto degli enormi ghiaccioni staccati dallo sgelo e il rimbombo che producevano, frantumandosi nei burroni sottostanti, giungeva fino agli orecchi dell’equipaggio. La sua cima bianca, immacolata, mai calcata da piede umano, scintillava e si tingeva dei più splendidi colori dell’iride. A mezzodì però anche quel cono scompariva. La goletta filava a tutto vapore, bruciando carbone senza risparmio. Pareva che Linderman avesse fretta di sbarazzarsi della spedizione americana. Già dopo l’ultimo bisticcio con Wilkye, era diventato di umore nero. Evitava l’avversario e si teneva chiuso nella sua cabina quasi tutto il giorno, non uscendo che all’ora dei pasti. Voleva evitare nuovi attriti, oppure la vista di quella costa difesa da quei giganteschi bastioni di ghiaccio che non offrivano passaggio ad alcuna nave e che non accennavano a sciogliersi (quantunque la stagione fosse già avanzata) cominciava a preoccuparlo? Forse questo era il vero motivo, poichè la sera del 27, mentre la Stella Polare stava per girare l’estrema punta della penisola, dirigendosi verso le isole Grosler, che si trovano quasi all’imboccatura dello stretto di Roosen, dopo di aver a lungo esitato, abbordò Wilkye che passeggiava sul ponte in compagnia di Bisby. — Che ne dite di questo ritardo dello sgelo? gli chiese a bruciapelo. — Nulla, signore, rispose l’americano. — Non vi sorprende? — No, poichè tutti gli altri esploratori australi hanno notato che in queste regioni lo sgelo non è mai completo, ma solamente parziale e di brevissima durata. — Ma credete voi, che non si apra questa enorme muraglia di ghiaccio? — Forse, quando saremo in piena estate, ma si rinchiuderà troppo presto. — Se non si apre, dove passerà la mia nave? — È affare che riguarda voi. — Lo so, ma anche voi forse. — Cosa importa a me che lo sgelo avvenga o no? Coi miei velocipedi posso avanzare sia attraverso ai ghiacci che alle nude terre, disse Wilkye. — Sicchè voi non avete alcuna fiducia nel mio tentativo. — Temo che i ghiacci vi arrestino ben presto. — Avanzerò, dovessi sfracellare la mia nave e andare al polo a piedi. — Ciò riguarda voi. — E voi anche. Se la mia nave si spezza, chi vi trasporterà in America? — E chi ricondurrà in patria il vostro equipaggio? — È vero, disse l’armatore, la cui fronte si era rannuvolata. La perdita della mia nave sarebbe la rovina di entrambi. Quanto tempo calcolate d’impiegare per giungere al polo? — Tutto dipende dalle circostanze e dagli ostacoli che incontrerò, ma io spero di ritornare alla costa prima che ricominci il gelo. Colà aspetterò la vostra Stella Polare. — E se un disastro colpisse la mia spedizione? — Ho una scialuppa di mia proprietà e con quella cercherò di raggiungere la Terra del Fuoco; e voi, quando sperate di ritornare? — Quando avrò raggiunto il polo, disse Linderman con voce risoluta. — Ma se la vostra nave non potesse inoltrarsi? — Lo raggiungerò a piedi. — E come ritornerete in America? — Colle scialuppe. — Ma una marcia a piedi al polo richiederà molti mesi. — Non importa: sono deciso a tutto. — In tal caso non so se mi troverete allo stretto di Bismark. Ai primi geli, se non vi vedo comparire, abbandonerò il continente. — È cosa che poco m’interessa. Mi sorprende però la vostra fiducia di raggiungere il polo — disse con marcata ironia. — Mentre voi cominciate a dubitare della vostra spedizione, è vero, signor Linderman? disse Wilkye con non minore ironia. — È una supposizione vostra — ribattè l’armatore con sorda rabbia. — Io riuscirò nel mio intento, dovessi avventare la mia nave attraverso i ghiacci e perdere tre quarti del mio equipaggio, e voi rimarrete a metà strada coi vostri famosi velocipedi. Ah!... vorrei vedervi alle prese coi freddi intensi, colle nevi, coi ghiacci, ed avrete anche da lottare colla fame. Rammentatevelo, signor americano: sul continente polare voi non siete più mio ospite, ma sarete mio rivale ed io non vi porgerò soccorso alcuno!...... — Siamo già intesi, signor inglese: ognuno agirà per proprio conto. In quell’istante si udì il capitano Bak a gridare dall’alto del ponte di comando: — Lo stretto di Bismark!...... CAPITOLO XIV. La separazione. Lo stretto di Bismark, sulle cui sponde la spedizione americana contava di accamparsi prima di intraprendere le mosse verso il polo australe, è una specie di canale che s’inoltra fra la Terra di Palmer e quella di Graham. Dinanzi si trova un arcipelago di isole deserte che chiamansi Elisabeth, Friedburg, Peterman, Krogman e Doot; più oltre, verso l’ovest, al di là del 65° meridiano, si trova invece quello di Pitt e più lontano, quello considerevole di Biscoë, scoperto dal navigatore omonimo nel 1832. Nessuno ha mai esplorato quello stretto, essendosi limitati, i navigatori che mossero alla scoperta di quelle terre, a visitare solamente le coste. Infatti nè Palmer che le esplorò nel 1822, nè Foster, che intraprese la spedizione nel 1829, nè Biscoë osarono affrontare i ghiacci e cimentare le loro navi fra le spiaggie di quel braccio di mare; quindi si ignora se si prolunghi assai entro il continente o se sia semplicemente un grande fiord. Ciò però non aveva nessuna importanza per la spedizione americana, che contava di giungere al polo per la via di terra e non per acqua. Del resto, tentarne l’esplorazione, almeno pel momento, sarebbe stata una pazzia, poichè quello stretto era bloccato da ghiacci così enormi, da sfidare gli speroni delle navi più potenti. La Stella Polare, che aveva fretta di ripartire colla spedizione inglese, mosse verso la punta settentrionale dello stretto, la quale scendeva dolcemente verso il mare, unendosi ad un banco di ghiaccio che aveva un’estensione di oltre mille metri. Giunta presso il banco, il capitano Back fece mettere in mare le scialuppe, ormeggiare solidamente la nave ad un piccolo ice-berg, poi ordinò lo scarico del materiale appartenente alla spedizione americana. Wilkye fece scendere a terra i marinai americani che aveva condotto con sè, sei pezzi d’uomini alti come granatieri, robusti come tori, colle spalle larghe, i volti abbronzati dai venti del mare e dalla salsedine, poi i due velocipedisti. Tosto l’equipaggio inglese cominciò lo scarico, accumulando sul banco una considerevole quantità di legnami che parevano destinati a qualche costruzione, un gran numero di casse, di barili, di colli di proporzioni gigantesche e una provvista di carbone calcolata a due tonnellate e quindi calò una scialuppa che poteva contenere comodamente tutti i membri della spedizione. — Vi manca nulla? chiese Linderman a Wilkye, che numerava con grande attenzione tutti quegli oggetti. — No, signore, rispose l’americano. — Allora riparto. — Vi auguro di raggiungermi al polo. — Ed io vi auguro che non vi possiate giungere, rispose l’armatore ruvidamente. — Forse che vi spiacerebbe di dividere con me l’onore di aver scoperto il polo australe? — Preferisco che lo scopra un inglese solo, anziché un inglese ed un americano. — Lo vedremo, signore. Gli si avvicinò e gli stese la mano, ma l’armatore fece un passo indietro dicendo: — Non siete più mio ospite ma un rivale e un accanito rivale. La guerra è dichiarata fra noi. — Conto però sul vostro ritorno per riguadagnare l’America: tale è il patto. — Lo manterrò se...... — Che cosa? chiese Wilkye, aggrottando la fronte. Sareste capace voi...... — No, esclamò l’armatore. Datemi la mano, signor Wilkye, voi siete troppo generoso e quantunque rivali, lottiamo pel trionfo della scienza. Si strinsero cordialmente la mano e si lasciarono augurandosi un felice viaggio. Bisby, commosso, gettò le braccia al collo dell’armatore e discese sul banco urlando: — Urrah per il polo!...... La Stella Polare aveva ritirato l’ormeggio. Lanciò un fischio acuto che si ripercosse stranamente su quelle immense muraglie di ghiaccio e ripartì a gran vapore verso il sud, filando fra le isole e la costa. Sul cassero si scorgeva Linderman, colle braccia incrociate sul petto, in attitudine pensierosa e lungo le murate l’intero equipaggio che teneva gli occhi fissi sul banco. Anche Wilkye si era spinto fino sull’orlo del ghiaccione, e guardava la rapida goletta che si allontanava: anche lui pareva pensieroso, preoccupato. Poco dopo la Stella Polare scompariva dietro all’isola Boot e sull’orizzonte fosco, altro non si vide che un leggier pennacchio di fumo. — Quale sorte l’attenderà? mormorò l’americano. Il tempo forse me lo dirà! — Avete finito di guardarli? chiese Bisby. Io comincio ad avere freddo in mezzo a questo ghiaccio e rosicchierei volentieri una costoletta accanto ad un buon fuoco. — Mi chiedevo come finirà quella rapida nave, disse Wilkye. — Come volete che finisca? Farà un viaggetto fra i ghiacci e poi tornerà a prenderci. — Temo il contrario, Bisby: noi non la rivedremo più. — E perchè? — Perchè Linderman, piuttosto che retrocedere, la frantumerà fra i ghiacci per trascinare il suo equipaggio verso il polo. — E noi? chiese il negoziante, impallidendo. Bell’affare se ci abbandonassero su queste coste!..... Se sapevo ciò prima, vi assicuro che non mi muovevo da Baltimòra. Come torneremo noi a casa? Volete vivere eternamente fra questi ghiacci, come gli orsi bianchi? Vi ripeto che ormai ne ho abbastanza del polo, e sarei ben contento di tornarmene agli Stati Uniti. — Tò! Dov’è andato tutto il vostro entusiasmo per la spedizione? È sfumato, ora che cominciamo il viaggio? Finchè eravate a bordo della goletta, dove mangiavate e bevevate a vostro piacimento e dormivate tranquillamente in una comoda cabina, volevate vedere il polo; ed ora cominciate a spaventarvi? — È vero, amico mio, ma questo paese comincia a mettermi indosso delle malinconie. Cosa volete? Io non sono nato per i viaggi. — Se volete ritornare a casa, accomodatevi, disse Wilkye, ridendo. Il nord è lassù. — Scherzate, Wilkye, ma ora cosa faremo? Vi confesso che non mi trovo troppo bene su questo banco e con questo freddo. — Fra poco avremo una capanna. — Ed una pentola che bolle? — Anche la pentola. — Allora affrettiamoci. — Vi metto anche voi al lavoro; vi scalderete. — Purchè non diventi magro! — Tutt’altro, mangerete il doppio. — Allora sono a vostra disposizione. — Cominciamo a costruire la capanna: sarà il nostro quartier generale ed il nostro magazzino. — Ma dove la rizzerete? Sul ghiaccio forse? — Volete costruirla sulle roccie? Bisognerebbe rompere uno strato di ghiaccio di quindici o venti metri. — Ma non geleremo noi? — Staremo caldi egualmente, Bisby. Orsù, al lavoro; bisogna trasportare tutto questo legname al di là del banco, poi penseremo a trascinare tutti questi colli, queste casse e le botti. I sei marinai, i due velocipedisti, il negoziante e lo stesso Wilkye si misero tosto in moto. Essendo il sole tosto al tramonto, la temperatura scendeva con rapidità, ed era necessario procurarsi un pronto ricovero. Quei dieci uomini si caricarono di legname e si diressero verso la costa che era lontana solamente sei o settecento metri. Trovato un luogo, ai piedi di una grande rupe che doveva ripararli dai gelidi venti del sud, Wilkye, aiutato da Bisby diede mano alla costruzione, mentre i marinai ed i due velocipedisti tornavano sul banco per riportare gli altri pezzi. L’erezione di quella capanna non doveva essere lunga, poichè i legnami erano stati costruiti appositamente e numerati. Bastava unire i diversi pezzi e saldarli con poche viti. Tre ore furono sufficienti per ottenere un comodo ricovero, a due tetti spioventi, diviso in quattro stanze, lungo dodici metri e largo sei. Le tavole erano così unite da impedire l’accesso al freddo, ma Wilkye e Bisby, per conservare meglio il calore interno, turarono ermeticamente le fessure mediante strisce di grossa carta incatramata, come usano i coloni danesi della Groenlandia e gl’Islandesi. Per evitare il contatto col ghiaccio, stesero in tutte le stanze della grossa tela da vele, sovrapponendovi dei tappeti di feltro per meglio combattere l’umidità che in quei climi può essere causa di serii malanni. Infine nella stanza centrale, che doveva essere il salotto da pranzo, collocarono una stufa di ferro, fornita d’un tubo assai curvo, per impedire che il calore si espandesse troppo facilmente al di fuori. Bisby era più che soddisfatto e non finiva di ammirare e di lodare le comodità di questa casetta, che egli chiamava pomposamente «palazzo d’inverno». Faceva progetti sovra progetti; si prometteva di dare dei festini da ballo, di passare delle serate allegre e soprattutto di offrire dei pranzi poco meno che luculliani. Contava poi specialmente d’ingrassarsi accanto alla stufa e per serbarsi i migliori bocconi o per tema che il cuciniere volesse fare delle economie, si proclamò il cuoco della spedizione. La proposta venne accettata fra la generale ilarità, ma Wilkye si credette in dovere di avvisarlo che i loro viveri erano limitati, e che quelli esistenti dovevano durare sei mesi, non potendosi contare, con certezza, sul ritorno della Stella Polare. Erano allora le tre del mattino e non avevano ancora chiuso occhio. Quantunque il sole cominciasse ad alzarsi sull’orizzonte, la temperatura era così fredda su quella costa, da gelare il naso e le mani. Wilkye fece accendere la stufa e accordò un riposo di alcune ore prima di trasportare alla capanna tutte le casse, le botti ed i colli sbarcati dalla goletta. Tutti approfittarono per fare una dormita accanto alla stufa, che russava allegramente, spandendo nella capanna un dolce tepore. Bisby fu il primo a dare l’esempio, coricandosi sulla sua famosa pelle di bisonte. Un riposo di cinque ore fu più che sufficiente per rimettere tutti in forze. Dopo d’aver bevuto una tazza di thè bollente, ripresero il difficile e faticoso lavoro. Le botti, le casse, i colli, spinti o rotolati sul banco di ghiaccio e poi issati sulla costa, furono accumulati intorno alla capanna, dove Wilkye li esaminava con minuziosa attenzione e li metteva poi in una stanza aiutato da Bisby e dai due velocipedisti. — Abbiamo tutto? chiese il negoziante, quando il trasporto fu ultimato. — Non manca nulla, rispose Wilkye. — Si possono conoscere ora le nostre ricchezze? Come cuoco della spedizione, bisogna che sappia dove potrò trovare la carne, la farina e gl’ingredienti necessari ai miei succulenti pasticci. — Ho collocato tutto a posto: tutti quei barili contengono i viveri; queste casse i velocipedi, le armi, le munizioni, gli strumenti necessari pei miei calcoli e per le mie osservazioni e gli attrezzi della scialuppa; quei colli le vesti, le coperte, le brande, i materassi, le tende, ecc. — Abbiamo viveri per molti mesi? — Per sei, calcolate dieci persone. — Sono pochini, Wilkye, disse Bisby. Dovevate calcolare che io sono venuto al polo per ingrassare. — Sono sufficienti, rispose Wilkye. ridendo. E poi non calcolate la caccia? Troveremo delle otarie, degli uccelli.... — E degli orsi? — Non ve ne sono al polo australe, ve l’ho già detto. — I nostri viveri, in cosa consistono? — In quei barili troverete biscotti, farine, porco salato... — Delizioso! esclamò Bisby. So arrostirlo molto bene. — Del thè, che è indispensabile in questo clima, del caffè, della cioccolata, zucchero, pesce secco, grasso, fagiuoli, pomi di terra, una grossa provvista di pemmican. — Cos’è questo pemmican? — Serve per fare delle zuppe assai nutritive. È composto di carne secca ben battuta, ridotta quasi in polvere, e di grasso. Basta mettere a bollire un po’ di quella miscela ed otterrete un brodo eccellente. — Piatto spiccio: benissimo. — Poi troverete dei cavoli in aceto, necessari per combattere lo scorbuto, del succo di limone, che è un buon antiscorbutico, delle frutta secche, ecc. Siete contento? — Contentissimo, Wilkye; ma quando andremo al polo, come faremo a portare con noi tutte queste provviste? — Le lascio qui, sotto la vostra custodia. — Sotto la mia custodia? Ma rimarrò qui io? — Sì, coi marinai. — Ma qual’è il vostro progetto? — Ve lo spiegherò a tavola. Signor cuoco, è mezzodì, ed i marinai cominciano ad aver fame. — Sentivo anch’io un certo vuoto nel mio stomaco! Al lavoro! Il ghiottone non perdette tempo. Aiutato da un marinaio, da lui nominato sotto-cuoco, aprì i barili contenenti i viveri e mise sul fornello due pentole di ferro per far sciogliere la neve, non essendo possibile, con quel freddo intenso, trovare una goccia d’acqua. Poco dopo nella capanna si spandevano dei profumi appetitosi, i quali indicavano come il cuoco non facesse risparmio di condimenti. Alle due pentole che grillettavano allegramente, egli aveva aggiunto dei pentolini entro i quali friggevano certe frittelle, che promettevano di essere deliziose. Due ore dopo Bisby annunciava, con voce maestosa, che il pranzo era pronto. Tutti si assisero a tavola e assalirono vigorosamente i cibi. Il cuoco si era fatto onore, fin troppo, poichè se avesse continuato ad ammannire pranzi simili, non avrebbe tardato a dare fondo alle provviste. Una zuppa squisita fatta con brodo di pemmican, del bue in stufato, del maiale arrostito, dei fagioli conditi, dei cavoli in aceto, del pesce in salsa piccante e delle frittelle, costituivano la minuta. Il ghiottone vi aveva aggiunto un prosciutto salato, del formaggio, delle frutta secche e parecchie bottiglie. — Voi mi volete rovinare, disse Wilkye. Il pranzo è delizioso, ma se non vi moderate, consumerete le provviste in due mesi. — Caccieremo! amico mio, rispose il negoziante, che divorava per quattro. — Ma la selvaggina può diventare scarsa, Bisby. — Voi mi spaventate. — Non ho questa intenzione, vi dico solo per prudenza di essere economo. In questa regione non vi sono provveditori, ci possono toccare centomila disgrazie, possiamo essere costretti a passare fra questi ghiacci dei mesi e forse qualche anno. — Ma allora cosa accadrà di noi! esclamò Bisby, impallidendo. Corro il pericolo di tornare in America secco come un merluzzo, anzichè grasso come un elefante marino, e di farmi espellere dalla Società degli uomini grassi, anzichè diventarne il presidente. — Tutto può accadere in questo continente, che non ha un solo abitante che ci possa soccorrere. Spero però di compiere la spedizione in breve tempo e di lasciare queste regioni prima che il tremendo inverno ci piombi addosso. — Ma quali sono adunque i vostri progetti? Noi tutti li ignoriamo. — Sì, spiegatevi, dissero tutti. — Servite quel punch che fiammeggia, disse Wilkye a Bisby, poi accendete le pipe e vi spiegherò ogni cosa. CAPITOLO XV. La spedizione polare. Riempite le tazze dell’ardente bevanda e accese le pipe, Wilkye spiegò sulla tavola una carta del polo australe, sulla quale si vedevano tracciate tutte le esplorazioni eseguite dal Gherith, da Bellinghausen, da Brunsfield, da Morrel, da Powel, da Weddel, da Foster, da Biscoë, da Dumont d’Urville, da Welkes, da Balleny e da Giacomo Clarke Ross che fu, si può dire, l’ultimo che mosse alla scoperta del continente polare. Egli posò l’estremità dell’indice sopra un punto e mostrando ai compagni una crocetta rossa che pareva fatta di recente, disse: — Questo è il luogo dove noi attualmente ci troviamo, il quale è situato sui confini, si può dire, della Terra di Graham, calcolato che lo stretto di Bismark la divida da quella di Palmer. Gettate uno sguardo su questo continente polare, così irregolarmente disegnato, ed i cui margini spesso mancano, e contate quanti paralleli vi sono fra il luogo ove ci troviamo ed il polo australe. — Circa venticinque gradi, dissero i marinai. — Dunque noi ci troviamo a circa millecinquecento miglia dal polo. — Così lontani! esclamò Bisby. Eppure allargando le mie dita tocco il polo e la costa di Graham. — Avrei potuto, riprese Wilkye, scendere più al sud colla Stella Polare e cercar di abbreviare questa distanza che è enorme; ma ho pensato che avrei potuto affrontare tali pericoli, da compromettere gravemente la nostra spedizione. Questo continente è più pericoloso, più aspro, più coperto di ghiacci delle regioni del polo Artico, e le spedizioni tentate colle navi, non hanno mai dato splendidi risultati. Nessuno è riuscito a sorpassare il 78° 9' 30" di latitudine, e quasi tutti gli esploratori sono stati costretti a svernare fra questi deserti di ghiaccio. A me preme di affrettare il tentativo di raggiungere il polo e bisogna che lo compia prima che sia terminato lo sgelo, o nessuno tornerebbe vivo alla costa. Credo quindi di aver agito prudentemente sbarcando qui, senza perdere un tempo preziosissimo seguendo la Stella Polare verso il sud. In un mese, se Dio ci aiuta, noi possiamo essere di ritorno e pronti a rimetterci in mare, anche senza attendere la Stella Polare. — Con la scialuppa? chiesero i marinai. — Sì, amici miei. — Ma dunque contate di partire subito pel polo, disse Bisby. — Fra qualche giorno. Silenzio ed ascoltatemi. Wilkye sorseggiò la sua tazza, poi riprese: — Vi spiegherò ora il mio piano: come voi già sapete, io tenterò di raggiungere il polo in velocipede. Tutti gli esploratori antartici hanno osservato che il continente polare è generalmente piano e che i suoi campi di ghiaccio non sono così scabrosi come quelli delle regioni artiche. Essendo posti sulla terra, non hanno spaccature, non hanno sollevamenti e forse non soffrono pressioni. Una marcia a piedi si potrebbe fare con maggiore riuscita che nelle regioni nordiche, ma la distanza dalla costa al polo sarebbe troppa per un equipaggio che è costretto a portarsi dietro un pesante bagaglio. Ho quindi ideato di raggiungere il polo in velocipede. Solamente una marcia rapidissima può dare dei felici risultati, poichè un lungo soggiorno fra questi immensi campi di ghiaccio potrebbe tornare fatale agli uomini: possono mancare i viveri, piombare improvvisamente i terribili geli e assiderare le membra o incancrenirle e sopraggiungere lo scorbuto, questo grave male che ha arrestate tutte le spedizioni polari tentate per terra. Il velocipede che io adopererò, non è di quelli soliti. È una macchina fatta costruire appositamente e con grande diligenza, munita di otto ruote, fornita d’un piccolo motore a petrolio, capace di portare tre uomini e un carico di duecento chilogrammi e di raggiungere una velocità di venticinque a trenta miglia all’ora. — Un velocipede a vapore! esclamò Bisby. Ma allora non avevate bisogno di velocipedisti. — Anzi, ne ho assoluto bisogno, Bisby, disse Wilkye. Il mio velocipede è costruito in modo, da potersi dividere ottenendo tre biciclette, le quali, come potete facilmente immaginare, non potranno avanzare che mosse dai piedi degli uomini. Mi tocca una disgrazia qualsiasi? Si spezza o si guasta la macchina o esaurisco la provvista di petrolio (ciò che mi accadrà senza dubbio nel ritorno, non potendo portarne con me una provvista considerevole), io divido il mio velocipede ed ecco ottenute tre biciclette pronte a ripartire. — Ben ideato! esclamò Bisby. E quanto tempo contate di impiegare, per giungere al polo? — Se non incontrerò ostacoli, marciando dodici ore al giorno, calcolo di giungervi in cinque giorni, ma non voglio essere troppo ottimista, e metterò invece dieci giorni. — Dunque fra venti giorni voi potrete essere di ritorno. — Lo potrei, ma chi può assicurarlo? Sarà cosa prudente portare con me i viveri sufficienti per quaranta giorni. — Ma noi? chiese Bisby. — Voi rimarrete qui coi marinai e ci attenderete. Condurvi tutti al polo è impossibile e poi, chissà quali vicende ci attendono in questo viaggio!... Noi saremo più tranquilli, pensando che alla costa abbiamo dei compagni, che vi è una casa per ripararsi e che vi sono dei viveri. — Eppure sarei venuto volentieri anch’io al polo, Wilkye!.... — Non vi mancheranno le distrazioni qui, Bisby. Fra qualche settimana comincerà lo sgelo, la selvaggina si mostrerà su queste coste e potrete cacciare ed intraprendere delle esplorazioni per vostro conto. — Andrò a fare una passeggiata fino alla Terra Alessandra. — Un po’ più lontano e andrete al polo, disse Wilkye, ridendo. — Una spiegazione, signore, disse un marinaio. — Parlate. — Se vi toccasse una disgrazia e non vi si vedesse ritornare dopo i quaranta giorni, cosa dovremmo fare noi? — Organizzerete una spedizione di soccorso e tenterete di raggiungerci fin dove lo permetteranno le vostre forze. — E se non vi troviamo? È necessario prevedere tutto. — Avete ragione, disse Wilkye. Allora ritornerete alla costa, ci attenderete fino alla fine dell’estate, poi vi imbarcherete o sulla nostra scialuppa o sulla Stella Polare, se sarà tornata, e raggiungerete l’America. — Ma voi? chiese Bisby, impallidendo. — Se in tre mesi non saremo ritornati, sarà segno che noi siamo morti. — Voi mi spaventate, Wilkye. — Eh! esclamò l’esploratore. Credete voi che le regioni polari non abbiano avuto le loro vittime? Il polo Nord è costato centinaia di vite umane. — Ma col vostro velocipede.... — Può spezzarsi, un campo di ghiaccio può aprirsi sotto i nostri piedi e inghiottirci, o una montagna di ghiaccio può piombarci addosso e stritolarci, o una valanga di neve può seppellirci o la fame ucciderci. — Io rinuncerei al polo! — Voi, ma io, mai! esclamò Wilkye, con suprema energia. O spiegare la bandiera americana ai confini del mondo australe o perire nell’impresa. — E noi vi saremo fedeli compagni, signore! esclamarono i due velocipedisti, con entusiasmo... Lotteremo fino all’estremo delle nostre forze, pel trionfo della nostra bandiera. — Grazie, valorosi compagni, disse Wilkye commosso. Sapevo di aver condotto con me due fidi amici. Ora, finché i nostri marinai trasporteranno qui la scialuppa per metterla al sicuro dai ghiacci, che non tarderanno a mettersi in movimento per l’imminente sgelo, noi saliremo quella catena di colline e andremo a vedere le pianure dell’interno. — Andiamo, disse Bisby che aveva mangiato tanto, da correre il pericolo di scoppiare. - Una passeggiata mi faciliterà la digestione. Wilkye, il negoziante ed i due velocipedisti, armatisi di carabine a retrocarica e di bastoni colla punta ferrata per aiutarsi nell’ascensione, lasciarono la capanna e si diressero verso le colline che chiudevano l’orizzonte verso il sud-est. La temperatura era fredda assai, essendo scesa a 15° sotto lo zero, ma splendeva un vivo sole, il quale già cominciava a sciogliere i ghiacci accumulati dinanzi alla costa di Graham. Dal sud soffiava però, ad intervalli, un vento freddissimo il quale gelava i nasi e le orecchie degli esploratori. Una infinità di uccelli marini svolazzavano lungo le spiaggie. Se ne vedevano dappertutto, sugli ice-bergs, sui campi di ghiaccio, in mezzo alla neve, sulle scogliere e si udivano le loro grida scordate e rauche. Anche alcune foche si scorgevano, indolentemente stese sull’orlo dei banchi, scaldandosi ai raggi del sole, ma erano così lontane da far perdere a Bisby, che avrebbe voluto assaggiare la loro carne, ogni speranza di raggiungerle. Superata la costa, gli esploratori s’arrampicarono sulle colline, i cui pendii erano scabrosi e difficilissimi, essendo coperti da una crosta di ghiaccio e di neve gelata che doveva avere un grande spessore. Però qua e là si vedevano dei tratti che avevano già perduto il loro rivestimento invernale e fra le fessure di quelle rocce che sembravano composte di un tufo rossastro, erano tosto spuntate le prime pianticelle. Infatti si vedevano rizzarsi timidamente dei muschi, i licheni Usnea melanoxantha, qualche Fuchsia magellanica che aveva già cominciato a mettere i bottoni pendenti, dei piccoli cespugli di Metrosideros stipularis colle foglioline punteggiate, ma che non avevano ancora messi i piccoli fiori bianchi; delle lecanora e delle ulve, bizzarre pianticelle queste ultime, che non spuntano che all’ombra. Si direbbe che temono il sole ed infatti, se i raggi dell’astro diurno le toccano, ben presto muoiono, ma forse in causa della mancanza di acqua. Infatti, spuntano solamente sulle rocce, il sole non tarda ad assorbire l’umidità a loro necessaria per vivere, ed appassiscono. Procedendo lentamente e con mille precauzioni per non scivolare nei crepacci e nei burroni che s’aprivano dovunque, verso le 4 pomeridiane gli esploratori giungevano sulla cima della catena. Al di là, verso il sud, si estendeva dinanzi a loro una pianura sconfinata, coperta di neve, leggermente ondulata, ma non interrotta da quei rialzi, da quelle piramidi, da quelle guglie acute e da quei crepacci come si osservano nelle regioni del polo Artico. Il continente australe pareva piano come un vero deserto e solamente ad una immensa distanza, si vedevano delinearsi sul fondo azzurro del cielo, rade catene di montagne. Su quella vasta pianura gelata regnava un silenzio di morte, nè si scorgeva alcun essere vivente. Perfino gli uccelli, così numerosi sulle coste, mancavano, e non se ne vedeva uno solo volare su quella superficie immacolata, mai calpestata da piede umano, fin dal tempo della sua formazione. — Che deserto di ghiaccio! esclamò Bisby, rabbrividendo. Mette paura solamente a vederlo. — Sono contento che sia così, disse Wilkye. Il nostro velocipede filerà senza trovare ostacoli. — Ed il polo, è laggiù? — A sud, ma a millecinquecento miglia di distanza. — Ci vuole del coraggio, Wilkye, per andarlo a cercare. Ed io che volevo andarci a piedi!.... — Ditemi, signor Wilkye, chiese il velocipedista Peruschi. Troveremo altre pianure, dietro quei monti che si vedono laggiù? — Lo spero, amico mio. — Ma come attraverseremo quei monti? — Se non troveremo un passaggio, li aggireremo. — Allungheremo il viaggio considerevolmente. — Vi ho detto che porteremo con noi dei viveri per quaranta giorni. — Sperate d’incontrare la spedizione inglese al polo? — Dubito molto che Linderman possa trovare un passaggio sulla Terra Alessandra. Io sono convinto che le terre australi formino un vero continente e non siano un aggregamento d’isole, quindi una nave non potrà mai giungere al polo. — Che tenti di giungervi a piedi? — Lo tenterà, ne sono certo, ma sarà costretto a ritornare. Un equipaggio, per quanto robusto ed agguerrito, non può percorrere millecinquecento miglia a piedi sui ghiacci e carico dei viveri necessari per parecchi mesi. Tutte le spedizioni tentate nei mari artici, anche coll’aiuto delle slitte tirate dai cani, hanno dato risultati negativi, anzi disastrosi. Ritorniamo, amici: scenderemo per quei burroni che mettono alla costa e andremo a fare quattro fucilate contro gli uccelli marini. — Li preparerò per la cena, disse Bisby. — Ci preparerete un arrosto un po’ duro, signor cuoco. Lasciarono la vetta e si misero a scendere attraverso ai burroni, scivolando sul ghiaccio che copriva le rocce. In meno di mezz’ora giungevano sulla costa, in fondo ad una specie di canale o fiord che dir si voglia, e che si trovava ad un miglio dalla capanna. I ghiacci coprivano l’acqua, ma, quantunque avessero uno spessore enorme, erano in moto a causa del calore solare che cominciava a scioglierli. Tuonavano come se sotto di loro scoppiassero delle mine, si aprivano qua e là, lasciando il passo all’acqua marina che schizzava fuori gorgogliando, correndo in vere ondate pei pendii, e le cime degli ice-bergs oscillavano e tremavano come se quelle enormi masse fossero lì lì per perdere l’equilibrio. Di tratto in tratto, una punta od un masso, del peso di parecchie tonnellate, si staccava dall’alto e piombava con grande fracasso attorno ai ghiacci sottostanti, rimbalzando e frantumandosi. Vere nubi di uccelli marini avevano collocati i loro nidi sulle sponde del fiord. Erano Aptenodytes fosteri, uccelli assai grossi poichè pesano circa trentacinque chilogrammi, colle penne color ardesia sopra e bianche sotto e con un collare giallastro sotto il capo. Molti covavano le uova, ma altri si trascinavano sui ghiacci aiutandosi coi loro grossi piedi palmati e colle ali che sono foggiate a pinne. Malgrado la loro pesantezza, camminavano però più lestamente d’un uomo. — Sono buoni? chiese Bisby. — Eccellenti, quantunque la loro carne sia nera. — Allora la cena è assicurata. — Vi avverto però di sezionarli, prima di metterli allo spiedo o nella pentola. — Per qual motivo? Cosa temete? — Di rompermi i denti. — Non vi comprendo. — Allora vi dirò che questi uccelli sono ghiotti di sassi. Taluni cacciatori ed anche James Ross, il noto esploratore, trovarono perfino quattro chilogrammi di pietre nel ventre di questi volatili! — Che scambino i sassi per dolci? — Non me l’hanno mai detto. Orsù, fuoco a volontà, o scapperanno tutti. Quattro detonazioni echeggiarono e quattro uccelli stramazzarono sui ghiacci. Bisby stava per precipitarsi sulla preda, quando s’arrestò bruscamente urlando: — Fuggiamo!... Ho udito a ruggire dei leoni!... CAPITOLO XVI. La partenza pel Polo. Bisby, dimenticando la futura cena, si era dato ad una rapidissima fuga cercando di scalare i ghiacci del fiord, ma nessuno dei suoi compagni l’aveva seguito, anzi ridevano a crepapelle senza pensare a ricaricare le armi. Il negoziante, vedendo che non si muovevano, e credendo che non l’avessero compreso, si arrestò gridando: — Ma fuggite, disgraziati!... Ho udito a ruggire dei leoni!... Un fragoroso scoppio di risa, fu la risposta. — Ridete?... gridò egli, stupito. — Vi è da ridere per ventiquattro ore, pauroso esploratore, disse Wilkye. Credete di essere nel deserto del Sahara? — Ma non udite questi ruggiti? — Sì, Bisby, e vi dirò anzi, che promettono una cena migliore di quella guadagnata ora. Vi piacerebbe una frittura di fegato o di cervello? — Di leone? — Sì, ma marino, o se vi piace meglio, di foca. — Ma ruggiscono come i leoni, le foche di questo paese del gelo? — Sì, Bisby, ma non sono pericolose, anzi si possono ammazzare a colpi di bastone. — Allora andiamo ad ucciderle. — Adagio, o fuggiranno. — Ma dove sono? — Dietro quella costa, se non m’inganno. Andiamo innanzi e cerchiamo di impedir loro di raggiungere il mare. Scesero sui ghiacci del fiord, risalirono la costa e si diressero in silenzio, ma rapidamente, verso una catena di rocce le cui cime avevano perduto il loro manto invernale. Giunti a un centinaio di metri, furono colpiti da un fetore insopportabile, che appestava l’atmosfera. — Dietro queste roccie vi deve essere un vero rookories, disse Wilkye, arrestandosi. — Cosa significa? chiese Bisby. — Voglio dire che vi è un vero campo di foche. Forse troveremo delle centinaia di animali. — Che uccideremo tutti, disse il negoziante. — Ci accontenteremo di un paio, Bisby. Sarebbe un massacro inutile. — Eccole! esclamò Peruschi, che le precedeva. Vi sarebbe qui la fortuna di un cacciatore o di un baleniere. Wilkye, Bisby e Blunt lo raggiunsero e gettarono uno sguardo al di là delle rocce. Vi era colà un vero campo di foche appartenenti alla specie delle otarie jubate o dei leoni marini. Erano cinque o seicento anfibi, dispersi sulla sponda, la quale scendeva dolcemente verso l’oceano, gli uni raggruppati in quindici o venti, gli altri isolati. Le Otarie jubate differiscono dalle foche dei mari artici e formano una specie transitoria fra i mammiferi carnivori e il tipo ordinario delle foche propriamente dette. I maschi sono più grandi, poichè oltrepassano i due metri di lunghezza, hanno l’aspetto feroce dei leoni avendo attorno al collo una criniera che è irta; gli occhi grandi, piccole orecchie coniche e lunghi baffi setolosi. Udendoli a ruggire, producono una certa impressione paurosa, ma in realtà, tali anfibi sono timidi, non si difendono che rade volte e soccombono facilmente. Le femmine, essendo sprovviste di criniera, hanno un aspetto meno formidabile e mentre i primi hanno il pelame più giallo e più rossiccio, esse lo hanno più oscuro e più rado. In queste foche è rimarchevolissima l’elasticità dei corpi, che permette a loro di prendere le pose più strane. Mentre, infatti, taluni di quegli anfibi stavano rannicchiati in modo da sembrare sacchi semi-vuoti, altri nel trascinarsi allungavano il collo in siffatto modo, da misurare tre e perfino quattro metri, ossia da raddoppiare la lunghezza del loro corpo. Quegli animali, ignari del pericolo che li minacciava, parte sonnecchiavano presso l’oceano, altri invece si trascinavano attraverso i banchi di ghiaccio alzandosi sulle pinne, mentre le femmine allattavano i piccini, scherzando con loro e accarezzandoli amorosamente. Presso di loro, appollaiati sulle rocce, si vedevano numerose bande di uccelli somiglianti agli avoltoi i quali vivono esclusivamente di sterco di foche, contendendoselo accanitamente. — Quanti animali! esclamò Bisby. Se potessimo prenderli tutti! — Alle prime fucilate si affretteranno a guadagnare il mare, disse Wilkye. — Ma è mangiabile la loro carne? — È troppo oleosa e troppo rancida, ghiottone, rispose Wilkye. Il fegato ed il cervello, come vi dissi, sono eccellenti. — Allora apriamo il fuoco! I cacciatori mirarono le più vicine e scaricarono le armi. Tre foche colpite dalle palle stramazzarono sul banco, ma le altre, spaventate da quelle detonazioni che forse mai avevano udite, s’affrettarono, con sforzi disperati, a trascinarsi sull’orlo del ghiaccione ed a precipitarsi in mare. Le femmine soprattutto strisciavano con una rapidità veramente straordinaria, per anfibi così pesanti e male conformati, tenendosi stretti al seno, con una pinna, i loro piccini. In pochi istanti tutte scomparvero sott’acqua e non riapparvero che ad una grande distanza, dirigendosi verso un campo di ghiaccio che la corrente trasportava verso il nord. Wilkye ed i suoi compagni raggiunsero le prede. Erano state colpite tutte e tre nel capo, pure si muovevano ancora ed una tentava, con sforzi indicibili, di raggiungere l’orlo del banco. Bisby però, che ci teneva alla cena, s’affrettò a finirla col calcio del fucile. — Ritorniamo alla capanna, disse Wilkye. Manderemo i marinai a raccoglierle. — Non ce le mangeranno gli animali? — Quali? Se vi ho detto che in questo continente non si sono mai veduti nè orsi, nè lupi. — Potrebbero esserci, Wilkye. — Levatevi dal cervello questo timore, nessuno vi toccherà la cena. Si rimisero in cammino costeggiando i banchi di ghiaccio, sparando di tratto in tratto qualche fucilata contro gli uccelli marini che volteggiavano presso le sponde, e verso le sette di sera ritornavano alla capanna. I marinai, che in quel frattempo avevano trascinata la scialuppa sulla costa e che avevano posto in ordine ogni cosa nell’interno della piccola abitazione, furono mandati sul banco, e un’ora dopo il cuoco si poneva dinanzi alla stufa, per preparare la cena, la quale fu da tutti lodatissima. I fegati e le cervella delle foche, preparati sapientemente dal negoziante, non potevano riuscire più squisiti e tutti fecero molto onore alla frittura. All’indomani, per tempo, gli americani erano in piedi. Wilkye ed i suoi due compagni avevano annunciata la loro partenza pel polo australe. Furono aperte le grandi casse contenenti i pezzi del velocipede e tutti si misero all’opera per aiutare il capo della spedizione. Quel velocipede, ideato da Wilkye e fatto costruire da un abile meccanico di Baltimòra, era un vero capolavoro. Era composto di otto ruote, due più grandi e più solide, le altre eguali, accoppiate a due a due in modo da potersi, all’occorrenza, trasformare in tre biciclette, essendo, le due prime eccettuate, tutte munite degl’ingranaggi, delle catene e delle sterze necessarie. Costruite di acciaio di una resistenza incalcolabile, ricoperte di una pelle leggiera ma solida, per non causare ustioni pericolose agli uomini che dovevano montare la macchina, essendo già noto che i metalli, durante i freddi eccessivi, producono su chi li tocca delle vere scottature, quelle ruote erano munite all’ingiro d’una grossa striscia di gomma vulcanizzata, ma piatta e, per colmo di precauzione, onde evitare gli sdrucciolamenti, leggermente dentellata. Sul dinanzi di quel velocipede era stata collocata una piccola caldaia, fornita di tutti gli attrezzi necessari per poter sviluppare la forza di un cavallo. Due alberi, forniti d’ingranaggi e di catene, si collegavano colle ruote anteriori, che erano più solide e più grosse delle altre. Prevedendo la difficoltà di trovare dell’acqua sciolta necessaria per la generazione del vapore, Wilkye aveva fatto adattare presso la caldaia un recipiente destinato a sciogliere la neve od il ghiaccio. Tre sedili, disposti l’uno dietro all’altro, dovevano servire ai viaggiatori, mentre una specie di cassettone, alto e largo due metri, doveva servire per le provviste, per le coperte, per le vesti, per le munizioni e pel petrolio necessario alla piccola macchina. — Vi soddisfa? chiese Wilkye, quand’ebbe spiegato a tutti il funzionamento del suo velocipede. — È meraviglioso! esclamarono Peruschi e Blunt. — Sorprendente! esclamò Bisby. Mi sembra però, che non potrete portare con voi molte provviste. — Ho tutto calcolato, disse Wilkye, e potrò portare con me i viveri necessari per quaranta giorni. — Ma non potete caricarvi di una grossa provvista di petrolio. — Mi basteranno cento litri, Bisby, poichè le prove fatte hanno dimostrato che dieci sono sufficienti per una marcia di cento miglia. — Ma se il viaggio si prolungasse? — Scioglieremo la macchina e saliremo sui bicicletti. Basta adattare alle ruote i manubri e le selle. — Ma non potrete caricarvi di alcun peso. — Se sarà necessario abbandoneremo tutto, le coperte, la tenda, perfino le armi per portare con noi cinquanta o sessanta chilogrammi di viveri. Anche senza la macchina a vapore, noi che abbiamo fatto le nostre prove potremo percorrere, in media, cento miglia al giorno. — Ma se vi piomba addosso l’inverno, come potrete avanzare in mezzo alle nevi? — Siamo al principio dell’estate e spero di essere di ritorno prima della fine. Volete che impieghiamo tre mesi, per percorrere tremila miglia? — Uhm! fe’ il negoziante, scuotendo il capo. Io ho dei sinistri presentimenti, Wilkye. — Ed io nessuno, Bisby. Io sono certo, convinto, di trionfare sopra tutti gli ostacoli, e di spiegare la bandiera dell’Unione al polo australe. — Ve lo auguro di cuore, amico mio. — Orsù, prepariamo il nostro corredo. Fece aprire una cassa di grandi dimensioni ed estrasse una quantità di cassette accuratamente numerate, che visitò minutamente. — I nostri viveri, diss’egli: biscotti, pemmican, farina, pesce secco, porco salato, grasso, cioccolato, caffè, ecc.: centoventi chilogrammi. — Ma voi volete digiunare, disse Bisby. — Contiamo anche sulla caccia, rispose Wilkye. Tre vesti di ricambio, tre paia di scarpe di feltro e di tela da vele, tre coperte, una tenda, un po’ di vasellame, due pentole di ferro: venticinque chilogrammi. — E non soffrirete il freddo? chiese Bisby. — Ritorneremo prima dei forti geli, ve lo dissi già. Tre fucili, tre ascie, dei pezzi di ricambio per la macchina, polvere, palle, piccoli oggetti: trenta chilogrammi. — Totale, centosettantacinque chilogrammi, disse il negoziante. — Peso nostro centosessantadue chilogrammi, disse Wilkye. Aggiungiamo ora cento litri di petrolio, alcune bottiglie di gin e di wisky ed altri piccoli oggetti, formeremo un peso di quattrocentocinquanta chilogrammi, ossia il necessario per poter ottenere, dal nostro velocipede, una rapidità di trenta miglia all’ora. È tutto a posto? — Tutto, signore, risposero i due velocipedisti. — Avete preparata la colazione, Bisby? È una colazione d’addio e dovete procurare che sia eccellente ed abbondante. — Le pentole bollono in modo che pare vogliano scoppiare. Ehi, sotto-cuoco, a che punto siamo? — Possiamo servire, signore, rispose il marinaio. Bisby, anche in quella solenne circostanza, non aveva mancato di farsi onore ed anche di abbondare un po’ troppo, tanto anzi, da far nascere a Wilkye delle serie inquietudini sulla durata delle provviste. Quella colazione, quantunque assai deliziosa, fu triste e l’allegria mancò. Tutti erano commossi per l’imminente partenza degli esploratori per le misteriose regioni del sud e rabbrividivano all’idea che forse quella colazione era l’ultima che facevano in compagnia. Pur mangiando, pensavano ai pericoli che dovevano affrontare in mezzo agli sterminati campi di ghiaccio del continente polare. Alle frutta, Bisby, che malgrado la sua commozione aveva divorato per sei, si alzò per brindare al trionfo della bandiera dell’Unione, ma la voce gli mancò e non fu capace di far altro che di gettarsi fra le braccia dell’audace esploratore. Due lagrime brillavano sugli occhi del negoziante. — Tornate presto — borbottò. — Ritorneremo, Bisby — disse Wilkye che era pure commosso — e se la Provvidenza ci aiuta, torneremo vincitori. Poi raddrizzando l’alta statura, disse: — Partiamo, amici: la fortuna è cogli audaci! La macchina era già stata accesa ed aveva ormai la pressione necessaria: il gran velocipede pareva impaziente di lanciarsi attraverso i campi di ghiaccio. Wilkye ed i due velocipedisti abbracciarono Bisby che emetteva dei sospironi, poi i marinai, quindi salirono in sella: Wilkye dinanzi, Blunt secondo e Peruschi ultimo. — Addio, amici, o meglio arrivederci presto, - disse Wilkye. Vi raccomando di economizzare i viveri, se volete evitare un disastro. — Mi nutrirò di carne di foca, se sarà necessario, rispose Bisby, stringendo le mani di Wilkye. — Buon viaggio signori, e buona fortuna, dissero i marinai. Wilkye abbassò il braccio di leva e la macchina si mise in moto salendo la costa, mentre i marinai e Bisby gridavano ad una voce: — Viva Wilkye!..... Hurrà per la bandiera dell’Unione! Hurrà pel polo Australe!..... CAPITOLO XVII. Il deserto di neve. Wilkye non si era ingannato sulla scelta della macchina, per procedere prontamente e con piena sicurezza verso quel misterioso polo australe, che fino allora aveva opposto le sue immense barriere di ghiaccio agli arditi tentativi delle navi di tanti esploratori. Si poteva dire, quasi con certezza, che egli stava per sciogliere felicemente la secolare questione sui mezzi meglio adatti per poter raggiungere quel punto, fino allora mai veduto da alcun essere umano. Se le navi avevano fatto cattiva prova, se le spedizioni pedestri erano terminate quasi tutte con un completo disastro, quella macchina leggiera ma solida, che poteva filare sopra gli immensi campi di ghiaccio con una velocità superiore a quella dei più agili animali od ai più rapidi steamers moderni, poteva riuscire nell’ardua impresa e trionfare pienamente sulla spedizione inglese che non disponeva che dei mezzi ordinari e assolutamente insufficienti in quelle regioni del freddo. Era bensì vero che gli esploratori americani avevano appena allora cominciato il viaggio e che forse gravi pericoli li attendevano sull’immenso continente polare, il quale poteva preparare loro delle tremende sorprese, ma pel momento dovevano essere soddisfatti ed anche sperare nella buona riuscita della spedizione. Infatti il velocipede funzionava perfettamente bene e divorava la via procedendo senza scosse e senza slittamenti, quantunque rimontasse la costa che era erta assai. Le gomme dentellate pareva che si aggrappassero alla liscia superficie dei ghiacci e guadagnavano terreno con tale velocità, che in pochi minuti i tre esploratori si trovarono sulla cima delle colline. Volsero gli sguardi verso la costa e scorsero, fermi dinanzi alla capanna, Bisby ed i sei marinai, che li salutarono per l’ultima volta agitando i loro berretti. — Addio, amici! gridò Wilkye. Un hurrà fragoroso fu la risposta, poi quei sette uomini scomparvero. Il velocipede, superata la cima, scendeva l’opposto versante, seguendo un burrone ricoperto di ghiaccio, muovendo diritto verso le immense pianure che si estendevano verso il sud, fino ai piedi della lontana catena di montagne scorta il giorno innanzi. I tre velocipedisti, mettendo in opera i freni per impedire qualche pericoloso scivolamento che poteva produrre dei guasti al motore, giunsero felicemente nella pianura, la quale scintillava sotto i raggi dell’astro diurno, come un immenso specchio. La temperatura non era più rigida come sulla costa: oscillava fra i 3° ed i 5° centigradi sotto lo zero, accennando a rialzarsi allo zero, e qua e là si vedevano le tracce d’un imminente sgelo. Infatti dalle alture cominciavano già a scendere dei piccoli torrentelli che andavano a perdersi nella pianura e sotto al crostone di ghiaccio che copriva la terra, si udivano di quando in quando dei muggiti, che parevano prodotti dallo scorrere di grossi torrenti. Qua e là s’aprivano poi delle fessure, dei lunghi crepacci che dovevano però rinchiudersi durante la brevissima notte, e dovunque si udivano crepitii e detonazioni. Quella pianura o meglio quel deserto di ghiaccio, era però affatto spopolato. Non si vedeva, su quella candida superficie, alcuna macchia oscura che indicasse la presenza di qualche foca o di qualsiasi altro animale. Solamente in aria volavano pochi Ænops aura, puzzolenti uccelli che cadendo vomitavano una tale quantità di sterco, da infettare l’aria per parecchio tempo. — Ebbene, amici, cosa dite di questo viaggio? chiese Wilkye ai due velocipedisti. — Che se non sopraggiungono disgrazie, noi vedremo ben presto il polo, disse Peruschi. — Ed io dico che non ho mai viaggiato così comodamente, disse Blunt. Un viaggio di tremila miglia sui ghiacci!.... Tenterebbe molte persone, signor Wilkye. — Lo credo, Blunt. — C’è una cosa però che infastidisce, disse Peruschi. Il riflesso di questo sole accieca. — Può produrre anche delle dolorose oftalmie, ma ho portato con me un ottimo rimedio. Aprite le borse appese ai vostri sedili e troverete parecchie paia di occhiali affumicati. — È vero, rispose Blunt, ma vedo qui anche degli altri oggetti. Ecco qua un bicchiere, delle forchette e dei cucchiai di corno. — Sono necessari, Blunt: il vetro ed il metallo sono pericolosi nelle regioni polari. — E perchè?...... — Perchè quando il freddo scende a 40° o 50° gradi, non potete accostare un bicchiere di vetro alla bocca, senza lasciarvi attaccata la pelle delle labbra, e non potete adoperare nè un cucchiaio, nè una forchetta senza riportare delle lesioni che sembrano bruciature. Tutti gli esploratori l’hanno avvertito! — E voi dite che il freddo scende a 50° sotto lo zero? esclamò Peruschi. Ma come può resistere l’uomo a tale temperatura? — Eppure resiste, rispose Wilkye, anzi gli Esquimesi del polo Artico non mostrano di soffrirne menomamente. — Gli Esquimesi, ma noi? — Tutti gli uomini, siano americani od europei, hanno dimostrato di poter resistere a temperature eccessivamente fredde. Per darvi degli esempi vi citerò il capitano Bak, che al forte Réliance, che è situato nelle pianure dell’America Inglese, sopportò per parecchi giorni una temperatura di 56° sotto lo zero e senza soffrire troppo. — Quello era un vero freddo! — I navigatori artici sopportarono freddi anche maggiori: il Parry, Ross, Franklin, Mac-Clure, ecc., affrontarono parecchie volte delle temperature che superavano i 55° sotto lo zero. L’equipaggio dell’Alert, che fece la spedizione del 1876 sotto il comando di Markham, ebbe a subire dei geli spaventevoli, durante i quali il termometro segnò perfino 61° sotto lo zero. Anche i Siberiani sopportano freddi intensi; un viaggiatore russo constatò che a Nieney-Eudinsk il termometro segnò più volte 62°,5. — E in questo continente, i navigatori hanno provato grandi freddi? — Intensi, Peruschi, anzi maggiori che nel polo Artico, poichè mentre gli esploratori nordici si avanzarono colle loro navi fino all’82° parallelo, quelli australi non riuscirono a sorpassare i 78° 9' e 30" in causa dei ghiacci e del freddo. — Pure ora si resiste benissimo. — È vero, ma fra poche settimane può avvenire un brusco cambiamento di tempo e piombarci addosso una gelata insopportabile. — Non si deve vivere troppo bene con quei freddi, quantunque si possa sopportarli! — L’esistenza diventa dura, quasi impossibile, amico mio. A 45° gli uomini di forti tempre infiacchiscono, le loro facoltà sono come annichilite, lo sguardo diventa vitreo e torvo, l’energia si spegne. Bisogna muoversi continuamente, darsi ad un esercizio violento per non gelare, e respirar lievemente per non provare dei dolori. A 50°, il fiato si cristallizza e cade a terra in forma di sottili aghi che producono un rumore analogo allo stracciarsi di un pezzo di velluto; i baffi e le barbe si coprono di ghiacciuoli, le vesti formano una massa dura, gelata, le pipe non possono funzionare poichè il fumo si converte, in bocca, in un pezzo di ghiaccio; i metalli non si possono più toccare perchè bruciano come fossero roventi, la carne ed il pane bisogna spezzarli a colpi di scure, il legno diventa duro come l’osso, il wisky gela, e bisogna mangiarlo a pezzetti, il rhum si condensa e sembra melassa, e gelano il petrolio, il vino, l’aceto, l’acquavite e perfino il mercurio! — Basta signore! esclamò Peruschi. Mi avete gelato solamente nell’ascoltarvi. Cosa accadrà di noi, se l’inverno ci sorprendesse prima di aver compiuto il viaggio? — Speriamo di giungere alla capanna prima dell’inverno, disse Wilkye. L’estate è appena cominciata e ci lascierà il tempo per ritornare. — Ma è vero, signore, che al polo fa minor freddo che nelle sue vicinanze? chiese Blunt. — Così si afferma. Dei naviganti, in diverse epoche, hanno asserito di aver trovato, specialmente al polo Nord un mare perfettamente libero al di là della barriera dei ghiacci ed anche nei pressi del polo australe. L’americano Morrel ha asserito di aver scoperto, nel 1820, il mare libero a 70° 14 di latitudine, ma io non credo nè agli uni nè agli altri, quantunque molti scienziati abbiano sostenuto questo fatto. — E perchè non ci credete, signore? — Perchè io dico che il sole non potrebbe avere tanta influenza da sciogliere i ghiacci del polo, lasciando quasi intatti quelli del circolo polare. Il freddo intenso che regna alle due estremità della terra, per noi non ha altra causa che il raffreddamento del nostro globo. Il freddo quindi non deve essere, al polo, minore di quello che regna sul circolo polare. Ne volete una prova chiara? Da seicento anni i ghiacci hanno continuato a guadagnare, rendendo sempre più difficili le esplorazioni polari. Un tempo, nel Labrador, che allora chiamavasi Vinland o Terra del vino, gli Scoto-Danesi coltivavano la vite, ed oggi quella terra è coperta di nevi e di ghiacci per gran parte dell’anno; quattrocento anni or sono, l’Islanda era approdabile senza tanti pericoli anche nella stagione invernale, mentre ora enormi ghiacci la circondano. Da cosa può derivare questa crescente calata di ghiacci? Solo dal raffreddamento della nostra terra, il quale s’avanza gradatamente verso l’equatore. — Sicchè verrà un giorno che il nostro pianeta sarà completamente raffreddato e quindi inabitabile? — Senza dubbio. — Sarà una lotta terribile, quella che impegnerà l’umanità contro l’avanzarsi dei ghiacci. — Sì, ma trascorreranno prima migliaia d’anni, e nè noi nè i nostri nipoti prenderanno parte a quella lotta. Forse... — Che cosa, signor Wilkye? — Alto! esclamò l’americano. La via è tagliata dinanzi a noi! — Da un fiume? chiesero i velocipedisti. — No, da una spaccatura, rispose Wilkye, arrestando il velocipede. Scesero tutti e tre e s’avanzarono verso una profonda apertura che misurava una larghezza di oltre cinquanta metri e che si estendeva dal nord-ovest ad sud-est per un tratto immenso. In fondo si scorgeva una superficie liscia, rotta qua e là da leggiere ondulazioni che pareva fossero state prodotte dall’acqua. — Un fiume? chiese Peruschi. — O un braccio di mare? disse Wilkye, che era diventato pensieroso. — Un braccio di mare qui? Siamo già a ottanta miglia dalla costa. — Pure io sospetto che questo sia lo stretto di Bismark. Comunque sia, ci chiude il passo e rende critica la nostra situazione. — Cerchiamo di aggirarlo, disse Blunt. La discesa è impossibile con queste sponde tagliate a picco. — Sapete dove finirà? Può prolungarsi fino al mare e tagliare la costa sulla quale sorge la nostra capanna. Nessuno ha esplorato l’interno di queste terre. — Cerchiamo una sponda meno erta, disse Peruschi. — Proviamo. — Ma ci sosterrà il ghiaccio? chiese Blunt. — La forza del ghiaccio è prodigiosa, rispose Wilkye. Una lastra dello spessore di due pollici sopporta un uomo senza spezzarsi; di tre e mezzo il peso d’un cavallo col suo cavaliere; di cinque, un pezzo d’artiglieria, di otto un furgone carico, e di un piede dei reggimenti di soldati. Andiamo a cercare il passaggio. Il velocipede riprese le mosse costeggiando il canale con una rapidità di venticinque miglia all’ora, essendo il ghiaccio perfettamente liscio. Alle quattro pomeridiane, dopo d’aver percorso sessanta miglia, gli esploratori scoprivano una sponda che scendeva dolcemente nel canale. Furono chiusi i freni e la macchina scese o meglio scivolò per la china, giungendo sulla superficie dello stretto. Un acuto crepitìo avvertì tosto gli esploratori che quel ghiaccio, rôso forse da una corrente tiepida e scaldato sopra dai raggi del sole, minacciava di cedere. — Scendiamo! esclamò Wilkye precipitosamente. Se il ghiaccio si frange, siamo perduti. Abbandonarono in fretta la macchina e retrocessero verso la sponda, temendo che da un istante all’altro si aprisse il vuoto sotto i loro piedi. Una sorda esclamazione uscì dalle labbra di Wilkye. — Maledizione! esclamò. Si direbbe che il polo è assolutamente inaccessibile agli uomini e che una potenza misteriosa lo difende, ma... S’interruppe bruscamente e si curvò verso la superficie gelata. Sotto quella crosta, si udiva un sordo mormorio, come se una rapida corrente d’acqua fuggisse. — Comprendo, diss’egli. Sotto questo ghiaccio vi è il vuoto. — Perchè, signore? chiese Peruschi. — Questo mormorio m’indica che l’acqua si è abbassata e che scorre liberamente. — Dunque il ghiaccio è rimasto sospeso? — Sì. — E non potrà sostenerci? — Forse, passando ad uno ad uno. — È un tentativo che bisogna fare? — Sì, ma chi oserà affrontarlo? — Io, signore. — Ma non sapete che se il ghiaccio cede cadrete nel canale? — Sono nuotatore. — Ma la corrente può trasportarvi lontano. — Mi aggrapperò ai bordi del ghiaccio. — E ricadrete. — Ma chi vi assicura che il ghiaccio cederà? Forse ha uno spessore tale da sostenermi. — Ma se si rompe? — Non siamo venuti qui per fare una passeggiata ma per affrontare i pericoli del polo, disse Peruschi, con voce grave. Piuttosto di retrocedere e di perdere un tempo prezioso, io tento la sorte. — Allora io la tenterò prima di voi. — Mai, rispose. Voi siete il capo della spedizione e dovete essere l’ultimo. — Ma ci sono anch’io, disse Blunt. — Ma sei il più pesante di tutti, disse Peruschi. Ritirate la macchina; io vado a tentare la sorte. Il coraggioso giovanotto, per essere più libero si sbarazzò della grossa giubba di pelle di foca e si avventurò arditamente sul ghiaccio, che nel mezzo si rialzava, formando una specie di vôlta. — State in guardia, Peruschi, disse Wilkye. — Non temete, signore, rispose il giovanotto. Il ghiaccio, quantunque non dovesse più posare sull’acqua, pareva che presentasse una forte resistenza, poiché aveva cessato di scricchiolare sotto i passi del velocipedista il quale, incoraggiato da quel primo successo, procedeva speditamente..... Era giunto quasi nel mezzo, quando si udì improvvisamente un lungo crepitio e si videro disegnarsi su quella superficie delle linee biancastre. Il giovanotto si era subito arrestato, e malgrado la sua audacia, erasi fatto pallido, mentre due grida di terrore sfuggivano dalle labbra dei suoi compagni che attendevano, trepidanti, l’esito di quell’ardito tentativo. — Non muovetevi! gridò Wilkye. Aveva appena terminato quelle parole che il ghiaccio si spezzò con fracasso, formando un buco semicircolare, vasto quanto il boccaporto-maestro d’una nave. Il velocipedista ebbe appena il tempo di mandare un grido e sparve sotto la vôlta gelata, con un sordo tonfo. CAPITOLO XVIII. Lo sgelamento. Vedendolo precipitare nel canale, Wilkye e Blunt, non badando che al proprio coraggio e senza pensare al pericolo che li attendeva, si erano slanciati innanzi colla speranza di soccorrerlo, ma dovettero arrestarsi, poichè un’altra fessura si era aperta dinanzi a loro, minacciando d’inghiottirli. Disperati, angosciati, si misero a correre lungo la sponda, gridando: — Peruschi!... Peruschi!... Il loro compagno però non rispondeva: udivano invece le acque che muggivano sordamente, come si frangessero contro degli ostacoli. Pareva che sotto quella vôlta di ghiaccio scorresse un fiume impetuoso. — Peruschi, ripetè Wilkye, che pareva impazzisse dal dolore. In nome di Dio, rispondete o... — Zitto, signore! esclamò Blunt, afferrandolo strettamente per un braccio. — Cosa avete udito? — La sua voce: silenzio, signore. Entrambi si erano fermati a circa trecento metri dalla fenditura, e curvi verso la crosta di ghiaccio, ascoltavano con profondo raccoglimento. Poco dopo, sotto la vôlta, ma ad una grande distanza, si udì una voce distinta che gridava: — Ci sono!... — Peruschi! gridò Wilkye. — Sono vivo, signore, rispose il velocipedista. — Dove siete? — Sotto la vôlta. — Ferito? — No, ma mezzo assiderato. — Nuotate? — No, ho approdato. — Tenete fermo, che giungiamo. La voce del velocipedista veniva da più innanzi; senza dubbio la corrente lo aveva trasportato molto lontano dalla fenditura. Wilkye e Blunt si misero a correre lungo la sponda che fiancheggiava un vero bastione tagliato quasi a picco. — Peruschi! gridò Wilkye, arrestandosi. La voce del velocipedista, che echeggiava proprio sotto la crosta di ghiaccio, si fece udire distintamente: — Eccomi, signore. — Siete sotto di noi? — Lo suppongo. — Correte pericolo? — No, per ora, ma se non vi affrettate, gelerò. — Spezziamo il ghiaccio, Blunt, disse Wilkye. Impugnarono i fucili per la canna e servendosene a guisa di mazze, sfondarono il ghiaccio attorno alla sponda, facendo un’apertura larga parecchi metri. Curvatisi, scorsero sotto di loro, aggrappato ad una roccia, il compagno, il quale era immerso fino ai fianchi. Attorno a lui l’acqua, che pareva seguisse una forte pendenza, muggiva sordamente cercando di strapparlo. — Grazie, signor Wilkye, disse Peruschi con voce balbettante. Temevo di non rivedervi più. — È profondo il fiume? chiese Wilkye. — È un vero braccio di mare, signore, poichè è acqua salata. Scorre però come un fiume. — Potete risalire? — È impossibile; la sponda è tagliata a picco ed alta almeno sei metri, e poi sono così intirizzito da non potermi servire delle membra. — Potete resistere alcuni minuti? — Lo spero. — Blunt, correte a prendere delle funi; ve ne sono nella cassa. Il velocipedista partì correndo e poco dopo ritornava con una fune lunga parecchi metri. Wilkye fece un nodo e gettò un capo al naufrago, il quale lo afferrò con forza sovrumana. — Stringete bene, disse Wilkye. — Non la lascio, signore. — Issa!... Aiutato da Blunt, che era dotato d’una forza erculea, ritirò lentamente la grossa fune alzando il giovanotto il quale la stringeva sempre con disperata energia. In pochi istanti toccò la sponda superiore e cadde fra le braccia dei compagni. Il disgraziato era ridotto in tale stato di assideramento, da non potersi neppure reggere in piedi; le sue vesti, poco prima inzuppate d’acqua, si erano quasi istantaneamente gelate e indurite in modo da formare un pezzo solo. — Presto, alla macchina, disse Wilkye. Soccorso da Blunt, lo trasportò presso il velocipede. Levò le coperte di pelle d’orso che dovevano servire al loro di letto, ve lo sdraiò sopra e gli strappò di dosso, non senza fatica, le vesti. — Rizzate la tenda che ci accamperemo qui, disse a Blunt. Intanto datemi uno straccio di lana inzuppato di wisky. — A voi, disse Blunt porgendoglielo. Wilkye si mise a strofinare energicamente le membra quasi assiderate di Peruschi, poi quando ebbe riattivata la circolazione del sangue, lo avvolse in una coperta di lana riscaldata presso la macchina e quindi nelle pelli d’orso. — Ora mandate giù una buona sorsata di wisky, diss’egli. Vi riscalderà. — Grazie, signore, rispose il velocipedista. Ora comincio a sentirmi meglio. — Domani potrete ripartire. Intanto Blunt, che lavorava per due, aveva rizzata la tenda di feltro, foderata interiormente di pelli di foca, e per riscaldare l’ambiente aveva spinto il velocipede presso Peruschi, essendo la macchina ancora accesa. — Preparate un thè bollente, disse Wilkye, poi allestirete la cena. — Non c’è bisogno, signor Wilkye, disse Peruschi. Sotto la vôlta di ghiaccio faceva un freddo acutissimo, ma qui sto benissimo e sono più disposto a cenare che a bere del thè. — Avete dovuto provare una tremenda emozione, sentendovi precipitare nel vuoto, mio povero amico. — Un po’, lo confesso, ma mi consolo pensando che colla mia caduta ho evitato un disastro. Se la vôlta fosse ceduta sotto la macchina, cosa sarebbe accaduto di noi? — È vero, Peruschi. Era acqua salata quella che scorreva? — Acqua marina, signore. — Allora noi dobbiamo trovarci su un’isola. Come attraverseremo questo canale? — Forse in altro luogo il ghiaccio può essere più solido, disse Blunt. — Lo tenteremo, disse Wilkye. — Ditemi, signore, chiese Peruschi. Per quale motivo l’acqua si è abbassata, lasciando uno spazio fra la sua superficie ed il ghiaccio? — Forse perchè esiste un forte dislivello fra l’entrata del canale e l’uscita, prodotto senza dubbio dall’accumularsi dei ghiacci. In qualche punto i ghiacci hanno ceduto, lasciando sfogo alle acque, le quali si sono affrettate a ritirarsi. Orsù, mangiamo questa zuppa di pemmican ed affrettiamoci a coricarci. Domani cercheremo il passaggio. Divorarono con appetito la cena, vuotarono un bicchiere di wisky, poi si avvolsero nelle loro pesanti coperte, avendo la precauzione di coricarsi presso la macchina che spandeva sotto la tenda un benefico calore. La notte — notte per modo di dire, poichè il sole non tramontava che per una sola ora — fu tranquilla e non doveva essere diversa in quella regione che è priva di animali feroci. All’indomani, verso le 7, gli esploratori risalivano sul rapido velocipede, per cercare un passaggio attraverso a quello stretto che pareva si prolungasse indefinitamente. Le loro ricerche ebbero un felice risultato, poichè verso le 9, dopo d’aver percorso circa sessanta miglia verso il sud-ovest, si trovarono dinanzi ad un enorme masso di ghiaccio che era piombato attraverso quel braccio di mare, formando un vero ponte. Attraversatolo dopo non poche difficoltà, passarono sulla sponda opposta, lanciando il velocipede sulle sterminate pianure del sud, che si susseguivano con ondulamenti appena sensibili. Un silenzio assoluto, che faceva una profonda impressione, regnava su quei ghiacci e su quelle nevi, prima di allora mai calpestate da alcun esploratore. Nessun uccello attraversava lo spazio; nessuna pianticella cresceva in alcun angolo: era proprio il deserto polare che il sole invano sforzavasi di rendere meno triste. Perfino i ghiacci più non crepitavano, quasi avessero paura di turbare i silenzi gelati di quella regione desolata ed inabitabile. Gli intrepidi esploratori, però non si arrestavano e si lasciavano trasportare verso le misteriose regioni del sud dal velocipede, il quale divorava la via con crescente rapidità. A mezzodì, secondo i calcoli di Wilkye, si trovavano già a trecento miglia dalla capanna. Fecero una breve sosta per allestire un modesto pranzo, poi risalirono sulla macchina e si rimisero in viaggio dirigendosi verso la catena dei monti che ormai si delineava nettamente verso il sud. Il freddo si manteneva costante, quantunque il sole brillasse sempre. Il termometro oscillava fra i -5° ed i -7°, ma non accennava a discendere. L’estate in quelle regioni doveva essere ben breve, e forse non riusciva a sgelare interamente il continente polare. Alle 9 di sera gli esploratori si arrestarono e rizzarono la tenda presso un’alta rupe, che si elevava solitaria in mezzo all’immensa pianura. Per la prima volta scorsero degli uccelli, che avevano collocati i loro nidi sulla cima di quell’altura. Erano alcune coppie di Micropterus cinereus, volatili che sono grossi come un pinguino, pesanti sette od otto chilogrammi, colle penne grigie sul dorso e bianco-giallastre sull’addome, colle ciglia bianche che danno ai loro occhi un aspetto bizzarro e le zampe giallo-aranciate con screziature nere. Questi grossi volatili, i maschi specialmente, tramandano un odore disaggradevole e la loro carne è oleosa e rancida, cibandosi esclusivamente di pesci. Wilkye non potè frenare la sua sorpresa, nel vedere in quel luogo degli uccelli, che quasi mai si scostano dal mare. — Che un altro canale si spinga in queste vicinanze? si chiese. — Non si scorge in alcun luogo, disse Peruschi. — Forse ci sarà qualche lago, disse Blunt. — È probabile, rispose Wilkye, ma dovrebbe essere gelato. Non saprei quindi come questi uccelli possano pescare. Domani forse sapremo qualche cosa. Anche quella seconda notte, passata in mezzo ai ghiacci del continente polare, fu tranquilla. La superficie gelata però continuò a tremare quasi senza interruzione, aprendo qua e là delle lunghissime spaccature. Il 4 dicembre gli esploratori ripartivano, seguendo il 68° meridiano. La pianura però non consentiva a loro di procedere colla consueta rapidità, poichè il ghiaccio si era spaccato in vari luoghi sotto il calore solare, producendo delle fenditure larghe assai e profonde, che li obbligavano a fare dei lunghissimi giri. Lo sgelo, che pochi giorni prima pareva che non dovesse cominciare che molto tardi, ora procedeva con grande rapidità. Il sole, come se avesse improvvisamente acquistato maggior calore, dardeggiava coi suoi raggi le pianure, le quali si privavano con strana celerità del loro rivestimento invernale. Una densa nebbia, prodotta dall’umidità, ondeggiava qua e là, sciogliendosi di frequente in una vera pioggia, che inzuppava gli esploratori. Wilkye, che temeva di trovare, sotto quella crosta di ghiaccio, un terreno disuguale e poco adatto alla sua macchina, cercava di affrettare la marcia per giungere al polo prima dello sgelo, ma gli ostacoli si moltiplicavano, poichè le fenditure diventavano ognor più numerose. I ghiacci si spaccavano dovunque con sorde detonazioni, si squagliavano con estrema rapidità formando dappertutto dei torrenti e degli stagni, e parecchie volte la macchina corse il pericolo di cadere entro quelle fenditure. Wilkye cominciava a diventare inquieto; non aveva preveduto quegli ostacoli che minacciavano di prolungare indefinitamente quella corsa verso il polo. Non era la mancanza di viveri che lo preoccupava, ben sapendo che quello sgelo avrebbe attirato di certo sopra quelle pianure gli uccelli polari e le foche, ma la provvista di petrolio che rapidamente scemava e non doveva tardare ad esaurirsi, se quella marcia si prolungava. È bensì vero che poteva sciogliere la sua macchina e convertirla in biciclette, ma sarebbe anche stato costretto a impiegare un tempo tre e forse quattro volte maggiore, e nel ritorno farsi sorprendere a mezza via dai primi geli e dalle prime nevicate. Nei quattro giorni seguenti, la loro marcia non aumentò. Gli ostacoli crescevano sempre, costringendoli ad arrestarsi ad ogni istante per trasportare la macchina al di là delle fessure od a girarle raddoppiando la via. Il 10 dicembre, poco dopo il mezzodì, giungevano ai piè di quella grande catena di monti che avevano scorto parecchi giorni prima e che avevano chiamati Monti Baltimòra. Dalla loro partenza dalla capanna avevano percorso quattrocentosessanta miglia consumando tre quarti della loro provvista di petrolio ed un buon terzo dei loro viveri, mentre per giungere al Polo Australe dovevano ancora percorrere circa mille miglia, non avendo raggiunto che il 73° di latitudine. CAPITOLO XIX. L’ultima goccia di petrolio. Quella catena che tagliava la immensa pianura dal sud-est al nord-ovest, seguendo il 73° di latitudine, formava una barriera gigantesca, che pareva insuperabile per gli esploratori polari. Era un accatastamento enorme di monti coperti di neve e di ghiacci che alzavano i loro picchi aguzzi come coni o come piramidi per parecchie migliaia di piedi, divisi gli uni dagli altri da profonde vallate, i cui margini parevano tagliati a picco. Nel centro, un cono colossale, rivestito di ghiaccio dalla base alla cima, lanciava la sua punta a sette od ottomila piedi d’altezza e le sue vallate, trasformate in ghiacciai, vomitavano nella pianura, con boati continui e con sorde detonazioni, degli ice-bergs del peso di migliaia di tonnellate, i quali scivolavano per lungo tratto, abbattendo sul loro passaggio i ghiacci minori. — Fin dove si prolungherà questa catena? si chiese Wilkye che gettava sguardi corrucciati su quei monti. Troveremo un passaggio noi o saremo costretti a retrocedere, vinti dagli ostacoli di questa regione maledetta? — Noi siamo pronti a tentare tutto, dissero i due velocipedisti. — Lo so, amici, ma non vi nascondo che la nostra situazione sta per diventare critica assai. Eccoci arrestati a mille miglia dal polo, con viveri per tre sole settimane e colla provvista di petrolio quasi esaurita. È bensì vero che ci siamo molto inoltrati in questo continente, ma non basta, quantunque io sia convinto di avere preceduto il mio rivale di parecchi gradi. — Altri esploratori, si sono inoltrati più di noi? chiese Peruschi. — Sì, poichè Weddell ha superato il 74° di latitudine e Giacomo Ross è giunto al 75° 4'. — Allora bisogna superarli, signore. — E senza perder tempo, amici. Sono assai inquieto per la nostra situazione ed anche pei compagni che abbiamo lasciati alla costa. — Cosa temete per loro? — Che tardando noi a ritornare, s’imbarchino sulla Stella Polare. — Bisby non ci abbandonerà, signore. — Lui no, ma gli altri? E poi cosa volete che faccia quell’uomo che non sa far altro che mangiare? — Ma credete che il signor Linderman ritorni? — Colla sua nave non s’inoltrerà in questo continente che sembra formare una massa sola. Questa immensa catena di montagne dimostra che queste terre non sono isole raggruppate attorno al polo. — Lo sapremo presto con maggior sicurezza, disse Blunt. — Non siamo ancora al polo, amico. — Ma ci andremo, signor Wilkye, disse Peruschi. — Ma questi monti? — Li supereremo, quand’anche dovessimo trasportare sulle nostre spalle il velocipede. — Sì, signor Wilkye, disse Blunt. — Grazie, compagni: tentiamo la sorte. Vedo laggiù una vallata che mi pare salga tortuosamente presso quel ghiacciaio e che non mi sembra troppo erta. Forse ci permetterà di raggiungere la cima. — Tentiamo, signore, dissero i due velocipedisti. Risalirono sulla macchina e ripresero la corsa verso il sud-est, in direzione del cono colossale, da loro chiamato monte Bisby, e presso il quale s’apriva la valle notata da Wilkye. Colà infatti s’apriva come una profonda spaccatura che pareva prodotta da qualche tremenda convulsione vulcanica e saliva verso i piani superiori lambendo due immensi ghiacciai. Il velocipede che procedeva con una velocità di venti miglia all’ora, s’addentrò nella valle che era sparsa qua e là di lastroni di ghiaccio, ma che però aveva dei lunghi tratti che permettevano alla macchina di passare. Quantunque la pendenza fosse rimarchevole, pure le ruote, dentellate come erano, non scivolavano e procedevano con sufficiente rapidità, trasportando in alto gli esploratori. Ben presto però cominciarono gli ostacoli: i ghiacci senza dubbio scivolati colà dai piani superiori o rovesciati dai vicini ghiacciai, diventavano più numerosi, costringendo Wilkye ed i suoi compagni a discendere per aprire la via al velocipede. Quelle frequenti fermate facevano perdere un tempo prezioso agli esploratori, i quali vedevano, con grande inquietudine, consumarsi la già tanto scarsa provvista di petrolio ed avvicinarsi quindi il momento in cui sarebbero stati forzati a dividere quel capolavoro della meccanica. Alla sera non avevano superato che quattro miglia e con infiniti stenti. S’accamparono sui fianchi della montagna, su di una specie di piattaforma che aveva a loro permesso di rizzare la tenda, e dopo una magra cena si addormentarono strettamente avvolti nelle loro pelliccie, essendo lassù il freddo assai pungente. Tutta la notte però i ghiacciai vicini tuonarono incessantemente, svegliando parecchie volte Wilkye il quale temeva che dall’alto piombassero dei massi di ghiaccio. Il mattino seguente riprendevano con lena la salita. Per economizzare il petrolio, avevano spento la macchina spingendo innanzi il velocipede che era più d’impiccio che di utilità su quelle chine, le quali diventavano più ripide e più scabrose. I loro sforzi però non davano che scarsi risultati. Gli ostacoli crescevano ad ogni passo, la pendenza aumentava, i massi di ghiaccio si accumulavano per ogni dove costringendoli ad aprirsi una via con le scuri ed il freddo diventava così intenso da intirizzirli. Non fu che verso la sera del 18 dicembre, cioè dopo otto giorni d’incredibili sforzi, che poterono finalmente giungere sulla cima di quella catena, dopo d’aver affrontato cento volte il pericolo di scivolare negli abissi o di farsi schiacciare dai ghiacci che precipitavano dall’alto. Di lassù, a cinquemila piedi d’altezza, la vista spaziava su un immenso tratto di quella regione del gelo e delle nevi. A destra ed a sinistra si estendevano due immensi ghiacciai, due veri fiumi di ghiaccio in movimento, i quali scintillavano sotto i raggi del sole e che tuonavano sordamente e quasi senza interruzione. Al nord si estendeva la grande pianura che gli esploratori avevano percorsa nei giorni precedenti, e al sud un’altra immensa pianura ondulata, interrotta qua e là da alcuni picchi isolati, imporporati dal sole. — Laggiù vi è il polo, disse Wilkye, che fissava avidamente quella nuova pianura. Ah! potessi giungervi presto e spiegare ai confini del mondo la bandiera della nostra patria!... — Domani scenderemo su quella pianura, signore, disse Peruschi. Ho scoperto un passaggio che ci permetterà di effettuare la discesa e senza accendere la macchina. Basterà chiudere i freni e lasciarci scivolare. — A domani, disse Wilkye. Stavano per rizzare la tenda, quando udirono a breve distanza un rauco urlo, che pareva emesso da un animale. — Avete udito, signor Wilkye? chiese Peruschi. — Sì, rispose questi, che pareva assai sorpreso. — Che ci siano delle foche? — Non è il ruggito d’un leone marino, e poi delle foche qui, fra i monti, a cinquecento miglia dalla costa? — Gli esploratori che visitarono le sponde di questo continente, hanno mai fatto menzione di animali feroci? — Mai, ma si sono limitati a visitare solamente le coste. Chi può dire che non ne esistano nell’interno? Il rauco urlo si fece udire più vicino. Pareva che uscisse da un profondo crepaccio che formava una specie di caverna, addentrantesi nel fianco della vicina montagna. — Andiamo a vedere, disse Wilkye, armandosi di fucile. Sono curioso di sapere quali animali popolano questo continente. S’appressarono tutti al crepaccio ma con precauzione, non sapendo ancora con quale avversario avevano da fare; ma percorsi soli pochi passi, videro comparire sette od otto animali che avevano l’aspetto di lupi, senza però aver l’aria feroce di quei carnivori delle regioni boreali. Avevano il pelame eccessivamente folto e lungo, le orecchie corte, le gambe magre ed emettevano dei rauchi urli. Vedendo i tre esploratori, s’arrestarono sorpresi, non avendo forse mai, prima di allora, veduto degli uomini, poi fecero un brusco voltafaccia e s’allontanarono con grande rapidità, salutati da una triplice scarica che gettò a terra i due più grossi. — Sono lupi, disse Peruschi, che si era affrettato a raccogliere le prede. — A me sembrano invece warrak, disse Wilkye, che li osservava con curiosità. — Cosa sono questi warrak? chiese Blunt. — Sono specie di lupi, ma non feroci, che si trovano nelle isole Falkland, rispose Wilkye. — Li mangiano gl’isolani? — Sì, e noi faremo altrettanto. Questa carne giunge a proposito per ingrossare le nostre provviste, le quali scemano rapidamente. — Se ne troveremo degli altri, non li lascieremo fuggire, disse Blunt. Si ritirarono sotto la tenda, contando di mettersi in marcia per tempo. Infatti alle cinque del mattino cominciarono la discesa, lasciandosi scivolare lungo le valli dell’opposto versante. Quantunque quella discesa fosse facile, impiegarono nondimeno quattro giorni prima di giungere in quella pianura che pareva si prolungasse, senza altre interruzioni, fino al polo. Il 25 dicembre, riaccesa la macchina, si rimettevano in viaggio verso il sud, con una velocità di trenta miglia all’ora. Bisognava affrettarsi, poichè il sole, dopo d’aver toccato la massima altezza, cominciava a scendere e verso la mezzanotte radeva l’orizzonte settentrionale. Era bensì vero che prima del 21 marzo non doveva tramontare per sei mesi interi, piombando quelle regioni in un’oscurità perfetta, in una notte cupa e paurosa, ma i primi freddi potevano sopraggiungere ben presto. Ormai lo sgelamento si era arrestato, non essendovi sul continente australe che uno sgelo parziale e mai totale, e quando il sole s’abbassava il freddo aumentava rapidamente, rinsaldando gli immensi campi di ghiaccio. Già il termometro due volte aveva segnato 8° sotto lo zero e quello era un brutto indizio. Guai se l’inverno polare avesse sorpreso gli audaci esploratori nella loro ritirata!... Forse nessuno avrebbe potuto raggiungere la costa ed i compagni che li attendevano nella capanna. Il 27, cioè dopo due giorni di corsa rapidissima, gli esploratori passavano il 78° 9' 30" di latitudine, il punto più inoltrato verso il sud, toccato dai navigatori antartici che li avevano preceduti in quelle regioni. Lo stesso giorno, scorsero, con loro grande sorpresa, una grossa banda di Chloephaga antartiche, che filava rapidamente verso il sud. Quei volatili che sono grossi come oche, di forme eleganti, colle penne candidissime nei maschi e nere ma listate di bianco nelle femmine, vivono in prossimità delle coste o presso i laghi. Come mai si dirigevano verso il sud, invece di fuggire verso il nord? — Che al polo australe esista realmente il mare libero come si suppone che vi sia al polo artico? si chiese Wilkye. Ma allora questo continente dovrebbe avere dei canali interni. — L’hanno mai veduto questo mare libero, gli esploratori antartici? chiese Peruschi. — Come vi dissi, il baleniere Morrell asserì di aver scoperto un mare libero nel 1820, al 70° 14' di latitudine, ma nessuno ha prestato fede a ciò che lasciò scritto. — Credete che esista voi? — No, disse Wilkye, con profonda convinzione. — Se esistesse, potremmo incontrare la spedizione inglese. — Non speratelo, Peruschi. Lo sgelamento è mancato quest’anno e la Stella Polare deve trovarsi imprigionata fra i ghiacci. — Ma quegli uccelli? Perchè si dirigono al sud? — Lo sapremo se giungeremo al polo. Affrettiamoci, amici: la provvista di petrolio sta per terminare ed in questa regione, fra un mese, può ricominciare l’inverno. Risalirono sulla macchina e ripresero la corsa verso il sud, salendo e discendendo le ondulazioni di quella gran pianura. Il 28, dopo una marcia rapidissima e quasi mai interrotta, giungevano all’84° di latitudine, senza aver incontrata alcuna catena di monti, nè alcun essere vivente. Quella sera il freddo quasi all’improvviso scese a -22°. Durante le due ore che il sole stette nascosto sotto l’orizzonte scese di altri 5°, e sotto la tenda, non più riscaldata dalla macchina per economizzare il petrolio, regnò una temperatura tale che i due velocipedisti, non abituati a quei rigori invernali, penarono assai a dormire e batterono i denti lunghe ore, quantunque Wilkye avesse acceso la piccola lampada ad alcool. L’indomani il freddo non cessò. I tre esploratori si videro costretti a coprirsi le mani con grossi guanti foderati internamente di pelo ed il viso col cappuccio di pelle d’orso, per evitare la congelazione. — Siamo in estate e comincia già l’inverno, disse Blunt. Brutto segno, signor Wilkye. — Lo so, amico mio, e da oggi vi raccomando di non levarvi più i guanti, se non volete perdere le mani. — Nemmeno di notte? — Mai, Blunt. — Sono le mani le prime a soffrire, mentre sono così necessarie? — La temperatura della pelle non è uguale in tutto il nostro corpo. Le parti più esposte all’influenza dell’aria, come l’estremità del naso, gli orecchi e le dita hanno una temperatura molto più bassa, cioè di soli 24° ed anche 22°. — E la temperatura normale sarebbe invece? — Per gli uomini dai venti ai trent’anni la temperatura della pelle varia fra i 29° 5 e i 32° di Celsio. — C’è una bella differenza quindi fra quella delle mani e del naso e quella del corpo, disse Peruschi. La parte più calda quale sarebbe invece? — La pelle di quelle parti del corpo sotto la quale si trovano i muscoli, mentre la più fredda è sempre quella che copre le ossa ed i nervi. — Aumentando l’età dell’uomo, scema la temperatura della pelle? — Sì, ed è per ciò che i vecchi amano più la stufa che i giovani. Basta, amici: una tazza di thè bollente e poi ripartiamo colla massima velocità, poichè il petrolio sta per finire. La macchina era sotto pressione e pareva impaziente di ripartire. Sorseggiarono il thè per riscaldarsi, si calarono i cappucci sul viso per difendersi dall’aria freddissima che soffiava dal sud e si slanciarono attraverso alla interminabile pianura con una velocità di ventotto miglia all’ora. Se nessun ostacolo veniva ad interrompere quella corsa, e se il petrolio non veniva a mancare, alla sera potevano rizzare le tende a breve distanza dal polo. Disgraziatamente però la provvista di petrolio spariva rapidamente. A mezzogiorno non ne rimanevano che pochi litri e la macchina diminuiva di pressione. Furono gettati tutti nel fornello. La macchina, che aveva cominciato a rallentare, riprese la corsa sbuffando e fischiando, salendo e discendendo a precipizio gli avvallamenti del suolo e scuotendo fortemente gli esploratori, che faticavano non poco a mantenersi sui loro sedili. Ben presto la velocità divenne vertiginosa: filavano come veri uccelli, come un treno accelerato. Tutte le parti del velocipede fremevano con un lungo tintinnio metallico e pareva che da un istante all’altro dovessero spezzarsi. Ahimè! erano gli ultimi sforzi! Alle tre pomeridiane la celerità cominciò a rallentare; alle tre e mezza la macchina non sbuffava che stentatamente e alle quattro meno dieci minuti le ruote s’immobilizzavano in un crepaccio del campo di ghiaccio. Per quella splendida macchina, costruita con tante cure, per quel capolavoro della meccanica, era suonata l’ultima ora. Il Polo Australe l’aveva vinta!..... CAPITOLO XX. I biciclettisti. La situazione degli arditi esploratori stava per diventare molto critica e le rosee speranze stavano per svanire. Arrestati a più di trecentocinquanta miglia dal polo, a corto di viveri, lontani mille e cento miglia dalla capanna, d’ora innanzi non dovevano contare che sulle loro forze e sulle loro gambe. Il polo era vicino e colle biciclette potevano raggiungerlo; ma avrebbero potuto effettuare il ritorno alla costa, prima che il tremendo inverno piombasse loro addosso e tramutasse quelle pianure in un immenso deserto di neve, impossibile ad attraversare? E poi avrebbero potuto resistere a quei freddi senza una stufa od una macchina che li riscaldasse, non possedendo che una lampada e dodici litri di alcool? Ed i viveri, avrebbero potuto durare tanto, mentre ormai cominciavano a scarseggiare? Quale suprema lotta stavano per intraprendere e quali crudeli sofferenze stavano per affrontare? Wilkye, disceso dalla macchina, si era seduto su di un hummock come fosse sfinito ed affranto da una tetra disperazione, e di là, colle braccia incrociate, le labbra strette, il viso pallido ed alterato, gettava cupi sguardi sull’immensa e silenziosa pianura che smarrivasi verso le lontane regioni del sud. Pareva immerso in profondi pensieri o in lotta contro una disperata risoluzione. I suoi due compagni si erano intanto messi a scaricare i viveri, la tenda e tutto il corredo, accumulandoli sul ghiaccio. Sembravano però tranquilli e fidenti nel loro capo. — Signor Wilkye, disse Peruschi, quand’ebbero terminato. Dobbiamo rizzare la tenda o ripartiamo? Possiamo provare le biciclette e guadagnare un altro grado, prima dell’ora della cena. Wilkye si alzò e porgendo a loro le mani, disse con voce commossa: — Siete due valorosi, due uomini degni di comparire a fianco dei più audaci esploratori. Dunque non vi spaventa ancora, questa corsa verso il polo? — No, signore, e siamo pronti a seguirvi. — È mio dovere di avvertirvi che stiamo per giuocare le nostre esistenze. I viveri ci possono mancare nel ritorno. — Ci metteremo a razione, signore, disse Peruschi. Ve lo abbiamo già detto, noi non siamo venuti qui per fare una gita, ma per lottare contro gli ostacoli più tremendi, pur di spiegare la bandiera dell’Unione Americana ai confini del mondo. — È vero, signore, confermò Blunt. — Allora noi andremo al polo, amici, disse Wilkye. Ormai più nessun ostacolo, nè la fame, nè il freddo, nè i ghiacci ci arresteranno. Sciogliete la macchina. — Ma potremo noi trasportare tutti i viveri, le tende, le armi, le munizioni, le vesti ecc.? chiese Peruschi. — Non ci caricheremo che del puro necessario, rispose Wilkye. Dei viveri per nutrirci dieci giorni, la tenda che ci è indispensabile per ripararci alla notte dal freddo, le coperte di lana, le armi con cinquanta cariche e la lampada ad alcool. — Lasceremo qui il resto? — Sì, Peruschi, e riprenderemo tutto nel nostro ritorno. — Ma gli animali possono divorarci i viveri. — Rizzeremo un cairn come usano le popolazioni del Polo Artico. Al lavoro, amici!... Come si disse, la macchina era costruita in modo che si poteva smontare ottenendo tre biciclette. Wilkye, che aveva assistito alla costruzione, in pochi minuti sciolse i diversi pezzi, unì le ruote, vi adattò le sterze ed i manubri che aveva recati con sè, mise a posto i sellini e consegnò ai suoi amici le tre biciclette, che in fatto di solidità nulla avevano da invidiare alle altre. — È fatto, disse. Ora aiutatemi a rizzare il cairn. Radunò tutti gli oggetti che non potevano trasportare ed intorno ad essi si mise ad ammucchiare dei massi di ghiaccio, che i suoi compagni tagliavano nel campo, formando una specie di piramide alta parecchi metri. — Ecco ciò che si chiama un cairn, disse, quand’ebbe terminato. Ci sarà facile a ritrovarlo in questa pianura e nessuno toccherà la nostra riserva. In sella, amici, e avanti sempre: la fortuna è con noi!..... Salirono sulle biciclette dopo di essersi caricati delle provviste, delle tende, delle coperte e delle armi le quali potevano diventare preziose, e riforniti di viveri e della lampada ad alcool per la cucina, ripartirono verso il sud, con una velocità media di quindici miglia all’ora. Quantunque fossero tutti e tre valenti velocipedisti, pure impacciati come erano da quelle vesti pesanti, dapprima si trovarono a disagio, ma ben presto, specialmente dopo essersi riscaldate le membra, si abituarono. La pianura del resto si prestava molto a quella corsa, essendo perfettamente liscia e le ruote non scivolavano, essendo leggermente dentellate. Dovevano però evitare con estrema prudenza le sporgenze ed i margini delle spaccature, per non correre il gravissimo pericolo di guastare le gomme, quantunque fossero vulcanizzate per poter meglio resistere ai freddi eccessivi di quella regione. Peruschi, ch’era il più valente, apriva il passo, tenendo sulla cima dello sterzo la bussola per mantenere l’esatta direzione, quantunque già quell’istrumento avesse subìto una notevole variazione e non indicasse più il sud del globo, essendo situato il polo magnetico, a quanto sembra, a 70° di latitudine e 190° di longitudine, secondo Hanster, e secondo Duperrey a 70° 90' di latitudine e 195° di longitudine. L’intrepido velocipedista, che affrettava sempre più la marcia, additava ai compagni i crepacci e le striature del ghiaccio a margini rialzati, evitando loro delle brusche evoluzioni, che potevano produrre dei gravi capitomboli. Alle sette di sera avevano già guadagnato quaranta miglia verso il sud, toccando gli 84° 40' di latitudine. Wilkye, volendo risparmiare le forze dei compagni, stava per gridare a Peruschi di arrestarsi, quando vide piombare addosso al velocipedista una massa bruna, che era improvvisamente sorta dietro ad una piramide di ghiaccio. L’assalto fu così repentino che il disgraziato Peruschi stramazzò pesantemente sul campo di ghiaccio, emettendo un grido di terrore. Quella massa oscura gli si era gettata addosso e pareva che stesse per stritolarlo. — Peruschi!.. gridò Wilkye, facendo uno sforzo disperato per accelerare la corsa. — Aiuto, signor Wilkye!.. rispose il velocipedista. — Gran Dio! esclamò Blunt. Un animale lo divora!...... Wilkye con una rapida corsa giunse a pochi passi dal velocipedista, il quale si dibatteva disperatamente contro un animale enorme che tentava di schiacciarlo col proprio peso e di stritolargli il capo fra le mascelle. Armò rapidamente il fucile e fece fuoco a sei passi di distanza. L’animale, udendo la detonazione, fece un balzo indietro, poi stramazzò a terra come fosse stato colpito a morte, ma facendo uno sforzo supremo si rizzò sulle zampe posteriori e si precipitò addosso a Wilkye emettendo delle rauche urla. Quella fiera del continente antartico, faceva davvero paura. Rassomigliava ad un orso, ma il suo corpo aveva dimensioni maggiori di quelli della regione artica, il suo muso era un po’ più allungato, i suoi occhi più grandi e feroci ed il suo pelo era lunghissimo e di colore bruno-rossiccio. Ritto sulle zampe posteriori misurava almeno sette piedi d’altezza e poteva gareggiare col gigantesco orso grigio delle grandi Montagne Rocciose dell’America settentrionale. Quantunque fosse stato ferito, poiché il sangue gli sgorgava dal petto arrossando il ghiaccio, in un lampo fu addosso a Wilkye, il quale si trovava inerme, mancandogli il tempo di aprire la cartucciera. L’intrepido americano però non si smarrì: afferrò il fucile per la canna e, servendosene a guisa di mazza, percosse furiosamente il muso della fiera, fracassandole una mascella. Quel momento bastò. Blunt era già giunto e Peruschi si era prontamente alzato da terra col fucile in mano. — Fatevi da parte, signor Wilkye, gridarono. Echeggiarono due detonazioni: l’animale colpito da due altre palle s’arrestò, gettando un rauco urlo, girò su se stesso, poi piombò sul ghiaccio rimanendo perfettamente immobile. — È morto! gridò Wilkye. Grazie, amici. — Grazie a voi, signore, disse Peruschi. Senza il vostro soccorso, a quest’ora non sarei più nel numero dei viventi. — Siete ferito? — Non mi ha stracciata che la casacca. — Ma è un orso? disse Blunt. — Credo che appartenga alla famiglia dei plantigradi, rispose Wilkye. Mi sorprende però di aver trovato qui un simile animale. — E perchè, signore? Forse che al polo artico non vi sono gli orsi bianchi? — È vero, Blunt, ma gli esploratori antartici non ne hanno mai veduti su questo continente. — Mai? — No, poichè nessuno ne ha fatto menzione. — Forse questi orsi vivono solamente nell’interno del continente e fuggono le vicinanze del mare. — Deve essere così, disse Wilkye. Gli esploratori antartici non si sono inoltrati nel continente e questi animali possono essere sfuggiti ai loro occhi. Comunque sia, io penso che noi abbiamo qui tanta carne da cibarci per parecchie settimane. — Sarà mangiabile? chiese Peruschi. — E perchè no? La carne dei plantigradi è eccellente, anzi rassomiglia a quella dei maiali, e conto di regalarvi un arrosto delizioso. — Ci fermiamo qui? — Sì, Peruschi. Sono già le sette e siamo stanchi: un riposo di dieci ore ci farà bene. — Dovremo però vegliare per turno, disse Blunt. Ora che sappiamo che qui ci sono degli orsi, sarebbe un’imprudenza addormentarci senza un compagno che vegli. — Ognuno farà il suo quarto di guardia. Ed il vostro velocipede, si è guastato, Peruschi? — No, signore. Ho avuto la precauzione di allontanarlo subito, prima che le zampaccie dell’orso me lo rovinassero. Sarebbe stata una disgrazia irreparabile. — È vero, Peruschi; sareste stato costretto a rimanere qui, ed a ritornare alla costa a piedi. Facciamo a pezzi l’orso. Abbiamo dell’alcool e la piccola lampada ci permetterà di arrostire alcune costolette. Mentre Blunt rizzava la tenda, Wilkye e Peruschi armatisi di scure e di coltello, si misero a sezionare l’orso, dopo d’averlo privato della folta pelliccia. Scelsero il pezzo migliore, ne misero da parte alcuni altri che dovevano servire nei giorni susseguenti e il rimanente chiusero in un cairn per ritrovarlo al ritorno, non potendo, come è facile immaginare, caricarsi d’un peso così enorme. Accesa la lampada, anche per rialzare un po’ la temperatura interna, facendo molto freddo anche sotto la tenda, misero ad arrostire un pezzo d’orso, il quale non tardò a spandere all’ingiro un odore appetitoso. — Se ci fosse qui Bisby, quale scorpacciata farebbe! disse Peruschi. — Ne farà forse una migliore nella capanna, in questo momento, disse Wilkye. È venuto al polo per ingrassare, immaginatevi voi come saccheggierà le nostre provviste. Ho fretta di ritornare per tema di non trovarne più. — Quale disgrazia, se ci desse fondo prima del nostro ritorno. Fortunatamente vi è la Stella Polare. — Voi contate sulla nave? Io temo di non rivederla più mai. — Credete che si sia fracassata, signor Wilkye? — Che sia stata imprigionata fra i campi di ghiaccio. — Non potrebbe liberarsi? — Forse, ma l’anno venturo. Moltissime sono state le navi che dovettero svernare fra i ghiacci un intero anno ed anche due. — Un simile ritardo sarebbe disastroso per noi, signor Wilkye, disse Blunt. — Lo so, amici, ma se torniamo prima che piombi su di noi l’inverno, ci affretteremo a lasciare il continente, imbarcandoci sulla scialuppa. — In queste regioni è sempre eguale l’inverno? — No, Blunt. Talvolta è così freddo e così precoce che sul finire dell’estate tutte le coste sono bloccate dai ghiacci e gela un vasto tratto di mare. Anche nelle nostre regioni gli inverni non sono mai eguali e ne abbiamo avuti di quelli veramente rigidissimi. Nel 1400, per esempio, tutti i mari al nord dell’Europa gelarono, impedendo la navigazione. Nel 1410, il freddo divenne così intenso in Europa ed in Asia, che l’inchiostro gelava all’estremità delle penne, costringendo gli scrittori ad adoperare le matite, e la mortalità fu così grande, che in Russia i lupi entravano a branchi nelle città per divorare i cadaveri abbandonati nelle vie. — Era una temperatura polare, disse Peruschi. — Anche nel 1558, il freddo fu tremendo in Europa, continuò Wilkye. In parecchi Stati si vendeva il vino a peso, dovendolo spaccare a colpi di scure, perché erasi gelato. Nel 1709, un altro inverno crudissimo, fece morire gran numero di persone in Europa ed in America: le campane, suonandole, si spezzavano, e moltissime piante dei giardini soccombettero. Nel 1795 il gelo fu così intenso, che non fu possibile un fatto d’armi in tutta l’Europa, e permise, a pochi squadroni di cavalleria francese, di fare prigioniera la flotta olandese che era stata chiusa fra i ghiacci del Texell. — Un bel caso! esclamò Blunt. La cavalleria che prende una flotta! Si è mai udita una cosa simile? Quale sorpresa per gli equipaggi olandesi! — Basta, signori, disse Peruschi. L’arrosto è pronto e vi assicuro che è migliore di un pezzo di maiale. Si assisero sulle pelli ed assalirono vigorosamente l’arrosto il quale fu, ad unanimità, dichiarato squisito. Alle 9, Wilkye e Blunt si avvolgevano nelle loro coperte e si addormentarono sotto la guardia di Peruschi a cui spettava il primo quarto. CAPITOLO XXI. Le pressioni dei campi di ghiaccio. Nessun pericolo era venuto a turbare quel primo quarto di guardia. Una calma assoluta ed un silenzio profondo regnavano sull’immensa pianura e nessun orso si era mostrato in alcuna direzione. Il sole, dopo d’aver tinto di rosso il campo di ghiaccio, era tramontato, lasciando brillare le stelle, e quell’ammirabile croce del sud, che in quelle regioni indica il polo australe. Blunt, a cui toccava il secondo quarto, ben avviluppato nella sua coperta di lana, si era seduto fuori della tenda col fucile fra le ginocchia, per vegliare sui compagni che russavano tranquillamente, distesi sulle loro pelli d’orso. Era già trascorsa un’ora, e verso il nord cominciava ad apparire una striscia di luce che annunciava l’imminente ritorno dell’astro diurno, il quale non rimaneva nascosto che due ore, quando tutto d’un tratto l’immenso campo di ghiaccio si mise a crepitare in modo strano. Pareva che una forza misteriosa, ma potente, tentasse di sollevarlo, o che lo comprimesse ai suoi confini. Qua e là si formavano delle fessure di una grande lunghezza, che tosto si richiudevano e si alzavano, in cerchi concentrici, delle colonne che subito scomparivano e si sfasciavano. Quel fenomeno nuovissimo ed assolutamente inesplicabile per Blunt, durò tre o quattro minuti, poi la calma ritornò, e quegli stridori improvvisamente cessarono. — Che sia avvenuto qualche terremoto? si chiese il velocipedista, stupito. Fortunatamente qui non vi sono case che ci possano crollare addosso. Spero che il signor Wilkye mi spiegherà questo fenomeno e..... Non finì. Una brusca scossa era avvenuta e l’immensa pianura aveva oscillato così violentemente da farlo cadere. Quasi subito degli strani rumori si propagarono sotto la pianura. Erano fischi acuti, stridori prolungati, sorde detonazioni e muggiti che crescevano di intensità. Wilkye e Peruschi, svegliati bruscamente, si erano precipitati fuori. Quale spettacolo! All’incerta luce dell’alba, si vedeva la pianura ondeggiare come se sotto di essa si dibattesse un mare in burrasca: si spaccava, si rinchiudeva con formidabili detonazioni, con ululati spaventosi, con ruggiti da far rabbrividire, si alzava e si abbassava violentemente, e per ogni dove s’innalzavano delle piramidi enormi, come se fossero spinte fuori da una potenza tremenda, che poi si sfasciavano con immenso fracasso, scagliando i loro frantumi a grande distanza. — Gran Dio! esclamò Wilkye, impallidendo. Le pressioni!... Dove siamo adunque noi? — Che si sfasci tutta la pianura? chiese Blunt, con accento di terrore. Non ho mai veduto una scena simile. — Tenetevi pronti a fuggire, rispose Wilkye. Siamo nelle mani di Dio!... — Ma dove volete fuggire, che tutta la pianura si solleva? chiese Peruschi. Siamo in mezzo ad una burrasca di ghiacci. — Non lo so, ma, se il banco si fende, bisogna fuggire o verremo inghiottiti! Intanto la grande pianura continuava ad agitarsi convulsivamente, a fischiare, a stridere, a muggire ed a tuonare con fracasso assordante. Vi erano certi momenti che si incurvava in alto, da temere che scoppiasse e, cosa davvero strana, degli ice-bergs sorti non si sapeva da dove, quasi fossero muniti di un motore, s’avanzavano attraverso ai ghiacci producendo delle spaccature tali da inghiottire una nave se si fosse colà trovata. Quella convulsione spaventevole durò solamente pochi minuti, forse un quarto d’ora, poi il grande campo si spianò, le spaccature si chiusero, i fischi ed i muggiti cessarono e non si intese altro che un leggero fremito che agitava la crosta di ghiaccio su d’un vasto tratto. — Sono cessate, disse Wilkye, respirando liberamente. — Non si ripeterà questo fenomeno? chiese Blunt. — Chi può dirlo? Le pressioni talvolta durano dei giorni interi. — Ma da cosa derivano queste pressioni? — Sono prodotte dai ghiacci: come voi sapete, l’acqua, gelando, occupa uno spazio più considerevole e la sua forza d’espansione è così potente, da rovesciare qualsiasi ostacolo. Il freddo di questi giorni ha gelato l’acqua sottostante al grande banco che noi percorriamo, ed il nuovo ghiaccio, dilatandosi, ha prodotto questa tremenda convulsione. — Ma dunque non ci troviamo più su di una pianura? chiese Peruschi. — No, noi ci troviamo sopra un vasto banco di ghiaccio. La pianura non esiste più: queste pressioni ce’l dicono. — Adunque il continente australe non si spinge fino al polo? — Non mi sembra. — Che nel suo interno contenga un mare od un lago? — Chi può dirlo? — Non potremo saperlo? — Forse. — Che Linderman abbia la possibilità di spingersi fin qui? chiese Blunt. — Il ghiaccio non si è sciolto e la sua nave non ha i mezzi necessari per passare sopra i grandi banchi. — E queste pressioni permetteranno a noi di poter giungere al polo? — Speriamolo, Peruschi. — Sono spaventevoli, signore! — Lo so, ma non si possono evitare e saremo costretti ad affrontarle coraggiosamente. — Udite come questo grande banco freme? — Sì, e forse continuerà parecchio tempo. — Ripartiamo? — Blunt non ha riposato che due sole ore. — E non ho più voglia di dormire, signore, disse il velocipedista. Questi fremiti m’impedirebbero di chiudere gli occhi. — Allora ripartiamo: forzando le marcie, posdomani possiamo giungere al polo. — In sella, signore, dissero i due velocipedisti. In pochi istanti piegarono la tenda, arrotolarono le coperte, raccolsero i viveri e ripartirono avventurandosi sul pericoloso banco che se era tornato liscio, pure subiva delle vibrazioni che nulla di buono pronosticavano. Fortunatamente le pressioni non si ripeterono, e a mezzodì gli arditi esploratori, dopo una corsa rapidissima, giungevano a 87° 44' di latitudine, ossia a sole centotrentasei miglia dal polo. Furono costretti a riposarsi parecchie ore, essendo affranti da quella lunga marcia. Quantunque la vicinanza del polo infondesse a loro una energia suprema, pure non si sentirono in caso di rimettersi in sella prima della quattro pomeridiane. Stavano per ripartire, quando scorsero parecchi stormi di volatili dirigersi verso il sud. Pareva che venissero tutti dal nord, ma erano così alti, da non poter distinguere a quale specie appartenessero. — Laggiù vi deve essere un mare o un lago, disse Wilkye. Quale sorpresa sta per prepararci il polo australe? Che sia vero, che al di là delle barriere di ghiaccio, si estenda il mare libero? Domani, se Dio ci aiuta, spero di saperlo. Ripartirono con una velocità di quindici miglia all’ora, volendo riposarsi al di là degli 89° di latitudine, ma furono ben presto costretti a rallentarla. Il grande banco tendeva a cambiare: non era più liscio come prima, ma interrotto da solchi e da ondulazioni assai marcate, da crepacci profondi entro i quali si vedeva gorgogliare un’acqua verde-cupa od azzurro-cupa, somigliante a quella degli oceani, e qua e là si rizzavano degli ice-bergs, delle piramidi bizzarre, delle colonne, delle cupole strane che scintillavano sotto i raggi del sole. Anche le vibrazioni del ghiaccio crescevano di momento in momento che la temperatura si abbassava, in causa del tramonto. Si udivano degli scricchiolii prolungati, dei fremiti sonori, delle lontane detonazioni e si producevano delle fessure che i velocipedisti evitavano con grande difficoltà, avvenendo improvvisamente. — Coraggio, amici, diceva Wilkye. Stiamo per superare le ultime barriere del polo. I due velocipedisti, quantunque fossero impressionati da quei continui rombi, lo seguivano sempre, evitando le spaccature e raddoppiando di lena, quando si presentava dinanzi a loro uno spazio piano e senza ostacoli. D’improvviso il grande banco sussultò fino agli estremi limiti dell’orizzonte e così fortemente, che per poco i tre velocipedisti non caddero di sella. Dopo quella prima scossa che annunciava l’approssimarsi delle tremende pressioni, cominciarono i muggiti, gli scricchiolii, le detonazioni, poi i ghiacci ripresero a sollevarsi ed a spaccarsi, vomitando sul banco immensi getti d’acqua. Gli ice-bergs, le piramidi, le colonne, le cupole oscillavano come se le loro basi fossero furiosamente scrollate da una banda di Titani; s’alzavano bruscamente, s’abbassavano, poi crollavano con sordo fragore, sfondando, col loro enorme peso, il banco, il quale s’apriva dovunque. I tre esploratori, impotenti a proseguire la corsa su quella superficie in convulsione, si erano arrestati, e pallidi, malgrado il loro coraggio, gettavano sguardi atterriti su quei ghiacci che parevano pronti ad inghiottirli nei profondi baratri del mare australe. La morte stava a loro dinanzi, di dietro, a destra ed a sinistra e nulla potevano fare, nulla tentare per sfuggirla. Essi si chiedevano angosciosamente se erano proprio destinati a perire nel momento che stavano per trionfare, nel momento in cui, dopo tante peripezie coraggiosamente affrontate, stavano per piantare il vessillo americano su quel punto situato ai confini del mondo australe che tanti audaci, ma meno fortunati esploratori, avevano tentato per quattro secoli, ma senza riuscirvi, di raggiungerlo. La tremenda convulsione del campo di ghiaccio durò due ore, lunghe come due secoli per gli esploratori che avevano veduto spaccarsi il ghiaccio fin sotto ai loro piedi; poi le oscillazioni si calmarono, i muggiti e le detonazioni cessarono ed i crepacci si rinchiusero. Il nuovo ghiaccio si era fatto posto, ma quel campo non era più liscio come prima, era coperto di picchi aguzzi, di piramidi, di ondulazioni, di punte, di massi enormi. — Mi sembra un sogno di essere ancora vivo, disse Blunt, che era ancora pallido. Mai ho veduto la morte così vicina, signor Wilkye. — Affrettiamoci a raggiungere il polo, disse Peruschi. Io ne ho abbastanza di questi luoghi e sospiro il momento di ritornare al continente. — Sì, signor Wilkye, disse Blunt. Approfittiamo di questa calma per raggiungere il polo; io non dormirò di certo su questo banco. — Ma sono quindici ore che non riposate, Blunt, disse Wilkye. — Mi sento forte, rispose il velocipedista. Preferisco correre tutta la notte piuttosto che riposarmi qui. Quanto distiamo dal polo? — Forse centoventi miglia; resisterete tanto? — Sì, risposero i due velocipedisti. — Allora ripartiamo: domani mattina noi avremo scoperto il polo. — Avanti, signore! Risalirono sulle biciclette e ripresero la corsa attraverso al campo di ghiaccio che continuava a fremere ed a crepitare, ma ben presto furono costretti a rallentarla e ad avanzarsi con estrema prudenza. I crepacci si moltiplicavano dinanzi a loro, obbligandoli di frequente a fare dei giri lunghissimi; gli ice-bergs che si rizzavano in forma di grandi massi, sbarravano ad ogni istante la via, costringendoli a fermarsi per trovare dei passaggi; le sporgenze crescevano ad ogni istante minacciando di guastare le gomme delle biciclette, pure si sforzavano a tirare innanzi e nessuno parlava di fermarsi. La speranza di giungere ben presto al polo, infondeva in tutti una energia straordinaria e faceva dimenticare ogni fatica. A mezzanotte un altro grado era stato superato: sole sessanta miglia li dividevano dal polo. La croce del Sud ormai brillava quasi sopra le loro teste. S’arrestarono qualche ora per sorseggiare una tazza di thè bollente, essendo il freddo aumentato, poi ripresero la corsa in mezzo ad una moltitudine di blocchi di ghiaccio, che si addossavano gli uni agli altri. Alle tre del mattino, nel mentre che il sole appariva all’orizzonte, Peruschi, che precedeva i compagni di due o trecento passi, segnalò un’alta montagna che si ergeva verso il sud e poco dopo una superficie azzurro-cupa, che pareva acqua. — Che il mare libero si estenda veramente attorno ai poli? si chiese Wilkye. Che la supposizione degli scienziati e dei naviganti artici ed antartici sia una realtà? Ah! ora comprendo perchè gli stormi d’uccelli filavano verso il sud!... Animo, amici, il polo è a poche miglia da noi!... Non era necessario incoraggiare i due velocipedisti, i quali in preda ad un entusiasmo che di minuto in minuto diventava più vivo, precipitavano la corsa, girando attorno alle montagne di ghiaccio, ai crepacci, agli ostacoli d’ogni specie, senza rallentare. — Animo, animo, che il polo ci è vicino! ripetevano. Gli ostacoli però si moltiplicavano dinanzi a quel libero mare che scintillava verso il sud e dinanzi a quella montagna che prendeva proporzioni gigantesche. I passaggi diventavano sempre più radi fra gli ice-bergs i quali ormai pareva che chiudessero l’orizzonte meridionale e gli esploratori perdevano un tempo prezioso. Alle otto antimeridiane, affranti dalla fatica e dall’insonnia, furono costretti a fermarsi nuovamente per riprendere lena. Ma ormai il mare libero era vicino e la grande montagna che si rizzava nel mezzo, era interamente visibile. Alle 10, facendo un ultimo sforzo, intrapresero la scalata degli ice-bergs spingendo innanzi a loro le biciclette, e alle 11,50 giungevano, quasi improvvisamente, sull’orlo dell’immenso campo di ghiaccio, a pochi passi dal mare. Un urrah fragoroso echeggiò sulle sponde di quel bacino, che mai, prima di allora, erano state calpestate da piede umano. Wilkye estrasse il sestante, aspettò il mezzodì e fece rapidamente il calcolo. — Amici miei, diss’egli con voce estremamente commossa e levandosi il berretto, noi siamo al polo australe!... Spiegate la bandiera dell’Unione Americana!... Poi inoltrandosi verso quel mare, con voce solenne disse: — Prendo possesso, in nome della mia patria, di questa regione. Forse nessun essere umano mai verrà a premere il suo piede su queste terre od alcuna nave a solcare le onde di questo mare, ma comunque sia, il polo australe ci appartiene. Blunt aveva estratta una piccola bandiera e Peruschi aveva rapidamente unita un’asta avvitando dei cannelli di alluminio, che portava nel suo sacco da viaggio. Wilkye spiegò il vessillo e lo piantò sulla sponda salutandolo con un triplice e fragoroso urrah!! Il polo australe era stato finalmente vinto!... CAPITOLO XXII. Il polo Antartico. L’audacia, la perseveranza, l’intelligenza del capo della spedizione avevano dunque trionfato! L’ardito tentativo di raggiungere l’estremo limite del mondo australe, passando coi velocipedi attraverso a quel continente, era pienamente riuscito, mentre erano fallite le spedizioni precedenti dei Weddell, dei Foster, dei Biscoë, dei Dumont d’Urville, dei Wilkes, dei Balleny e dei Ross, che avevano cercato di superarlo con le loro navi. Ormai il polo sud non era più un punto misterioso, impenetrabile, per la spedizione americana. Quella regione, tanto avidamente cercata e discussa dai naviganti e dagli scienziati, si estendeva dinanzi agli occhi dei tre arditi velocipedisti. Passato il primo slancio d’entusiasmo, si erano spinti fino al margine del grande campo di ghiaccio e guardavano avidamente quella regione sconosciuta, che forse non dovevano più mai rivedere, quasi volessero imprimersela in mente in modo che non potesse più a loro sfuggire. Quel mare, che era perfettamente libero, pareva che dovesse avere una grande estensione, poichè le sue sponde, formate da grandi banchi di ghiaccio, si perdevano verso l’est e l’ovest e non potevansi scorgere quelle opposte. In mezzo, un’alta montagna, che sembrava inaccessibile, essendo tagliata quasi a picco, lanciava la sua vetta a oltre quattromila piedi. I ghiacci e le nevi la rivestivano, ma qua e là essa mostrava degli spazi aperti, delle rocce rossastre che sembravano di natura vulcanica. Su quel mare, un numero infinito di pinguini, di diomedee fuliginose, di Micropterus cinereus, di Megalestris antarctici nuotavano o svolazzavano, mentre sulle sponde dei banchi si vedevano centinaia di foche che si scaldavano ai tiepidi raggi del sole, ed in lontananza alcuni orsi simili a quello che aveva assalito Peruschi. Tutti quegli uccelli non parevano affatto spaventati dalla comparsa degli esploratori. I pinguini venivano a giuocherellare vicino ad essi, guardandoli con curiosità ed i volatili volteggiavano in grandi stormi sopra di loro salutandoli con gioconde grida e si posavano a pochi passi senza manifestare il menomo timore. Anche le foche li guardavano placidamente e rimanevano sdraiate ai loro posti. — Quanta famigliarità in questi animali! esclamò Blunt. Senza dubbio non hanno mai veduto uomini, ed ignorano le armi da fuoco. — Siamo i primi a giungere qui, disse Wilkye. Ah! amici miei, quanto sono contento di questa scoperta, che gli storici ed i geografi tramanderanno ai posteri. Ormai il polo australe non è più una incognita! — Ma questo mare, non permetterà a Linderman di giungervi? — No, disse Wilkye. Questo è un mare interno racchiuso nel cuore del continente, io ne sono certo. Nessuna nave, a meno che non sia fornita di ali o di ruote, mai vi giungerà. — Quale colpo per l’inglese, quando apprenderà che noi siamo giunti!... — Se lo ritroveremo! Io temo assai per lui. — E cosa, signor Wilkye? — Io non lo so, ma ho dei sinistri presentimenti e sarà prudenza affrettare il nostro ritorno, amici miei. — Non ci arresteremo qui, fra tanta abbondanza? — Un ritardo di pochi giorni può esserci fatale, Peruschi. L’estate è assai avanzata, l’inverno non è lontano e la via è lunga per ritornare alla costa. È necessario affrettare la nostra partenza, poichè sono impaziente di rivedere Bisby ed i marinai. Per giungere qui abbiamo impiegato un tempo molto superiore alle nostre previsioni e più ne impiegheremo nel ritorno, ora che la macchina è inservibile. ....Anch’io, amici, desidererei arrestarmi qui parecchie settimane per fare numerose osservazioni e sciogliere tanti quesiti polari che la scienza attende dagli esploratori, ma un lungo soggiorno sarebbe forse la nostra perdita. — Ci permetterete prima di fare un banchetto al polo australe, disse Peruschi. Vi è tanta selvaggina qui, che mi spiacerebbe di non approfittarne. — Vi accordo ventiquattro ore di riposo. Intanto ch’io faccio uno schizzo di questa regione che noi mai più rivedremo, voi andate a cacciare. — Non impiegheremo troppo tempo; qui basta aprire le mani per torcere il collo ai volatili. Andiamo, Blunt. Mentre Wilkye faceva un disegno di quelle coste, di quel mare e di quell’alta montagna, i due velocipedisti si slanciavano attraverso al banco prendendo a schioppettate le pacifiche foche ed i volatili. Mezz’ora dopo ritornavano portando con loro i fegati di tre foche e una mezza dozzina di oche la cui carne, quantunque nera, è stimata. La piccola lampada fu accesa e si misero ad arrostire i fegati. Vi aggiunsero una zuppa d’oca, sacrificando gli ultimi biscotti che ancora possedevano e sturarono l’ultima bottiglia di wisky che avevano religiosamente conservata per vuotarla al polo. Quel pasto, improvvisato all’estremo limite dell’emisfero australe, sulla sponda di quel mare perduto fra quelle deserte regioni, fu quanto mai allegro. I tre esploratori brindarono parecchie volte alla patria lontana, agli amici che forse li ritenevano seppelliti sotto i banchi di ghiaccio, ed al polo. — Quanti scienziati e quanti arditi esploratori, ci invidierebbero questo pranzo fatto qui, disse Peruschi. — Ed anche quanti touristes, disse Wilkye. Noi, amici miei, ci troviamo in una posizione così bizzarra, che soddisferebbe qualunque persona. Non vi sembra infatti strano di aver pranzato in compagnia, mentre dovremmo essere separati da una grande distanza, da parecchie ore di rapidissima marcia? — E perchè, signore? chiese Peruschi. — Perchè noi ci troviamo seduti sopra un differente meridiano. Qui i migliori orologi sarebbero inutili, poichè indicherebbero tutti un’ora diversa, facendo tutti i meridiani capo ai poli. Mentre il mio cronometro segna le 2 pomeridiane, per voi, Blunt, sono le 3, per Peruschi le 4 ecc. — Infatti avete ragione, signore, disse Blunt. — Un’altra bizzarrìa: noi abbiamo pranzato in un punto del mondo che non ha nè il nord, nè l’est, nè l’ovest ma solamente il sud. Sapreste voi indicarmi i punti cardinali da qui? — No, signore, disse Peruschi. Qui non vi è che il sud. La cosa è assai curiosa, ma vera. — Ditemi, sono stati molti gli esploratori che hanno tentato di scoprire questo polo Australe? chiese Blunt. — Parecchi, ma nessuno ha sorpassato i 78° 9' 90" di latitudine. L’olandese Gheritk, nel 1600 viene spinto verso il sud dalle tempeste e dalle correnti, e pel primo scopre le New-Shetland, annunciando al mondo l’esistenza di terre al di là del 64° di latitudine. Nel 1772 il luogotenente Kerguelen, della marina francese, parte per le regioni australi e scopre l’isola che porta il suo nome. Credendo di aver approdato sul continente polare, rinnova il tentativo nel 1773, ma i ghiacci lo obbligano a ritornare. Il 7 gennaio 1773, il famoso navigatore Cook, seguendo il 38° meridiano, giunge a 67° 30' di latitudine e l’anno seguente a 71° 15', ma lo scorbuto scoppiato fra i suoi equipaggi e le montagne di ghiaccio, lo costringono ad interrompere il tentativo. In quell’istesso anno, Resneret sbarcava a Kerguelen e ne prendeva possesso in nome del Re di Francia. L’affermazione di Cook, che in quelle regioni si estendeva un grande continente, diede un novello impulso alle esplorazioni antartiche. Abramo Bristol, nel 1806, si mette in mare, scopre le isole Aukland, vasto arcipelago che ha buoni porti, ma freddissimo e arido. Nel 1810 Federico Hazlebourg si slancia sulle tracce di Bristol e scopre l’isola Campbell, situata al sud delle Aukland. Nel 1819 il russo Billinghausen si spinge fino al 70° di latitudine e scopre due isole che chiamò Alessandro I e Pietro I. Nel 1820 l’inglese Brunsfield è arrestato dai ghiacci al 65° di latitudine. Nel 1820 il nostro compatriota Morrel giunge a 70° 14' di latitudine asserendo di aver scoperto il mare libero, ma pochi vi prestano fede e con ragione, esistendo qui un continente impenetrabile alle navi. Nel 1822 Palmer, cacciatore di foche, scopre la costa che porta il suo nome e, nel 1825 Powell, scopre le Orcadi Australi, ma i ghiacci lo arrestano al 62° di latitudine. Nello stesso anno un altro pescatore di foche, l’inglese Weddell visita le Orcadi, le Nuove Shetland, la Terra di Sandwik già conosciuta da Cook, si avanza fra i ghiacci fino a 74° 15' di latitudine e il 34° 71' di longitudine. L’inverno lo costringe al ritorno, dopo aver scoperto due altre isole, quelle di Denin e di Marsereen, ma queste non vennero più ritrovate e si crede che abbia scambiato delle enormi montagne di ghiaccio per delle isole. L’inglese Foster nel 1829, dopo aver scoperto l’isola Decéption, prende possesso delle terre australi a 63° 21' di latitudine e 66° 27' di longitudine. Biscoë, col brik Tuba, nel gennaio 1831 scopre le terre d’Enderby fra il 60° e 70° di latitudine, vede l’isola Adelaide, e nel 1833 giunge su di una costa che chiama Terra di Graham. L’inglese Balleny salpa per le regioni australi nel 1839, scopre le cinque isole che portano il suo nome, segue i ghiacci galleggianti, scopre la Terra Sabrina e avanzandosi più oltre si trova chiusa la via da monti che egli credeva di ghiaccio e che invece più tardi, Dumont d’Urville, riconobbe per monti del continente polare situati sulla costa Clarie. Contemporaneamente l’inglese Wilkes ed il francese Dumont d’Urville tentarono pure di giungere sul continente australe. Quest’ultimo poi che era partito nel 1838 colle corvette Zélée e l’Astrolabe, volendo cercare il mare libero scoperto da Weddell, si era trovato invece dinanzi ad un enorme bastione di ghiaccio. Costeggiandolo raggiunge le Orcadi che erano cinte da immense montagne di ghiaccio, poi piega al sud, correndo il pericolo, per tre giorni interi, di far schiacciare le sue navi dagli ice-bergs, poi scopre una costa che chiamò Terra Luigi Filippo e Jonville e parecchie isole. Essendosi ammalata la ciurma, ritorna verso il nord, ma l’anno seguente rinnova il tentativo in un punto diametralmente opposto, scopre una costa ed i suoi ufficiali, con una scialuppa sbarcano superando le barriere di ghiaccio e spiegano la bandiera. Quella terra era l’Adelia. Costretto a navigare verso il nord, al 130° meridiano vede un’altra costa che chiamò Terra Clarie, ma non potè approdare, anzi i suoi ufficiali ritenevano che fosse un enorme campo di ghiaccio. Intanto Wilkes che era partito dall’Australia con un rapidissimo viaggio, era giunto al 61° di latitudine, poi al 64°, e sbarcava sulla Terra Clarie, confermandone l’esistenza. Essendosi guastata una delle sue navi, la rimandava in Australia e col Porpoise e il Vincennes continuava l’esplorazione. Al 147° di longitudine trovava un mare sgombro dai ghiacci; si avanza fino al 67° fra due terre che parevano formassero un profondo golfo e giunge sulla Terra Adelia. Assalito da tremende burrasche di neve, ripara in un canale, poi scopre il capo Caer della Terra Clarie, indi si mette in cerca della Terra d’Enderby, ma la stagione era ormai troppo avanzata e dovette ritornare. Ed eccoci a Giacomo Clarke Ross, che fu l’ultimo degli esploratori del polo australe, ma anche il più fortunato, poichè si avanzò verso il polo più di tutti. — Senza scoprirlo però, disse Peruschi, che ascoltava attentamente. — Senza scoprirlo, rispose Wilkye, tuttavia giunse a sole seicento miglia, a ben breve distanza, come vedete. Questo valente navigatore, che più tardi doveva distinguersi anche al polo settentrionale, era partito dalla Terra di Wan Diemen, colle navi Erebus e Terror, dopo d'aver ottenuta una carta delle regioni australi da Wilkes. L’11 febbraio 1841 scopriva una costa montuosa che chiamò Terra Vittoria, sbarcando su di una isoletta che chiamò Possession. Non trovando vestigia di vegetazione, scese al sud e a 78° 7' di latitudine e 168° 12' di longitudine scopriva l’isola Franklin, poi il vulcano Erebo, alto 4000 metri, ed in piena attività, il vulcano Terror che era spento, poi si vide arrestato da un’immensa barriera di ghiaccio, mentre sperava di poter giungere all’80° di latitudine. Cercò un luogo da svernare a 78° 4' di latitudine per visitare il polo magnetico da cui distava soli 90 chilometri, ma fu costretto a tornare al nord. Cercò allora una terra che Wilkes diceva aver veduta, ma non la trovò in alcun luogo, e dopo cinque mesi ritornava a Wan Diemen. Ripartito nel gennaio 1842, fu chiuso dai ghiacci galleggianti per quattro settimane, poi essendosi liberato durante una terribile tempesta, potè giungere a 78° 9' 30" di latitudine, che fu il punto più lontano toccato. Il 5 aprile ritornava al nord svernando alle Falkland, ma il terzo anno seguendo il 55° di longitudine scopriva la Terra di Jonville alla punta francese, poi una montagna che chiamò Etna rassomigliando al vulcano siciliano, e constatò che la pretesa Terra Jonville, altro non era che un’isola. Più tardi scopriva l’Isola del Pericolo, quella di Cookburn, poi una costa notevole spingendosi fino al 71° 30' di latitudine, quindi assalito dai ghiacci fu costretto a fuggire e il 4 settembre gettava l’ancora nella baia di Folkestone. — Ora, amici miei, vuotate l’ultimo bicchiere e cercate di riposare, poichè domani partiremo per la costa. CAPITOLO XXIII. Il ritorno alla costa. Un soggiorno prolungato in quella regione, così lontana dal mondo abitato, poteva diventare fatale agli arditi esploratori che dovevano percorrere millecinquecento miglia attraverso ai campi di ghiaccio, prima di poter trovare un soccorso. Avevano impiegato già troppo tempo per giungere fin là e, quantunque si trovassero in piena estate, la più elementare prudenza consigliava di affrettare il ritorno alla costa. In quelle regioni, al 21 marzo il sole tramonta e una orribile notte di sei mesi piomba sul continente australe, e molto prima di quell’epoca cominciano le furiose nevicate ed i grandi freddi. Cosa sarebbe accaduto loro, se quei ghiacci si coprivano di nevi, rendendo a loro impossibile l’uso dei bicicletti? Avrebbero potuto percorrere l’enorme distanza a piedi, e sfidare quelle terribili congelazioni che incancreniscono il naso o l’estremità delle gambe? Un altro motivo più imperioso li consigliava anche di fuggire verso il nord. La tema di giungere alla costa troppo tardi e di correre il pericolo di trovarsi abbandonati, in pieno inverno, su quel continente. I loro compagni, non vedendoli ritornare nel tempo stabilito, potevano crederli morti, ed imbarcarsi nella scialuppa o sulla Stella Polare, nel caso che questa fosse stata costretta a retrocedere. Per queste ragioni, l’indomani i tre esploratori affrettarono i preparativi di partenza. Essendo quasi senza viveri, abbatterono parecchi volatili e due foche per ricavare l’olio necessario alla loro lampada, avendo ormai ultimato la loro riserva di alcool, poi visitarono le biciclette che trovarono in ottimo stato malgrado le pressioni dei ghiacci, e ripiegarono le coperte e la tenda. — Affrettiamoci, amici, disse Wilkye. Date un ultimo sguardo a questa regione che forse nessun altro uomo mai rivedrà, e poi partiamo. — E la bandiera? chiese Peruschi. — Rimanga qui a sventolare ai soffi del vento polare a testimonianza della nostra venuta. — Una parola, signore, disse Blunt. Propongo che quella montagna che erge la sua vetta verso la croce del sud, si chiami Wilkye. — Grazie, amico, disse l’americano. Ed io propongo che questo mare si chiami Peruschi, avendolo pel primo scoperto, e che questa distesa di ghiacci banco di Blunt. — Grazie, signore, dissero i due velocipedisti, commossi. Urràh pel monte Wilkye, urràh pel mare Peruschi e urràh pel banco Blunt!!! — Addio, polo australe, disse Wilkye, lanciando un lungo sguardo su quelle regioni. Possano altri uomini del pari fortunati, posare i loro piedi sui tuoi ghiacci immacolati, e rapirti i segreti che la scienza attende e che io non posso svelare. Balzarono sulle loro biciclette e s’allontanarono rapidamente attraverso il banco, seguendo il 68° meridiano che doveva condurli sulla terra di Graham, mentre la bandiera stellata dell’Unione ondeggiava ai venti del polo australe, sulle sponde del mar libero. La giornata era splendida e la temperatura, caso davvero strano per quelle regioni dei geli e delle nevi eterne, rammentava quasi, per la sua mollezza, una delle giornate primaverili dei climi temperati. Il sole, che era già alto sull’orizzonte, faceva perdere ai ghiacci il loro triste aspetto, e li faceva scintillare come enormi massi di cristallo, incrostati di opali e di smeraldi, e riflettere vagamente i colori dell'iride. Taluni colpiti di traverso dai raggi, pareva che fiammeggiassero, ed altri, perduti sui lontani margini del grande campo, pareva nuotassero in mezzo ad un mare porporino. Torrentelli e cascatelle d’acqua cadevano zampillando dagli ice-bergs che forse avevano sfidato lo sgelo per più secoli, e per la pianura scorrevano, mormorando, dei rivoletti che poi sparivano entro i crepacci con allegro sussurrìo. Anche gli uccelli pareva che festeggiassero quella dolce ed insolita temperatura. Grandi stormi volteggiavano sopra il campo, passavano rasente ai velocipedisti, salutandoli con le loro rauche grida, e gareggiavano con loro, quasi li invitassero a fuggire quelle inospitali regioni. Perfino delle foche erano uscite dai crepacci aperti nel ghiaccio ed erano venute a respirare quell’aria tiepida ed a scaldarsi ai raggi del sole. I tre velocipedisti non si arrestarono tuttavia a contemplare quella scena, che per loro era nuova. Curvi sui loro destrieri d’acciaio, fuggivano verso le lontane sponde della Terra di Graham, cercando di non rallentare. Una vaga inquietudine li tormentava, ed una voce sussurrava a loro di affrettare la ritirata, per non farsi sorprendere dai tremendi geli dell’inverno polare. Quell’inquietudine non era causata da soverchia prudenza. Alla sera, tre ore prima che il sole tramontasse e quando già avevano percorso sole centoventi miglia, quella temperatura che poche ore innanzi era così mite, bruscamente si abbassò. Parve che l’inverno piombasse improvvisamente su quelle regioni: la calma scomparve, un vento rigido soffiava dal sud, ed il termometro da 5° sopra lo zero, in mezz’ora discese a -14°! — E siamo solamente ai 15 di gennaio, disse Blunt, che aveva guardato il termometro appeso alla sella del suo bicicletto. In queste regioni, l’estate dura ben poco, signor Wilkye. — Non si prolunga mai fino al 21 marzo, rispose il capo della spedizione. Forse fra tre settimane possono cadere le prime nevi e perciò dobbiamo affrettare la marcia più che possiamo, e tentare di guadagnare due gradi ogni giorno. — Ce lo permetterà il ghiaccio? Mi sembra che cominci a diventare assai ineguale. — Speriamo in Dio, caro Blunt. S’accamparono accendendo la lampada per riscaldare un po’ l’interno della tenda, e dopo una magra cena cercarono d’addormentarsi, ma il loro sonno fu di breve durata. Quel freddo repentino aveva provocato le pressioni e durante la notte il banco muggì e crepitò in modo inquietante, costringendoli a vegliare parecchie ore. All’indomani, alle sette, riprendevano la corsa, ma come aveva preveduto Blunt, il banco non offriva più una superficie liscia. Le pressioni e lo sgelo l’avevano tutto sconvolto, rendendolo quasi impraticabile alle biciclette. Dovunque si rizzavano i soliti ice-bergs di gran mole, piramidi, ammassi di ghiaccio, montagnole tagliate a picco, punte aguzze che minacciavano di guastare le gomme delle ruote e di tratto in tratto incontravano delle larghe spaccature che si prolungavano per molte miglia, costringendoli a triplicare la via. Parecchie volte furono obbligati a scendere e ad avanzarsi faticosamente a piedi per superare tutti quegli ostacoli, perdendo un tempo ormai diventato troppo prezioso. Al 20 di gennaio, dopo una lunga serie di corse furiose attorno ai crepacci, giungevano al primo cairn, là dove l’orso li aveva assaliti. In cinque giorni non avevano guadagnato che tre gradi, mentre avevano percorso per lo meno quattrocento miglia. Il cairn non era stato toccato e poterono provvedersi di carne fresca, rimettendosi un po’ in forze, ma Wilkye si vide costretto a concedere ai compagni un riposo di ventiquattro ore. Il 22 ripresero la lotta colle fenditure, cogli ice-bergs che si moltiplicavano in modo inquietante. Si accanivano per guadagnare rapidamente via, ma con poco successo e con grande consumo di forze e di energia. Per maggiore disgrazia, tutte le notti le pressioni li sorprendevano, impedendo loro di dormire e di riposarsi. Il 27, le pressioni divennero così intense, che credettero fosse suonata la loro ultima ora. L’immenso campo fu in piena convulsione, e un crepaccio si aperse fin presso la loro tenda, minacciando di seppellirli negli abissi del mare australe. Intanto il freddo aumentava. Dal sud soffiavano di frequente dei venti impetuosi, i quali producevano dei rapidi abbassamenti di temperatura. Due volte, durante la notte del 30 gennaio, il termometro discese a -20°! L’estate se ne andava in fretta e l’inverno s’avanzava minaccioso, coi suoi uragani di neve, i suoi geli tremendi ed i cupi nebbioni. Ormai il sole perdeva rapidamente le sue forze e diventava sempre più pallido e più tardo: tramontava alle 10 di sera e non s’alzava che alle due del mattino, e tutti i giorni prolungava la sua assenza. Il 3 febbraio, completamente sfiniti ed affamati, avendo ormai esaurite le loro provviste, giungevano al secondo cairn, presso cui, assai rovinata dalle pressioni, s’irrugginiva la loro macchina. Ah! Se avessero avuto almeno del grasso di foca per rimetterla in movimento e lanciarsi verso la costa!... Ma no, le foche erano scomparse, la provvista di petrolio era esaurita e nel cairn non possedevano che pochi litri di alcool che dovevano consumare, se volevano cucinare le loro vivande e riscaldare la loro tenda durante i freddi della notte. — Fermiamoci qui un paio di giorni, amici, disse Wilkye. Siamo esausti. — Non ne posso più, signore, disse Blunt. La fatica, l’insonnia e la fame mi hanno sfinito. — Ed io mi reggo in piedi per un miracolo d’equilibrio, disse Peruschi. Quanta via dovremo ancora percorrere, signor Wilkye? — Circa mille miglia. — È assai lunga, signore! Quei crepacci ci han fatto perdere un tempo prezioso e triplicare la marcia. — Speriamo che sul continente il ghiaccio sia migliore e ci permetta di procedere più rapidamente. Io non so, ma mi assalgono delle sinistre inquietudini, amici miei, e penso sempre a Bisby ed ai marinai che abbiamo lasciati alla costa. — Cosa temete? chiese Blunt. Forse che ci abbiano abbandonati? — Non lo so, ma sono inquieto e vorrei essere ormai giunto alla costa. — Bisby non ci abbandonerà, signore. — Lui no, ma gli altri? È già trascorso anche il tempo stabilito, e non so quanto impiegheremo a raggiungere quel punto... Questo deserto di ghiaccio, che prima affrontavo sorridendo, ora mi fa paura e mi pare che mediti non so quale tradimento. Orsù, non scoraggiamoci e rizziamo la tenda. S’accamparono, e demolito il cairn che era rimasto intatto come l’altro, estrassero le loro ultime ricchezze le quali consistevano in quindici chilogrammi di biscotto, in sei scatole di the, un po’ di zucchero, dieci chilogrammi di pemmican, in due libbre di cioccolato ed in otto litri di alcool. Mettendosi a razione ed economizzando più che era possibile, potevano tirare innanzi una ventina di giorni. Sarebbe stato bastante, quel tempo, per raggiungere la costa che si trovava lontana oltre mille miglia? Se non incontravano tanti ostacoli, potevano sperarlo, poichè malgrado il freddo aumentasse sempre, si sentivano capaci di percorrere dalle ottanta alle cento miglia al giorno. Durante quei due giorni dedicati al riposo, nulla accadde di straordinario. Il grande banco non si mosse, sicchè poterono dormire tranquillamente e ricuperare le forze delle quali avevano tanto bisogno. La mattina del 6 febbraio, ripartiti i viveri, riprendevano la corsa attraverso i ghiacci, ma fra mille ostacoli che li costringevano a frequenti fermate per superare a piedi delle vere montagne di ghiaccio ed a fare giri immensi per evitare le spaccature che si moltiplicavano dinanzi a loro. La notte del 7, poco dopo che il sole era scomparso, una luce biancastra, ma intensa, apparve improvvisamente verso il sud-ovest, illuminando l’immenso campo di ghiaccio e facendo scintillare vivamente gli ice-bergs, le piramidi, le cupole e le colonne che si rizzavano in tutte le direzioni. Poco dopo un grand’arco irregolare, di circa 30° d’elevazione, appariva subitamente, lanciando verso il cielo dei raggi immensi che subivano strane e rapide contrazioni, ma di una tinta pallida, quasi incolore. Era un’aurora australe. Le aurore del Polo Sud non hanno lo splendore di quelle del Nord, così ricche di tinte rosse, verdi, azzurre, e non hanno nè l’intensità, nè la durata di quelle. Sembrano baleni, poichè appariscono e scompariscono con grande rapidità. Quali sono le cause che le producono e perchè non sono eguali, mentre sorgono là dove il freddo è ugualmente intenso? La scienza si è finora trovata impotente a svelare i misteri di quei fenomeni e si è limitata a supporre che derivino da un grande accumulamento di elettricità, supposizione forse giusta, considerato che in quelle alte latitudini gli uragani sono radi e che la siccità dell’aria è estrema. Il 9, dopo una corsa penosissima attraverso il campo di ghiaccio, gli esploratori si trovavano improvvisamente dinanzi ad un braccio di mare largo parecchie miglia e coperto di ghiacci galleggianti. La via era tagliata e si vedevano nell’impossibilità di proseguire. Quella vista li atterrì. Dove si trovavano ora? Cosa era avvenuto? Perché quel grande campo non era più unito al continente? — Che il banco si sia spezzato? chiese Blunt a Wilkye, che lanciava sguardi disperati su quel braccio di mare. — Non lo so, rispose questi, con voce sorda. — Abbiamo sempre seguito l’istesso meridiano? — Sì; approssimativamente sempre il 66°. — Dunque dovremmo, colla via che abbiamo percorsa, trovarci presso il continente. — Ma dov’è questo continente? Lo vedete voi? — Non vedo che ghiacci galleggianti, disse Peruschi. — È mezzogiorno, disse Wilkye, dopo alcuni istanti di silenzio. Datemi il sestante, che faccia il punto.Fece rapidamente le osservazioni ed il calcolo per ottenere l’esatta longitudine e latitudine. Quand’ebbe finito, un grido disperato gli uscì dalle labbra. — Cosa avete, signore? chiesero i due velocipedisti. — Ho, amici miei - rispose Wilkye con voce rotta - che non ci troviamo più sul 66° meridiano e che invece di avanzare, siamo indietreggiati all’82° di latitudine. — È impossibile signore, disse Peruschi. Tenendo conto della via percorsa, dovremmo trovarci al 78° di latitudine. — No, rispose Wilkye. Il grande campo di ghiaccio s’è staccato dal continente ed è disceso verso il sud; noi ci troviamo a 82° 20' di latitudine ed a 72° 12' di longitudine, ossia di fronte alla Terra Alessandra. — Dunque i nostri sforzi sono andati perduti? — Sì, Blunt, poichè noi ci troviamo ora a circa millequattrocento miglia dallo stretto di Bismark. — Maledizione!... Ed ora? Wilkye non rispose: si era lasciato cadere su di un masso di ghiaccio col capo fra le mani, in preda ad una cupa disperazione. CAPITOLO XXIV. I primi freddi invernali. La situazione dei tre esploratori, che venti giorni prima era così rosea, si aggravava, e quanto!... Le loro furiose corse dopo la partenza dal polo australe, in causa dello spostamento impreveduto che aveva subìto quell’immenso campo di ghiaccio, erano state senza risultato, poichè la distanza che li separava dalla costa era poco o nulla diminuita! Quale doveva essere stata la loro sorte, perduti come erano in mezzo ai ghiacci polari, lontani da ogni soccorso, quasi stremati di forze, a corto di viveri e coll’inverno che stava per sorprenderli? Erano condannati a perire laggiù, ai confini del mondo australe, di fame e di freddo, e di seppellire con loro la grande scoperta?... Era bensì vero che la marcia retrograda del grande campo non doveva durare molto, poichè quel mare interno non doveva avere una vasta estensione, e non avrebbe indugiato ad addossarsi contro qualche costa del continente, ma poteva far perdere a loro parecchi giorni ed il tempo era ormai divenuto troppo prezioso. II sole già diventava sempre più scialbo e prolungava ogni giorno più le sue assenze; la temperatura diventava più cruda; lo sgocciolamento dei ghiacci era cessato da parecchio tempo e già al nord erano comparse le prime nebbie, annuncianti l’inverno polare. Cosa sarebbe accaduto di quei disgraziati, se durante il viaggio li sorprendevano quelle tremende bufere di neve, che fanno scendere il termometro a 45° od a 50°? Un fosco avvenire si preparava per quei valorosi; pure, passato il primo scoramento, l’energia ritornò a quegli uomini, che primi fra tanti arditi esploratori, avevano raggiunto il polo australe. — Non disperiamo e confidiamo in Dio, disse Wilkye rivolgendosi verso i compagni. Lotteremo fino all’estremo delle nostre forze ed accetteremo, senza impallidire, la tremenda battaglia che sta per darci l’inverno polare. — Siamo pronti alla lotta, risposero i due velocipedisti. Ordinate, signor Wilkye, cosa dobbiamo fare? — Ascoltatemi, amici, diss’egli. La marcia di questo banco attraverso al mare polare non deve durare molto; fra poco il ghiaccione si riunirà al continente e noi potremo lasciarlo. — Dove ci trascina? chiese Peruschi. — Verso la Terra Alessandra, se non erro, rispose Wilkye. — Allora abbiamo la probabilità d’incontrare la spedizione inglese di Linderman, disse Blunt. — È probabile, amico, se la Stella Polare non è stata costretta a indietreggiare o non è stata stritolata dai ghiacci con tutto l’equipaggio che la montava. — Ed intanto ci lascieremo trasportare dal banco, in attesa che si ricongiunga al continente? chiese Peruschi. — No, il tempo è troppo prezioso per attendere gli eventi. Costeggeremo il banco e forse più al sud troveremo un passaggio o qualche altro banco che ci permetta di raggiungere il continente. — Allora partiamo, signore. I margini di questo banco mi pare che siano privi d’ostacoli e che si prestino per una rapida corsa. — Andiamo adunque, e che Iddio serbi le nostre forze per quest’ultima impresa. Allestirono in fretta la colazione consistente in una zuppa di pemmican e in una tazza di thè bollente, poi si rimisero in viaggio costeggiando il mare che era sempre coperto d’immensi ghiacci galleggianti. Quel canale, poichè tale doveva essere, era irregolare e tendeva a piegare verso il sud-est. Doveva però avere una grande larghezza, poichè nè Wilkye nè i suoi compagni riuscivano a scorgere le coste del continente. Colossali ice-bergs, tagliati a picco e privi di tutte quelle innumerevoli sporgenze che si riscontrano in quelli che galleggiano nei mari Artici, e grandi banchi, streams e palks, allungati gli uni e arrotondati gli altri, lo ingombravano, urtandosi rumorosamente. Di quando in quando uno di quei colossi perdeva l’equilibrio e si capovolgeva sollevando delle immense ondate le quali si frangevano, con lunghi muggiti, sulle sponde del campo di ghiaccio. Qualche raro pinguino, appollaiato sui margini, si vedeva di tratto in tratto, ma si teneva lontano e guardava stupidamente i velocipedisti emettendo qualche rauco grido. Gli esploratori non perdevano tempo. Essendo il margine del campo liscio e privo di ostacoli, divoravano la via con crescente velocità, ben sapendo che in quella rapidità stava la loro salvezza. Disgraziatamente quel canale pareva che non avesse fine. Il 13 febbraio, dopo aver percorso in quattro giorni circa trecentoventi miglia, non era ancora apparso il continente. Quale vastità aveva adunque quel mare, che si stendeva attorno al polo? Wilkye ricominciava a diventare inquieto, poichè invece di avvicinarsi alla Terra di Graham, sempre più si allontanavano. Il 14, il tempo che fino allora si era mantenuto splendido, cambiò bruscamente. Un pesante nebbione, carico di umidità e così fitto da impedire di scorgere un oggetto qualsiasi a cinque passi di distanza, piombò sul campo di ghiaccio. Furono costretti ad arrestarsi per non cadere nel braccio di mare che costeggiavano e per non guastare le biciclette, le quali potevano urtare contro qualche ostacolo non veduto a tempo. Alla notte la temperatura discese a -15° e gran parte del canale gelò. Wilkye cominciò a sperare di poterlo finalmente attraversare sul nuovo ghiaccio. Le sue speranze non andarono deluse: il 17 il braccio di mare gelò tutto, imprigionando gli ice-bergs ed i banchi. Lo spessore era tale da poter sopportare un parco d’artiglieria, poichè superava i quaranta centimetri. Il passaggio si effettuò senza fatica e alla sera i tre velocipedisti toccavano il continente a milleseicento miglia dallo stretto di Bismark, essendo discesi verso la Terra Alessandra. Quell’avvenimento fu festeggiato con un banchetto, avendo avuto la fortuna di abbattere una coppia di Megalestris antartici, specie di gabbiani somiglianti però ai falchi, colle penne brune, le ali ampie ed il becco assai acuminato. Quella carne fresca fu di molto giovamento ai disgraziati esploratori, che cominciavano ad essere nauseati dai cibi secchi e salati e che provavano i primi sintomi dello scorbuto, male che colpisce quasi sempre gli esploratori polari e che è così difficile a combattere, se mancano i vegetali. Il 19, dopo un riposo di ventiquattro ore, riprendevano l’interminabile corsa attraverso il continente, ma ormai era troppo tardi! L’inverno polare si avanzava di gran galoppo e stava per raggiungerli, e per colmo di disgrazia la fame pure si avanzava a passi di gigante. Avevano cominciato a soffiare i venti del sud i quali trascinavano con loro dei nebbioni sempre più pesanti ed abbassavano la temperatura. Le prime nevi non dovevano essere lontane. Già il cielo aveva assunto quel triste aspetto, particolare di quelle regioni; la tinta azzurra era scomparsa per dar luogo ad una tinta grigiastra, appannata, che il sole, il quale lottava penosamente contro l’incalzante inverno, non era più capace di rallegrare coi suoi raggi sempre più smorti. I ghiacci si rinsaldavano dappertutto: le fessure ed i crepacci si chiudevano, le montagne di ghiaccio s’alzavano e le pressioni si ripetevano sovente, specialmente alla notte, costringendo gli esploratori a delle lunghe veglie. Il 24 febbraio, mentre avevano raggiunto l’80° parallelo, cadde la prima neve. Fu una giornata triste per gli esploratori e le loro inquietudini crebbero. Cominciavano ormai a disperare di poter raggiungere la costa prima della partenza dei loro compagni, i quali forse li ritenevano ormai morti. — Coraggio, amici miei, disse Wilkye, vedendo i suoi due compagni tetri e pensierosi. Forse fra pochi giorni possiamo ricevere qualche aiuto. — Su chi sperate? chiese Blunt. Io ormai ho perduta ogni illusione. — Su Bisby, rispose Wilkye. Forse ha organizzato una spedizione di soccorso, e ci cerca. — Siamo troppo lontani, signore, per incontrarlo. — E poi, aggiunse Peruschi, siamo fuori di via e invano ci cercherebbero lungo il 66° meridiano. — Ma possiamo raggiungere la spedizione prima che ritorni alla costa. Noi ci avviciniamo rapidamente al 66° meridiano. — Ma potremo continuare questa corsa? Se la neve continua, saremo costretti ad abbandonare le biciclette, disse Blunt. Guardate, il ghiaccio è ormai coperto d’uno strato di dieci centimetri in meno di un’ora, e non ci avanziamo che a grande fatica. — Spero nei grandi freddi; la neve gelerà e potremo ancora riprendere la corsa. — E se i forti geli tardano? — Aspetteremo. — I viveri scarseggiano, signore; fra cinque o sei giorni non ci rimarrà nè un biscotto, nè un pizzico di pemmican, nè un pezzo di cioccolato. — È vero, disse Wilkye con accento disperato. Si direbbe che il polo è fatale per tutti gli esploratori!... Durante l’intera giornata la neve cadde senza interruzione, rendendo sempre più difficile la marcia degli esploratori. Alle sei di sera furono costretti a fermarsi ed a rizzare la tenda, poichè le biciclette non potevano più avanzare. La notte fu terribile. Un vento furioso, che soffiava dal sud, spazzava con lunghi sibili il continente, sollevando turbinosamente la neve. La tenda fu abbattuta parecchie volte e gli esploratori furono costretti a vegliare gran parte della notte, esposti ad un freddo di -20° che li intirizziva. L’indomani, essendosi calmato l’uragano e gelata la neve in causa di quel freddo acuto, tentarono di rimettersi in viaggio, ma dopo sessanta miglia, Peruschi, che già da qualche giorno accusava un profondo malessere ed una prostrazione generale, fu costretto a fermarsi. Il disgraziato si sentiva completamente stremato di forze e la pelle del viso era cosparsa di macchie livide. Di più, si lamentava di dolori acuti alle gengive e la sua bocca tramandava un fetore insopportabile. — È nulla, disse Wilkye, che pure era diventato pallido. Un po’ di riposo basterà per rimettervi. Fece rizzare la tenda, consigliò il malato a coricarsi costringendolo a masticare alcuni pezzi di patata cruda che aveva preziosamente conservati ed alcune pastiglie di calce che teneva nascoste nel suo sacco da viaggio, poi, traendo da parte Blunt, gli disse: — La nostra situazione sta per diventare disperata: fra poco saremo costretti ad abbandonare le biciclette. — Perché, signore? La neve si è gelata e ci permetterà di continuare il viaggio. — È vero, ma avremo un ammalato da portare e le biciclette ci saranno più d’impaccio che d’utilità. — Dunque Peruschi?... — È stato colpito dallo scorbuto e fra breve non potrà reggersi in piedi. — È tremendo questo male? — Trascurato, può diventare fatale per la persona che ne è stata colpita. — Ma da cosa deriva questo male? Mi hanno detto che gli esploratori polari ne sono stati colpiti assai di frequente e così pure i marinai che intraprendevano lunghe navigazioni. — Secondo alcuni deriva dalla mancanza di vegetali e dalle carni salate, secondo altri dall’insufficienza di alimenti, pel freddo, per l’umidità e per le lunghe veglie. — E non possiamo curarlo? — Ho conservato gelosamente delle pastiglie di calce e due patate, ma sarebbero necessari dei vegetali freschi, delle frutta acide come limoni od aranci, un nutrimento succoso, delle infusioni di salvia per le gengive e del vino vecchio o dei liquori. Dove trovare questi in mezzo ai ghiacci del polo? Bisognerebbe raggiungere la capanna ed invece distiamo ancora ottocento miglia. — Ma cosa avverrà di noi, se rimarremo qui parecchi giorni? I viveri stanno per mancare, signore. Bisogna assolutamente partire. — Ma il nostro disgraziato compagno? — Faremo una lettiga. Possiamo unire due biciclette coi pezzi della terza e formare un ruotabile che noi spingeremo. — È vero, Blunt. Al lavoro senza perdere tempo: forse non siamo ancora perduti. Mentre il loro compagno, affranto dal male che lo aveva assalito e dalle fatiche, dormiva sotto la tenda, Wilkye e Blunt si erano messi animosamente all’opera. Smontata una bicicletta, che ormai non era di alcuna utilità, quantunque non possedessero che pochi attrezzi, riuscivano dopo un lavoro di parecchie ore ad accoppiare le altre due. Dopo d’averle private dei manubri e di parte delle sterze formarono una specie di lettiga, sopra la quale stesero le loro pelli d’orso e le coperte. Privandosi delle biciclette, la loro marcia doveva diventare infinitamente più lenta, ma almeno potevano condurre con loro il disgraziato Peruschi, senza essere costretti a trasportarlo sulle loro braccia. All’estremità della lettiga appesero le loro scarse provviste e attesero l’indomani per riprendere il cammino verso la costa. CAPITOLO XXV. Le vittime del Polo. Quella notte il freddo fu più intenso del solito: il termometro esposto all’aperto, discese a -30° subito dopo il tramonto del sole e la piccola lampada dovette bruciare senza interruzione, per mantenere sotto la tenda una temperatura di -20°. Per la prima volta provarono i primi sintomi della congelazione, malgrado le loro grosse vesti, le coperte di lana e la pelle d’orso che li copriva. Blunt, essendosi addormentato senza i guanti di pelle, corse il pericolo di perdere entrambe le mani e Wilkye, che erasi accorto a tempo, dovette faticare non poco a riattivargli la circolazione del sangue, mediante delle energiche frizioni con della neve e poi con degli stracci di lana. Peruschi sentì forse più di tutti i morsi dell’inverno polare, poichè Wilkye lo udì a lagnarsi parecchie volte. Lo scorbuto raddoppiava le sue sofferenze, essendosi ormai esteso anche alle gengive, le quali si coprivano di tumefazioni fungose e sanguinavano. Al mattino però, essendosi il freddo un po’ raddolcito, sdraiato l’ammalato sulla lettiga, si rimettevano coraggiosamente in cammino. D’altronde il moto era la loro salvezza: una fermata più lunga sotto quella tenda priva d’una stufa poteva produrre un grave assideramento. Fu una marcia faticosa: la neve, rammollitasi sotto i raggi del sole, cedeva sotto i loro piedi e le ruote delle biciclette sprofondavano, facendo trabalzare l’ammalato, il quale emetteva frequenti gemiti. Di tratto in tratto dovevano fermarsi per riposare, prima d’intraprendere erte salite, che di quando in quando sbarravano loro il passo, o per concedere un po’ di tranquillità al loro compagno. Ed intanto il freddo cresceva, diventava più acuto, più tagliente. Un vento gelido spingeva nembi di nevischio che si rompevano addosso a quei disgraziati, acciecandoli, coprendoli d’un candido lenzuolo che tosto gelava sulle loro vesti. Il 28 febbraio, dopo una notte orribile, si rimettevano in cammino con un freddo crudissimo. Il termometro era disceso a -30° e la neve cadeva a larghe falde, volteggiando intorno a loro, sotto i furiosi colpi del vento australe. I poveri esploratori procedevano a casaccio attraverso a quelle immense pianure spazzate dall’uragano. Non si arrestavano, perchè sapevano che un ritardo di pochi giorni poteva riuscire fatale, ma quante fatiche, quanti sforzi per non cadere! Quel freddo eccessivo a cui non erano ancora abituati, li accasciava, malgrado la loro energia straordinaria. Si sentivano paralizzare le forze, intorpidirsi le loro volontà, e provavano una specie d’ebbrezza che rendeva incerti i loro movimenti. La respirazione diventava dolorosa e l’alito che usciva dalle loro labbra, subito si congelava e cadeva a terra sotto forma di sottilissimi aghi di ghiaccio, i quali, nel rompersi, producevano uno scricchiolio simile al laceramento di un pezzo di velluto. L’evaporazione dell’umidità dei loro corpi pure si congelava e formava attorno ad essi una certa nebbia, che impediva a loro di scorgere ciò che accadeva a pochi passi più lontano, imprigionandoli come fra una nube di leggieri cristalli ghiacciati. Una sete ardente li assaliva ogni qual tratto, prodotta dall’evaporazione dei loro corpi, e senza poterla calmare. Invano Blunt aveva provato a dissetarsi mettendosi in bocca della neve; si era affrettato subito a rigettarla, poichè con quel freddo, quella neve produceva in bocca come una bruciatura e rassomigliava ad una palla rovente. Wilkye si era anzi affrettato a proibirgliene l’uso, potendo essa provocare infiammazioni alla gola, al palato e alla lingua, male ai denti e dissenterie pericolose. Durante quelle dodici ore, quantunque avessero camminato quasi sempre, non riuscirono a guadagnare un grado. Alla sera, Peruschi, che si era lamentato tutto il giorno, fu deposto sotto la tenda in grave stato. Il povero giovanotto, invaso dal male che faceva rapidi progressi malgrado le pastiglie di calce e le patate, non poteva più reggersi in piedi. La sua pallidezza era cadaverica, il suo corpo era coperto di macchie sanguigne, le sue gengive tumide e coperte di fungosità, i suoi denti vacillavano e provava una spossatezza estrema. Wilkye, che ormai cominciava a temere di perdere quel bravo e coraggioso giovanotto, sacrificò gli ultimi sorsi della sua provvista di wisky per fargli un punch abbondante. Quel rimedio fu giovevole, poiché all’indomani il velocipedista era meno spossato e più tranquillo. Il 1° marzo non lasciarono la tenda; si sentivano impotenti a sfidare il freddo intenso che regnava al di fuori. Il 2, dopo sei ore di marcia attraverso alla neve, mentre attraversavano un canale, riuscirono, a sorprendere e ad uccidere una foca. Era venuta a respirare alla superficie del ghiaccio dopo d’essersi scavato un buco, e Blunt l’aveva colpita al cranio con una palla. Fu una vera risorsa per gli esploratori, i quali ormai non possedevano che poche gocce di alcool per alimentare la lampada e riscaldarsi durante le fermate notturne. Ricavarono parecchi litri d’olio, mangiarono il fegato ed il cervello, e misero da parte un pezzo di carne di parecchi chilogrammi, essendo quasi sprovvisti di viveri. Quella carne fresca, quantunque nauseante, produsse un notevole miglioramento nell’ammalato. Le macchie sanguigne che lo deturpavano a poco a poco scomparvero e la spossatezza estrema scemò, permettendogli di mantenersi in piedi. Il 6 marzo, dopo una marcia di centosettanta chilometri compiuta in quattro giorni, un avvenimento che doveva essere di grande importanza per quei disgraziati esploratori, accadde. Mentre spingevano faticosamente le biciclette, essendo Peruschi ancora impotente a camminare, Blunt incespicava in qualche cosa di duro che si teneva nascosto fra la neve. Abbassatosi per vedere contro quale oggetto aveva urtato, con sua grande sorpresa scopriva l’estremità di un pezzo di legno. — Signor Wilkye! esclamò, in preda ad una viva emozione. Qualcuno si è spinto fin qui!... — Da che cosa lo arguite? — Vi è un pezzo di legno confitto nella neve. — Che sia un segnale?..... Che i nostri compagni si siano spinti fin qui? si chiese l’americano, stupito. Scaviamo, Blunt; forse sapremo qualche cosa. Misero mano alle scuri e spezzarono il ghiaccio, poi scavarono la neve che vi stava sotto, facendo una larga buca. Ben presto misero allo scoperto un secondo pezzo di legno che pareva appartenesse al fasciame di una scialuppa e che era inchiodato sul primo, formando una croce. Wilkye e Blunt si guardarono l’un l’altro in viso, in preda ad una viva ansietà. — Qualcuno è sepolto qui, disse Wilkye. — Uno dei nostri forse?..... I navigatori antartici che ci precedettero, hanno mai esplorato questa parte del continente? — No, che io lo sappia e..... Si era bruscamente interrotto e si era precipitato verso la croce, pulendola della neve gelata che la incrostava. Un nome, inciso rozzamente colla punta d’un coltello, apparve ai suoi occhi. — William Bak!..... esclamò. — Il capitano della Stella Polare?..... chiese Blunt, impallidendo. — Sì, egli riposa qui. — È morto!..... — E da pochi giorni; ecco la data: 20 febbraio 1893. — Quale dramma si è svolto sulla Terra Alessandra?... Che la Stella Polare sia stata schiacciata dai ghiacci, signor Wilkye?..... — Lo temo, Blunt, ed i superstiti tentano ora di raggiungere la nostra capanna. — E Linderman, sarà ancora vivo? — Chi può dirlo? — Cosa accadrà di noi, ora che la Stella Polare è perduta? — Ci rimane la scialuppa. — Ma potrà contenere le due spedizioni riunite? — Forse i superstiti della Stella Polare ne trascinano qualcuna con loro. — Cosa facciamo, signor Wilkye? — Bisogna tentare di raggiungere la spedizione inglese e riunire le nostre forze per la salvezza di tutti. — Acconsentirà il signor Linderman? Vi ricorderete ciò che vi disse nel lasciarvi: d’ora innanzi noi saremo nemici, e fieri nemici. — La sventura l’avrà domato, Blunt. Temo che il suo equipaggio sia alle prese colla fame e collo scorbuto. Affrettiamoci: ci precedono di tre soli giorni e potremo facilmente raggiungerli. Ritornarono alla lettiga ed informarono Peruschi della triste scoperta. Il bravo giovanotto s’offerse di camminare, avendo cominciato a sentirsi meglio, ma Wilkye, temendo una ricaduta, vi si oppose. Ripartirono più rapidamente che poterono, spingendo con sovrumana energia le biciclette, salendo e discendendo parecchie catene di colline che correvano dall’est all’ovest. Alle sette di sera, dopo una marcia di trentasei miglia, scoprivano una scure, il cui manico sporgeva dalla neve, e poco oltre un rampone ed i frammenti di una bottiglia i quali esalavano ancora un acuto odore di gin. Il 7 un’altra lugubre scoperta: era un’altra croce, piantata di recente, poiché portava la data del 5 marzo. Non aveva che due iniziali: K. F., Chi poteva essere il disgraziato che riposava fra i ghiacci del continente australe? Era senza dubbio un marinaio della Stella Polare, un altro che non doveva più mai rivedere la patria; un altro che era spirato fra le gelide strette del polo, forse spento dalla fame o dallo scorbuto. Poco lontano, gli esploratori raccolsero un fucile carico, un paio di grossi guanti ed un berretto di pelo, forse appartenenti al morto. Wilkye e Blunt fuggirono inorriditi e s’allontanarono rapidamente da quel triste luogo. Ormai ne sapevano abbastanza della catastrofe che aveva colpito la spedizione inglese; volevano raggiungere i superstiti per cercare, generosamente, di soccorrerli prima che tutti cadessero, per non più rialzarsi, sulle pianure nevose del continente australe. Quei disgraziati che li precedevano, cercando di raggiungere la costa di Graham, non dovevano essere lontani. Quella croce era stata piantata troppo recentemente per ingannarsi. Affrettarono la marcia, facendo sforzi prodigiosi per guadagnare più cammino. Peruschi, per sollevarli un po’, di tratto in tratto scendeva dalla lettiga, specialmente quando dovevano superare delle alture. Il 9 marzo non erano più che a duecento miglia dalla costa, ma la spedizione inglese non era ancora stata raggiunta. Le sue tracce però si moltiplicavano; avevano trovato un’altra croce, quindi gli avanzi di una scialuppa, poi una caldaia abbandonata in fondo a un crepaccio e contenente della neve semi-sciolta. Il 10 la neve ricominciò a cadere, ma con furia estrema. Un vento impetuoso la sbatteva in tutti i versi, la sollevava in forma di fitte nubi e l’ammonticchiava qua e là, rendendo penosissima la marcia degli esploratori. Wilkye voleva arrestarsi per concedere un po’ di riposo ai compagni, ma i due bravi giovanotti rifiutarono. Sentivano per istinto che i superstiti della Stella Polare non dovevano essere lontani. Lottando energicamente contro la bufera che li incalzava e li gelava, tirarono innanzi con incredibile costanza, attraversando burroni, colline e avvallamenti profondi, essendo il paese diventato molto accidentato. A mezzodì, mentre attraversavano un altro braccio di mare, abbatterono un’altra foca che si era smarrita fra la neve, senza essere più capace di ritrovare il buco che aveva scavato nel ghiaccio. Stavano per precipitarsi sull’anfibio per finirlo a colpi di scure, avendo continuato a dibattersi malgrado fosse stato toccato da due palle, quando fra i ruggiti della bufera udirono una detonazione, che pareva prodotta da un’arma da fuoco. — Avete udito? chiese Wilkye, mentre Blunt spaccava il cranio alla foca. — Sì, disse Peruschi. Ho udito uno sparo. — Che la spedizione inglese ci sia vicina? chiese Blunt. — Da dove veniva quello sparo? chiese Wilkye a Peruschi. — Mi parve che venisse dal nord-ovest, rispose il velocipedista. — Dietro quelle alture? — Sì, signore. — Accorriamo, Blunt. Forse sono i nostri compagni della costa. — Ed io? chiese Peruschi. — Non affaticatevi; rimanete a guardia della lettiga e della foca. Wilkye e Blunt, malgrado i nembi di neve che li assalivano da ogni parte, si slanciarono verso le alture che chiudevano la pianura dal nord-ovest, e in quindici minuti giunsero sulla cima. — Un accampamento! esclamò Blunt. — Oh Dio!... Accorriamo, disse Wilkye. CAPITOLO XXVI. La catastrofe della «Stella Polare». A cinquecento passi dalle alture, presso una profonda spaccatura del suolo che si prolungava verso l’ovest, si rizzavano quattro tende, che la bufera di neve aveva ormai semi-strappate e piegate verso terra. A breve distanza si scorgeva una scialuppa rovesciata, colla chiglia in aria, una slitta ed alcuni fucili che parevano fossero stati abbandonati all’aperto. Nessuna voce usciva dalle tende, ma da una sfuggiva, ad intervalli, del fumo nero e acre, che pareva prodotto dalla combustione di materie grasse. Chi erano gli uomini che avevano cercato un riparo contro la bufera di neve sotto quelle tende? Erano Bisby ed i marinai americani od i superstiti della Stella Polare? Wilkye e Blunt, in preda ad una viva ansietà e ad una profonda commozione, si erano messi a correre verso quelle tende. In pochi minuti giunsero presso alla prima e ne sollevarono un lembo, ma era vuota. Stavano per visitare la seconda, quando un uomo, che stava sdraiato, insensibile al vento gelido del sud ed ai furori della burrasca, s’alzò, scuotendosi di dosso la neve che lo aveva quasi sepolto. Parve ai due esploratori che si rizzasse innanzi a loro un fantasma, peggio ancora, uno scheletro vivente. Quel disgraziato, che doveva aver sofferto dolori e privazioni d’ogni specie, faceva insieme paura e pietà. Il suo viso scheletrito, coperto di macchie sanguigne e biancastre, con una barba lunga ed ispida che gli dava un aspetto selvaggio, con due occhi che mandavano strani bagliori, faceva ribrezzo. Le sue vesti, che cadevano a brandelli, pareva che coprissero un vero scheletro, poichè si gonfiavano da tutte le parti sotto i soffi impetuosi della bufera. Egli guardò Wilkye e Blunt, che si erano arrestati, con due occhi che mandavano cupi lampi; poi, appoggiando la destra ischeletrita e quasi incancrenita dalla congelazione, sul manico della scure che teneva vicina, chiese con voce rauca: — Cosa volete voi?... — Gran Dio!... esclamò Wilkye rabbrividendo. Chi siete voi?... Un sarcastico sorriso contorse le labbra di quell’uomo. — Io sono... che importa a voi?... Andatevene!... Ad un tratto Wilkye mandò un grido. — Linderman!... esclamò. Disgraziato, in quale stato vi ritrovo!... Si slanciò verso l’inglese per abbracciarlo, ma questi lo respinse bruscamente, dicendo: — Non vi conosco: andatevene. — Ma io sono Wilkye!... — Wilkye, disse Linderman con voce sorda. Ah! sì, il mio rivale del polo!... E cosa volete voi? — Soccorrervi, disse Wilkye. — Avete scoperto il polo? — Sì, Linderman. — Meglio per voi e peggio per me. Andatevene: io nulla chiedo a voi, nè nulla voglio! — Ma io non sono vostro nemico, Linderman. Io sono venuto qui per salvarvi, in nome della nostra antica amicizia. — Non conosco amici. — In nome dell’umanità. — Parola vuota. — Della scienza, per la quale noi abbiamo entrambi lottato. — No!... esclamò l’inglese. Andatevene che io non ho bisogno di voi. In quell’istante sette marinai cenciosi, sparuti, rôsi dallo scorbuto, semi-assiderati, si trascinarono fuori dalle tende, borbottando con accento straziante: — Da... mangiare... signor... Wilkye!... Blunt trasse dal suo sacco di viaggio i suoi ultimi biscotti per porgerli a quei disgraziati, ma Linderman gli si gettò dinanzi ed estratta la scure che teneva alla cintola, l’alzò verso i suoi marinai gridando con voce minacciosa: — Vili!... Chiedete soccorsi al mio rivale!... Indietro o vi uccido!... Noi siamo inglesi, e costoro sono americani!... — Signor Linderman, gridò Wilkye, facendosi innanzi. Qui non vi sono nè inglesi nè americani, ma uomini che hanno lottato insieme pel trionfo della scienza, fratelli che devono radunare i loro sforzi per riguadagnare la patria lontana. Basta, signore: le rivalità qui, in mezzo ai ghiacci del polo, mentre la fame sta per estinguere gli ultimi superstiti della Stella Polare, non devono sussistere. — Andatevene dal mio campo! urlò Linderman. Io non vi conosco. — È pazzo, signore, dissero i marinai. — Pazzo! esclamò Wilkye con accento di dolore. Quali drammi si sono svolti dunque sulla Terra Alessandra? — Andatevene, ripetè Linderman con voce furente. — Mai, signore: io non vi abbandonerò. — Allora v’uccido!... L’inglese, che doveva essere proprio pazzo, fe’ atto di scagliarsi contro l’americano, ma Blunt ed i marinai si gettarono su di lui, lo disarmarono e lo atterrarono. — Traditori!... urlò egli, dibattendosi come un forsennato. — Legatelo e adagiatelo sotto una tenda, disse Wilkye. Speriamo che un giorno riacquisti la ragione. Poi, volgendosi verso Blunt: — Andate a raggiungere Peruschi; caricate la foca sulle biciclette e portatela qui. Questi disgraziati muoiono di fame e un ritardo di poche ore può essere fatale. — Grazie, signor Wilkye, dissero i marinai, che avevano le lagrime agli occhi. A voi noi dovremo la nostra vita. — Siete voi soli? — Vi è un altro uomo sotto l’ultima tenda, il povero Kelpy, ma è morto stamane. Lo scorbuto e la fame l’hanno ucciso, disse un marinaio. — Ma gli altri? Non eravate ventisei? — Tutti morti. — E la Stella Polare? — È stata schiacciata dai ghiacci il 6 dicembre a 76° 15' di longitudine ed a 68° 30' di latitudine. — Una catastrofe completa adunque? — Sì, signore, e quale tremenda catastrofe! esclamò il marinaio, tergendosi due lagrime che gli si erano gelate sulle smunte gote. Io mi domando ancora come tante sofferenze, tante privazioni non ci abbiano uccisi tutti. — Narrate Johnson. — Eravamo giunti felicemente sulle coste della Terra Alessandra verso la metà di novembre, malgrado i continui incontri di ghiacci galleggianti. Il 20 la Stella Polare si era addentrata in un vasto canale che pareva si internasse nel continente per parecchie centinaia di miglia. Speravamo di potere, se non giungervi, almeno di avvicinarci assai al polo, ma il 28 ci trovammo improvvisamente chiusa la via da una immensa barriera di ghiacci. Il capitano Bak, dopo di essersi consigliato col signor Linderman, lanciò la Stella Polare verso il sud, sperando di trovare un altro passaggio, ma alla notte i ghiacci ci bloccarono. Ogni tentativo per liberarci fu vano. Il 6 dicembre un enorme ice-berg, che da parecchi giorni ci minacciava, cadeva sulla goletta sfracellandola e seppellendo fra i rottami undici marinai. Il disastro fu così rapido, che a malapena riuscimmo a salvare una scialuppa, due slitte e dei viveri per due mesi. Il capitano Bak voleva spingersi, senza perdere tempo, verso la costa di Graham per raggiungere la vostra capanna, ma il signor Linderman fu inflessibile. Ormai vi considerava come nemici e voleva marciare alla scoperta del polo. Per trentasei giorni ci trascinò attraverso il continente, ma i viveri sparivano rapidamente, le difficoltà crescevano ad ogni istante e lo scorbuto aveva fatto la sua comparsa. Ci ribellammo e costringemmo l’armatore a piegare verso la costa per guadagnare la vostra capanna. Da quel giorno il signor Linderman non fu più l’uomo di prima. Una fissazione costante lo perseguitava: la tema della sconfitta e del vostro trionfo. Era diventato tetro e di tratto in tratto lo assalivano delle collere tremende, durante le quali ci minacciava colle armi in mano. La sua ragione si smarrì e un giorno ci accorgemmo che era diventato veramente pazzo! Intanto la nostra situazione si aggravava. Lo scorbuto infieriva, i viveri scarseggiavano, le nostre forze s’indebolivano, il fuoco mancava avendo consumato la nostra scarsa provvigione d’alcool. L’inverno non tardò a sorprenderci coi suoi tremendi geli e colle sue bufere di neve. Quali sofferenze, signor Wilkye; quali sofferenze! Ogni giorno un uomo cadeva per non più rialzarsi e lo seppellivamo nella neve. Cadde così il capitano Bak, ucciso dallo scorbuto, caddero i due ufficiali, poi il mastro, poi gli altri tutti ed ora... sono due giorni, signor Wilkye, che nulla mettiamo sotto i denti. Senza il vostro soccorso, nessuno di noi avrebbe lasciato questo campo e qui sarebbero finiti gli ultimi superstiti della spedizione inglese. — Disgraziati! esclamò Wilkye, che era vivamente commosso. — E voi, signore, avete scoperto il polo? — Sì, Johnson. — Ah! Il signor Linderman lo prevedeva il vostro trionfo. Ma il signor Bisby, dov’è?... — Alla costa... se vi sarà ancora. — Ne dubitate? chiesero i marinai, con angosciosa espressione. — Temo che i suoi compagni, se non lui, siano partiti all’appressarsi dei primi geli. Abbiamo perduto troppo tempo per andare al polo. — Cosa accadrà di tutti noi, se sono partiti? chiese Johnson. — Non lo so, rispose Wilkye con tristezza. Temo che il polo sia fatale agli uomini che lo sfidano. — Troveremo almeno dei viveri colà? — Ce lo dirà il destino. Orsù, non disperiamo e raduniamo le nostre forze per trionfare contro i rigori dell’inverno polare. Ecco Blunt e Peruschi che ritornano colla foca che abbiamo uccisa poco fa; i viveri sono assicurati per tre o quattro giorni. Infatti i due velocipedisti ritornavano trascinando l’anfibio, che non erano riusciti a caricare sulle biciclette, tanto era grosso. I marinai, facendo uno sforzo disperato corsero in loro aiuto e trasportarono la selvaggina all’accampamento. Fu fatta subito a pezzi, mentre i velocipedisti accendevano la lampada mettendo a bollire gli ultimi avanzi della loro provvista di pemmican e l’ultimo pezzo di carne salata che ancora possedevano. Ognuno può immaginarsi con quale avidità, i superstiti della Stella Polare, che da due giorni digiunavano, assalirono quei viveri. In un batter d’occhio sparvero, e i due velocipedisti si videro costretti a far cucinare il sangue della foca, il cuore ed il cervello per saziare la fame orribile che travagliava lo stomaco di quei miseri. Linderman non fu dimenticato, ma Wilkye ed i suoi compagni dovettero ricorrere alla violenza per fargli inghiottire la sua razione. Il povero armatore si ostinava a trattarli come nemici ed aveva rifiutato recisamente quei soccorsi, malgrado le preghiere del suo rivale. Quell’abbondante e sostanzioso pasto rianimò le forze esauste dell’equipaggio inglese e la sua energia. Malgrado che la sua situazione fosse ben poco cangiata, ormai cominciava a sperare di poter in breve raggiungere la costa. Alla sera, continuando a imperversare l’uragano, Wilkye fece radunare le tende ed accendere, entro una pentola di ferro, un gran fuoco con stracci inzuppati nell’olio della foca, con grasso e con alcuni pezzi di legno strappati alla scialuppa. Forse quella fu la prima notte di calma passata dall’equipaggio inglese dopo tante sofferenze patite, tante veglie e tanto freddo! All’indomani Wilkye radunò tutti a consiglio; bisognava prendere una deliberazione urgente, prima che le bufere di neve li immobilizzassero fra quegli sterminati campi di ghiaccio. Si trattava di decidere se dovevasi piegare subito verso la costa presso la quale potevano sperare di abbattere delle foche o degli uccelli marini, o se conveniva risalire verso il nord-ovest per raggiungere, con una rapida marcia, la capanna. Il mare non doveva essere lontano che centocinquanta o centosessanta miglia, ma la capanna almeno duecentocinquanta, essendo situata più al nord. Prevalse l’ultimo progetto, per non perdere la possibilità d’un incontro colle genti di Bisby, che forse stavano ancora cercando Wilkye ed i suoi compagni, prima di abbandonare definitivamente il continente. Non vi era tempo da perdere. L’inverno incalzava, lo scorbuto poteva fiaccare i colpiti, e le provviste venire ridotte allo zero. Linderman, che dava segni di crescente pazzia, fu legato sulla lettiga, avendo Peruschi dichiarato di voler camminare; tre marinai che non potevano più stare in piedi, furono caricati sulla slitta, la scialuppa che era ridotta in uno stato deplorevole fu sfondata per aver almeno un po’ di legname, e la piccola carovana si mise in marcia verso il nord-ovest, affondando in mezzo alle nevi che non s’erano ancora congelate. Tutti lavoravano con suprema energia: Wilkye e un marinaio mezzo invalido spingevano la lettiga; Blunt, Peruschi e gli altri trascinavano la slitta, facendo sforzi disperati per non perder tempo. Avevano già percorso dodici miglia, quando Blunt, che stava dinanzi a tutti, s’arrestò bruscamente, abbandonando la corda della slitta. — Fermi tutti!... esclamò. Presto, datemi un fucile! ... — Avete scorto qualche foca? chiese Wilkye, accorrendo con due carabine. — Non lo so, signore, ma laggiù vi è qualche cosa che si agita fra la neve. Guardate là, presso quell’hummok. Wilkye guardò nella direzione indicata e con sua gran sorpresa vide una massa che pareva enorme, brunastra, che si avvoltolava nella neve. Sembrava che facesse sforzi disperati per rialzarsi, ma subito ricadeva. — Che sia un orso, signor Wilkye? chiese Blunt. — Un orso?... Mi pare che sia un animale colossale. — Cosa sarà? — Non lo so, ma lo sapremo presto: avanti e prudenza. Mentre i marinai si nascondevano dietro alla slitta e dietro i cumuli di neve, i due cacciatori s’avanzavano strisciando, per far fuoco a breve distanza, onde essere sicuri dei loro colpi. Intanto quella selvaggina di nuova specie, continuava a dibattersi. S’alzava, faceva due o tre passi, poi ricadeva e non si rimetteva in gambe che dopo lunghi sforzi. Le sue forme erano così strane, che i due cacciatori non sapevano indovinare a quale specie appartenesse. Ora sembrava un orso, ora un elefante marino ritto sulle zampe posteriori ed ora una foca ricoperta da un immenso mantello. Wilkye e Blunt erano giunti a duecento metri ed avevano puntato già i fucili, quando quell’essere bizzarro s’alzò, dicendo con voce cavernosa: — To’!... Guarda degli uomini!... Ohe!... Mi credete un elefante marino o un orso per prendermi di mira? Dannato paese!... Poteva toccarmi di peggio?... I due cacciatori lasciarono cadere le armi e balzarono in piedi emettendo alte grida: — Bisby!... Quell’essere strano s’arrestò, sorpreso da quelle grida, poi riprese: — To’!... Mi si conosce qui?... Che il vento del polo mi abbia sbalzato a Baltimòra?... Sarebbe un bel caso, in fede mia!... — Bisby! ripetè Wilkye, precipitandosi innanzi. Amico mio, cosa fate qui?... Il negoziante di carni salate, poichè era proprio lui, si piantò sulle gambe e levandosi un cappello alto ma che era incrostato di ghiaccio, disse: — Buon giorno, signori, ma... Cosa voleva dire? Non lo si potè mai sapere, poichè ad un tratto un formidabile grido gli uscì dalle labbra: — Wilkye!... Ah! io sogno!... — No, amico mio, sono io, rispose Wilkye, correndogli incontro. Voi non sognate. — Voi!... Voi!... — Sì, Bisby, io, ma come vi trovate qui?... — Come?... Lo so io forse?... So però che muoio di fame, che sono coperto di ghiaccio, che la mia pelle di bisonte non mi serve più a nulla, che mi pare di essere ubbriaco e che sono in uno stato miserando: guardate!... Il disgraziato non mentiva: dov’era Bisby, il futuro presidente della società degli uomini grassi di Chicago?... In quale stato era ridotto quell’uomo, che tre mesi prima era grosso come un elefante marino!... Era scemato della metà, sparuto, smunto, col volto coperto di echimosi, con un occhio ammaccato che ancora sanguinava, colle vesti indurite dal gelo, colle uose sfondate, colle vesti strappate. Aveva in testa il suo cilindro, ma ormai ridotto in uno stato compassionevole, coperto d’uno strato di ghiaccio e indosso la sua famosa pelle di bisonte, pure incrostata di neve gelata, ma in tal modo che non si ripiegava più. — In quale stato vi ritrovo, Bisby! esclamò Wilkye. Ma chi v’ha conciato in tal modo? — Chi?... chi?... I vostri marinai, rispose il negoziante. Erano diventati idrofobi, io voleva metterli a dovere, ma mi hanno assalito tutti insieme, percosso e poi scaraventato fuori dalla capanna. Qualcuno credo d’averlo storpiato perchè mi difesi perfino a calci, ma erano troppi, amico mio, ed ho avuto la peggio. — Ma cos’è accaduto?... Cosa avete fatto, disgraziato?... — Io!... Nulla, ve l’assicuro, fuorchè di mangiare. Oh! diavolo?... Forse che non ero venuto qui per ingrassare?..... Ho mangiato fin che ho potuto, ma un bel giorno, anzi un brutto giorno, i vostri marinai s’accorsero che i viveri erano molto scemati e mi negarono gli alimenti. Gl’ingrati! Dopo tante cene deliziose che divoravano coscienziosamente!... — Avanti, Bisby, disse Wilkye con angoscia. — Mi sono ribellato, ma mi picchiarono, mi spinsero fuori dalla capanna, poi s’imbarcarono. Invano li pregai di sbarcare e di attendere il vostro ritorno, ma mi risposero che ne avevano abbastanza del polo e che voi dovevate essere morto. Canaglie!... Dopo tanti pranzi!... — E sono partiti?... — Verso il nord. — Ma quando?... — Il 27 febbraio. — Ma come siete vissuto voi finora? — Con una libbra di cioccolato che avevo nascosto e con due merluzzi secchi che mi hanno rovinato i denti, tanto erano duri! — Senza tenda e senza fuoco? — Con la mia sola pelle di bisonte. — Nella capanna non vi sono adunque più viveri? chiese Wilkye, con voce sorda. — Forse una testa di foca, che nessuno volle mangiare. — E non sono più tornati i marinai? — Ci hanno abbandonati. Una rauca imprecazione uscì dalle labbra di Wilkye. — Maledizione sui vili!... esclamò. Cosa accadrà ora di noi?... Quale sorte ci attende?... Dovremo morire adunque sulle sponde di questo continente, ora che abbiamo scoperto il polo?... Dovrà rimanere sepolto questo grande avvenimento?... No!... Lotteremo fino all’estremo, se sarà necessario c’imbarcheremo su di un banco di ghiaccio e cercheremo di raggiungere la Terra del Fuoco. Blunt, Peruschi, Bisby, amici miei: avanti verso la costa!... La fortuna arride agli audaci!... CAPITOLO XXVII. Il ritorno. Malgrado che la situazione già disperata di quegli uomini si fosse aggravata per l’abbandono dei marinai americani ed un disastro più tremendo li minacciasse (essendo ormai sfumata la speranza di trovare ancora dei viveri alla capanna), pure non si perdettero ancora d’animo. Wilkye li guidava, Wilkye si preparava ad affrontare coraggiosamente l’avverso destino, e l’energia di quell’uomo aveva rialzato il morale di tutti quei disgraziati. Volevano anch’essi lottare fino all’estremo delle loro forze, prima di cedere. Fu deciso di abbandonare il primiero progetto, ora che alla capanna altro non potevano trovare che un ricovero, e di tentare di raggiungere, colla maggiore celerità, la costa più vicina, nella speranza di trovare sulle spiagge delle foche e degli uccelli marini. Si divisero in due drappelli: il primo comandato da Wilky era composto di Blunt e Bisby il quale malgrado tante sofferenze era ancora valido, e di due dei più robusti marinai; il secondo comandato da Peruschi comprendeva Linderman e tutti gli altri più o meno invalidi. Il primo doveva affrettare la marcia per procurare i viveri; il secondo doveva avanzare in proporzione delle sue forze. Alle 4 pom. Wilkye ed i suoi compagni lasciavano l’accampamento portando con loro un pezzo di foca bastante a nutrirli per due giorni e si slanciavano a passo accelerato verso l’ovest. Poco dopo ripartivano gli altri colla slitta sulla quale erano stati deposti due marinai che non potevano reggersi in piedi, e la lettiga sulla quale si trovava Linderman, che ormai era pazzo e pazzo furioso. Il freddo avendo gelato la neve, favoriva la marcia, e se non si scatenava qualche altra bufera, il primo drappello poteva raggiungere la costa in tre giorni, non essendovi da attraversare che una distanza di centoventi miglia. Alle 9 di sera Wilkye fece fare una fermata per dare riposo ai suoi compagni, ma alle 10 ripartivano mantenendo il passo accelerato. Non si accamparono che alla mezzanotte, dopo d’aver percorso ben quaranta miglia in sei ore. Alle otto del mattino, dopo d’aver assaggiato un pezzo di foca, riprendevano la corsa. Il mare non doveva essere lontano. All’orizzonte si scorgevano delle alture e di quando in quando si vedevano apparire, verso l’ovest, alcuni punti neri che dovevano essere uccelli. Fu una corsa furiosa: non camminavano, correvano come se fossero inseguiti. Wilkye, sempre dinanzi a tutti, dava l’esempio. Alle 6 di sera sole venti miglia li separavano dalla costa. Il vento portava fino ai loro orecchi le cupe detonazioni dei ghiacci galleggianti. Erano sfiniti, ma non si arrestarono ancora: una volontà irresistibile li spingeva innanzi. Alle nove di sera, nel momento che il sole scompariva sotto l’orizzonte, salutavano l’Oceano con un urràh fragoroso. Stavano per precipitarsi attraverso ai ghiacci per piombare in mezzo alle bande di pinguini che colà nidificavano, quando si udì Blunt a gridare: — Una nave!... una nave!... Non si era ingannato. Una nave a vapore scendeva dal nord lungo la costa, speronando furiosamente i ghiacci galleggianti che le sbarravano il passo. — Scaricate i fucili, presto!... gridò Wilkye fuori di sé. Non vi era bisogno. L’equipaggio della nave li aveva già scorti agli ultimi bagliori del tramonto e li salutava colla bandiera e con un colpo di spingarda. Chi erano quei generosi che accorrevano a salvarli? Da dove venivano? Come si trovavano colà?... Non importava, pel momento, il saperlo. Due grandi scialuppe erano state calate in mare ed arrancavano verso la costa, aprendosi il passo fra i ghiacci galleggianti. In dieci minuti approdarono, e due uomini s’arrampicarono sulla costa, gridando: — Signor Wilkye!... Signor Blunt!... Signor Bisby!... — Per centomila quintali di carne salata!... esclamò il negoziante. — I birbanti sono ritornati!... Che i miei pranzi abbiano fatto effetto? Sfido io! Nessun altro cuoco poteva farli migliori e più abbondanti!... — Voi!... esclamò Wilkye, al colmo dello stupore. Ma dunque non ci avevate abbandonati? — No, signore. Avreste potuto supporlo, ma non crederci capaci d’un simile tradimento. I viveri stavano per mancare in causa della eccessiva prodigalità del signor Bisby... — Mariuoli! esclamò il negoziante. A udir loro, ho mangiato tutto io!... — Ci siamo imbarcati prima che mancassero del tutto sperando d’incontrare qualche nave baleniera che venisse in vostro soccorso. Avremo forse commessa una cattiva azione abbandonando il signor Bisby; ma col suo formidabile appetito ci avrebbe consumate le poche provviste in quattro giorni. — Quella nave dunque è?... — chiese Wilkye. — Una baleniera americana montata da nostri compatriotti. — Grazie, amici; ci salvate da una tremenda catastrofe. — Signor Bisby, dissero i marinai, — non ci serberete rancore per la nostra mala azione? — Ma che!... esclamò il negoziante. — Qui, sul mio cuore, miei bravi marinai, ma a condizione di pregare il cuciniere di bordo d’allestire un pranzetto per trenta persone. Che diavolo!... Ho ben diritto d’ingrassarmi un po’, ora che sono diventato magro come un’aringa affumicata. — A bordo, disse Wilkye. — Bisogna inviare soccorsi al secondo drappello. Venti minuti dopo Wilkye ed i suoi compagni giungevano a bordo della baleniera l’Hudson, del dipartimento marittimo di Norfolk. Il capitano Klemer, un buon bostoniano, proprietario della nave, fece la più ospitale accoglienza agli intrepidi suoi compatrioti ed ai superstiti della spedizione inglese. Informato che il secondo drappello si trovava ancora sul continente ed in critiche condizioni, organizzò tosto una spedizione di soccorso composta di otto marinai muniti di viveri, di una piccola farmacia, di parecchie bottiglie di succo di limone e di vino generoso pei colpiti dallo scorbuto. Wilkye e Blunt si misero alla testa del drappello ed il giorno dopo incontravano Peruschi, Linderman ed i marinai inglesi. Quei soccorsi giungevano a tempo, poichè quei disgraziati erano già alle prese colla fame. Due giorni dopo l’Hudson, che aveva terminato la campagna di pesca e che aveva completato il suo carico d’olio di balena e di elefanti marini, filava a tutto vapore verso il nord, portando con sè gli avanzi della spedizione anglo-americana. Il 16 aprile gettava l’ancora a Norfolk, all’imboccatura del profondo golfo di Chesapeak ed il giorno seguente Wilkye, Bisby, Peruschi, Blunt, Linderman ed i marinai inglesi s’imbarcavano su di un battello costiero e scendevano a Baltimòra. Il loro ritorno fu un avvenimento. I membri della Società geografica e le Autorità, già avvertite telegraficamente, li attendevano sul quai e li condussero trionfalmente alla sede sociale, dove era stato allestito un banchetto per solennizzare la scoperta del polo Australe. Wilkye dovette narrare a sazietà le avventure, le fatiche, i patimenti sofferti in quelle lontane regioni delle nevi e dei ghiacci; Bisby invece si accontentò di mangiare a crepapelle per sei ore continue, sperando di fare ancora una discreta figura fra i membri della Società degli uomini grassi di Chicago. Il Governo dell’Unione Americana, orgoglioso per la grande scoperta, non dimenticò gli eroi della spedizione polare, e decretava a Wilkye ed ai suoi audaci compagni, onori, ed una lauta pensione annua. Wilkye, che al par di tutti gli esploratori polari, sembra invaso dalla nostalgia dei ghiacci, sta ora maturando una grande spedizione nei mari Artici per tentare anche la scoperta del polo boreale. Vi riuscirà? Lo sapremo forse un giorno. Linderman, che è stato ricoverato in una casa di salute, è più pazzo che mai. Il disgraziato sembra perseguitato da una fissazione, da un odio profondo contro il suo generoso rivale che lo ha salvato da una catastrofe completa. Violenti furori lo assalgono sempre, specialmente quando Peruschi, Blunt o qualcuno dei suoi marinai vanno a visitarlo. Guarirà?... I medici ne dubitano fortemente. In quanto a Bisby ha venduto i suoi magazzini e non fa più parte della Società degli uomini grassi. Gl’ingrati lo hanno espulso perchè... era troppo magro!... L’ottimo ed allegro negoziante si è consolato però: ha piantato stabile dimora nelle sale della Società geografica, e fra i due pranzi e le tre colazioni giornaliere che si divora coscienziosamente, discute come un arrabbiato e con lena inesauribile sulle grandi questioni polari. Il degno uomo si crede uno scienziato, un geografo di prim’ordine, e a chi ribatte i suoi argomenti risponde subito enfaticamente: — Cosa volete saperne voi?... Tacete! Non siete stato al polo come ci sono stato io!...