PREFAZIONE Ero ritornato da una gita intrapresa col signor Logrand sulla Quinsegna, una delle più alte montagne del Canavese, la cui vetta sorpassa i duemiladuecento metri e dove, di lassù, si può spaziare lo sguardo su quasi tutto il Piemonte e sulla gigantesca catena delle Alpi occidentali. Sfinito da una marcia di nove ore, attraverso a burroni ripidissimi, fra gole profonde, su per rupi dove bisogna arrampicarsi come i gatti, poiché nemmeno le più agili capre sarebbero state capaci di superarle, anelavo di trovarmi a Cuorgnè e di riposarmi. Appena entrato nella mia casettina, ricevuto dalle grida gioconde del mio Nadir e della mia Fathima, due bricconcelli che non lasciavano tranquillo il papà nemmeno quando scrivevo, mi venne incontro mia moglie, dicendomi con una cert'aria di mistero: — L'hai incontrato? La guardai un po' sorpreso; ma immaginandomi tosto che fosse giunto qualche amico, le risposi: — Non ho veduto alcuno. Sono venuto dalla parte dell'Orco[1] e non ho incontrato che dei contadini. — È uscito or ora. — Ed era?... — Un signore che dall'accento e dal suo modo di vestire mi parve uno straniero. Ha lasciato il suo biglietto di visita; lo conosci? Presi il cartoncino che mi porgeva e lessi questo nome: Harry Mac Doil. — Harry Mac-Doil!... — esclamai, al colmo della sorpresa. — Chi sarà costui?... — Non lo conosci? — chiese mia moglie. Non risposi: interrogavo la mia memoria, sperando di aver udito ancora quel nome o di aver incontrato in qualche regione del globo l'uomo che lo portava, ma senza alcun risultato. Nemmeno nelle città marittime scozzesi che avevo visitato nella mia gioventù, lo avevo mai udito una sola volta e di questo era certissimo. — No — le dissi poi. — Non lo conosco. Mia moglie mi guardò, con una sorpresa che doveva essere eguale alla mia. — Ma... allora, cosa vorrà quell'uomo? — chiese. — Ritornerà? — domandai. — Alle due sarà qui. — Benissimo, — risposi, — sapremo presto chi sarà ed il motivo che conduce qui quello scozzese, poiché dal suo nome lo giudico tale. — Hai appena il tempo di cambiarti: sono già le due meno pochi minuti. Mi aveva già preparato un vestito che mi affrettai ad indossare, sapendo che gl'inglesi, d'ordinario, sono puntuali come cronometri. Intanto continuavo a torturarmi il cervello facendo mille supposizioni bizzarre su quella visita inaspettata e su quel signor Mac-Doil, che dalle brumose regioni della Scozia, era venuto a scovarmi fra le montagne del Canavese. Quale motivo doveva averlo guidato in Italia?... Cosa sarebbe venuto a chiedermi od a raccontarmi? Mi ero appena seduto dinanzi al mio tavolino da lavoro, guardando distrattamente una carta geografica della Scozia, quando udii tintinnare il campanello. Immaginandomi che fosse lo sconosciuto, andai in persona ad aprire e mi trovai dinanzi ad un uomo di statura un po' superiore alla media, vestito di quel grosso panno azzurro cupo che portano usualmente gli uomini di mare, con un berretto di panno uguale adorno di due nastri e simile per forma a quello usato dai soldati scozzesi, ed il braccio sinistro avvolto in uno sciallo frangiato, a grandi scacchi rossi e strisce nere incrociate. — Il cavalier Salgari? — mi chiese bruscamente, storpiando le parole e massacrando il mio nome. — Sono io — risposi, invitandolo ad entrare con un cenno della mano. — Io sono Harry Mac-Doil. M'inchinai senza nulla rispondere ed introdottolo nel mio stanzino da lavoro, lo pregai di accomodarsi. Restammo alcuni istanti in silenzio, guardandoci reciprocamente e colla più viva curiosità. Quello straniero poteva avere sessantanni e fors'anche di più, ma teneva il busto diritto come un giovanotto. I suoi capelli erano perfettamente bianchi e così pure la sua barba che era tagliata all'americana; la sua pelle era rossastra ma qua e là marezzata di macchie brune; il suo naso regolare, le sue labbra strette appena visibili e che mostravano una dentatura ancora solida; i suoi occhi poi, erano d'una tinta indefinibile, fra l'acciaio, il grigio e l'azzurro, vivissimi ed avevano non so quale lampo strano. La corporatura dinotava che quell'uomo doveva essere stato d'una robustezza eccezionale: spalle larghissime, petto ampio, membra grosse ed indubbiamente muscolose. Quando mi ebbe ben guardato, mi chiese a bruciapelo: — Credete voi, cavaliere, che si possa andare al Polo Nord? Lascio immaginare a voi quale fu la mia sorpresa a quella strana domanda. Attendevo che mi dicesse quale era lo scopo della sua visita, da dove veniva, chi era, come mi aveva trovato fra le montagne del Canavese ed invece mi chiedeva se era possibile andare al polo!... Credo di essere rimasto qualche minuto in silenzio, prima di rispondere: — Ma... forse!... — Cosa ne dite, della spedizione organizzata dal signor Andrée? — Penso che il signor Andrée ed i suoi due compagni, i signori Strindberg e Fraenkel hanno dato prova d'una audacia straordinaria, degna dell'ammirazione del mondo. — Credete alla riuscita dell'impresa?... — Hum!... Ecco: io mi sono molto interessato di quell'ardito tentativo e su qualche giornale, fino dall'anno scorso, ho sollevato dei dubbi sul buon esito di esso, in causa delle correnti aeree che specialmente nell'estate soffiano quasi costantemente dal nord al sud. Il ritorno dell'Andrée dallo Spitzberg dell'anno scorso, mi ha dato ragione; ma quest'anno ha potuto trovare, per combinazione, una corrente favorevole e come sapete è partito per le regioni polari l'11 luglio, a mezzogiorno. — Sì, quattordici giorni or sono — mi rispose il signor Mac-Doil, ma come parlando fra se stesso. Stette qualche istante pensieroso, poi continuò: — Secondo voi, potrà giungere al polo? — Ho i miei dubbi e temo molto che possa rivedere l'Europa. — Pure Andrée ha dato sue notizie. — È vero. L'equipaggio della barca da pesca Alken, navigante presso il capo Nord dello Spitzberg, ha raccolto un piccione viaggiatore lanciato da Andrée il 13 luglio, a 15°5' di longitudine Est e 52°2' di latitudine Nord, annunciante che tutto andava bene e che il pallone marciava verso il settentrione, ma poi più nulla. — Ditemi, signore — esclamò ad un tratto il mio visitatore. — Avete mai udito raccontare che un uomo sia giunto al Polo Nord?... — Mai. — Voi avete pratica delle questioni polari e ho letto alcuni vostri lavori: Al polo Australe in velocipede, nel Paese dei ghiacci, i Pescatori di balene, e so che avete passata sul mare buona parte della vostra gioventù. Guardai lo sconosciuto con uno stupore così vivo, che egli se ne accorse e sorrise. — Scusate, — gli dissi, — voi siete?... — Un isolano delle Ebridi. — E venite?... — Dalla riviera Ligure — mi rispose, sempre sorridendo. — E chi vi ha indirizzato qui?... — Uno dei vostri amici: il signor Spiotti. — Ora comprendo. Siete stabilito in riviera?... — Da alcuni mesi. Il clima delle Ebridi è freddissimo all'inverno e la mia salute se ne andava rapidamente. Sembro robusto, ma non lo sono più — disse Mac-Doil, con una certa amarezza. Si arrestò per alcuni istanti, come si fosse immerso in profondi pensieri, poi vedendo che io tacevo, continuò con voce lenta, misurata. — Terribili emozioni hanno guastate le mie fibre, che un tempo erano così solide. L'umidità dell'America Russa non è adatta per tutti ed i gelidi soffi del vento polare guastano le persone che non sono ben riparate; ed io, del freddo, ne ho preso troppo... Oh! Sì, troppo!... Sospirò a lungo passandosi una mano sulla fronte, poi guardandomi fisso fisso, come se volesse scrutarmi l'anima, mi chiese bruscamente e con una strana intonazione: — Ditemi, credete voi che io sia pazzo? A quella domanda inaspettata, confesso che rimasi di stucco, guardando con occhi attoniti lo straniero. Già da dieci minuti cadevo di sorpresa in sorpresa non sapendo ancora chi era quel signor Mac-Doil, né cosa desiderava da me e perché mi parlava così insistentemente del polo; quella interrogazione finiva per scombussolarmi. Non risolvendomi a rispondere, ripetè con una certa ansietà: — Ditemi, mi credete pazzo?... — No — risposi. Ed infatti quell'uomo poteva sembrarmi un originale, un eccentrico, ma non un pazzo, quantunque i suoi sguardi avessero, come dissi, qualche cosa di strano. Egli respirò come gli si fosse levato un gran peso che gravitavagli sul petto e mormorò: — Grazie. Depose su di una sedia vicina lo sciallo che aveva sempre tenuto sul braccio, indi riprese: — Dicono, che quando i marinai del Bornholm mi raccolsero sul banco di ghiaccio, morente di fame, seminudo malgrado il freddo e che mi condussero alle Fär-Öer, io ero pazzo. Può essere che le lunghe privazioni, gli orrori di quella immensa traversata in mezzo ai campi di ghiaccio del polo, avessero sconvolto il mio cervello, ma che la spedizione sia stata creata dalla mia pazzia no, non è vero!... Ho salvate miracolosamente le mie note di viaggio ed un documento del capitano Nikirka ed io ve lo porto, per provarvi che vi sono stati degli uomini che hanno veduto quel polo, che ora le nazioni europee cercano di raggiungere colle navi e coi palloni. La mia sorpresa si cangiava ormai in una vivissima curiosità ed avevo ascoltato avidamente quell'ebridano. Sentivo per istinto che stavo per apprendere qualche terribile istoria d'avventure; che stavo per afferrare il soggetto per un futuro lavoro ed avrei voluto che Mac-Doil avesse continuato a parlare per un bel pezzo ancora, ma egli si era arrestato, come se volesse indovinare quale effetto avevano prodotto in me le sue ultime parole. Ed un profondo effetto, ve lo confesso, l'avevano prodotto su di me, udendo che egli mi recava delle note per provarmi che degli uomini erano riusciti a raggiungere il polo, quell'estremo punto della terra così tenacemente cercato per oltre tre secoli da tutte le nazioni marinaresche dell'Europa e dell'America, e che ha già costato tante vittime umane. — Degli uomini sono stati al polo!... — esclamai, con viva emozione. — Voi dite questo, signor Mac-Doil? — Sì — mi rispose egli. — Ma chi?... — Io. — Voi!... — E vi reco le prove. — E le date a me? — Sì, perché voi potete scrivere un altro lavoro polare che desterà, lo spero, un vivo interesse e che forse spingerà altri audaci naviganti a ritentare la spedizione. — Ma perché a me, invece che ai vostri compatrioti? — Perché in Inghilterra mi tratterebbero da pazzo. — Ma se dite che avete le prove di essere stato al polo? Mac-Doil alzò le spalle, poi disse: — Preferisco voi ad altri: guardate. Si era sbottonato la giacca e da un vecchio portafoglio aveva estratta una carta gialliccia, sulla quale stavano scritte alcune righe d'una calligrafia grossa, ma per me indecifrabile. Pure, dopo di averla guardata attentamente, rilevai qualche parola. — È slavo ma... non tutto — dissi. — È scritta in finlandese — mi rispose Mac-Doil. — Volete che ve la traduca?... — Il finlandese è una lingua affatto nuova per me. — Ascoltatemi: «27 Luglio 1864. «Se il mio battello il Taimyr, non dovesse più mai ritornare alla superficie e rimanere in eterno adagiato sulle sabbie dell'Oceano Polare, come ne ho il triste presentimento, incarico Harry Mac-Doil ed il suo compagno Gustavo Sandoë, cacciatori della Compagnia Russo-Americana, di recare in Europa la notizia della scoperta del polo, da me compiuta. «Ing. Olao Nikirka «89°20' di lat. N. 24°9' di long.» M'alzai di scatto, impotente di frenarmi, esclamando: — Voi siete stato al polo!... Mac-Doil mi guardò, poi corrugando la fronte e facendo un gesto di sfiducia, disse con voce triste: — Anche voi adunque, mi credete pazzo? — No!... Non vi credo pazzo, ma vorrei chiedervi mille cose, mille spiegazioni... e giacché siete venuto qui, me le darete. — Sono venuto per questo. — Una domanda, innanzi a tutto. — Parlate. — Ma chi siete voi?... — Ve lo dico subito, purché abbiate la pazienza di ascoltarmi. — Un'altra domanda. — Parlate pure. — Non avete recata in Europa la notizia della grande scoperta?... In Russia ed in Inghilterra non avete narrato il grande avvenimento? — Sì. — E non vi hanno creduto? — Peggio ancora, mi hanno riso sul viso e mi hanno trattato da pazzo. — Ma il documento che voi possedete?... — Non vollero leggerlo. — Ma questo Olao Nikirka?... Non era conosciuto da alcuno, in Finlandia?... — Sì, a Nistad sua città natale, dove ha ancora alcuni parenti, ma quando mi presentai a loro mi trattarono come un sognatore, dicendomi che il capitano Nikirka erasi annegato da parecchi anni, senza mai aver veduto un banco di ghiaccio. Seppi più tardi che il disgraziato scopritore aveva lasciata una sostanza vistosa e che i parenti si erano affrettati a dividersi. — Ma il governo russo? — I funzionari del governo ai quali mi rivolsi mi trattarono come un allucinato. Comprenderete che io non godevo la fama d'un Nordensjöld, né d'un Andrée, né d'un Payer, né d'un Nansen, né d'un Nares, né d'un Leight Smith. — È vero, — diss'io — e vi siete rivolto a me. — Sì, ma per puro caso. Se non avessi conosciuto i vostri lavori polari, forse la grande scoperta sarebbe morta con me. — Ed io vi ringrazio, signor Mac-Doil, che abbiate pensato a me. — Scriverete questo nuovo lavoro? — mi chiese l'ebridano, mentre i suoi occhi s'illuminavano d'un vivo lampo. — Sì, lo scriverò, ma bisogna che io sappia molte cose e cioè che mi raccontiate tutto ciò che è accaduto alla spedizione, volendo mantenermi, più che mi sarà possibile, nel campo del vero. Mac-Doil frugò nella tasca interna della sua giacca ed estrasse un grosso fascio di carte, pure ingiallite e coperte di macchie d'umidità. — Sono le note di viaggio, del signor Nikirka, scritte in lingua francese — mi disse. — L'acqua, le nevi, il gelo le hanno un po' guastate, ma sono ancora leggibili. Le esaminerete poi vi darò tutte le spiegazioni che desiderate. — Grazie, signor Mac-Doil — risposi io, impossessandomi avidamente di quei preziosi documenti. — Ditemi ora, sono molti anni che abitate alle Ebridi?... — Le avevo lasciate che ero molto giovane, per cercare fortuna nel Nuovo Mondo. Rimasi parecchi anni fra i cacciatori della Compagnia Russo-Americana dello stretto di Behering e non le rividi che nel 1865, ossia dopo il mio ritorno dalla spedizione polare. Le ho rilasciate cinque mesi or sono per cercare un clima più mite, poiché la mia robustezza se ne va rapidamente, e se il caso non mi avesse fatto incontrare il signor Spiotti, a quest'ora sarei già ad Alessandria d'Egitto o al Cairo. — Contate di ripartire presto? — Questa sera per Torino, ma fra due giorni verrò a rivedervi e vi darò tutte le notizie che vi saranno necessarie. Erano le quattro pomeridiane e fra pochi minuti il treno doveva partire. Vuotammo una bottiglia, gli presentai mia moglie che si era introdotta furtivamente nel mio salotto da lavoro, poi ci lasciammo. Vegliai l'intera notte leggendo e decifrando le note lasciatemi da Mac-Doil. Taluni foglietti erano stati guastati dall'umidità, ma colla pazienza riuscii a spiegarli, aiutato in questo lungo e faticoso lavoro da mia moglie. Al mattino mi ero fatto un concetto quasi esatto delle straordinarie avventure toccate all'ebridano ed ai suoi compagni di viaggio ed avevo raccolto, con somma cura, tutte le preziose notizie intorno alla gelida regione polare. Mi mancavano però dei dettagli che mi erano molto necessari e che non trovavo su quelle note scritte alla rinfusa, in mezzo a tremendi pericoli e molto concisamente, ma Mac-Doil doveva fornirmeli. Attesi con impazienza, facile ad immaginarsi, il ritorno dell'ebridano, il quale mantenne fedelmente la parola. Il 28 luglio ebbi con lui un lunghissimo colloquio che durò quasi un giorno intero, volendo conoscere i più minuti particolari. — Ci rivedremo? — gli chiesi, prima di lasciarci. — Attendo il vostro lavoro al Cairo, ma spero l'anno venturo di venirvi a ritrovare, se il male che lentamente mi rode mi lascerà in vita. Ci salutammo, ma con una certa tristezza. Rivedrò ancora quell'uomo straordinario, l'unico sopravvivente che possa dire, con legittimo orgoglio, che ha posato i piedi sulle nevi immacolate del polo boreale, su quel punto estremo del globo che ha già costato alla scienza tante vittime e nelle cui acque che lo circondano finiscono di sfasciarsi le navi di tanti audaci esploratori dei due mondi?... Io lo dubito, ma in questo momento in cui il lavoro da lui ispiratomi viene lanciato al pubblico egli è ancora vivo al Cairo, quantunque la sua ultima lettera mi faccia comprendere che ormai il suo male non gli lascia più alcuna speranza di rivedermi. E. Salgari I CACCIATORI DI LONTRE — L'hai veduta, Sandoë? — Sì, Mac-Doil, ma è sparita subito. — Dove l'hai veduta? — Là, sotto quella roccia. — Non la vedo. La notte è così oscura, che bisognerebbe avere gli occhi d'un gatto per distinguere qualche cosa a dieci passi dalla punta del naso. Era grossa? — Grossissima, Mac-Doil. Deve essere l'istessa che ho veduta stamane. — Era una pelliccia bella? — Una delle più fitte. La Compagnia potrebbe ricavare ottocento rubli. — Sai che cosa ho osservato, Sandoë?... — Dimmelo. — Che da qualche giorno, queste dannate lontre si mostrano spaventate. — L'ho notato anch'io, Mac-Doil, e sai da quando? — Dalla notte in cui abbiamo udito quel fischio misterioso. — Hai indovinato. — Chi può aver emesso quella nota?... Una balena non di certo. — E nemmeno un capodoglio, Mac-Doil. — Eppure l'isola è assolutamente deserta. — Che sia stato un mammifero di nuova specie? — Hum! — fece colui che si chiamava Mac-Doil, crollando il capo. — Non lo credo. — Ed allora?... — Non so cosa dire. — Deve accadere qualche cosa sulle coste settentrionali dell'isola. Se così non fosse, le lontre non sarebbero così diffidenti ed anche Kamo sarebbe più tranquillo. Anche ieri notte abbaiò più volte. — L'ho udito, Sandoë, e credo... — Taci! Un gorgoglìo strano, ma potente, che pareva prodotto da un immenso getto d'acqua irrompente alla superficie del mare, seguito poco dopo da un sibilo acuto, si era udito in lontananza, verso le coste settentrionali dell'isola. Udendo quei fragori, un cane di dimensioni enormi, che stava accovacciato accanto ad una rupe, balzò verso i due uomini e volta la testa verso il nord, lanciò tre poderosi latrati. Era questo uno di quegli splendidi molossi tibetani che vengono importati nell'Alaska dal Kamsciatka, di corporatura robustissima, di mole straordinaria, colla coda villosa volta sempre in alto, il pelame lungo e nero ed il muso d'aspetto ferocissimo, reso ancor più pauroso da due ripiegature della pelle assai accentuate e dalle labbra pendenti. Questi molossi sono senza dubbio i cani più forti e più coraggiosi, poiché nel paese natìo osano affrontare perfino i bufali e lottano con vantaggio contro gli orsi. Mac-Doil ed il suo compagno, si erano alzati contemporaneamente, dicendo: — Zitto, Kamo!... Poi si erano spinti verso la spiaggia, che le onde di tratto in tratto spazzavano, guardando verso le coste settentrionali dell'isola con una certa ansietà. Pareva che in quel momento avessero dimenticata la lontra che cercavano di catturare. Ascoltarono parecchi minuti con viva attenzione, ma il gorgoglìo misterioso non si ripetè. Solamente le onde, sollevate dal vento del nord che soffiava attraverso lo stretto di Behering, si rompevano contro le spiagge con sordi fragori. — Che cosa dici, Sandoë? — chiese Mac-Doil. — Dico che vorrei essere nella baia di Cuscoquim o meglio ancora, nello stabilimento della Compagnia a Kinagamute. — Credo che tu abbia ragione. Io non sono mai stato pauroso, ma ti dico che questi misteriosi rumori mi fanno una certa impressione. — Ma sei certo che l'isola sia deserta?... — Certissimo. — Nemmeno gli aleutini vi approdano? — Mai, Sandoë. — Allora vi è qualche cetaceo che si aggira sulle coste. — Non lo credo. — Non hai udito quel gorgoglìo? — Sì, ma nessun cetaceo può produrre quel fragore. — È un mistero che vorrei spiegare. — Lo spiegheremo, Sandoë. Fra un'ora sorgerà il sole ed andremo ad esplorare le coste settentrionali. — Ritorniamo alla capanna?... La lontra non ritornerà più di certo. — Conto invece di catturarla. — Non riapparirà, Mac-Doil. — Tu sei novizio in tali cacce, ma io da dodici anni percorro le foreste dell'Alaska e le sponde delle isole Aleutine e conosco le lontre. Se per due volte si è mostrata presso queste scogliere, vuol dire che in questi dintorni ha il suo nido. Là!... Guarda, Sandoë... Te lo dicevo io, che sarebbe tornata? Non muoverti o fuggirà. Mac-Doil, così dicendo, si era lasciato cadere dietro una roccia che si ergeva a trenta passi dalla sponda, imitato rapidamente dal suo compagno, mentre l'enorme molosso si accovacciava silenziosamente in mezzo ad una macchia di folti licheni e di salici microscopici. Cominciavano allora a diradarsi un po' le tenebre, essendo l'alba vicina. Già verso oriente il mare si tingeva di riflessi color acciaio cupo, i quali non dovevano tardare a prendere una tinta madreperlacea. Presso una scogliera che si avanzava per qualche tratto sul mare, descrivendo una specie di semicerchio, era comparsa una macchia nerastra ma che tosto erasi immersa. — Il kalam[1] viene — mormorò Mac-Doil, all'orecchio di Sandoë. — Lo attendiamo a terra? — Sì, Sandoë: eccolo!... Il punto oscuro, che doveva essere l'estremità del naso della lontra, era tornato a mostrarsi vicino alla sponda. Scomparve ancora, ma non potendo questi animali rimanere sott'acqua più d'un minuto, perché hanno bisogno di respirare, poco dopo emerse e salì lentamente la riva. Era una lontra delle più grosse, poiché non doveva pesare meno di 40 chilogrammi ed era lunga circa un metro e venti centimetri, calcolata la coda che ordinariamente raggiunge i trenta o trentacinque centimetri. Aveva la testa un po' appiattita col muso adorno di baffi irti, il collo corto e grosso, il corpo di forma cilindrica, le zampe anteriori basse e munite di unghie, mentre le posteriori somigliavano alle pinne delle foche. Il suo pelame era lungo, setoloso, bruno grigiastro screziato di bianco con una lanetta luccicante, morbidissima, splendida e poteva venire pagato, senza difficoltà, duemila lire. Uscita dall'acqua, la lontra s'arrestò, esaminando attentamente le rocce vicine coi suoi grandi occhi rotondi che scintillavano come quelli d'un gatto, poi emise un sordo brontolìo. Sandoë aveva puntata la carabina per mandarle una palla nel cranio, ma Mac-Doil gli aveva abbassata rapidamente l'arma, dicendogli con un filo di voce: — Aspetta!... Non è sola. Un'altra lontra, ma un po' più piccola della prima, usciva allora dall'acqua, seguita da due piccini grandi come due giovani conigli. — La femmina? — chiese Sandoë. — Una famiglia intera — rispose Mac-Doil. — Attendiamo: forse ve ne sono delle altre. Intanto la povera madre, ignara del pericolo, si era sdraiata sulla spiaggia e si era messa a giuocare coi suoi piccini e col grosso maschio. È incredibile l'affetto che nutrono questi animali pei figli ed il maschio per la femmina. Si accarezzano per delle ore continue, si lisciano il pelo reciprocamente, giuocano tutti insieme come i giovani gatti, si tuffano, poi tornano sulla spiaggia avvoltolandosi fra le sabbie e tornano ad accarezzarsi con un trasporto che commuoverebbe tutti, fuorché i cacciatori della Compagnia Russo-Americana, loro eterni e mortali nemici. Si adorano a tale punto, che la femmina si fa uccidere per salvare i figli e se perde il maschio si accora tanto, che si lagna per delle intere giornate come un bambino ed in quindici giorni soli il dolore la fa dimagrare spaventosamente. — Mi fa pena ucciderle — disse Sandoë, che seguiva attentamente le mosse della famigliuola. — È vero, — rispose Mac-Doil, — ma la Compagnia non ci ha mandati qui per assistere ai giuochi delle lontre. Puntò lentamente la carabina, mirando il maschio con grande attenzione, un po' sopra l'occhio destro per non guastare la preziosa pelliccia, mentre Sandoë mirava la femmina. Stavano per far scattare i grilletti, quando il gorgoglìo udito poco prima echeggiò improvvisamente, seguito dal misterioso fischio. La femmina, spaventata, balzò rapidamente in piedi, afferrò colla bocca i due piccini e si precipitò verso la sponda, spiccando un lungo balzo. I due spari in quell'istante risuonarono, formando quasi una sola detonazione. Il maschio cadde fulminato, ma la femmina aveva avuto il tempo d'immergersi, prima che la palla potesse toccarla. Alla prima luce dell'alba fu veduta ricomparire a centocinquanta passi dalla sponda, alzarsi più di mezza sopra le onde e porsi le zampe dinanzi agli occhi con una mossa graziosa ed insieme comica, come se avesse voluto ripararsi dai riflessi luccicanti dell'acqua, poi di nuovo scomparire. — Per centomila foche! — esclamò Mac-Doil. — Ancora quel dannato fischio!... Un istante di ritardo ed anche la mia lontra s'immergeva!.. — La mia è già lontana — disse Sandoë, che pareva mortificato. — Ma il maschio è caduto laggiù e la giornata l'abbiamo guadagnata. Si alzò e si diresse verso la spiaggia. Il povero maschio giaceva presso una roccia, tutto raggrinzito e colle zampe anteriori posate sugli occhi come se avesse voluto nasconderseli. — L'ho colpita nel cranio — disse. — La pelliccia non è guastata e si pagherà assai, poiché è una delle più belle che io abbia vedute. Sandoë, che lo aveva seguito, si abbassò per raccogliere la preda, ma Mac-Doil lo trattenne. — Adagio, mio caro. Le lontre talvolta si fingono morte, per poi fuggire appena i cacciatori volgono altrove gli sguardi o per vendicarsi con un morso. Un giorno ho veduto un aleutino perdere tre dita. Spinse col piede il kalam ma vedendo che non dava segno di vita lo prese per le zampe anteriori, gettandoselo sulle spalle. — Cinque lontre in sette giorni — disse. — Se la continua così, faremo affari d'oro, Sandoë. — Sì, se quel misterioso fischio cessa di spaventarle. — Andremo a vedere se quell'essere indiavolato la vuol finire. Sono già due notti che si fa udire ed è tempo che cessi, per centomila foche!... — Se lo scopriremo. — Speriamo che si mostri, Sandoë. Andiamo a stritolare un biscotto alla capanna, poi perlustreremo le coste settentrionali. Si misero in cammino preceduti dal molosso, volgendo le spalle al mare. Quella parte dell'isola che percorrevano, era d'aspetto orribile. Non si vedevano che rupi accavallate confusamente, di origine vulcanica a quanto sembrava, poiché si scorgevano qua e là delle tracce d'antiche lave. Alcuni gruppi di larici e di abeti crescevano nella parte più elevata, erano però intristiti come se non trovassero terra sufficiente su quelle rocce ed ancora ingialliti per le recenti e copiosissime nevicate invernali. Qua e là si vedevano ancora spuntare timidamente dei ranuncoli gialli, delle sassifraghe, delle rose canine, dell'uva spina e delle pianticelle di ribes i cui grappoletti non sempre riescono a maturare. Alcuni uccelli, svegliati dai primi albori, volteggiavano in alto lanciando di quando in quando delle note rauche e stridenti. Erano stormi di gabbiani, di anitre selvatiche, di cornacchie ed in mezzo a loro si vedeva passare pesantemente, quasi a fatica, qualche cigno dalle candide ali, il quale lanciava, ad intervalli, un lungo fischio simile a quello che emettono le trombette. Dopo d'aver superate alcune piccole alture e di essere scesi in sei o sette burroni irti di pietre coperte di muschi e di licheni, i due cacciatori giungevano dinanzi ad una capannuccia formata di tavole incatramate, col tetto a due pioventi ed addossata ad una grande rupe che doveva proteggerla dai venti del nord. Mac-Doil con un calcio spinse la porta ed entrò, gettando in un canto la preda. Quel ricovero eretto sull'isola deserta, offriva delle comodità molto problematiche ed era così ingombro di oggetti, da non potervisi muovere. Vi erano barili, cassette, pelli di lontre cosparse di sale, pelli di volpi inchiodate sulle pareti per farle asciugare, ramponi, fucili, scuri, coltellacci, una stufa circondata da un cumulo di carbon fossile, coperte, due grandi pelli d'orso grigio che dovevano probabilmente servire da letti e sospesi sotto i travi dei prosciutti affumicati, dei pezzi di lardo, delle casacche tese ad asciugare, delle reti di varie dimensioni e finalmente una lampada di ferro. Mac-Doil si aggirò un momento in mezzo a quel disordine, staccò un prosciutto, riempì un cesto di biscotti e da un canto levò una bottiglia per tre quarti vuota. — Spicciamoci, Sandoë — disse. — Mangiamo due bocconi, vuotiamo un bicchiere di questo eccellente gin, poi andiamo a scovare quel dannato animale che si diverte a spaventarci. Si sedettero sui barili, gettarono alcuni biscotti ed un pezzo di prosciutto all'enorme molosso che si era accovacciato dinanzi alla porta e fecero colazione coll'appetito d'uomini che hanno digiunato dodici ore, bagnandosi la gola col contenuto della bottiglia. — Sono le sette — disse Mac-Doil, dopo di aver accesa la pipa. — Alle dieci possiamo essere sulle scogliere settentrionali. — Vuoi che prenda un rampone?... — È un'arma buona contro i cetacei, Sandoë. In cammino. Chiusero la porta, precauzione da non trascurarsi in quelle regioni dove le volpi sono numerosissime e d'un'audacia straordinaria, e si misero in cammino, mentre il sole, mostrandosi fra due nubi, proiettava sull'oceano i suoi tiepidi raggi. Nella primavera del 1864 lo sgelo era cominciato presto nel mare di Behering. Il sole aveva fatto le sue prime comparse pallido assai, scolorito, ma verso la metà di maggio aveva preso vigore, sbarazzando dai ghiacci le coste delle isole di Andrejanovski e di Fuchs e dei golfi di Kotzebue, di Norton, di Cuscoquim, di Bristol e del Principe Guglielmo, che si addentrano profondamente nella così detta America Russa, ed ordinariamente non sono accessibili alle navi prima della metà di giugno. Anche sulle terre la neve, accumulatasi durante il lungo inverno, a poco a poco erasi dileguata, mentre i fiumi si erano sbarazzati della grossa crosta gelata che da cinque mesi li teneva prigionieri. Quel ritorno della buona stagione, tanto impazientemente attesa dai numerosi cacciatori di pellicce della Compagnia Russo-Americana, aveva richiamati sulle isole e sul continente gli uccelli e gli animali che erano emigrati verso il sud in cerca d'un clima più mite. Le bande rumorose delle cornacchie erano state le prime ad accorrere fra i grandi boschi di abeti neri, di betulle e di pini; poi le avevano seguite gli aironi, le anitre ed i cigni per sollazzarsi sui tranquilli laghi e sulle vaste fiumane dell'interno; quindi, a breve distanza, erano tornati a mostrarsi i preziosi castori, le volpi dalla morbida pelliccia, i grassi ghiottoni, le donnole, le lontre terrestri e marine, i baribal od orsi neri ed i formidabili grizzly od orsi grigi dalla pelle troppo ruvida per avere qualche valore, ma dalla carne saporita. Gli stabilimenti della Compagnia Russo-Americana, disseminati sul continente e sulle maggiori isole Aleutine, dopo essere rimasti quasi addormentati durante tutto l'inverno, si erano rapidamente risvegliati. Dal forte di Nulato, il più settentrionale di tutto quel vasto possedimento acquistato dagli Stati Uniti, a Sitka, l'antica capitale russa, bande di audaci cacciatori si erano lanciati sulle rive dei fiumi o sulle immense pianure o sotto le gigantesche foreste, mentre dalle isole di Unimak e di Unalaska s'imbarcavano sui battelli della Compagnia i più astuti cacciatori o pescatori di foche e di lontre, disperdendosi sulle numerose isolette che si allungano, come una corona gigantesca, verso la penisola asiatica del Kamsciatka. L'annata precedente era stata poco produttiva per la Compagnia. Appena diecimila pelli di foche, mille di lontre marine, ventimila fra pelli di volpe e di lontre terrestri, dodicimila di castori, seimila di lupi e poche centinaia di orsi erano state raccolte ed i numerosissimi cacciatori, interessati sulle esportazioni, avevano fatti degli incassi mediocrissimi. Bisognava rifarsi, raddoppiare il numero delle pellicce, battere i territori più lontani che non erano stati ancora percorsi, e visitare le isole più occidentali delle Aleutine, che si dicevano essere ricche di volpi e soprattutto di lontre marine. Perciò i più valenti avevano fatta alla Compagnia la proposta di portarsi fino alle isole Nahe le più prossime alla penisola di Kamsciatka e che fino allora non erano state perlustrate da alcuno. Fra quei pochi ardimentosi che si preparavano a passare parecchi mesi in un completo isolamento, lontani parecchie centinaia di miglia dalle coste e dalle isole abitate, primi fra tutti erano stati Mac-Doil, già famoso cacciatore di lontre, da oltre dodici anni ai servigi della Compagnia ed il suo compagno Sandoë, un novizio, ma che aveva fatto le sue prime armi sulle sponde della baia di Cuscoquim e nei boschi dell'Yucon e con buon successo. La loro proposta era stata tosto accettata ed ecco il perché li troviamo su di un'isola deserta delle Nahe a circa settecento chilometri dalle coste della Siberia ed a sessanta da Attu che è la terra più considerevole di quel piccolo arcipelago. UN MOSTRO MISTERIOSO I due cacciatori, risoluti a scovare il misterioso animale o cetaceo che fosse, che coi suoi formidabili gorgoglìi e coi suoi fischi potenti spaventava le lontre marine, si erano messi animosamente in marcia, per perlustrare le coste settentrionali dell'isola. Uno sguardo, innanzi a tutto, a questi due personaggi. Mac-Doil i lettori ormai lo conoscono, ma in quell'epoca non aveva che poco più di trentadue anni. Era assai più robusto, più muscoloso, aveva i capelli biondo-oscuri, la pelle abbronzata dai soffi del vento e dai raggi del sole che è quasi ardente, in quelle regioni, durante la stagione estiva così breve, quantunque d'inverno perda tutto il suo calore. A quell'epoca portava la barba intera ed incolta, mancandogli troppo sovente il tempo per radersela. Il suo compagno invece non aveva più di ventiquattro o venticinque anni. Era alto, asciutto come un basco, tutto gambe e braccia, con una carnagione ancora rossa, due occhi azzurri, capelli biondo-pallidi, baffetti appena nascenti. Indossavano entrambi casacche di pelle d'alce strette alla cintola da una larga fascia di pelle di cane sostenente il coltello da caccia, la fiaschetta della polvere e la bisaccia delle palle; calzoni di grosso panno azzurro-cupo stretti da alte uose di pelle di foca e grosse scarpe ferrate. Sul capo portavano invece un berretto di raccoon ossia di procione lavatore, colla coda cadente sulle spalle. Gettati i fucili in ispalla e riaccese le pipe, i due cacciatori di lontre, sempre preceduti dal molosso, si cacciarono fra le vallette dirupate che dovevano condurli sulla spiaggia che desideravano visitare. Quell'isola o meglio quell'isolotto, era uno dei più piccoli del gruppo delle Nahe, pure aveva una lunghezza di quattro miglia ed una larghezza di tre a tre e mezzo. Era l'ultimo verso l'occidente ma anche il più sterile, il più dirupato ed appunto per questo mai era stato prima abitato dagli scarsi aleutini che si sono divisi le terre migliori di quella vastissima fascia d'isole. Era, come tutte le altre, un picco vulcanico, sorto dalle onde in seguito a chissà quale spaventevole convulsione del fondo marino, tutto crepacci, buche, avvallamenti, frane antiche, gole e burroni quasi impraticabili che facevano faticare assai i due cacciatori, sebbene fossero abituati alle lunghe marce nell'interno e sulle coste dell'Alaska. Radi uccelli si mostravano entro quelle vallette, tenendosi per lo più presso la spiaggia, ma non scarseggiavano i piccoli animali da pelliccia. Di tratto in tratto delle volpi, animali comunissimi in tutte le Aleutine, che vennero precisamente perciò chiamate anche isole delle Volpi, s'alzavano dinanzi ai cacciatori, ma senza troppo affrettarsi ed arrestandosi a pochi passi per guardarli curiosamente; oppure balzavano fra le rocce delle bellissime mustele, lunghe mezzo metro, somiglianti alle martore, colla coda villosa, il pelame bruno, la testa grigia o bianca, attivamente ricercate dai cacciatori della Compagnia Russo-Americana i quali ne uccidono non meno di cinquantamila all'anno. Altre volte era invece qualche zibellino, animaletto piccolo ma robusto, colla testa acuminata, la coda lunga e grossa, il pelame splendido, morbidissimo, bruno fuligginoso a riflessi azzurri ed i fianchi giallo-rossastri e le cui pellicce non si pagano meno di trecento lire e talvolta perfino cinquecento. I due cacciatori però non si occupavano di quella selvaggina, contando di fare più tardi delle battute regolari. Era troppa la curiosità che li spingeva verso le coste settentrionali, per arrestarsi a sparare delle fucilate. Dopo un'ora di cammino e dopo d'aver varcate parecchie alture rocciose, giungevano sulle spiagge settentrionali dell'isola, là dove avevano udito echeggiare quell'inesplicabile gorgoglìo. In quel luogo l'isola descriveva una curva rientrante, formando una specie di baia aperta ai venti del settentrione e dell'oriente. L'acqua però era tranquilla là dentro, stendendosi al di là di quel semicerchio una doppia linea di scogliere, le quali rompevano l'impeto dei flutti. Quelle sponde non erano abitate che da poche procellarie e da bande di gabbiani e quegli uccelli parevano niente affatto spaventati, perché volteggiavano tranquillamente qua e là e di tratto in tratto si precipitavano fra le onde a pescare i pesciolini ed i piccoli granchi. — Vedi nulla, Sandoë? — chiese Mac-Doil, dopo d'aver gettato un rapido sguardo su quelle sponde. — Io voglio essere divorato da un orso bianco se scorgo qualche cosa di sospetto. — Non vedo nulla — rispose il giovanotto. — Giro gli sguardi da ogni parte ma senza risultato. — Che il cetaceo, ammesso che lo sia, abbia preso il largo? — Sarebbe una fortuna per noi. — Ed una disgrazia per le povere lontre, è vero Sandoë? — Sì e penso che... La frase gli fu spezzata da alcuni latrati sonori lanciati da Kamo. I due cacciatori guardarono dov'era il molosso e lo scorsero in cima ad una rupe tagliata a picco sul mare. L'enorme cane che poco prima pareva tranquillo, ora era in preda ad una viva irritazione. Curvo sul mare, guardava attentamente le onde che s'infrangevano, con sordi fragori, ai piedi della roccia ed il suo folto pelame a poco a poco diventava irto. Latrava con furore, mostrava i formidabili denti ed emetteva dei brontolìi minacciosi. — Che Kamo abbia scoperto il nostro cetaceo? — chiese Mac-Doil. — Bisogna che quel diavolo di cane abbia un serio motivo per mostrarsi così irritato. — Andiamo lassù — disse Sandoë. — Forse potremo scorgere qualche cosa. — E possiamo anche lanciare il rampone. Lasciarono la spiaggia e scalarono rapidamente la rupe, sulla quale il molosso continuava ad abbaiare ed a brontolare. Giunti lassù si curvarono, ma nulla scorsero che potesse giustificare, almeno pel momento, l'irritazione del cane. — Non vedo assolutamente nulla — disse Mac-Doil. — E nemmeno io — aggiunse Sandoë. — Pure ci deve essere qualche cosa sotto questa rupe. — Lo sospetto anch'io, l'acqua però è torbida. Se il vento cessasse si potrebbe vedere... Oh!... Guarda attentamente, Sandoë. — Cosa vedi? — Delle bollicine d'aria che salgono dal fondo del mare e che si rompono alla superficie. — Fulmini!... È vero, Mac-Doil. — Ciò significa che il mostro che lancia quei fischi si trova nascosto lì sotto. — Lo credo anch'io e poi Kamo non sarebbe così inquieto, né abbaierebbe in simile modo. — Sarei lieto di poterlo vedere, Sandoë. — E non ci assalirà? — I mostri del mare non salgono a terra. — Potrebbe essere un anfibio di nuova specie. — Le nostre gambe sono leste, specialmente le tue che sono così lunghe. — Allora scoviamolo. — Ed in qual modo? — Abbiamo il rampone, Mac-Doil. — È vero: dammelo. Mac-Doil impugnò l'arma, una specie di lancia lunga due metri, col ferro largo, in forma d'un V e coi margini interni assai grossi. Si curvò sulla rupe, mentre Sandoë faceva tacere il molosso e guardò attentamente, sperando di scoprire il misterioso mostro marino, ma l'acqua era ancora troppo torbida. Pure si vedevano sempre salire dal fondo delle bollicine d'aria, le quali si succedevano senza tregua. Alzò la formidabile arma adoperata dai balenieri per uccidere le gigantesche balene, poi la scagliò con tutta la forza del suo braccio. Il rampone s'immerse rapido come una freccia, si udì un colpo sordo che aveva qualche cosa di metallico, poi tornò alla superficie trasportato a galla dall'asta di legno. — Per centomila foche! — brontolò Mac-Doil, al colmo della sorpresa. — L'arma ha colpito ed è tornata a galla!... — E colla punta smussata — aggiunse Sandoë che era diventato pallido. — Come va questa istoria?... — Che il rampone si sia rotto contro qualche roccia?... — No, Sandoë. Ho udito un suono strano, come se la punta fosse rimbalzata contro una lastra di metallo. — Che il mostro sia corazzato?... — Non ho mai udito narrare che vi siano dei mostri marini con delle piastre metalliche. — Possono essere d'osso. — Sandoë, comincio ad essere inquieto. — Ed io comincio ad aver paura, Mac-Doil. — Proviamo a mandare a quel mostro un paio di palle. — Rimbalzeranno come il rampone. — Lo vedremo, Sandoë. I due cacciatori puntarono le armi e le scaricarono nell'istesso momento. Le due detonazioni erano appena cessate, quando videro irrompere dalle profondità del mare due getti enormi d'acqua, i quali investendo la sommità della rupe mandarono a gambe levate Sandoë, Mac-Doil ed anche il cane. Non vollero saperne di più. Temendo che il mostro si preparasse a tornare a galla e che potesse giungere sulla roccia, i due cacciatori ed il cane, bagnati come pulcini, si precipitarono verso l'interno dell'isola, gareggiando a chi più correva. Non s'arrestarono che a quattrocento passi dalla spiaggia, su di un'alta collina rocciosa, dalla cui cima potevano scorgere quanto accadeva nella piccola baia. — Al diavolo tutti i mostri!... — urlò Mac-Doil che pareva più furibondo che spaventato. — Corna di narvalo!... Che getto!... — gridò Sandoë. — Una pompa a vapore non avrebbe fatto di meglio. — Mi ha levato di colpo dalla roccia e per poco non mi faceva cadere in mare. — Che sia stata una balena, Mac-Doil? — Forse, ma di dimensioni colossali. Ho veduto molti cetacei nessuno però aveva un getto simile, anzi lanciano più una specie di vapore o d'acqua polverizzata che delle colonne liquide. — Allora abbiamo avuto torto a fuggire. — Lo credo anch'io, perché le balene non salgono a terra. — Ritorneresti tu?... — Certo, Sandoë. Voglio vedere quel mostro. — Taci!... Una nota possente, come lo squillo d'una tromba di dimensioni gigantesche, echeggiò verso il mare ripercuotendosi nelle gole delle colline con un fracasso impossibile a descriversi. I due cacciatori si guardarono in viso l'un l'altro, con una certa ansietà. — Mac-Doil, battiamocela e lasciamo che il mostro se la goda a suo talento — disse Sandoë. — Mi sento più sicuro sulle coste meridionali dell'isola. — No, per centomila trichechi! — gridò il compagno. — Dovessi venire scaraventato in aria da un altro getto d'acqua, andrò a vedere il mostro. — Allora ti accompagno, ma sii prudente. — Non dubitare. Non si accorgerà della nostra presenza. — Kamo abbaierà. — Lo terrai pel collare. Vieni, Sandoë. Scesero la collina tenendo il cane onde impedirgli di correre innanzi e giunti presso la rupe, si gettarono a terra, strisciando fra le rocce. Il molosso, minacciato da Sandoë, taceva ma di quando in quando faceva udire un sordo brontolìo. Giunti sul margine della scogliera, sporsero le teste guardando giù. L'acqua che poco prima era torbida, forse in causa di qualche colpo di coda del mostro misterioso, ora era limpida fino ad una profondità di trenta o quaranta braccia ed attraverso a quel liquido d'un azzurro profondo alternato a riflessi verdastri, si potevano scorgere le cime nerastre delle rocce subacquee. Bastò ai due cacciatori un solo sguardo per scorgere vagamente una massa enorme, oscura, di forma allungata, che pareva andasse restringendosi alle due estremità e che si trovava adagiata fra alcune rupi che chiudevano la piccola baia. Dal centro di quel colosso sfuggivano numerose bolle d'aria le quali salivano in lunghe file alla superficie, dove si scioglievano istantaneamente. — Lo vedi? — chiese Mac-Doil, con voce alterata. — Sì — rispose Sandoë, con un legger tremito della voce. — È una balena?... — Non so cosa dirti, perché non vedo né la coda, né la testa. — È vero, Mac-Doil. Mi sembra che abbia più l'aspetto... non saprei come spiegarmi ma... — D'un grosso sigaro Avana, vuoi dire? — Sì, d'un Avana. — Eppure deve essere un cetaceo. La sua pelle ha la medesima tinta oscura a riflessi metallici. — Ma la testa? — insistette Sandoë. — Eh per centomila foche!... Io non la vedo in alcun luogo. — Allora non è una balena. — E cosa vuoi che sia?... Un granchio forse?... O un coccodrillo?... — Che sia una testuggine marina di dimensioni enormi?... — Con quelle forme?... Non vedi che è lungo e sottile?... — Sottile!... Quel mostro è largo almeno otto metri. — Ma lungo almeno trenta. — Pure, guardalo attentamente, Mac-Doil; non ti sembra di vedere, su quel dorso, come delle giunture che si direbbero scaglie? — È vero, Sandoë. Corpo di centomila trichechi!... E vedo anche due grosse sporgenze. C'è da impazzire! — E d'aver paura. Orsù, cosa facciamo? — Sono risoluto a vedere questo mostro. — Ancora?... Ma non vedi che non si decide a venire a galla? — Lo costringeremo. Stava per ricaricare il fucile, quando il mostro, come se avesse udite le sue parole, cominciò ad agitarsi, facendo spumeggiare l'acqua dalla parte dove doveva avere la coda. Cosa strana però. L'acqua non si alzava in ondate come fanno i cetacei quando mettono in movimento le loro piume mostruose, ma saliva vorticosamente, bianca come il latte, spumeggiando come se quel cetaceo possedesse delle eliche. Ad un tratto fu visto salire di qualche po' come se avesse l'intenzione di mostrarsi a galla, ma subito si mise a filare verso l'uscita della piccola baia con una rapidità prodigiosa e scomparve verso il nord lasciandosi dietro due scie biancheggianti, le quali si mantennero a fior d'acqua anche parecchi minuti dopo. — Fuggito!... — urlò Mac-Doil. — E senza che abbiamo potuto vederlo — rispose Sandoë. — Che il diavolo lo inghiotta!... — E sarà tanto di guadagnato per noi. Almeno le lontre non si spaventeranno più. UN COLPO DI FUCILE Erano trascorsi due giorni dopo la scomparsa del cetaceo o della testuggine gigante che fosse. I due cacciatori, non più inquietati da quei fischi poderosi e da quei gorgoglìi inesplicabili, avevano riprese le loro battute nell'interno dell'isola e lungo le spiagge per accumulare un bel numero di pellicce per la Compagnia Russo-Americana. Parecchie volpi, delle martore, delle linci polari, delle donnole, qualche zibellino ed altre quattro lontre erano cadute sotto le loro palle, assicurandosi un bel numero di dollari in così breve tempo. Cominciavano già a scordare il mostro marino, quando la terza notte un avvenimento inesplicabile glielo richiamò alla memoria, facendo incollerire Mac-Doil e spaventare non poco Sandoë. Stavano aspettando delle volpi, che si erano mostrate in grosso numero in una piccola valle situata presso le coste occidentali dell'isola, tenendosi appiattati dietro un'alta rupe che si ergeva su di un'altura. Sandoë aveva accesa la sua pipa e fumava tranquillamente sdraiato in mezzo ad un tappeto di muschi, mentre Mac-Doil, appoggiato alla rupe, col fucile in mano, guardava distrattamente la luna che pareva emergesse dal mare fra uno scintillìo d'argento. Si trovavano colà da un quarto d'ora aspettando le prede, quando il molosso, che stava accovacciato presso Sandoë, s'alzò emettendo un lungo brontolìo e volgendo la testa verso il sud: — Le volpi? — chiese Sandoë, disponendosi ad alzarsi. — Non le vedo — rispose Mac-Doil, lanciando un rapido sguardo verso l'estremità della valletta. — Kamo deve sentirle. — No, poiché guarda verso il mare. — Che ritorni... — Quel dannato mostro?... — Sì, Mac-Doil. — Non mi rincrescerebbe e... Toh!... Guarda sul mare, Sandoë... Oh!... Questo è un bel mistero!... — Corna di narvalo!... Cosa vedi?... — chiese il compagno, balzando rapidamente in piedi. — Guarda!... Sandoë guardò nella direzione che Mac-Doil gli additava e vide, non senza un po' d'inquietudine, un fuoco che scorreva sul mare, quasi a fior d'acqua. — Cos'è, Mac-Doil? — chiese con ansietà. — Non lo so — rispose il compagno che non pareva meno inquieto. — Una bodarkia[1] aleutina? — No, Sandoë. Quel fuoco è proprio a fior d'acqua. — Forse un kayak?...[2] — Hai mai veduto uno di quei piccoli battelli correre con una simile velocità?... Nella mia gioventù sono stato mozzo e ti dico che quel punto luminoso fila più rapido d'un battello a vapore della Compagnia dell'Alaska. — Che sia la bocca di qualche pesce?... Mi hanno detto che i pescicani di notte hanno le fauci illuminate. — È vero, ma non può essere un pescecane come non può essere il fanale d'una nave. Ah!... Per mille milioni di foche!... Guarda, Sandoë, Guarda!... Quella luce rossastra che pareva prodotta da un fanale munito di un potente riflettore, erasi bruscamente spenta ed in sua vece era comparso un fascio luminoso il quale si proiettava sulle coste dell'isola avanzando dal nord al sud, come se gli sconosciuti che la dirigevano volessero studiare la configurazione di quelle spiagge. Quella luce bianca, anzi azzurrina, due volte passò sopra la roccia occupata dai cacciatori, ma senza arrestarsi, poi anche quella si spense e non si udì altro che un lungo sibilo seguito da una specie di gorgoglìo simile a quelli che erano stati uditi sulle coste settentrionali tre notti prima. Mac-Doil e Sandoë, stupefatti, non avevano osato muoversi e si erano lasciati quasi accecare da quel misterioso bagliore, che pareva sorgesse dalle profondità del mare. Quando non videro più nulla, né udirono altri rumori, una parola sfuggì alle loro labbra. — Bisogna andarsene. — Al diavolo le lontre, le volpi e le martore — aggiunse poi Sandoë. — Quest'isola è stregata ed io non ci tornerò più mai. — E nemmeno io, amico mio. Qui succedono certi misteri da spaventare tutti i più intrepidi cacciatori della Compagnia. — Andiamocene e presto, Mac-Doil. — Sì, ma... e come lasceremo l'isola?... Il battello della Compagnia non giungerà prima del 14 giugno per portarci i viveri e rinnovarci le munizioni ed oggi, se non m'inganno, siamo al 12 di maggio. — Costruiremo una zattera e cercheremo di rifugiarsi ad Attu. — E se incontriamo il mostro?... — Corna di narvalo!... Ma credi che quella luce la proiettasse il mostro?... — Non hai udito il fischio?... — Sì, Mac-Doil, ed anche il gorgoglìo. — Non vuole decidersi a lasciare le acque di quest'isola. — E perderemo le lontre. — E non ci lascerà più dormire. — Mac-Doil, bisogna andarsene. — Sì, ma col battello a vapore della Compagnia. Mio caro, lasciamo che il dannato mostro fischi a suo talento ed illumini l'isola e diamo addosso alle volpi, alle linci, alle martore ed ai zibellini ed il 14 giugno torneremo alla baia di Cuscoquim. Se gli altri cacciatori rideranno delle nostre paure, li pregheremo di venir qui e vedrai che torneranno anche loro più che presto. Sandoë, andiamo alla capanna; per questa notte le volpi non si mostreranno con quella luce che hanno veduto. — Lo credo anch'io. Andiamo, Mac-Doil. Rifecero la strada percorsa, volgendo però di frequente gli sguardi al mare, sperando di vedere ancora quell'inesplicabile bagliore, ma pareva che il cetaceo si fosse immerso per gustare forse un po' di sonno. Quando giunsero alla capanna erano le due del mattino e la luna stava tramontando. Lasciarono il molosso all'aperto per avvertirli nel caso che accadesse qualche avvenimento straordinario e si sdraiarono sulle loro pelli d'orso, contando all'indomani di visitare le coste orientali dell'isola per cacciare gli zibellini che si erano mostrati abbastanza numerosi fra quei piccoli boschetti. Quantunque fossero stanchi, avendo cacciato buona parte della giornata, non furono capaci di chiudere gli occhi. Sembrava loro di udire ad ogni istante dei gorgoglìi e dei fischi, dovevano però ingannarsi, poiché il molosso non dava segno di essere inquieto. Qualche volta lasciavano perfino le loro calde pellicce per vedere se quella luce si proiettava ancora sull'isola, ma senza risultato. Pareva che il mostro si fosse allontanato od addormentato. Stanchi da quella veglia, verso il mattino si erano finalmente assopiti. Quel sonno fu di breve durata, poiché verso le sei quando il sole cominciava a sorgere, furono bruscamente svegliati da una detonazione. Mac-Doil era lestamente balzato in piedi, afferrando la sua carabina che teneva sempre a portata della mano, mentre Sandoë esclamava: — Hai udito?... — Sì — rispose l'ebridano. — Un colpo di fucile?... — Di carabina con grossa carica. — Fulmini!... — Per centomila trichechi!... — Che sia il cetaceo?... — Che spara dei colpi di fucile!... Sei pazzo, Sandoë?... — Se l'isola è deserta!... — Che sia il battello della Compagnia?... — O una nave che da la caccia al mostro?... — Fuori, Sandoë!... Fuori!... Si sbarazzarono delle pellicce ed uscirono precipitosamente, portando con loro le armi. Al di fuori il molosso abbaiava con furore, guardando verso il nord. Pareva che si preparasse ad assalire un nemico invisibile. I due cacciatori guardarono verso il mare. In nessuna direzione scorsero alcuna nave, né all'orizzonte alcun pennacchio di fumo che indicasse la vicinanza d'un piroscafo, né alcuna macchia biancastra o grigiastra che segnalasse l'approssimarsi d'un veliero qualunque. Nemmeno il mostro marino si scorgeva in alcun luogo. Mac-Doil e Sandoë, che una vaga paura cominciava a rendere inquieti, si guardarono l'un l'altro con stupore. — Amico Sandoë — disse l'ebridano. — Qui accadono certe cose, che fanno venire la pelle d'oca anche a me. Se tu... La frase gli fu troncata da un'altra detonazione, che era echeggiata dietro alcune rupi situate a cinquanta passi dalla capanna. — Un altro sparo! — esclamò Sandoë. — Qualcuno caccia laggiù — disse Mac-Doil, il cui stupore non aveva più limiti. — Non si può ingannarsi: è un colpo di carabina e di grosso calibro. — Sì, guarda quella nuvoletta di fumo che striscia lungo l'angolo di quella rupe. — Per centomila foche!... Voglio vedere chi sarà quel cacciatore caduto dal cielo o sorto dal mare. — Anch'io, Mac-Doil. — Tieni Kamo pel collare ed andiamo. Armarono per ogni precauzione i fucili e si misero a correre verso le rocce che celavano quel nuovo cacciatore che prima non avevano mai veduto, quantunque avessero già percorso parecchie volte l'isola dal nord al sud e dall'est all'ovest. Il molosso intanto continuava ad abbaiare e cercava di liberarsi dalle mani di Sandoë per precipitarsi innanzi; il cacciatore, sapendo quanto era feroce quel gigante della razza canina, lo teneva stretto. In pochi minuti attraversarono una piccola valletta che li separava dalle rocce e girata una collinetta, si trovarono viso a viso con due sconosciuti che stavano scuoiando tranquillamente una volpe ed una lince, abbattute di certo con quei due colpi di fucile. Uno poteva avere trentasei o trent'otto anni. Era un uomo di statura piuttosto alta, con una faccia coperta da una folta barba tenuta con cura, occhi cerulei, naso un po' arcuato ed indossava un vestito di pelle di foca attillato, alti stivali di cuoio e sul capo portava un berretto di pelle di lontra. L'altro era più giovane di sette od otto anni, più basso e più tozzo, coi lineamenti più ruvidi, la pelle abbronzata, gli occhi più oscuri, con una barba bionda ma incolta ed aveva l'aspetto d'un marinaio. Vestiva come il compagno, sul capo però portava un berretto di grosso panno azzurro cupo, simile per la forma a quello usato dai mozzi. Entrambi poi tenevano presso di loro delle splendide carabine a doppia canna, col calcio terminante in una placca d'acciaio, curvata in modo da poter poggiare comodamente l'arma alla spalla. Vedendo i due cacciatori, si erano alzati guardandoli con viva curiosità, poi colui che pareva il padrone o il comandante, disse loro in inglese e con perfetta urbanità: — Buon giorno, signori. Mac-Doil e Sandoë erano rimasti così sorpresi nel trovarsi dinanzi a quei due sconosciuti, che subito non trovarono parole, poi il primo restituì il saluto benché con un certo imbarazzo. L'uomo d'alta statura se ne accorse, poiché disse, sorridendo: — Siete sorpresi, a quanto sembra, di trovare degli uomini su quest'isola. — Infatti, signore, lo siamo — rispose Mac-Doil. — Fino a ieri sera l'isola era deserta. — Lo credo, essendo noi giunti solamente stamane — disse lo sconosciuto, sempre sorridendo. — Ma... scusate signore, — disse l'ebridano sempre più imbarazzato, — con quale nave siete approdati? — Col mio battello. — E venite, se è lecito saperlo?... — Da Attu, dove ho lasciato la mia nave. — Una bella traversata in fede mia, se l'avete compiuta con un battello. — Non dico il contrario. — E siete venuti a cacciare qui?... — Mi avevano detto che su quest'isola avrei trovato della selvaggina abbondante e sono venuto per cacciarla. — E vi fermerete molto? — Alcuni giorni. — Allora possiamo offrirvi ospitalità nella nostra capanna. Non è una comoda casa, tutt'altro, ma sarete al riparo dai venti del nord che soffiano freddissimi alla notte. — È una offerta che mi guarderò bene dal rifiutare signor... — Harry Mac-Doil. — Signor Mac-Doil. Poi volgendosi verso il suo compagno, che durante quel colloquio non aveva pronunciata una sillaba, gli mormorò alcune parole in una lingua che né l'ebridano, né Sandoë avevano mai udita. Il marinaio fece un cenno affermativo col capo e si allontanò dirigendosi verso la spiaggia che era lontana appena trecento metri, ma che si poteva scorgere solamente in parte, essendo difesa da alte scogliere. — Sono pronto a seguirvi — disse lo sconosciuto, rivolgendosi a Mac-Doil. — Volete venire alla capanna, signor... — Orloff — disse il cacciatore straniero, inchinandosi leggermente. — Venite, signor Orloff — continuò Mac-Doil. — Forse avrete fame, avendo passata la notte in mare. — Ed il vostro compagno? — chiese Sandoë. — Non abbiate timore, ci troverà avendomi già segnalata la vostra capanna. Lo straniero raccolse le due pellicce e seguì i due cacciatori con passo agile, con quel dondolìo che è particolare agli uomini di mare abituati lungamente al rollìo delle navi. — Avete un magnifico cane — disse ad un tratto, guardando Kamo che saltellava dinanzi a Sandoë. — Non deve temere nemmeno gli orsi bianchi. — No, signor Orloff — rispose Mac-Doil. — È capace di tenere testa anche ad una tigre. — Ecco un animale che sarebbe prezioso per gli esploratori polari. — Lo credo. — Lo cedereste, se qualcuno volesse acquistarlo? — No signore. È il nostro fedele compagno. — È vostro, signor Mac-Doil? — Sì e l'ho acquistato tre anni or sono al Kamsciatka. Il signor Orloff tacque, ma continuava a guardare il molosso, ed i due cacciatori con particolare attenzione, ammirando forse la potente muscolatura dell'ebridano e l'agilità di Sandoë. Giunti alla capanna, Mac-Doil lo invitò ad entrare, dicendo con cortesia: — Non possiamo offrirvi di meglio, troverete però delle calde pellicce per riposarvi e che noi siamo ben lieti di cedervi ed un fornello che ben presto farà bollire delle pentole. — Grazie — rispose il signor Orloff. — Non mancherò di approfittare della vostra ospitalità. — Vi avverto che la capanna è ingombra di oggetti disparati. — Sono abituato alle cabine delle navi e non sono meno ingombre. UNA STRANA PROPOSTA Pochi minuti dopo, mentre lo straniero si era accomodato su di una pelliccia d'orso, Mac-Doil e Sandoë si trovavano affacendati attorno al fornello, per far bollire un pezzo di prosciutto affumicato ed arrostire una bella lontra che avevano uccisa il giorno innanzi. Il marinaio era pure giunto portando con sé un grande canestro ricolmo di biscotti, di scatole di carne conservata, di acciughe, di frutta secche e di bottiglie che parevano piene di vino ed aveva steso su una cassa una tovaglia candida come se uscisse allora allora dalle mani d'una lavandaia. I due cacciatori, che avevano già sbirciate le bottiglie e quell'apparato insolito per loro, abituati ai magri e poco variati pasti che erano costretti a fare su quell'isola deserta, si affacendarono tanto, che un'ora dopo erano in grado di offrire una zuppa di pemmican, il prosciutto ed anche l'arrosto. — Signor Orloff — disse Mac-Doil, con la sua più bella voce. — Vi prego di accomodarvi e di accettare quello che offre la nostra magra dispensa. — Non credevo di trovare tanto su quest'isola deserta, ve lo giuro — rispose lo straniero, allegramente. — Vi assicuro che farò onore alla vostra cucina di cacciatori a condizione che voi facciate buon viso a queste vecchie bottiglie di vino che vengono dalla lontana Europa. — Vi faremo onore, signore, — disse Sandoë, — e maggiormente nella nostra qualità di europei. — Ah!... Siete europei! — esclamò Orloff. — Vi credevo americani. — No, signore — disse Mac-Doil. — Io sono un isolano delle Ebridi ed il mio compagno delle Fär-Öer. — Sì, di Osterö — aggiunse Sandoë. — Uno scozzese ed un danese — disse lo straniero, fra un boccone e l'altro. — Sono lieto di aver trovato quasi dei compatrioti. — Siete anche voi europei? — chiese Mac-Doil. — Sì. I due cacciatori speravano di sapere a quale nazione appartenesse, ma il signor Orloff continuò a mangiare senza aggiungere sillaba. Tutti e quattro fecero molto onore al pasto, soprattutto all'arrosto di lontra che poteva gareggiare con quello d'agnello, alla carne conservata, alle frutta secche ed alle bottiglie contenenti un vino così delizioso che i due cacciatori non si ricordavano d'averne bevuto di eguale da moltissimi anni. — Squisito — ripeteva Mac-Doil, messo in buon umore. — Nell'Alaska non se ne beve mai di così eccellente. — Lo credo — rispondeva Orloff. — Viene dall'Europa. — Forse di Francia? — Più lontano ancora — rispose evasivamente lo straniero. — Ditemi signor Orloff — disse ad un tratto Sandoë, che era diventato assai ciarliero. — Nella vostra traversata avete incontrato nessun mostro marino?... — Un mostro marino!... — esclamò Orloff, scambiando un rapido sguardo col marinaio. — Non ho veduto nemmeno una foca. — Non avete udito dei fischi? — chiese Mac-Doil. — Nessun fragore, né alcun fischio. — È strana!... — E perché, signor Mac-Doil? — Perché da alcuni giorni si aggira intorno all'isola un cetaceo misterioso, il quale spaventa le lontre in modo che non possiamo più catturarle. — Le lontre?... E cosa importa a voi delle lontre? — È vero, signor Orloff. Non vi abbiamo ancora detto che noi siamo dei cacciatori ai servigi della Compagnia delle pellicce Russo-Americana. — Ah!... Siete dei cacciatori!... È per questo che vi ho trovato su quest'isola deserta?... — Sì, signor Orloff. — E raccogliete le pellicce per la Compagnia. — Sì. — Mi pare che la vostra vita sia poco brillante. — Poco invidiabile è vero, ma bisogna vivere. — E guadagnate molto? — Certe annate, se la selvaggina è numerosa e la stagione propizia, possiamo intascare un migliaio di dollari netti d'ogni spesa. — Mentre la Compagnia colle vostre pellicce ne guadagna cinque o seimila. Non vi è compenso proporzionato alle vostre fatiche ed alle vostre privazioni. — Lo so, signor Orloff, e per mio conto avrei forse fatto meglio a trafficare in pellicce come mio padre, ma ormai sono legato alla Compagnia per un bel numero d'anni. Il signor Orloff stette alcuni istanti silenzioso, guardando attentamente i due cacciatori, poi disse a bruciapelo: — Se qualcuno vi offrisse una somma ragguardevole come una diecina di mille dollari, ditemi, prendereste parte ad una audace spedizione nei paesi dei ghiacci eterni?... — Per centomila foche!... — esclamò Mac-Doil. — Chi è quest'uomo che mi offrirebbe diecimila dollari?... — Io vorrei vederlo, — disse Sandoë, — e manderei al diavolo la Compagnia e le sue pellicce. — Non lo so chi sia, ma ne riparleremo — disse Orloff, con un misterioso sorriso. — Ehi, Kustoff, un'altra bottiglia. Il marinaio invece d'una ne levò due dal paniere e le sturò, mettendone una dinanzi al padrone e l'altra dinanzi ai cacciatori. — Riempite le vostre tazze — disse Orloff. — È gin inglese. Poi prevenendo Mac-Doil che stava per versargli nel bicchiere, prese sollecitamente la bottiglia che gli stava dinanzi e se lo riempì, facendo altrettanto con quello del marinaio. — Alla vostra salute — disse. — Alla vostra, signor Orloff — risposero i due cacciatori. Il marinaio invece di sedersi alla tavola improvvisata, si divertiva a gettare al cane dei piccoli biscotti che aveva estratti dal fondo del canestro. Dovevano essere eccellenti, poiché Kamo li sgretolava con grande avidità, raccogliendo perfino le briciole. Mac-Doil e Sandoë intanto continuavano a chiacchierare ed a bere; parevano già molto ebbri e sbadigliavano come due orsi che non dormono da un mese. Raccontavano al signor Orloff la storia del mostro marino, ma la loro lingua diventava grossa, s'impaperavano e chiudevano involontariamente gli occhi, mentre lo straniero taceva limitandosi a sorridere. Anche Kamo pareva che fosse stato preso da un sonno irresistibile, poiché si era sdraiato su di una pelle d'orso e russava fragorosamente. Ad un tratto Sandoë perdette l'equilibrio e cadde fra le braccia del taciturno marinaio che gli si era collocato dietro, come se già prevedesse quella caduta. Mac-Doil non si era accorto di nulla e lottava col sonno che lo invadeva, ma durò poco. Le forze a poco a poco lo abbandonarono e finì, come il compagno, fra le braccia del marinaio, il quale lo depose a terra. Il signor Orloff si era alzato. — Il narcotico ha fatto il suo effetto — disse. — Spero che non si sveglieranno prima di ventiquattro ore e che accetteranno la loro involontaria prigionia. Si avanzò verso la porta della capanna e scaricò in aria i due colpi della sua pistola. Poco dopo, verso la costa orientale dell'isola, si videro irrompere dal mare due immensi zampilli d'acqua seguiti tosto da quel gorgoglìo e da quel fischio che avevano tanto inquietati i due cacciatori. — Stanno per venire — disse Orloff al marinaio. — Andiamo ad incontrarli... Quando Mac-Doil, ancor mezzo assonnato e stordito da quella ebbrezza aperse gli occhi, con suo grande stupore si trovò coricato in una comoda amaca, la quale subiva delle lente ondulazioni come se si trovasse sospesa nel frapponte d'una nave. Credendo ancora di sognare o di essere ubriaco, si alzò a sedere cercando colle mani la sua pelliccia d'orso; invece trovò sotto le dita una grossa e tiepida coperta di lana. Girò all'intorno uno sguardo meravigliato e s'accorse subito di non trovarsi più nella sua capanna. — Dove sono? — si chiese. — Che sia ancora addormentato?... Toh!... Cos'è questo rumore!... Si direbbe che sono su di un battello a vapore o che io... S'interruppe guardando ancora all'ingiro, colla più viva curiosità ed in preda ad una certa inquietudine. Si trovava in una stanzetta quadrata, lunga tre metri e larga un po' meno, alta solamente due, illuminata da una lampada racchiusa in un globo di vetro, la quale proiettava una luce leggermente azzurrognola ed intensa. Sotto la sua amaca vi era un rotolo di pellicce, quelle che aveva seccate e salate alla capanna, le due casse contenenti le sue vesti e quelle di Sandoë e coricato su di un grosso tappeto di feltro stava Kamo, il quale continuava a russare. Dalla parte opposta, sospesa a due anelli infissi nel soffitto, ondeggiava un'altra amaca la quale pareva che fosse occupata da un individuo, poiché lo si udiva russare. — Per centomila trichechi! — esclamò l'ebridano, pizzicandosi furiosamente le braccia. — Sogno o sono desto?... Dove sono io?... Cos'è accaduto dopo il banchetto fatto assieme a quell'Orloff?... Che io sia diventato pazzo o che quel delizioso gin mi abbia annebbiato gli occhi in modo da vedere doppio o triplo?... Si lasciò scivolare dall'amaca e gli parve che il pavimento risuonasse come se fosse di metallo. Tese gli orecchi ed udì distintamente dei colpi sordi simili a quelli che producono gli stantuffi delle macchine a vapore, quantunque non sentisse quell'odore acuto che tramanda il carbon fossile, né il grasso adoperato nel lubrificare i diversi pezzi dei meccanismi. Contemporaneamente s'accorse che quel salotto subiva delle oscillazioni, da destra a sinistra. — Ma questo è rollìo! — esclamò. — Un antico mozzo non può ingannarsi. Si curvò sul molosso e lo scosse ruvidamente chiamandolo per nome, ma Kamo pareva che fosse stato ubriacato con quel gin traditore, poiché continuava a dormire e non accennava a svegliarsi così presto. — Per mille balene! — esclamò Mac-Doil. — Non mi raccapezzo più e temo che quella dannata isola fosse davvero stregata... Eh! Vi è qualcuno che russa su quell'amaca e foss'anche il diavolo in persona, lo prenderò pel naso e lo costringerò a spiegarmi tutti questi misteri. S'aggrappò bruscamente all'amaca imprimendole una tale oscillazione da svegliare anche un morto e si issò, strappando via la coperta di lana. Un grido di sorpresa e di gioia gli sfuggì. — Sandoë!... L'afferrò pel naso stringendoglielo fortemente e gridando: — Ehi, amico, svegliati, per mille merluzzi!... Il danese diede segno di vita con uno sternuto fragoroso, seguito da un formidabile: — Corna di narvalo!... — Di narvalo o di rinoceronte, balza giù — disse Mac-Doil. — Ti giuro che ti si rizzeranno i capelli apprendendo ciò che succede qui o che ti verrà per lo meno la pelle d'oca per ventiquattro ore. — Lo dici seriamente, Mac-Doil?... — Se lo dico!... Scendi e... Un fischio acuto che si ripercosse nella cameretta cori grande fragore, gli gelò le parole sulle labbra, seguito subito da quel noto gorgoglìo che avevano udito presso le coste dell'isola. — Fulmini!... — urlò Sandoë. — E lampi!... — gridò l'ebridano. — Mac-Doil!... — Sandoë!... — Dove siamo noi?... — Dove?... Dove?... Per centomila milioni di trichechi!... Noi siamo... nel ventre del mostro!... Sandoë si era precipitato giù dall'amaca coi capelli irti ed il viso trasfigurato da un terrore inesprimibile e si era lanciato innanzi come se volesse fuggire, ma era andato ad urtare contro la parete opposta. — Vuoi romperti il naso?... — chiese Mac-Doil. — Dove siamo noi?... — Lo so io forse?... — Cosa è accaduto?... — Non so dirtelo, confesso però che mi pare di aver paura. — Dove sono quel signor Orloff ed il suo marinaio? — Scomparsi tutti e due. — Che fossero due diavoli?... — Non ho mai creduto ai diavoli, però comincio a credere che lo fosse di certo quel signore... Per mille merluzzi!... Ancora il fischio!... Dove siamo noi?... In quell'istante una porta si era bruscamente aperta ed una voce calma, tranquilla, aveva pronunciato in inglese queste strane parole: — Noi, signor Mac-Doil, ci troviamo a duecentocinquanta miglia dallo stretto di Behering ed a dodici metri di profondità. Siete soddisfatto?... I due cacciatori udendo quella voce si erano voltati rapidamente e si videro dinanzi un uomo di statura media, di forme robuste, dallo sguardo limpido ed ardito, d'un nero brillante, coi capelli pure neri e leggermente ricciuti, con una barba corta e divisa in due sotto il mento e colla pelle bianco-rosea. Poteva avere trentacinque come quarant'anni, ma era più probabile che ne avesse meno che di più, a giudicarlo dalla freschezza delle sue carni, quantunque fra i capelli che gli sfuggivano sotto un berretto di pelle di lontra, si scorgesse un principio di canizie. Indossava un vestito completo di pelle di foca, munito di cappuccio ed aveva le gambe strette da uose simili a quelle che usano i cacciatori della Compagnia della baia di Hudson. Mac-Doil gli si era lanciato incontro, esclamando con voce strozzata: — Avete detto, signore?... — Che ci troviamo a duecentocinquanta miglia dallo stretto di Behering — rispose lo sconosciuto, con voce tranquilla. — Ed... — A dodici metri sotto la superficie del mare. Sandoë, nell'udire quella risposta, si era appoggiato alla parete come se le forze gli fossero improvvisamente mancate, mentre Mac-Doil faceva due passi indietro, col più vivo terrore scolpito in viso. Diamine!... Vi era da spaventarsi!... Trovarsi dodici metri sotto il mare voleva significare, almeno pei due cacciatori, che stavano per venire ingoiati vivi dalle onde dello stretto di Behering. Lo sconosciuto s'accorse senza dubbio ciò che passava pel capo dei due disgraziati cacciatori, poiché disse, sorridendo: — Non spaventatevi, Mac-Doil, e nemmeno voi, Sandoë. Sebbene navighiamo a dodici metri di profondità ed abbia dato il comando di scendere di altri cinquanta metri, non correte alcun pericolo, vi dò la mia parola. — Altri cinquanta metri!... — esclamò Mac-Doil. — Noi affogheremo tutti, signore!... Se voi volete andare a tenere compagnia ai pesci, accomodatevi, ma noi non ne abbiamo alcun desiderio, almeno per ora. — Volete risalire?... — Sì, signore. — Sì, sì!... — esclamò Sandoë. — Mi pare di avere l'acqua alla gola e di essere già pieno come un otre che scoppia. Lo sconosciuto s'appressò alla parete opposta, premette un bottone che i due cacciatori non avevano prima di quel momento osservato, poi disse: — Ecco fatto: fra pochi istanti rivedrete il sole. — Il sole!... Mac-Doil!... Io credo di diventare pazzo o di essere in preda ad uno spaventevole sogno. — Né l'uno, né l'altro — rispose lo sconosciuto. — Seguitemi! Aveva aperta la porta ed aveva cominciato a salire una scaletta di ferro così stretta che un uomo vi passava a stento. Mac-Doil e Sandoë, spinti da una irresistibile curiosità, si erano lanciati dietro di lui. Una luce limpida che non somigliava a quella che rischiarava la cameretta, scendeva a fiotti da una grande apertura che si trovava in cima alla scala: era la luce del sole. I due cacciatori, sempre più stupiti, si precipitarono innanzi e si trovarono su di una specie di piattaforma, cinta all'intorno da una robusta cancellata di ferro, attorno alla quale venivano ad infrangersi le onde. — Ecco il sole — disse quel misterioso personaggio, additando l'astro diurno che splendeva in un cielo senza nubi. Mac-Doil e Sandoë mandarono due grida. — Noi siamo... — disse il primo. — Su di un battello sottomarino — rispose lo sconosciuto. L'ebridano ed il suo compagno erano rimasti come istupiditi dalla sorpresa. Appoggiati l'uno all'altro, guardavano ora la piattaforma che sporgeva dall'acqua appena un metro e che pareva formata di lastre d'acciaio coi margini incastrati l'uno dentro l'altro e che aveva una superficie di quattro metri sì in lungo che in largo; ora il mare che era completamente deserto e le cui onde venivano a morire contro l'estremità inferiore della cancellata ed ora quello strano personaggio che colle braccia incrociate sul petto li guardava con tutta calma. Senza dubbio si chiedevano in seguito a quali straordinari avvenimenti si trovavano, dopo quella famosa bottiglia di gin, a bordo di quel battello sottomarino che fino allora avevano scambiato per un mostro, e così lontani dalla loro isola; e cercavano lo scopo di quel rapimento. — A bordo d'un battello sottomarino! — esclamò ad un tratto Mac-Doil che a poco a poco si rimetteva dallo stupore. — Ma... — Parlate — disse lo sconosciuto, vedendo che l'ebridano si era arrestato. — Volevo chiedervi se voi siete un pirata. — E perché?... — Perché?... Per centomila trichechi!... Chi vi ha autorizzato a portarci via dalla nostra isola?... — Voi. Udendo quella risposta, assolutamente inaspettata, Mac-Doil guardò Sandoë con due occhi che parevano quelli d'un vero pazzo. — Noi!... — esclamò. — O che quel gin ci ha scombussolato il cervello o che... — Continuate — disse lo sconosciuto. — Volete forse dire che non vi rammentate più ciò che avete detto? — Eh, per centomila merluzzi!... La memoria l'ho ancora buona, signore! — Non sembra, Mac-Doil, poiché io sono l'uomo che accettava i vostri servigi al prezzo di diecimila dollari. — Fulmini!... — esclamò Sandoë. — E lampi! — aggiunse l'ebridano. — L'uomo dei diecimila dollari!... — Allora sia il benvenuto!... Lo sconosciuto sorrise, dicendo: — Ecco che diventate ragionevoli e ne sono lieto. — È per questo che ci avete rapiti?... — chiese l'ebridano. — Sì, Mac-Doil. — Potevate farne a meno, poiché per guadagnare tale somma, vi assicuro, signore, che vi avremmo seguiti anche in capo al mondo. — Ma forse non su d'un battello sottomarino. — È vero — disse Sandoë, ridendo. — Ci eravamo fissati in mente che fosse un mostro spaventevole e non so se vi avremmo seguiti. — Vedete che Orloff aveva ragione di ubriacarvi e di somministrarvi un buon narcotico. — Il signor Orloff?... — esclamarono i due cacciatori. — Dov'è?... — Eccomi — rispose una voce allegra. Orloff, che appariva in quel momento in cima alla scala, balzò agilmente sulla piattaforma. — Spero che mi avrete perdonato il brutto tiro giuocatovi — diss'egli, stringendo la mano ai due cacciatori. — Sì, a condizione che ci fate assaggiare ancora quel delizioso gin, senza narcotico però — disse Mac-Doil, ridendo. — A colazione ve ne offriremo dell'altro, è vero signor Nikirka?... — Sì — rispose colui che portava quel nome. Poi, dopo d'aver dato uno sguardo al mare, riprese: — Vi lascio con questi nuovi arruolati, signor Orloff. Salutò i due cacciatori e scese nell'interno del battello mentre questo, che fino allora era rimasto immobile, si metteva in cammino lasciandosi a poppa due scie spumeggianti e candidissime. — Partiamo? — chiesero l'ebridano e Sandoë, aggrappandosi alla cancellata per mantenersi in equilibrio. — Abbiamo fretta di giungere allo stretto di Behering — rispose Orloff. Mac-Doil gli si avvicinò e guardandolo fisso, riprese: — Signor Orloff, spero che ci darete delle spiegazioni. Diecimila dollari, in fede mia, sono una bella somma e sono felice di potermeli guadagnare, ma voglio sapere almeno dove si andrà e cento altre cose. — Sono a vostra disposizione, Mac-Doil, parlate. — Dove andiamo noi, innanzi tutto? — Verso il nord. — Per quale motivo?... — Lo ignoro io stesso. Il comandante supremo del battello è l'ingegnere Olao Nikirka ed io non sono che il suo secondo o meglio l'uomo che dirige il Taimyr dietro gli ordini che riceve. — Non sapete dove si va?... — Alla Terra di Bande, per ora. — Che si vada lassù o più oltre, poco c'importa; è vero Sandoë?... Vorrei però sapere se il nostro arruolamento durerà molto. — Sei mesi e forse meno. Se per circostanze indipendenti dalla volontà del comandante, il vostro arruolamento dovesse prolungarsi, avrete doppia paga. — Quel signor Nikirka deve essere ben ricco per regalare migliaia di dollari. — Potete giudicarlo da questo meraviglioso battello che gli costa non meno di centocinquantamila dollari. — Spero che potremo visitare questo battello. — Quando lo desiderate. — Una domanda ancora, signor Orloff. — Dite. — Siete americano voi? — No, finlandese come il comandante. — Oh! Dei russi!... Un'altra cosa desidererei sapere. Era il vostro battello che si aggirava intorno alla nostra isola?... — Sì, Mac-Doil. — Per quale motivo? — Era avvenuto un guasto nella macchina e non potevamo tornare a galla senza ripararlo. — Siete stati voi ad illuminare l'isola? — chiese Sandoë. — Sì: volevamo vedere quali erano gli abitanti. — E ci avete scorti? — Perfettamente — rispose Orloff. — Io e Nikirka eravamo sulla piattaforma muniti di ottimi cannocchiali. — Vi eravamo necessari noi? — chiese Mac-Doil. — Ci eravamo immaginati che voi foste due cacciatori della Compagnia Russo-Americana, avendovi già scorti il giorno che ci tiraste quel colpo di rampone e quelle due moschettate e, sapendo che la Compagnia non arruola che dei valenti tiratori, avevamo pensato che voi avreste potuto esserci utilissimi fra i ghiacci. Ecco il motivo per cui cercammo di avervi a bordo del Taimyr. — Credo che abbiate avuto ragione. Ora che sappiamo che il formidabile mostro è un battello sottomarino, non ci rincrescerà affatto di fare un viaggio verso le regioni polari in così buona compagnia, guadagnando per di più una somma ingente. È così, Sandoë?... — Sì, Mac-Doil. — Volete ora visitare il battello? — chiese Orloff. — Siamo a vostra disposizione. — Seguitemi, adunque. IL BATTELLO SOTTOMARINO Orloff non aveva mentito, chiamandolo un battello meraviglioso. Era in realtà uno dei più splendidi e perfetti navigatori sottomarini che mente umana avesse ideato fino allora, ed i due cacciatori non poterono fare a meno di rimanere meravigliati dinanzi a quel vero capolavoro ideato dall'ingegnere finlandese e fatto costruire, sotto la sua direzione, in uno dei più celebri cantieri del Baltico, come aveva loro narrato il secondo di bordo. Era un vero colosso di fronte a quello varato nel 1859 a New-Castle e che aveva suscitato tanto scalpore nella stampa europea credendo che avesse sciolto il difficile quesito della navigazione sottomarina, poiché da prora a poppa misurava quarantadue metri, ossia circa trentadue di più, mentre nella sua massima larghezza aveva un diametro di oltre nove. La sua forma era quella d'un fuso perfetto, diviso in dieci scompartimenti quasi eguali destinati sei agli alloggi ed alla cucina, due al macchinario e gli altri due come magazzini, mentre le due estremità servivano alla zavorra acquatica necessaria per l'immersione del battello. L'ingegnere Nikirka dovea essersi ispirato sul battello varato a New-Castle, il tipo migliore e meglio riuscito e che ha servito come modello, salvo alcune modificazioni, a quelli costruiti in questi ultimi anni dalla Francia, dall'Italia e dalla Spagna, poiché ne aveva adottata la configurazione ed anche i mezzi per potersi immergere, tornare a galla e dirigersi con sicurezza o quasi. Avea però introdotti dei miglioramenti grandissimi nella locomozione, che rendevano il Taimyr il più rapido ed il più potente ed anche il più sicuro di tutti. Costruito tutto in acciaio, poteva sopportare le pressioni più straordinarie, ma l'ingegnere aveva anche pensato al caso in cui le lastre metalliche, per una causa qualunque, o per un arenamento violento o per un urto formidabile fossero state forzate a cedere ed aprire una via d'acqua, affogando irremissibilmente coloro che lo montavano. Per evitare i pericoli che dovevano aumentare per quel battello che stava per intraprendere il misterioso viaggio nell'Oceano Polare, così abbondantemente ingombro di ghiacci galleggianti, le cui punte potevano produrre delle avarie gravissime, il finlandese, precedendo i modernissimi costruttori, aveva fasciato completamente le lastre d'acciaio, dalla parte interna, d'uno spesso strato di quella materia cellulosa scoperta molti anni or sono dall'ammiraglio De la Barrière e che potrebbe rendere qualsiasi nave, anche di combattimento, assolutamente insommergibile.[1] Questa materia che si estrae dalla fibra della noce di cocco gode delle proprietà meravigliose, poiché è dotata d'una tale elasticità, che attraversata da qualsiasi proiettile, o sconquassata dalla punta d'una roccia si rinchiude da sé stessa e s'indurisce al contatto dell'acqua, di cui impedisce, in tal modo, la libera irruzione. Essendo la sua densità quasi minima, non pesando che centoventi o centotrenta chilogrammi al metro cubo, l'ingegnere aveva potuto imbottire, per modo di dire, il suo battello, negli spazi compresi fra le lastre metalliche e l'armatura interna, senza accrescere notevolmente il peso e senza occupare troppo posto. Ma non si era limitato a quel doppio riparo che doveva rendere il Taimyr insommergibile o quasi, poiché i dieci scompartimenti potevano, in caso d'un grave disastro, servire come di celle stagne, essendo muniti di doppie porte di ferro che combaciavano esattamente e coi margini rivestiti di caucciù. Tolto il pericolo d'una invasione delle acque in tutte le cabine, il valente finlandese aveva dedicato tutto il suo ingegno alla locomozione di quel gigantesco fuso d'acciaio ed ai mezzi per poterlo maneggiare liberamente, sopra e sotto le onde. Era in questo che aveva superato di gran lunga il battello inglese, scartando affatto l'elettricità ancora insufficiente in quell'epoca per ottenere una rapida locomozione e limitandosi ad adottarla per la sola illuminazione interna. Non potendo, per ragioni facili a comprendersi, utilizzare le macchine a vapore che avrebbero obbligato il battello a mantenersi sempre a galla per dare sfogo al fumo e che avrebbero richiesto uno spazio immenso per la provvista del carbone, l'ingegnere aveva fatto uso di una nuova forza ben più potente, valendosi delle ultime meravigliose scoperte della scienza, ossia dell'idrogeno liquefatto. Come si sa, questo gas, ridotto allo stato liquido, occupa uno spazio infinitamente piccolo, mentre al contatto dell'aria, riprendendo il suo stato gassoso, si dilata enormemente con grande forza, di gran lunga superiore a quella prodotta dal vapore. L'ingegnere Nikirka aveva trovato il mezzo di utilizzare quella forza adattandola ad un meccanismo di sua invenzione, il quale agiva perfettamente come una macchina a vapore. Provveduto d'una riserva considerevole di quell'idrogeno liquefatto, imprigionato in tubi d'acciaio di grande potenza per impedire delle esplosioni che avrebbero prodotto delle conseguenze fatali, poteva in tal modo navigare lungamente ed ottenere una velocità straordinaria, proporzionata alla forza irrompente del gas. La macchina, mossa dalla forza di quel gas che funzionava identicamente all'acqua trasformata in vapore, era sufficiente per imprimere al battello una velocità di quindici ed anche di diciotto nodi all'ora, in caso di bisogno, superando i più rapidi steamers costruiti in quel decennio. Per renderlo più maneggiabile, aveva dotato il fuso di due eliche situate a poppa, entro due nicchie abbastanza vaste per concedere loro la libertà necessaria al funzionamento, ma che nel medesimo tempo le proteggeva contro qualsiasi urto da parte dei ghiacci o da qualunque altro ostacolo che potessero incontrare, e di un largo timone in forma di triangolo. Per l'immersione aveva inventato un nuovo sistema, che vent'anni più tardi doveva servire anche al signor Nordenfeld — il celebre inventore dei cannoni e delle mitragliere che portano il suo nome — nella costruzione del suo battello sottomarino che doveva riuscire il tipo più perfetto di tutti quelli costruiti nel decennio 1880-90.[2] Non potendo contare assolutamente sulla zavorra liquida racchiusa nelle due estremità del fuso, che poteva cagionare anche dei gravi spostamenti ed impedirgli di raggiungere anche delle profondità considerevoli, aveva fatto costruire sui fianchi del battello, al posto dei tamburi delle navi a ruote, due altre eliche di dimensioni ragguardevoli, le quali funzionando in senso verticale, dovevano necessariamente spingerlo giù, fino al livello desiderato. Per mantenerle però, anche nelle discese, nella posizione normale, le aveva dotate di due timoni a bilancia, fissati alla medesima asse e tenuti costantemente orizzontali mediante un peso considerevole. Non sarebbe necessario dire che anche queste eliche, preziosissime al pari di quelle di poppa, erano state collocate entro due nicchie per evitare che si guastassero. Anche la questione dell'illuminazione era stata splendidamente risolta dall'ingegnere finlandese. La forza prodigiosa sviluppantesi dall'idrogeno, era stata da lui messa a profitto per una piccola dinamo, la quale doveva fornirgli la luce elettrica necessaria a rischiarare non solo l'interno del battello ma anche l'esterno, durante la navigazione notturna o a tale profondità da non poter contare sulla luce solare. Una potente lampada della forza di tremila candele, situata in una specie di torretta collocata a poppa, fornita di vetri d'uno spessore tale da sopportare le più forti pressioni, proiettava dinanzi al battello uno sprazzo di luce in forma di ventaglio, da permettere al timoniere, collocato in un'altra gabbia a vetri emergente presso la prora, di discernere qualsiasi ostacolo alla distanza di cinquecento e più metri. Di giorno la luce scendente dal boccaporto della piattaforma, se il battello si trovava a galla, dalle due gabbie e da sei lenti del diametro di cinquanta centimetri situate sui fianchi del fuso, nel caso che si trovasse immerso a piccola profondità, erano sufficienti per rischiarare l'interno. Per ultimo non aveva trascurata la respirabilità entro quella specie di prigione metallica, che avrebbe potuto diventare una vera tomba per coloro che la montavano, nel caso che un guasto qualunque della macchina o per altro motivo, il battello fosse stato costretto a rimanere immerso, fino all'esaurimento completo della provvista d'aria contenuta nel fuso. Per evitare questo inconveniente pericolosissimo, l'ingegnere aveva fatto costruire due manichelle di gomma della lunghezza di duecento metri, fissate una a prora ed una a poppa e munite, alle opposte estremità, di due gavitelli di sughero atti a trasportarle istantaneamente alla superficie e di due valvole automatiche che dovevano aprirsi al primo contatto dell'aria. Quelle manichelle erano trattenute da molle comunicanti nell'interno del battello in modo che si potevano lasciarle libere colla massima facilità. In tale modo il battello, anche trovandosi ad una profondità di duecento metri, poteva ricevere la provvista d'aria necessaria al suo equipaggio. — Per centomila foche!... — esclamava Mac-Doil che aveva ascoltate le diverse spiegazioni dategli dal signor Orloff, durante la visita di quel battello meraviglioso. — Non ho mai veduto nulla di simile, né mai avrei creduto che gli uomini trovassero il modo di navigare sotto le onde, gareggiando coi pesci. — Mac-Doil, — disse Sandoë — se non fossi ben certo di essere sveglio, direi che tuttociò che è accaduto da cinque giorni ad oggi è stato un sogno. — Lo credo — rispose l'ebridano. — Ma ditemi, signor Orloff, siamo noi soli sul battello?... Voi non ci avete fatto vedere l'ultima cabina e mi parve di udire qualcuno russare, passando dinanzi alla porta. — Vi sono altri tre marinai incaricati del maneggio della macchina, della pulizia e della cucina. Uno già, lo conoscete... — È quel birbone che ci ha sturata la famosa bottiglia e che abbiamo veduto dinanzi alla macchina. — Sì, Mac-Doil. — È un equipaggio minuscolo. — Ma sufficiente, non richiedendo la macchina servigi faticosi come quelle a vapore. I due marinai in questo momento dormono, avendo trascorse delle notti senza un istante di riposo, durante il nostro arenamento sulla vostra isola, ma li vedrete presto. — Signor Orloff — disse Sandoë, che da qualche momento si grattava la testa, come fosse tormentato da un'idea. — Vorrei chiedervi una spiegazione. — Parlate, amico. — Ho osservato a prora del battello, al di sopra del serbatoio d'acqua o della zavorra come la chiamate voi, una specie di canale oscuro, chiuso da un grosso vetro. Sapreste dirmi a cosa serve?... — È un tubo pel lancio delle torpedini. — Delle torpedini!... Ma è un battello da guerra questo?... — Niente affatto. Volete che andiamo ad intimare la guerra agli orsi bianchi?... — Ed allora a cosa servono quei terribili istrumenti di distruzione? — Io non lo so, ma forse pei ghiacci. — Ditemi, signor Orloff, — chiese Mac-Doil, — non vi è pericolo che il battello si sfasci sotto la pressione delle acque, scendendo a considerevoli profondità?... — Non abbiate questo timore. Vi dirò innanzi tutto che il nostro battello è formato da lastre d'acciaio che hanno uno spessore di cinque centimetri al centro e di due sui margini, quindi che è di una robustezza eccezionale. — Sia pure, ma se dovesse scendere a cinquecento, ad ottocento o a mille metri di profondità, non potrebbe resistere alle pressioni... — Vecchie teorie che hanno fatto il loro tempo, mio caro e che io ed il signor Nikirka abbiamo constatato essere assolutamente false. «Si è creduto fino ad oggi e forse lo si crederà per un bel numero d'anni ancora, che l'acqua, comprimendosi pel proprio peso, dovesse raggiungere, ad una certa profondità, una densità eguale a quella dei metalli più pesanti e che impedisse perfino alle navi più enormi di toccare il fondo. Fole, Mac-Doil, vere fole. Che ad una profondità ragguardevole l'acqua diventi più densa è vero, ma che raggiunga quella dei metalli, ci corre. Diamine!... Non si sono accorti che l'acqua è appena compressibile!... Se non lo fosse, come farebbero a vivere a cinque o seicento metri di profondità le stelle marine e le conchiglie?... Bisognerebbe che fossero corazzate.[3] «Non abbiate adunque inquietudine sulla resistenza del Taimyr. Noi scenderemo molto in fondo all'oceano e senza che una sola delle nostre lastre metalliche si sfondi.» — Signor Orloff — chiese Sandoë. — Potremo vedere dei pesci?... — Sì, quantunque gli oceani polari siano piuttosto scarsi di abitanti acquatici. Basta collocarsi dinanzi ad una delle lenti. — Purché non si rompano!... — Sono così grosse da sfidare una palla di spingarda. Toh!... Ecco la campana che ci chiama a colazione. Seguitemi; mezzogiorno è suonato. UNA CORSA SOTTO IL MARE Lo scompartimento destinato a salotto da pranzo, era situato verso poppa, al di sotto della gabbia della luce elettrica che serviva di giorno, quando il battello navigava a fior d'acqua od a poca profondità, da lucernario. Era una bella e comoda cabina di sei metri quadrati, colle pareti foderate di legno, il pavimento coperto d'un fitto tappeto di grosso feltro ed ammobiliata con perfetta eleganza. Vi erano all'intorno degli scaffali di mogano di stile dello scorso secolo, coi vetri dipinti; dei soffici divani che in caso di necessità potevano trasformarsi in letti; delle poltroncine di velluto rosso e nel mezzo una tavola già imbandita e sopra la quale era stata fissata una lampadina elettrica. Non mancava una stufa, oggetto indispensabile per chi affronta i rigori delle regioni polari, fornita d'un tubo assai ricurvo per ritardare la dispersione del calore, ma che doveva certamente usarsi solo allorquando il battello navigava alla superficie, essendo la temperatura dell'acqua, ad una profondità anche lieve, abbastanza dolce per fare a meno di fuoco. Il comandante si era già seduto e pareva che aspettasse solamente il suo secondo ed i due cacciatori per assalire le vivande. — Avete terminata la vostra visita? — chiese, vedendoli entrare. — Sì signore, — rispose Mac-Doil, — e devo dirvi che sono ancora stupito di quanto ho veduto e che lo sarò per molto tempo ancora. Il vostro battello è una meraviglia. — Ne ho piacere, — rispose l'ingegnere, — ma la vostra sorpresa crescerà, quando vedrete il mio Taimyr manovrare sotto le onde. — Lo credo, signore — rispose Sandoë. — Accomodatevi e mangiate liberamente. Avete dormito trentadue ore senza interruzione e dovete essere affamati. — Infatti signore, mi sembra che il mio stomaco sia perfettamente vuoto — disse Mac-Doil. La colazione, contro l'aspettativa dei due cacciatori, era copiosa, segno evidente che il proprietario del battello amava la buona tavola. Si componeva di acciughe, tonno, merluzzi freschi che parevano pescati di recente, d'un appetitoso pezzo di delfino giovane arrostito e che fu trovato delicato quanto la carne di vitello, d'una zuppa di pemmican mista a verdura conservata, di kaviale di Russia e di eccellente vino attinto da una botte di dimensioni non comuni, nascosta in un angolo del salotto, sotto una tenda. Terminato il pasto, servito da un marinaio, un pezzo di giovanotto biondo che doveva essere robusto quanto un giovane toro, il comandante offrì ai due cacciatori delle pipe e del tabacco, poi, dopo d'aver dato uno sguardo ad una bussola sospesa all'angolo d'uno scaffale, disse: — Ci prepariamo a scendere. Fumando, potrete contemplare, senza incomodarvi, delle scene che molti desiderebbero vedere. S'accostò ad un tubo di bronzo che doveva comunicare colla sala delle macchine, gridando: — A cento metri!... — Fulmini!... — borbottò Sandoë, diventando pallido. — Ti senti tremare le gambe? — gli chiese l'ebridano. — Lo confesso, Mac-Doil. — Ed anch'io non mi sento del tutto tranquillo, ma ho fiducia in questo battello e nei suoi comandanti. Quasi nel medesimo istante, udirono sopra la loro testa un fragore simile a quello che produce una enorme lastra di metallo trascinata su di una via lastricata. — Cos'è? — chiese Sandoë, rabbrividendo. — Il boccaporto che viene chiuso — rispose Orloff. Pochi istanti dopo udirono verso prora e verso poppa degli acuti gorgoglìi e sui fianchi del battello dei cupi ronzìi. — È l'acqua che entra nei serbatoi mentre le eliche verticali si mettono in azione — disse il secondo, prevenendo la domanda dei due cacciatori. Il Taimyr cominciava allora ad immergersi lentamente, con un rollìo marcato, mentre la luce che scendeva dalla gabbia del fanale elettrico a poco a poco scemava, diventando verdastra dapprima, poi azzurrognola un po' opaca, ma non tanto da impedire di scorgere distintamente tutti i mobili anche i più piccoli e gli oggetti racchiusi nel salotto. Mac-Doil e Sandoë, aggrappati alla tavola, un po' pallidi e con un certo batticuore, guardavano l'ingegnere il quale teneva gli sguardi fissi sul dinamometro, la cui lancetta si spostava lentamente di metro in metro a misura che il battello scendeva. Pareva che entrambi fossero vivamente impressionati e che una inquietudine acuta li avesse presi, pensando che stavano inabissandosi sotto le onde del mare. Ad un tratto il rollìo del battello cessò ed il ronzìo delle eliche laterali non si fece più udire, ma si udirono tosto gli stantuffi delle eliche di poppa funzionare con grande rapidità. — Cento metri — disse l'ingegnere. Orloff s'appressò alla parete di tribordo prima, poi a quella di babordo, fece scorrere due grosse piastre d'acciaio e tosto una luce un po' tetra, quasi opaca, ma che aveva talora dei riflessi strani, quasi madreperlacei, si diffuse nel salotto. — Guardate il mare — disse il secondo, spingendo innanzi i due cacciatori. Aveva scoperte due delle grandi lenti che erano incastrate nei fianchi del battello ed attraverso a quei grossi vetri appariva il mare, d'una tinta azzurro-cupa perfettamente visibile, brillando sopra di esso, in tutto il suo splendore, l'astro diurno i cui raggi si riflettevano ancora, quantunque molto sbiaditi, anche a quella ragguardevole profondità. Mac-Doil e Sandoë, spinti dalla più viva curiosità, si erano precipitati verso la lente di babordo, appoggiando gli occhi al vetro. L'acqua del mare pareva che fuggisse dinanzi a loro in rapide ondulazioni che tosto si dileguavano, cangiando di tratto in tratto tinta. Ora appariva striata di verde smeraldo, ora di azzurro cupo. Talora invece un gran fiotto di spuma biancastra passava rapida dinanzi al vetro, provocato dall'acuto sperone del battello e si perdeva tosto verso poppa. — Il mare!... — esclamò ad un tratto Mac-Doil, rompendo il silenzio che regnava nel salotto. — E noi ci troviamo cento metri sotto la superficie!... Per centomila foche!... Ma come ci si vede a simile profondità?... — Credevate forse che a cento metri vi fosse notte perfetta? — chiese Orloff. — Ci si vede molto più giù, mio caro cacciatore. — Avevo udito raccontare da persone che si dicevano istruitissime, che sotto le onde non ci si vedeva oltre i trenta o quaranta metri. — Oh!... Vi sono tanti scienziati che ancora lo credono — disse l'ingegnere. — Si ammette anche oggidì che i raggi solari non possano oltrepassare una profondità relativamente breve. «Vi mostrerò, fra qualche giorno, come anche a seicento metri di profondità vi sia ancora abbastanza luce per poterci scorgere e senza bisogno di accendere le nostre lampade elettriche. «È strana che simile credenza perduri ancora, mentre i naviganti hanno avuto delle prove palpabili che in fondo all'oceano vivono degli esseri muniti d'occhi, come i pesci che nuotano alla superficie. Forse che la natura li avrebbe forniti di quegli organi per puro capriccio?... E non hanno pensato, gli scienziati, che quegli organi, non adoperandoli si sarebbero in breve atrofizzati ed avrebbero finito collo sparire?...» — È vero, signor Nikirka, — disse Orloff, — ma si basavano su di un fatto. — E quale? — Che fra gli esseri pescati a grande profondità, ne avevano trovati alcuni privi d'occhi. — Privi d'occhi?... Erano ben certi che lo fossero, innanzi a tutto?... Forse perché non scorgevano quei punti faccettati e colorati di nero che si trovano nei crostacei pescati in fondo al mare?... «Se avessero meglio osservati quei pretesi esseri ciechi, avrebbero di certo trovati i loro occhi o qualche organo simile nascosti sotto la pelle e sensibili alla luce. «Anche le talpe hanno gli occhi così ben celati da non poterli vedere, ma pure li posseggono; anche i vermi adoperati per la pesca sembrano privi d'occhi, ma si è osservato che accostando quegli insetti ad un lume, lo fuggivano più rapidamente che potevano; dunque sanno distinguere la luce per mezzo di qualche organo sensibile che funziona come gli occhi.» — Credete che ci si veda anche a mille o duemila metri di profondità? — chiese Mac-Doil, che ascoltava attentamente i due comandanti. — Fino a mille sì, ma più oltre regna quasi una perfetta oscurità — rispose l'ingegnere. — Può però essere oscurità pei nostri occhi, ma forse essere una specie di crepuscolo per quelli degli abitanti sottomarini. — Dei pesci! — gridò in quell'istante Sandoë. — Guarda, Mac-Doil, guarda quanti!... L'ebridano s'era precipitato verso il vetro. Il battello, che filava con una velocità di quindici a sedici nodi all'ora, aveva fatto l'incontro d'un branco di merluzzi diretti verso il sud. Quei pesci voracissimi, disturbati nella loro caccia dalla improvvisa comparsa del gigantesco fuso e spaventati dalle eliche che mordevano l'acqua, si sbandavano in tutte le direzioni, taluni però pazzi di terrore, venivano a cozzare contro il vetro, credendolo forse un passaggio libero. Mostravano per un istante i loro corpi svelti, i loro musi grossi ed ottusi forniti inferiormente di barbagli carnosi di forma conica e le loro scagliette scintillanti, verdi-giallastre sopra a striature oscure e bianco-argentee sotto, poi sparivano con fantastica rapidità o immergendosi o salendo precipitosamente verso la superficie. Ben presto però il battello ebbe superata quella grossa banda, la quale si dirigeva forse verso qualche seno della costa americana, e si ritrovò fra le acque libere, navigando verso lo stretto di Behering. Di tratto in tratto tuttavia altri pesci si vedevano apparire un istante presso il vetro, attirati forse dalla curiosità di riconoscere da vicino quel mostro di nuova specie, ma erano radi, essendo quei mari freddi scarsi di abitanti. Qualche volta erano dei gruppi di meduse in forma di ombrelli più o meno grandi forniti inferiormente di tentacoli, naviganti fra due acque e di tinte delicate che variavano dal biancastro trasparente all'azzurro pallidissimo; o qualche coppia di delfini delle specie dei neomeris melas, lunghi poco più d'un metro, col muso corto, la testa sferoidale, il corpo privo di pinna dorsale e la pelle nerastra; o dei banchi di cefalopodi mastrephes che s'incontrano in gran numero nei mari settentrionali della Cina e del Giappone e vengono accanitamente ricercati, facendosene in quei paesi un consumo enorme; o delle festolarie d'una bella tinta rosso-bruna vivace e qualche isitus fulgido, pesce lungo appena trenta centimetri che di sera lancia una luce verdognola di bellissimo effetto. Anche una foca apparve per alcuni istanti fra i fiotti di spuma sollevati dalla prora, e che subito s'immerse, dopo d'aver lanciato uno sguardo spaventato attraverso il vetro dello sportello. Era uno di quegli anfibi che gli abitanti nordici chiamano kassigiah ed anche tupalo, lungo un metro, colla testa ovale, il muso corto, gli occhi grandi, oscuri, intelligentissimi, le labbra adorne di baffi setolosi rigidissimi ed il pelame grigio-giallognolo, con macchie irregolari bruno-scure. Mac-Doil e Sandoë, sempre più stupiti, non perdevano di vista uno solo di quegli abitanti del mare di Behering e prorompevano in grida d'ammirazione, che ben presto si tramutarono in grida di sorpresa, quando il battello piombò nel bel mezzo d'una vera truppa di lontre marine. Erano almeno una trentina, le une più belle delle altre, bruno-nere alcune, bruno-grigie le altre, che nuotavano in mezzo ad un banco di alghe dove cercavano certamente il loro cibo. Scomparvero subito risalendo precipitosamente alla superficie; i due cacciatori però avevano avuto il tempo di scorgerle ed istintivamente avevano fatto una mossa come se cercassero i loro fucili. — Per centomila trichechi! — esclamò Mac-Doil. — Che splendida banda!... Ecco sette od ottomila dollari perduti!... — O che andranno a finire nelle tasche degli altri — aggiunse Sandoë. — Mi sorprende l'incontro d'un numero così grosso di lontre — disse l'ingegnere. — Si dice che non vivano in gruppi. — È vero signori, — disse Mac-Doil, — tuttavia ne indovino il motivo. Forse alla superficie si fa una grande battuta dagli abitanti delle coste. — In quale modo?... — Con battelli. — Forse che si prendono colle fiocine? — No, signor Nikirka. Quando si sa dove le lontre si radunano per pascolare fra le alghe, vari battelli circondano quel luogo e gettano delle reti lunghe sei metri, colle maglie molto larghe, poi a poco a poco stringono il cerchio. «Le lontre, spaventate, si riuniscono finché cadono nelle reti senza nemmeno cercare di passarvi per di sotto, manovra che non le salverebbe di certo però, essendovi sulle barche dei valenti cacciatori. Per lo più queste pesche s'intraprendono quando il mare e burrascosissimo. Le lontre allora, disturbate dalle onde, cercano rifugio nei bassifondi e presso gli scogli e si vanno a snidarle colà e sovente molte barche vengono inghiottite dalle acque assieme ai cacciatori.» — Ecco un avvertimento che viene a tempo — disse l'ingegnere. — Perché, signore? — Perché se i cacciatori pescano, significa che noi siamo sopra un bassofondo. Le alghe me lo avevano già fatto sospettare, quantunque talvolta questi vegetali marini abbiano delle lunghezze straordinarie. S'accostò al tubo di bronzo, gridando: — A fior d'acqua!... Poi volgendosi verso i due cacciatori: — Badate all'inclinazione, voi. Un istante dopo si udirono come dei fischi repressi, prodotti senza dubbio dalle pompe che cacciavano fuori, a gran forza, l'acqua racchiusa nei serbatoi di prora e di poppa ed il Taimyr s'innalzò rapidamente, spostando il suo asse verso l'alto. S'udì un sordo muggito che pareva prodotto dal ricadere della parte proviera del fuso che per la prima era emersa e la luce tornò a farsi limpida nel salotto, scendendo dalla gabbia del fanale elettrico. — Siamo a galla — disse l'ingegnere. — Se volete respirare una boccata d'aria vivificante, potete salire sulla piattaforma. — Seguitemi — disse Orloff. Il boccaporto era stato subito riaperto ed i due cacciatori, seguiti dal secondo, si erano affrettati a salire. Il battello navigava a fior d'acqua, solo emergendo la piattaforma e le due gabbie, in una delle quali, attraverso le grosse lenti, si scorgeva il timoniere ritto dinanzi alla ruota. Il mare era tranquillo ed il sole, che declinava verso le lontane coste dell'Asia, illuminandolo di traverso, lo tingeva di riflessi che talora avevano dei bagliori sanguigni. Verso l'est, un'alta costa si disegnava sull'orizzonte, frastagliata capricciosamente da profonde insenature; verso il sud dei punti neri, appena visibili, parevano immobili ed indicavano un gruppo di barche, forse delle bodarkie occupate a cacciare le lontre poco prima scorte dai due cacciatori; verso il nord e l'ovest non si vedeva invece alcuna terra. Solamente ad una grande distanza apparivano a intervalli dei punti biancastri, forse le vele di qualche nave baleniera in rotta per lo stretto di Behering. In alto invece, pochi uccelli volteggianti attorno al battello: erano alcune coppie di sterne, di sule, di ardee bianche e di rondoni marini, volatili comunissimi in quel mare e che s'incontrano anche ad una grande distanza dalle coste. — Dove siamo? — chiese Mac-Doil ad Orloff, il quale aveva appuntato un cannocchiale verso la costa. — Dinanzi alla baia di Norton — rispose questi. — Lontani dallo stretto di Behering?... — Ben poco, Mac-Doil. Domani navigheremo nell'Oceano Artico. — E poi?... — Saliremo al nord. — E scenderemo ancora sotto le onde?... — Ci trovate gusto?... — Ora sì, signor Orloff. — E non avete più timore?... — No. — Ne faremo fin troppe delle immersioni e Dio ci guardi che non ci siano fatali. — Cosa volete dire, signor Orloff? Il secondo non rispose, ma sorrise misteriosamente, crollando il capo a più riprese. UNA EMIGRAZIONE D'ARINGHE L'indomani il Taimyr, che aveva navigato anche durante la notte mantenendosi sempre a fior d'acqua, giungeva dinanzi allo stretto di Behering. Questo braccio di mare che separa l'Asia dall'America settentrionale, misura ottantatré chilometri dal capo Occidentale asiatico a quello di Galles americano ed ha una profondità modestissima, appena diciannove metri. Quasi nel mezzo sorgono le Diomedee che sono visitate dagli esquimesi durante la buona stagione, e che d'inverno rimangono deserte, essendo aridissime. La maggiore è Ratmanoff che è lunga sette chilometri; Kotzebue ne ha quattro e la terza è un semplice scoglio. La scoperta di questo stretto importantissimo, non risale che al secolo scorso, malgrado le attive ricerche di tanti navigatori e l'onore spetta al danese Vito Behering, il quale compì il passaggio nel 1741, con una nave russa armata da Caterina II, e che quarantaquattro giorni dopo doveva naufragare in una isola della costa siberiana chiamata più tardi di Behering, e sulla quale cessava di vivere lo sfortunato comandante. Nel momento che il Taimyr, lanciato a tutta velocità e favorito dalla corrente che sale verso il nord, passava fra le estreme punte dei due grandi continenti, a babordo delle isole Diomedee, nessuna nave e nessuna barca solcavano lo stretto, sicché potè superarlo senza essere veduto. Appena entrato nelle acque dell'Oceano Artico, piegò verso il nord-est, come se il suo comandante avesse intenzione di cacciarsi entro la profonda e vasta baia di Kotzebue che si apre sulla costa americana, al di là del capo del Principe di Galles, ma più tardi modificava la rotta, puntando verso il capo Speranza. Mac-Doil e Sandoë, accompagnati dal molosso che si era subito adattato a quella specie di prigionia, erano saliti presto sulla piattaforma colla speranza di scorgere qualche nave, o di incontrare qualcuno dei battelli della Compagnia Russo-Americana che esercitano il traffico delle pellicce anche su quelle alte coste, ma rimasero completamente delusi. L'oceano era affatto deserto, non essendo ancora cominciata la vera pesca dei grandi cetacei, la sola che faccia accorrere delle navi al di là dello stretto di Behering, perché sulle coste nordamericane non vi sono che radi abitanti e nessun porto che possa offrire la speranza di fare qualche carico. Anche i pesci mancavano, erano invece numerosi gli uccelli marini, specialmente gli albatros. Questi volatili, che s'incontrano su tutti gli oceani e sotto tutti i climi, sono grandi volteggiatori e sono così robusti da sfidare impunemente i venti più formidabili e non è rado vederli a qualche migliaio di chilometri dalle coste, coricandosi sull'acqua per dormire e riposare. Sono tutti penne, poiché mentre sembrano grandissimi, il loro peso di rado supera i dieci chilogrammi; hanno nondimeno delle ali che misurano insieme una larghezza di tre metri e mezzo. Era un bellissimo spettacolo vedere quei grandi volatili librarsi in aria senza quasi vibrare le ali, o mantenersi quasi immobili e lasciarsi portare dal vento, né più né meno come fanno le navi a vela. Talvolta s'avvicinavano al battello guardando curiosamente i due cacciatori ed il cane, senza manifestare il minimo timore, poi s'innalzavano emettendo una specie di grugnito simile a quello dei porci. Vedendo che erano così famigliari, Mac-Doil e Sandoë vollero approfittare per regalarsi degli arrosti, quantunque non ignorassero che la carne di quei volatili è piuttosto coriacea. Armatisi dei loro fucili che avevano ritrovati nella cabina, spararono alcuni colpi fortunati, facendo cadere due volatili sulla piattaforma del battello e che il molosso s'affrettò a strangolare, niente impaurito dai loro grugniti e dai loro rostri veramente formidabili. Riuscirono anche ad abbattere alcune sule, uccelli acquatici che sono abili pescatori, e che si lasciano uccidere stupidamente ed anche prendere vivi quando si posano sulle navi, e perciò chiamati dai marinai: stupidi. Alla sera, mentre il Taimyr si trovava ad oltre sessanta miglia al nord del capo Lisburne, in rotta pel capo del Ghiaccio, ed il sole stava per tramontare essendo già suonate le undici,[1] Mac-Doil e Sandoë che erano risaliti sulla piattaforma per ammirare lo sprazzo di luce proiettato dalla lampada della gabbia di poppa, scorsero, verso la costa americana, un vivo bagliore che pareva si mantenesse galleggiante sull'acqua. — Cosa sarà, Mac-Doil? — chiese Sandoë. — Qualche fosforescenza marina — rispose l'ebridano, scuotendo il capo. — Mi stupisco però di vedere qui un simile fenomeno, che non ho osservato che nei mari equatoriali e tropicali. — Che sia scoppiato invece qualche incendio? — Vuoi che l'acqua del mare abbia preso fuoco come se fosse gin o petrolio? In quell'istante erano saliti anche l'ingegnere ed il secondo, forse avvertiti dal timoniere, il quale dalla gabbia di prora doveva pure aver osservato quel chiarore che diventava sempre più intenso. — Fate gettare le reti, signor Orloff — disse Nikirka, dopo d'aver guardato attentamente quella luce. — Faremo una buona pesca questa notte. — Sono pesci? — chiese Mac-Doil. — Un banco immenso di aringhe — rispose l'ingegnere. — Vi farò assistere ad una bella pesca. — E quella luce, da che cosa deriva, signore? — Da una materia grassa di quei pesci, la quale di notte diventa fosforescente, sicché tradisce la presenza di quei poveri abitanti delle acque. — E dite che saranno molte quelle aringhe? — Dei miliardi e le loro schiere saranno così fitte da arrestare perfino delle scialuppe. — Per mille trichechi!... Vi sarebbe da pescare una fortuna!... — Sì, se avessimo le reti che adoperano gli olandesi, che sono i più valenti pescatori d'aringhe. — Saranno immense di certo. — Cinquecento piedi e sono sostenute da gran numero di barili e di sugheri e tese inferiormente da pietre o da pezzi di piombo. — Devono pescarne un numero straordinario, signor Nikirka. — Certi battelli sono riusciti a prenderne centoventimila ed anche centotrentamila in due sole ore. — Che retate!... — Io ho conosciuto dei pescatori che sono diventati ricchi in una sola campagna di pesca — disse Orloff che era tornato sulla piattaforma, seguito da due marinai che portavano un cumulo di reti. — Vi credo, — rispose l'ingegnere, — poiché io so che i pescatori d'un solo porto, quello di Yarmouth, che è uno dei meno popolati dell'Inghilterra, ogni anno prendono tante aringhe da ricavare dai sedici ai diciotto milioni. — Corna di narvalo! — esclamò Sandoë. — Se lo avessi saputo prima, mi sarei arruolato fra i pescatori di aringhe invece che fra i cacciatori della Compagnia Russo-Americana. — Devono prendere parte molte navi a quelle pesche — disse Mac-Doil. — Per farvene un'idea, vi basti sapere che i vostri compatrioti della Scozia mandano ogni anno, nel Mare del Nord, quarantamila barche montate da cinquantamila pescatori e da ottantamila salatori e l'Olanda altre mille grosse navi — rispose l'ingegnere. — Questa pesca è adunque più importante di quella delle balene. — È la più produttiva di tutte, più ancora del merluzzo forse, e l'Olanda deve la sua ricchezza e la sua prosperità a quei modesti pesci. Senza le aringhe, chissà se quello Stato avrebbe potuto mantenersi libero e sfuggire alle rapacità degl'inglesi, degli alemanni e degli spagnoli. — E perché, signore? — chiese Mac-Doil stupito. — Perché furono quelle pesche che procurarono agli olandesi le somme necessarie per armare le poderose flotte che tennero in iscacco quelle delle altre nazioni. «Fu la prima a sfruttare quei banchi immensi di pesci e per parecchi secoli n'ebbe, si può dire, il monopolio. Vi concorrevano anche i danesi, gl'inglesi, i norvegiani ed i pescatori delle città anseatiche, in piccole proporzioni.» — Oggi però l'Olanda perde continuamente — disse Orloff. — È vero, — rispose l'ingegnere, — e la loro pesca ha molto perduto dell'antico impulso. Nel 1858 l'Olanda non ha importato che sessantasettemila tonnellate di mille pesci; nel 1859 scemò a ventitremila, ma l'anno seguente risali ancora a circa ventisettemila ricavando da quest'ultima oltre un milione e duecentomila lire, mentre i pescatori norvegiani ne importavano quasi seicentomila tonnellate per un valore di circa dodici milioni di lire. — Che cifre!... — esclamò Mac-Doil. — Devono aver fatto un bel guadagno quei marinai. — Si calcola che siano toccate circa dodicimila lire ad ogni battello. — E dove vanno a prenderle. — Alle Orcadi ed alle Shetland in giugno e luglio ed in novembre e dicembre nel Mare del Nord, avendo le aringhe l'abitudine di radunarsi in quei paraggi. — E queste dove credete che vadano a raccogliersi? — chiese Sandoë, indicando i pesci emigranti che s'avvicinavano rapidamente. — Nelle profonde baie di Baranov e del Principe dì Galles — rispose Orloff. — Se ne pescano molte in quei luoghi quantunque non si rechino colà delle vere flottiglie, ma solamente poche navi isolate. Ci siamo: attenti all'incontro! Il battello che non era stato arrestato, toccava già lo strato immenso di materia fosforescente, il quale si estendeva per una lunghezza di parecchie miglia e per una larghezza di un chilometro, come una gigantesca lastra d'argento ondulato. Quasi subito incontrò le prime schiere dei pesci emigranti, entrandovi in mezzo. Tosto alla superficie del mare, che era calmo, avvenne come un ribollimento precipitoso e lo strato oleoso si spezzò in centomila luoghi. I pesci, incontrando quell'ostacolo, balzavano in tutte le direzioni. I ranghi d'avanguardia si precipitavano confusamente sopra quelli del grosso e si vedevano contorcersi sulla superficie luminosa, mostrando una moltitudine di corpi argentei o dorati. Vi erano milioni, anzi miliardi d'individui e le schiere erano così fitte, che Mac-Doil e Sandoë, che erano scesi sul dorso proviero del battello, immergendo le mani, li prendevano colla massima facilità. Le reti, che erano state gettate a poppa dovevano essersi riempite subito al punto da scoppiare, poiché da quel lato si vedeva l'acqua ribollire furiosamente. — Ce ne sono tante, — disse Mac-Doil, — che se mi gettassi in acqua non potrei nuotare se non mi facessero un po' di posto. Che disgrazia non avere qui quindici o venti navi ed un migliaio di reti olandesi. — Badate di non lasciarvi vincere dal desiderio di cadere in mezzo alle aringhe, poiché non risponderei delle vostre gambe — disse Orloff. — I pescicani ed altri squali voraci le seguono. — Ci tengo troppo alle mie gambe, per lasciarle nella bocca di quei ghiottoni! Il grande banco delle emigranti continuava a sfilare lungo i fianchi del battello e molto rapidamente, ma pareva che non avesse fine, quantunque il Taimyr si avanzasse sempre con una velocità di quattordici nodi all'ora, fendendo rumorosamente quello splendido velo argenteo che aveva talora dei riflessi somiglianti a quelli del bronzo fuso. Fu solamente verso le tre del mattino che potè toccare il margine estremo della superficie luminosa, per cadere in mezzo ad una numerosissima banda di pescicani. I voraci squali seguivano accanitamente le emigranti divorando le ultime schiere e gareggiando, di giorno, cogli uccelli marini, i quali si radunano in stormi immensi sopra i poveri pesci, facendo dei vuoti considerevoli. Ben presto tutto quello sfolgorìo si perdette verso l'ovest, in direzione dello stretto di Behering, mentre il sole tornava ad alzarsi sopra l'orizzonte, dopo essere rimasto nascosto appena quattro ore. Per ritirare le reti dovettero porsi all'opera anche i due cacciatori, tanto erano piene. Vi erano almeno sei od otto migliaia di pesci, gran numero dei quali furono subito salati e rinchiusi nei barili per poterli conservare a lungo. L'indomani il Taimyr, che non aveva moderata la sua celerità, superava il capo del Ghiaccio, aspro promontorio di altezza considerevole, ancora circondato di piccoli banchi di ghiaccio che non dovevano sciogliersi completamente prima della metà di giugno e fors'anche più tardi. Il battello fu arrestato in prossimità di un banco per far raccolta di ghiaccio destinato a conservare fresche parte delle aringhe, poi proseguì verso il capo di Barrow che è il più settentrionale di quella vasta regione sottoposta al dominio degli Stati Uniti, dopo la cessione fatta dalla Russia per la modesta somma di trentotto milioni di lire. La costa americana appariva distintamente a meno di dieci miglia, ed era poco attraente. Era una continuazione di rupi più o meno alte, ancora coperte di neve e fiancheggiate, verso l'interno, da collinette sulle quali si scorgevano pochi gruppi di abeti e di pini neri. Tutte quelle spiagge che dallo stretto di Behering si estendono fino al 39° meridiano che segna il confine del possedimento degli Stati Uniti, sono quasi deserte. Solamente poche tribù di innuit, ossia di esquimesi, in continua guerra colle numerose tribù dei tanana che abitano le rive dell'Yucon, il fiume più considerevole della regione, le percorrono, vivendo per lo più dei prodotti della pesca. I bianchi mancano assolutamente e mai hanno pensato a fondare alcuna stazione pel traffico delle pellicce, né alcuna colonia, mentre ormai si sa che anche lassù, in quei paesi gelidi, numerose sono le miniere d'oro. Anche il mare continuava a mantenersi deserto e non si scorgeva né alcuna vela, né alcuno di quei piccoli battelli costruiti con costole di balena e coperti di pelle di foca chiamati kayak e che sono usati dagli esquimesi. Perfino i pesci si tenevano lontani e non se ne vedeva alcuno apparire intorno al Taimyr. Nondimeno nelle vicinanze della punta Barrow, verso le quattro pomeridiane, mentre i due cacciatori ed il secondo si trovavano sulla piattaforma fumando e chiacchierando, scorsero una massa enorme sorgere improvvisamente dall'acqua, sollevando intorno una grande ondata spumeggiante. Dapprima credettero fosse la carena di qualche grossa nave naufragata, che tornasse a galla per qualche causa misteriosa, ma ben presto s'avvidero che si trattava invece d'un colossale cetaceo. Non era però una balena franca, che è la specie più comune che s'incontra in quelle regioni e che fornisce colle proprie spoglie i carichi ai balenieri, bensì una di quelle chiamate balene a due pinne, che sono piuttosto rare ed un po' diverse dalle altre. Quel gigante della creazione era lungo dai diciotto ai diciannove metri, ed il suo peso doveva raggiungere per lo meno i sessantamila chilogrammi. Questi mostri hanno il muso largo ed ottuso e la mascella inferiore assai più sporgente della superiore, con settecento fanoni neri, lucenti invece di essere variegati e due pinne dorsali bene sviluppate, diritte, separate l'una dall'altra e di forma triangolare. La loro pelle non è nera lucente a riflessi d'acciaio, bensì grigio-verdastra, mentre sui fianchi diventa bianco-argentea. — Che corpaccio! — esclamò Mac-Doil, facendo un movimento istintivo per ritirarsi. — Se viene ad urtarci ci fracassa. — Non oserà assalirci — rispose Orloff. — Abbiamo uno sperone capace di tagliarla in due o di sfondarle il cranio. — Tuttavia fa un certo senso che chiamerei vera paura. — Lo credo, Mac-Doil. Il colosso pareva però che non avesse ancora scorto il battello. Nuotava lestamente abbassando ed alzando la coda ed apriva la sua enorme bocca, che era larga almeno due metri e mezzo ed alta un po' di più, assorbendo l'acqua che era forse carica di quei granchiolini minuscoli, del diametro di due millimetri, che costituiscono la così detta zuppa delle balene e che vengono chiamati boete. Ad un tratto però s'avvide della presenza del battello. S'arrestò di colpo guardandolo coi suoi occhi piccoli ed intelligenti, lanciò in aria un getto di vapore un po' denso ed agitò le pinne e la coda manifestando una certa inquietudine. Parve che per un momento la curiosità la vincesse, poiché si slanciò innanzi sollevando una grande ondata, poi si fermò subito e si lasciò calare a picco, formando alla superficie una specie di vortice. — Buon viaggio — le gridò Mac-Doil che era più soddisfatto di vederla scomparire che di osservarla più da vicino. — Con simili colossi è meglio tenersi lontani. NELL'OCEANO ARTICO Il 19 maggio, verso le tre pomeridiane di fronte alla punta Barrow il Taimyr faceva l'incontro dei primi ghiacci galleggianti. Lo sgelo doveva essere cominciato sulla Terra di Banck e sulle isole del Principe Patrick e sulla Terra di Kennan, ed i ghiacci scendevano verso il sud spinti dai venti del settentrione, i quali durante la stagione estiva soffiano sempre da quelle alte latitudini. Non erano ancora le grandi montagne galleggianti, i così detti ice-bergs, ma piccoli banchi di pochi metri di estensione, una quarantina in tutto, i quali formavano una lunga fila ondeggiante. Su alcuni di essi gli uccelli polari si erano già posati e strepitavano a tutta lena. Erano per lo più sterne e lumme, volatili che non meritavano un colpo di fucile da parte dei due cacciatori, i quali si tenevano sempre sull'all'erta per provvedere il battello di carne fresca. L'ingegnere avvertito forse dal timoniere che doveva avere scorto i ghiacci dalla gabbia di prora, era salito sulla piattaforma per vederli, ed era pure accorso anche il secondo. — Buon segno — disse il primo, ad Orloff. — Ciò indica che quest'anno lo sgelo è precoce e tornerà molto utile a noi. — Lo credo — rispose il secondo. — In maggio non è facile incontrare dei ghiacci galleggianti, anche in queste latitudini. Più innanzi, in giugno, si vedono talora anche ai 60° di latitudine, quantunque ordinariamente il loro limite sia fissato ai 70°. — Ed a 80°, i grandi banchi, è vero signor Orloff? — Sì, signor Nikirka. — Abbiamo del tempo prima d'incontrarli. — Ma forse li incontreremo prima se ci spingiamo direttamente al nord. — Perderemo del tempo sulle coste dell'isola del Re Guglielmo e dinanzi alla foce della Riviera del Gran Pesce. Voi sapete che io non lascerò quei paraggi senza aver prima chiarito completamente quel mistero che da diciassette anni agita i geografi e gli uomini di mare d'Europa e d'America. — Lo so, signor Nikirka e spero che il vostro Taimyr potrà scoprire ogni cosa. — Sì poiché sono deciso d'investigare il fondo del mare fino all'isola del Principe di Galles. — Signori, — disse in quel momento Mac-Doil, — vedo laggiù una banda di grossi pesci che si dirige a questa volta. — Lasciateli venire — rispose l'ingegnere. — Nulla possono fare al nostro battello. — Ma possono rifornire la nostra dispensa, signore. — Vediamo innanzi tutto cosa sono — disse Orloff, puntando un cannocchiale in direzione della costa americana, verso la quale si scorgevano numerose masse che si agitavano fra le onde. — Che siano morse? — chiese l'ingegnere. — No — rispose Orloff. — È una banda di narvali che muove su di noi, credendo forse che il battello sia una balena. — Si romperanno inutilmente le corna. — E ne mangeremo qualcuno — aggiunse Mac-Doil. — Ehi, Sandoë, va' a prendere i nostri fucili. Mentre il cacciatore scendeva rapidamente per prendere le armi, i narvali s'avvicinavano con estrema rapidità, pronti a dare battaglia al supposto cetaceo. Quegli abitanti dei mari artici, sono pesci agilissimi, lunghi ordinariamente due metri e qualche volta anche di più, forniti di pinne ben sviluppate che adoperano con tale maestria, da sfuggire agli assalti dei nuotatori più rapidi, compresi i delfini gladiatori che sono velocissimi. Posseggono un'arma che può diventare veramente formidabile e pericolosissima anche ai pescatori che montano fragili battelli. È un vero corno formato da un dente incisivo della mascella superiore, lungo un metro ed anche uno e mezzo, scanalato a spira, assai acuminato all'estremità e composto di un avorio migliore di quello degli elefanti, perché più compatto, più duro e più atto ad essere reso lucido. Quel corno anticamente aveva dato luogo a delle strane credenze. Si pretendeva che avesse molte virtù e specialmente di far perdere ai veleni la loro efficacia; anzi narrasi che Carlo IX re di Francia, temendo di venire avvelenato dagli ugonotti da lui ferocemente perseguitati, ne tenesse sempre seco un pezzo per immergerlo nei liquidi che beveva. In pochi minuti i narvali si trovarono a breve distanza dal battello, quantunque questo navigasse verso l'ovest con una velocità di sedici nodi all'ora. Erano una ventina, quasi tutti grossi assai e s'avanzavano mostrando minacciosamente le loro formidabili armi, mentre dagli sfiatatoi lanciavano in alto dei piccoli zampilli d'acqua. Mac-Doil e Sandoë si erano appostati dietro la piccola cancellata per accoglierli con una scarica, ma l'ingegnere aveva fatto loro cenno di attendere. I narvali avevano allora circondata la poppa del battello ed a gran colpi di coda si mantenevano ad una distanza di trenta o quaranta passi. Pareva che prima di decidersi ad assalirlo, volessero rendersi conto con quale nemico avevano da fare. Probabilmente erano sorpresi, non vedendo la coda battere l'acqua. Di tratto in tratto qualcuno s'appressava con un brusco slancio, ma poi tornava verso i compagni. D'improvviso uno dei più grossi, il cui corno misurava un metro e mezzo di lunghezza, si precipitò verso il tribordo del battello, con rapidità fulminea. Quasi subito s'udì un colpo secco e l'arma, spezzatasi alla base, cadde in mare, mentre il povero pesce, mortificato da quella resistenza inaspettata, dopo un istante di sorpresa, si tuffava precipitosamente. — Eccone uno che non tormenterà più le povere balene — disse Mac-Doil. — E che morrà di certo — aggiunse l'ingegnere. — Corno di narvalo!... — esclamò Sandoë. — Senza corno ora — disse l'ebridano, ridendo. Un altro grosso maschio si gettò contro il battello, ed ebbe eguale sorte e fuggì vergognoso di aver perduto la sua arma. Gli altri, esasperati dalla resistenza di quel mostro corazzato, si precipitarono tutti uniti contro il Taimyr, facendo spumeggiare intorno l'acqua e vibrando colpi di corno in tutte le direzioni. L'ingegnere per un po' li lasciò liberi di sfogarsi, poi vedendo che alcuni miravano a colpire le eliche e temendo che guastassero qualche pala, fece cenno ai due cacciatori di far fuoco. Mac-Doil e Sandoë avevano già scelto il più grosso e lo colpirono con due palle nel cranio. Udendo quei due spari, gli altri si allontanarono precipitosamente dirigendosi verso la punta Barrow, mentre quello che era stato ferito, dopo d'aver fatto tre o quattro capitomboli, si rovesciava col ventre in alto. Il battello fu subito fatto arrestare, poi si accostò alla preda la quale fu, non senza fatica però, issata sulla piattaforma. Era lungo due metri ed ottanta centimetri ed il suo corno misurava un metro e trenta; era adunque uno dei narvali più grossi. — Speriamo che la sua carne sia buona — disse Mac-Doil. — È di poco inferiore a quella dei tonni — rispose Orloff. — Pure ho udito raccontare da taluni che la si crede malsana. — Gl'islandesi dicono che è velenosa, ma non è vero e tutti gli esquimesi la mangiano. Domani ne farete la prova e vi assicuro che replicherete la razione. Durante la giornata null'altro accadde di notevole. Il Taimyr continuò ad avanzarsi colla solita velocità, mantenendosi in vista della costa americana, come se il suo proprietario avesse l'intenzione di visitare la foce del Makenzie, prima di poggiare verso la Terra di Banck. Di tratto in tratto faceva l'incontro di altri ghiacci galleggianti, di streams, di forma circolare e di hummoks ossia di piccoli monticelli, ma non davano impaccio, essendo ancora pochi. Alla sera anche la baia di Harrisson veniva superata e poco dopo anche la foce del Colville, il quale è un fiume che ha un corso considerevole e che pare serva di scarico ad un lago situato molto addentro in quella vasta regione delle nevi e dei ghiacci. Il 20 maggio il Taimyr faceva l'incontro dei primi ice-bergs ossia delle prime montagne di ghiaccio. Erano sette od otto, di grandi dimensioni e navigavano verso il sud spinti da un fresco vento di nord-ovest. Quei colossi scintillavano splendidamente ai raggi del sole, rivestendo svariate tinte negli angoli: alcuni erano rossi come se fossero infuocati, azzurrognoli altri, o verdi smeraldo o violacei. Miriadi di uccelli marini li montavano, facendo un baccano assordante. Vi erano gazze marine, le più chiassose di tutti i volatili; vi erano pure delle oche bernide grosse come le nostre comuni, poi delle strolaghe colle penne nere sul petto e sul dorso e le ali macchiate di bianco; delle phoebetna fuliginose, le più piccole delle diomedee, col corpo assai snello, le penne nere e le ali molto grandi che permettono loro di mantenersi in aria senza quasi muoverle, e perfino degli albatros che grugnivano come se su quei ghiacci si fossero radunati dei branchi di maiali. Scorgendo il battello e credendolo probabilmente il carcame d'una balena, tutti quei volatili vi si precipitarono sopra schiamazzando, e Mac-Doil e Sandoë ebbero un bel da fare a respingerli a colpi di bastone. Il 21 il battello si trovava nelle acque del Makenzie, uno dei più grandi fiumi, anzi il maggiore di tutti quelli che si scaricano nell'Oceano Artico. Questa grande arteria che attraversa un immenso tratto dei possedimenti inglesi dell'America del Nord, e che serve di scarico a due grandissimi laghi, al lago Schiavo e del Grand'Orso, ancora il secolo scorso era sconosciuta, quantunque gl'indiani ne avessero più volte parlato ma in modo misterioso. Giuseppe Frobisher ne aveva tentata l'esplorazione con esito sfortunato, però nel 1789 Alessandro Makenzie, uno dei più arditi viaggiatori, che era partito dal forte di Chipewayan accompagnato da alcuni canadesi e da pochi indiani, dopo lunghe marce ed infiniti pericoli riusciva a scenderlo fino alla foce. Il Taimyr non s'impegnò però fra le isole che si estendono dinanzi al delta e che erano ancora cinte di ghiacci. Costeggiò l'isola Richard, poi quella della Società Geografica e si slanciò risolutamente verso l'est in direzione della vasta baia di Liverpool. Dove andava? Invano Sandoë e specialmente Mac-Doil il quale avea una certa cognizione delle regioni polari, si torturavano il cervello per cercare la rotta precisa del battello o per studiare i misteriosi progetti dell'ingegnere ed invano interrogava Orloff, poiché questi si limitava sempre a rispondere: — Alla Terra di Banck, per ora. Il Taimyr non si decideva però a prendere il largo e continuava a mantenersi in vista della costa americana, tenendosi molto lontano per non doversi aprire la via attraverso i numerosi ghiacci che la ingombravano. Il 22 però, giunto di fronte alla baia Franklin, dopo d'aver sorpassata l'acuta penisoletta di Parry, cambiò bruscamente rotta, mettendo la prora verso il nord-nord-est. — Signor Orloff — disse Mac-Doil, abbordando il secondo mentre scendeva nel salotto da pranzo, dopo d'aver fatto il punto a mezzodì. — Si cambia via? — Sì — rispose l'interrogato, con un sorriso. — Andiamo adunque a vedere questa famosa Terra di Banck che da sei giorni odo continuamente nominare? Deve essere una regione incantevole, se desiderate così ardentemente di vederla. — Sì, una regione che mette i brividi. Vedrete dei bei ghiacci e della neve in quantità. — Vedremo almeno degli abitanti? — Forse degli orsi bianchi. — Si dice che sono squisite le costolette d'orso arrostite e soprattutto le cosce posteriori che sarebbero più delicate dei prosciutti. — Sì, quando si può uccidere il proprietario di quei prosciutti. — Oh! Per questo m'incarico io, non temete,... ma ditemi, una buona volta, cosa si va a fare alla Terra di Banck?... — Avete udito parlare di Mac-Clure!... — Era un esploratore polare, se non m'inganno. — Sì, Mac-Doil. — Ebbene? — Andiamo a verificare per ora, se oltre il famoso passaggio del Nord-Ovest, scoperto da Mac-Clure, esiste un altro che sia veramente accessibile alle navi. — Ci permetteranno i ghiacci d'inoltrarci? — Cosa possono fare a noi i ghiacci?... Forse che il Taimyr non è fornito d'uno sperone d'una robustezza eccezionale?... — Lo so, per centomila foche! — esclamò Mac-Doil. — Ma se si trovasse dinanzi delle montagne di ghiaccio di spessore enorme?... — Abbiamo delle torpedini. — Anche le torpedini non possono distruggere un banco che abbia parecchie miglia di lunghezza. — Allora il Taimyr s'immerge e vi passa sotto. — Lampi!... Non avevo mai pensato a questo!... — Ed ora lo sapete. — Col vostro battello, se lo voleste, potreste andare anche al polo. Zampe d'orso!... Che bel progetto che sarebbe!... — Lo credete, Mac-Doil? — chiese Orloff guardandolo, mentre un misterioso sorriso gli spuntava sulle labbra. — Sì, in fede mia. — Meglio per voi. — Perché dite questo! — chiese l'ebridano, stupito. Orloff non rispose. Aveva aperto la porta della sua cabina e se n'era andato zuffolando il yankee dodle americano. L'ASSALTO DEGLI ORSI BIANCHI Il 24 maggio il Taimyr avvistava le coste meridionali della Terra di Banck, nei pressi della punta Nelson. Questa terra è una delle meno conosciute di tutte quelle che si trovano al nord del continente americano, essendo stata visitata da pochi navigatori, i quali si limitarono a percorrerne le coste. Solamente Mac-Clure ardì inoltrarsi un po' e potè constatare che non è altro che una immensa pianura coperta sempre d'un alto strato di neve e di ghiaccio, e quasi priva di vegetazione, non crescendovi che pochi muschi e pochi licheni. Ha una lunghezza di oltre quattrocento chilometri ed una larghezza massima di duecentotrenta a duecentocinquanta, ma non si conosce ancora la sua superficie, la quale però deve essere considerevolissima. Si sa che verso il nord ha alcune baie capaci di riparare comodamente delle navi, ed una baia vastissima sulle coste occidentali chiamata di Burnett, però non sono accessibili che poche settimane dell'anno, essendo sempre ingombre di ghiacci. Il Taimyr rilevata la punta Nelson, si cacciò arditamente nello stretto del Principe di Galles, esplorato quindici anni prima da Mac-Clure, aperto fra la Terra sopraccennata e quella del Principe Alberto, una delle più grandi e pure delle meno conosciute, non essendo ancora state esplorate le sue sponde orientali che dovrebbero essere bagnate dal Mare di Melville. Quel vasto canale era ingombro di ghiacci d'ogni forma e dimensione ed avrebbero infallantemente arrestata qualsiasi nave, non però il battello dell'ingegnere Nikirka. Si vedevano ondulare in tutte le direzioni enormi montagne di ghiaccio staccatesi dai ghiacciai delle coste, alcune altissime assai e colle punte aguzze ed altre semidiroccate e che parevano in procinto di sfasciarsi completamente o di capovolgersi; poi si scorgevano dei banchi di dimensioni considerevoli che la corrente polare trascinava attraverso lo stretto; poi dei ghiacci minori palks, streams e hummoks che si urtavano, s'infrangevano e si rovesciavano confusamente gli uni addosso agli altri. Di quando in quando due colossi s'incontravano ed allora, perduto l'equilibrio, si precipitavano uno contro l'altro con tale fracasso, che pareva scoppiassero delle mine o tuonassero parecchi cannoni. Altre volte invece delle montagne, minate alla base dall'acqua che doveva essere meno fredda dell'aria, strapiombavano bruscamente, facendo fuggire gli uccelli marini che si erano annidati sulle loro cime e s'inabissavano con cupo fragore sollevando delle ondate mostruose e ritornavano poi a galla con un gran salto, mostrando altre punte ed altri angoli grondanti d'acqua. Il Taimyr, malgrado quei numerosi ostacoli, s'avanzava rapidamente nell'ampio canale, senza moderare la sua velocità che toccava i diciotto nodi. Guizzava, per modo di dire, fra le montagne e quando trovava dinanzi a sé dei banchi li sfondava con possenti colpi di sperone, senza arretrare d'un solo passo. Era davvero un poderoso ariete, solido come un blocco di granito, capace di assalire, e forse vantaggiosamente, anche un campo di ghiaccio di grandi dimensioni e di notevole spessore. Mac-Doil e Sandoë che si divertivano ad assistere a quella lotta formidabile contro i primi colossi delle regioni artiche, non abbandonavano la piattaforma, anche perché speravano di potere sorprendere qualche grosso capo di selvaggina. Furono però delusi, poiché pareva che le sponde della Terra del Principe Alberto che il Taimyr allora costeggiava, fossero quasi del tutto disabitate. Avevano bensì veduto alcune foche, tuttavia si erano mostrate così lontane da far perdere ogni speranza di poterle catturare. Alla sera il battello si accostò ad un banco di ghiaccio che si staccava dalle spiagge della Terra del Principe Alberto e per la prima volta si arrestò. Temeva forse l'ingegnere di andare ad urtare contro qualche ice-berg malfermo, malgrado il battello disponesse della sua potente lampada elettrica o temeva invece che il canale si chiudesse bruscamente, non essendo ancora stato esplorato da alcuna nave?... Forse l'uno e l'altro. Mac-Doil e Sandoë ne approfittarono per sgranchirsi un po' le gambe, e per sparare alcune fucilate contro gli uccelli marini che nidificavano in grande numero su quelle sponde. Avevano già uccise parecchie lumme ed alcuni lestrini e stavano per ritornare al battello, quando Kamo, che li aveva seguiti, manifestò improvvisamente una viva irrequietezza. Volgeva il muso verso le piccole colline che sorgevano a poche centinaia di metri dalla costa, raggrinzava il naso come cercasse di raccogliere delle lontane emanazioni e faceva udire dei brontolìi minacciosi. — Che ci sia qualche foca o qualche tricheco nei dintorni? — si chiese Mac-Doil, girando all'intorno uno sguardo indagatore. — A dire il vero quegli anfibi non danno che dell'olio e delle buone pelli, ma non mi spiacerebbe rimorchiarne a bordo qualcuno. — Non si lascerà prendere facilmente, a quest'ora. Il sole sta per abbassarsi e le foche si cacciano nei loro buchi per tornare in acqua — disse Sandoë. — Lo cattureremo domani mattina, se il battello si arresterà ancora. Andiamo a coricarci, Sandoë. Diedero un ultimo sguardo su quella desolata costa, le cui nevi ed i cui ghiacci assumevano delle strane tinte violacee sotto gli ultimi riflessi del sole prossimo al tramonto, e tornarono al battello, il quale era stato ormeggiato presso la costa, mediante una gomena avvolta intorno alla sporgenza d'una rupe rivestita di ghiaccio. Pareva che tutti si fossero già coricati, poiché un silenzio assoluto regnava nelle cabine e nel salotto. Anche la luce elettrica era stata spenta, forse per non attirare l'attenzione di pericolosi animali. I due cacciatori guadagnarono la loro cabina e si issarono sulle loro soffici amache ben imbottite di pellicce, contando di fare una lunga dormita. Sonnecchiavano forse da due ore, quando furono bruscamente svegliati dai latrati poderosi di Kamo, i quali echeggiavano con un fracasso indiavolato nel ventre del battello. Pareva che l'enorme molosso se la prendesse con qualcuno, poiché latrava con furore e ringhiava ferocemente come se si preparasse a mettere in opera i suoi terribili denti. — Cosa succede? — si chiese l'ebridano, che si era prontamente alzato e che si disponeva, quantunque a malincuore, ad abbandonare le calde pellicce. — Mi pare che Kamo sia irritato — disse Sandoë. — E molto — rispose Mac-Doil. — Si direbbe che è alle prese con qualcuno. In quell'istante si udì il molosso lanciare un urlo che pareva di dolore. I due cacciatori non esitarono più. Persuasi ormai che qualche cosa di grave accadeva al di fuori, si lasciarono cadere dalle brande ed aperta la porta si slanciarono verso la scala, ma appena fatti pochi passi s'arrestarono, urtandosi l'un l'altro. — Fulmini! — urlò Sandoë. — E lampi! — tuonò Mac-Doil. All'incerto chiarore dell'alba che scendeva dal boccaporto rimasto aperto, avevano veduta una massa enorme e biancastra scendere la scala che metteva sulla piattaforma. Entrambi l'avevano conosciuta: — Un orso! — aveva esclamato Mac-Doil, che era dinanzi. — Ai fucili, Sandoë!... Avevano tosto operata una precipitosa ritirata chiudendo la porta a catenaccio, non ignorando con quale formidabile avversario avevano da fare. Stavano cercando a tentoni le armi, quando si udì la voce d'un marinaio che gridava: — Chi vive?... — Non uscite — tuonò Mac-Doil. — Vi sono degli orsi bianchi al di fuori. — Luce!... Luce!... Accendete le lampade — gridava intanto Sandoë, il quale non era capace di trovare il suo fucile e le sue munizioni. — Olà!... Cosa succede?... — chiese l'ingegnere che aveva la cabina attigua a quella dei due cacciatori. — Se vi preme la vita non aprite, signore — disse Mac-Doil. — Il battello è stato assalito dagli orsi bianchi. — Sono molti?... — Ne ho veduto uno, ma odo il mio cane latrare sulla piattaforma e temo che ve ne siano degli altri. — Alla macchina! — gridò l'ingegnere. — Accendete le lampade elettriche. I marinai dovevano già essersi recati a poppa, poiché un istante dopo le lampade si accesero, mentre si udivano le eliche mettersi in movimento. I due cacciatori avevano ritrovati i loro fucili ed i loro coltelli. S'accostarono alla porta per udire se l'animalaccio veduto si trovava ancora ai piedi della scala, ma Kamo faceva un tale fracasso coi suoi latrati, da non permettere di ascoltare. — Usciamo — disse Mac-Doil. — Sii calmo e non sparare che a colpo sicuro. — Non temere — rispose Sandoë. Fecero scorrere il catenaccio, ma prima ancora che potessero ritirarsi indietro per aprire la porta, questa fu violentemente scardinata ed un orso enorme si precipitò nella cabina emettendo una specie di sordo grugnito. Quel feroce abitante del paese dei ghiacci e delle nevi, misurava almeno due metri di lunghezza e doveva pesare ottocento chilogrammi, a giudicarlo dalle sue forme massicce. Era adunque un avversario veramente formidabile, possedendo tali animali non solo dei denti robustissimi e degli unghioni acuti, ma anche una forza veramente prodigiosa. Precipitatosi nella cabina, parve dapprima sorpreso di trovarsi dinanzi a due uomini; il suo stupore durò un solo istante, poiché con un balzo straordinario, che non si sarebbe potuto prevedere da un corpo così massiccio, si scagliò addosso a Sandoë con tale furia, da atterrarlo prima ancora che il cacciatore avesse potuto puntare l'arma. Mac-Doil però, abituato a misurarsi coi giganti della regione nord-americana e che aveva già abbattuto un buon numero d'orsi grigi che sono ancor più grandi dei bianchi, non aveva perduto il suo sangue freddo. Fece lestamente due passi indietro e scaricò nelle fauci aperte della fiera le due palle del suo fucile. Le ferite dovevano essere mortali, poiché due proiettili avevano fracassate le ossa del collo, pure l'orso non cadde subito. Si rizzò sulle zampe posteriori mandando un nitrito simile a quello che emettono i muli, abbandonò Sandoë e si gettò fuori dalla cabina sperando forse di giungere sulla piattaforma e di balzare in acqua. Ai piedi della scala però s'imbattè in un altro terribile avversario. Era il molosso del Tibet, il quale udendo tuonare il fucile e supponendo il padrone in pericolo, accorreva in suo aiuto. L'enorme cane si scagliò con furore inaudito contro l'orso e lo azzannò ferocemente alla coscia destra, facendo scricchiolare le ossa sotto le poderose mascelle. L'assalito, che perdeva sangue a torrenti dalla gola sfracellata, si lasciò cadere sulle zampe anteriori, sperando forse di schiacciare col proprio peso il cane; questi invece con un balzo si era sottratto al pericolo ed era tornato alla carica, mugolando come una tigre in furore. La lotta fu così rapida, che prima che Sandoë si fosse risollevato col fucile in mano, l'orso giaceva a terra colla gola lacerata e gli orecchi strappati, già in preda alle ultime convulsioni dell'agonia. — Bravo, Kamo! — urlò Mac-Doil, che accorreva dopo d'aver ricaricata l'arma. In quell'istante l'ingegnere ed Orloff, pure armati di carabine, si slanciavano fuori dalle loro cabine, mentre il Taimyr, spezzata la gomena che lo teneva legato alla costa, si metteva in marcia a tutta velocità. — Ucciso? — chiese Nikirka. — Sì, signore — rispose Mac-Doil. — L'avevo colpito con due palle, tuttavia pare che questi animalacci abbiano la pelle ben dura, poiché viveva ancora e senza questo bravo cane sarebbe forse fuggito. Sandoë, sei ferito?... — No, ma se tardavi un momento, quel birbaccione mi stritolava il cranio come fosse un semplice biscotto. — Ehm!... — esclamò in quell'istante Orloff. — Mi pare di udire dei grugniti sulla piattaforma. — Che vi siano degli altri orsi? — chiese l'ingegnere, con voce affatto tranquilla. — Andiamo a vedere signori — disse l'ebridano. — Basterà chiudere il boccaporto — rispose Nikirka. Ad un suo cenno due marinai che erano pure accorsi armati di scuri, fecero atto di slanciarsi verso la scala, Kamo con un salto li prevenne. In tre salti varcò i gradini e balzò sulla piattaforma dove si rimise ad abbaiare con furore. — Fulmini! — esclamò Sandoë. — Abbiamo imbarcata una banda di orsi? — Si divertono a fare un viaggio senza pagare il trasporto — disse Mac-Doil. — Cerchiamo di cacciare in acqua quei disperati. — Adagio, cacciatore — disse l'ingegnere. — Possono essere molti e sono animali pericolosissimi. — Lo so, signore, pure bisognerà sbarazzare la piattaforma o scenderanno. Andiamo, Sandoë, o mi storpieranno il cane. Si slanciarono entrambi sulla scala seguiti da Orloff, da Nikirka e dai due marinai e balzarono sulla piattaforma. Tre orsi, riuniti verso prora, al di là della cancellata, tentavano di azzannare il coraggioso molosso, il quale cercava di varcare l'ostacolo che li divideva da loro. Le tre belve parevano molto inquiete sentendo il battello fuggire e vedendo l'acqua scorrere spumeggiante attorno a loro, e non osavano abbandonarsi alle onde, quantunque siano tutti valentissimi nuotatori. Vedendo però comparire quegli uomini armati, presero subito il loro partito. Trottarono verso l'estrema punta del battello e si lasciarono cadere in acqua, salutati da una scarica di carabine. Uno, colpito probabilmente nel cranio, andò subito a picco come una massa di piombo; gli altri due tornarono a galla a duecento metri dalla poppa, e si misero a nuotare vigorosamente verso la costa che era lontana tre o quattro chilometri. Essendo il loro peso individuale quasi corrispondente a quello dell'acqua, galleggiavano a meraviglia e s'avanzavano verso la Terra del Principe Alberto con una velocità di almeno cinque chilometri all'ora. — Buon viaggio!... — gridò dietro a loro Mac-Doil. — Vi augurerei di annegarvi, se non sapessi che siete troppo valenti nuotatori. — Se fossero anche a cinquanta miglia dalla spiaggia, non sarebbero imbarazzati a raggiungerla — disse l'ingegnere. — Una bell'audacia però ad assalirci — disse Orloff. — Un'altra volta ci guarderemo dal lasciare aperto il boccaporto. — Dovevano essere assai affamati, — rispose l'ingegnere, — poiché ordinariamente sfuggono l'uomo. — Io credo invece che abbiano scambiato il nostro battello pel carcame d'una balena. — È probabile, signor Orloff. — Comunque sia, la nostra dispensa si è considerevolmente arricchita di carne fresca — disse Mac-Doil. — Si dice che anche la carne d'orso bianco sia eccellente! — È vero, cacciatore — rispose Orloff. — Mi hanno però detto che il fegato è velenoso. — Non sempre, Mac-Doil. Alcuni marinai lo hanno mangiato impunemente, altri invece si ammalarono, ed altri ancora morirono in preda a dolori violenti ed a diarree terribili. Gli esquimesi però lo danno sempre ai cani e noi faremo bene a gettarlo in mare onde non possa nuocere nemmeno al vostro valoroso Kamo. — Ditemi, avete ucciso altri orsi bianchi? — chiese l'ingegnere a Mac-Doil. — Mai, signore — risposero i due cacciatori. — Pure so che le Compagnie delle pellicce mandano in Europa da mille a milleduecento pelli all'anno. — È vero, — disse Mac-Doil, — sono i cacciatori delle coste settentrionali. Nelle nostre foreste non si uccidono che orsi neri ed orsi grigi. — E ne mangiate le carni. — Certo, signore. — Allora affideremo a voi l'incarico di prepararci a pranzo uno zampone del vostro orso. — Contate su di me, signore, che me ne intendo d'arrosti, è vero Sandoë?... Orsù, andiamo a scuoiare la preda. IN MEZZO AI GHIACCI Ventiquattr'ore dopo il Taimyr usciva dallo stretto del Principe di Galles, confermando luminosamente la supposizione di Mac-Clure, cioè che quel canale sboccasse liberamente nel Mare di Melville. Contrariamente però a quanto credevano i due cacciatori, il battello invece di risalire verso il nord piegò bruscamente verso il sud-est, come se l'ingegnere avesse l'idea di ridiscendere verso le coste americane attraverso lo stretto di Mac-Clintock. Voleva rilevare le coste orientali della Terra del Principe Alberto che prima di allora non erano state esplorate, e visitare quelle della Terra Vittoria, terminando il viaggio polare sotto il 79° parallelo?... Nessuno avrebbe potuto dirlo, poiché anche questa volta Orloff, interrogato a più riprese dai due cacciatori, si era rinchiuso in un mutismo assoluto. La navigazione del Taimyr stava per diventare molto ardua, perché pareva che nel Mare di Melville si fossero radunati tutti i ghiacci staccatisi dalle coste della Terra del Principe Alberto e di Banck, delle isole di Melville, del Principe di Galles, del Re Guglielmo, di Bathurst e della penisola di Boothia. Era una successione continua di ice-bergs di dimensioni enormi, che s'avanzavano cappeggiando pericolosamente e minacciando ad ogni istante di piombare sul battello e di schiacciarlo, malgrado la sua robusta corazza d'acciaio; o di palks, di hummoks e di streams e di wacke contenenti nell'interno dei veri laghetti; e verso il sud-est ed il nord-ovest si vedevano parecchi banchi che avevano delle circonferenze di quindici o venti miglia, dei veri palks, che non dovevano forse tardare a diventare degli ice-fields, ovvero dei campi senza limiti. Il bagliore che tramandavano tutti quei ghiacci percossi in pieno dalla luce solare, era così intenso, che accecava. Pareva che fossero immersi in un'atmosfera d'una intensità meravigliosa. In mezzo a quei colossi che le correnti, sboccanti dagli stretti di Barrow, di Franklin, di Banck e di Mac-Clintock trascinavano nel Mare di Melville, accumulandoli in quel vasto bacino, si vedevano numerosi anfibi sdraiati presso i margini, scaldantisi ai tiepidi raggi del sole. Per lo più erano foche chiamate comunemente di Groenlandia o kadolik dagli esquimesi, lunghe poco più d'un metro, col pelo fitto, corto, color grigio fulvo o giallo chiaro, coi fianchi neri, il petto grigio argenteo, il muso caffè oscuro ed il dorso macchiato da un disegno in forma di ferro di cavallo allungato e molto oscuro. Si vedevano però anche numerose femmine distinguibili per la loro statura che è inferiore a quella dei maschi e pel loro pelame che è invece bianco giallognolo, mentre il ferro di cavallo è azzurro cupo. Alcune giuocherellavano coi loro piccini la cui pelliccia era affatto bianca. Queste foche sono le più numerose di tutte, quantunque siano accanitamente cacciate da tutti gli esquimesi del continente, delle isole e della Groenlandia e dai cacciatori della Compagnia della baia di Hudson. Si calcola che ne vengano uccise centomila all'anno, ma malgrado simile ecatombe non accennano ancora a diminuire. Senza questi anfibi, probabilmente le tribù esquimesi a quest'ora sarebbero ben poco numerose, poiché offrono mille risorse per quei poveri abitanti delle regioni dei ghiacci eterni. È perciò che li attendono durante le loro emigrazioni, per fare dei veri macelli, che assicurano il cibo per parecchi mesi e le vesti necessarie per combattere i terribili geli invernali. Anche gli uccelli erano numerosi e si vedevano bande immense di lumme, di gabbiani, di procellarie, di oche, di strolaghe, di urie e di labbi detti di Richardson. Il Taimyr si avanzava sempre, con grande fatica ed a velocità moderata, cercando di tenersi lontano dagli ice-bergs che potevano danneggiarlo e forse sfracellarlo. Speronava furiosamente i ghiacci minori tagliandoli come se fosse un immane rasoio d'una tempra eccezionale; si avventava all'impazzata contro i banchi, disgregandoli con un cupo rimbombo; si slanciava più di mezzo fuori dall'acqua, spinto innanzi dalle sue potenti eliche che turbinavano furiosamente e si lasciava cadere di peso in mezzo a tutti quegli ostacoli, sminuzzandoli prima e disperdendoli poi collo sperone. Orloff si era messo al timone e guidava il colosso d'acciaio. Pareva che sotto le sue mani, quel gigantesco fuso diventasse un semplice giuocattolo e lo lanciava a destra o a sinistra o diritto innanzi a sé con una precisione e con una sicurezza meravigliosa. L'ingegnere ed i due cacciatori, dalla piattaforma assistevano a quella lotta mostruosa fra la forza meccanica e la resistenza inerte, ma pur sempre formidabile di quei candidi ed abbaglianti colossi polari. Un sorriso di trionfo errava sulle labbra del valente finlandese, vedendo il suo mostro corazzato assalire e demolire quei ghiacci che per tanti secoli avevano arrestate le navi montate dai più intrepidi marinai dei due mondi, mentre Mac-Doil e Sandoë, impotenti a frenare il loro entusiasmo, lanciavano i loro più energici: Corno di narvalo e, per centomila foche, o trichechi o balene!... Quella lotta non poteva però durare molto, poiché i grandi banchi non erano lontani ed il battello, per quanto fosse robusto non poteva assalire quelle distese immense di ghiaccio compatto e di grande spessore. Nondimeno Orloff continuava a lavorare di sperone come se volesse misurare la potenza del Taimyr e non cessava di avventarlo, con una temerità che rasentava la pazzia, contro i ghiacci. Vi erano certi momenti in cui osava perfino assalire i piccoli ice-bergs, col pericolo di farli capitombolare bruscamente sulla prora del battello. In quegli urti terribili il fuso d'acciaio rintronava come se nel suo ventre scoppiassero delle vere mine, ma nessuna delle sue lastre vibrava e pareva che formassero una massa sola. La lotta durava da mezz'ora, quando l'ingegnere diede il comando di arrestare la macchina. Il Taimyr si trovava allora a soli duecento passi da un banco che doveva avere una circonferenza di almeno dodici miglia. — Scendete — disse Nikirka ai due cacciatori. — Ci prepariamo ad immergerci. Sarà affare di una sola mezz'ora. I due cacciatori scesero dietro l'ingegnere e chiusero il boccaporto, mentre le eliche si rimettevano in movimento a piccola velocità. Gli sportelli laterali furono tosto aperti per dare luce al salotto ed alle cabine, e con grande sorpresa dei cacciatori, le lampade elettriche non furono accese. — Eppure sotto quel banco non dovrebbero passare i raggi solari — disse Mac-Doil. — Spero che non procederanno alla cieca col pericolo di urtare contro qualche ostacolo. — A duecento metri! — si udì gridare in quell'istante l'ingegnere. — Oh! Oh! — esclamò Sandoë. — Si scende più dell'altra volta. — Il battello ormai può ispirarci completa fiducia. — Lo so, Mac-Doil; io vorrei però sapere dove vogliono condurci questi uomini. Sai che è una cosa fastidiosa girare per queste brutte regioni, senza sapere dove si vada a finire? — Sono muti come pesci e non c'è mezzo di strappare loro una parola. Comunque sia, pagano bene e li seguiremo fin dove vorranno condurci. — Anche se volessero andare al polo? — Vada anche pel polo!... Ci ho trovato gusto a misurarmi cogli orsi bianchi e... Ah!... Ecco che le eliche laterali si mettono in funzione e che ci inabissiamo. Andiamo a vedere se incontriamo dei pesci. In quell'istante il battello, spinto sott'acqua dalle eliche laterali, e trascinato dalla zavorra acquatica che entrava nei serbatoi di poppa e di prora, s'immergeva lentamente per passare sotto il grande banco. A duecento metri di profondità arrestò la sua discesa e riprese lo slancio innanzi, procedendo però con una velocità moderata che non doveva toccare i dieci nodi. Quantunque fosse disceso molto più dell'altra volta, ci si vedeva ancora bene nel salotto, nel quale si erano radunati i due cacciatori e l'ingegnere. Era una luce più sbiadita però, leggermente verdastra e che di quando in quando variava, diventando più chiara come se il battello di tratto in tratto incontrasse delle lampade elettriche collocate alla superficie del mare. — Che cosa sono questi strani bagliori? — chiese Sandoë all'ingegnere, il quale teneva gli sguardi fissi su di una bussola collocata in mezzo alla tavola. — Il riflesso dei ghiacci — rispose Nikirka. — Questa è strana! — esclamò Mac-Doil. — Io credevo che sotto i ghiacci non ci si vedesse più. — E perché, mio caro cacciatore? — Lo avevo udito raccontare. — Ed allora sapreste dirmi perché sopra i ghiacci si scorge quella potente irradiazione biancastra, che i naviganti polari chiamano ice-blink e che nemmeno i nebbioni riescono ad offuscare?... Perché i ghiacci non dovrebbero tramandare anche sotto di loro una parte di quella luce? Lo so, si è creduto che sotto i banchi dovesse regnare una profonda oscurità, invece come ben vedete non è vero, poiché in questo momento noi navighiamo precisamente sotto il grande pack che ci sbarrava la via. Mi rammento anzi che alcuni avevano, al pari di me, progettato di sfidare i ghiacci polari passandovi sotto, ma che si erano assai preoccupati della mancanza assoluta della luce, e forse quel timore li ha risoluti a rimandare l'effettuazione del progetto.[1] Ecco, mio caro cacciatore: guardate se la luce manca! In quel momento la luce del salotto era diventata più limpida, quasi diafana, e perfino le acque che scorrevano lungo i fianchi del battello avevano dei bagliori madreperlacei, come se ad intervalli raccogliessero dei raggi luminosi proiettati da lampade elettriche. Era bensì vero che talora quella luce si oscurava bruscamente, forse in causa degli strati di neve accumulati dal banco e che intercettavano la luce solare, però i ghiacci proiettavano sempre l'ice-blink anche sotto le onde ed abbastanza limpido da poter scorgere anche i pochi pesci, che di quando in quando si mostravano accanto agli sportelli. Il battello a poco a poco accelerava la sua corsa. Orloff, che lo guidava dalla gabbia di prora, certo ormai di non incontrare ostacoli sotto il pack a quella profondità di duecento metri, aveva comandato di raggiungere i quindici nodi. I due cacciatori intanto guardavano attraverso il grosso vetro dello sportello di babordo, spiando curiosamente gli abitanti del mare, i quali pareva che scarseggiassero assai. Solamente di tratto in tratto appariva qualche drappello di aringhe, o qualche delfino, o qualche coppia di narvali che venivano ad urtare i vetri coi loro corni. — Signor Nikirka — disse ad un tratto Mac-Doil, che da qualche istante aveva volti gli sguardi su di un termometro appeso presso lo sportello. — Ho osservato una cosa che per me è inesplicabile. — E quale? — chiese l'ingegnere. — Che la temperatura si è notevolmente rialzata. Prima che il Taimyr s'immergesse il termometro segnava -8° ed ora è salito a +4° e tende a salire ancora. — E che cosa volete concludere? — Che fa più freddo sopra i ghiacci che sotto. — E ciò vi sorprende? — Molto, signore poiché credevo che l'acqua fosse più fredda, specialmente ad una profondità ragguardevole come ci troviamo ora noi. — Infatti diventa più fredda di metro in metro che si scende però la temperatura è sempre maggiore a quella che si riscontra alla superficie. In queste alte latitudini si è osservato che sotto i ghiacci fa molto meno freddo, mentre negli altri mari, negli equatoriali e nei tropicali, si è notato tutto il contrario, e cioè che l'acqua era molto più calda alla superficie che ad una certa profondità, e... Toh!... Abbiamo già superato il banco!... Ecco la luce del sole. — Ed io vedo della selvaggina attorno a noi — disse Sandoë. — Risaliamo — rispose l'ingegnere. Mac-Doil udendo parlare di selvaggina aveva fatto un balzo verso la grande lente e attraverso il cristallo, aveva scorto parecchi corpi di dimensioni enormi che si agitavano sui fianchi del battello, il quale aveva allora diminuita la sua velocità. — Dei trichechi!... — esclamò. — E sono numerosissimi — aggiunse Sandoë. — Signore, vi è della carne fresca — disse l'ebridano, volgendosi verso l'ingegnere. — O meglio dell'olio da raccogliere — rispose questi. — I fucili, Sandoë. — Cosa volete farne?... — Per uccidere dei trichechi, signore. — E vederli affondare subito! In tali cacce è necessario adoperare la fiocina esquimese, che è la migliore arma. Lasciate fare ai miei marinai; vedrete che cattureranno parecchi di quei colossi. Premette un campanello elettrico e le pompe si misero tosto in opera, ricacciando l'acqua dei serbatoi. Pochi istanti dopo il Taimyr si trovava a galla. Mac-Doil e Sandoë si slanciarono verso la scala, nel momento che due marinai stavano aprendo il boccaporto. Quasi subito s'udì al di fuori un concerto assordante di muggiti, come se il battello fosse piombato al di là del banco in mezzo ad una prateria piena di tori in furore. UNA CACCIA AI TRICHECHI Uno spettacolo strano attendeva i due cacciatori. Una banda composta di un centinaio e più di animalacci di dimensioni veramente straordinarie, aveva circondato il battello, che si era arrestato, assumendo un contegno tutt'altro che rassicurante e riempiendo l'aria di rauchi muggiti, che talvolta sembravano veri ruggiti. Era una turba di quei grossi anfibi che i cacciatori artici chiamano comunemente trichechi o cavalli marini e gli esquimesi awak. Quegli abitanti dei mari polari misurano generalmente quattro metri in lunghezza, ve n'erano però alcuni che toccavano anche i cinque, con una circonferenza di tre a quattro metri. Questi mostri, che nella forma del corpo s'avvicinano alle foche, hanno la testa piccola, il muso corto ed ottuso, le labbra munite di grosse setole irte come quelle dei gatti, la pelle rugosa, sparsa di protuberanze prodotte per lo più dalle ferite che riportano ne' combattimenti sanguinosissimi che hanno luogo fra loro stessi, e per lo più di tinta bruno grigia più o meno chiara. Usualmente vivono in branchi molto numerosi, tenendosi in vicinanza delle coste, sulle quali si ritirano per dormire o per riscaldarsi ai raggi del sole, ma non per questo si lasciano sorprendere, poiché dispongono le loro sentinelle incaricate di avvertirli al primo indizio di qualche pericolo. La banda che aveva circondato il Taimyr doveva essere giunta dalle coste della Terra Vittoria, le quali si scorgevano vagamente dietro alle montagne di ghiaccio che la bloccavano, o forse si trovava in quel tratto di mare occupata a cercare i molluschi, le alghe ed i pesci che formano il principale nutrimento di quei grossi anfibi. Essendo molto curiosi, come hanno constatato tutti i naviganti artici, erano subito accorsi per vedere con quale specie di cetaceo avevano da fare, sperando certo che fosse qualche carcame di balena da intaccare. Vedendo comparire i due cacciatori, si allontanarono prudentemente di alcuni metri, non cessando però di guardarli coi loro piccoli e brillanti occhi e continuando a muggire. Alcuni vecchi maschi tuttavia, cercarono di mordere le lastre del battello coi loro enormi canini che misurano una lunghezza di ottanta o novanta centimetri e che di solito pesano dai quattro ai cinque chilogrammi. — Che animalacci! — esclamò Mac-Doil. — Ve ne sono alcuni che devono pesare una tonnellata. — Ed anche di più — disse Orloff, che era pure comparso sulla piattaforma. — È buona la loro carne?... Mi hanno detto che gli esquimesi la mangiano. — È vero, ma è tigliosa ed ha un sapore che per noi non va, essendo impregnata d'olio che sa di pesce. La lingua però è eccellente e l'ho mangiata parecchie volte con molto appetito. — Pure mi hanno detto che i trichechi si cacciano accanitamente. — Sì, però rendono molto meno degli orsi bianchi. Si calcola che da un tricheco in media si ricavino, fra il grasso, i denti che sono d'avorio bellissimo e la pelle, circa diciotto dollari (90 lire). — Non varrebbe la pena di ucciderli. — Invece i cacciatori di trichechi non fanno cattivi affari, uccidendone un gran numero e senza correre alcun pericolo, quantunque questi animali siano eccessivamente vendicativi e si difendano ferocemente quando si trovano in acqua. Vi basti sapere che ogni anno si mandano sui mercati europei dai venticinque ai trentamila chilogrammi d'avorio. — E quanto si pagano i denti? — Otto lire al chilogrammo i più grossi e sei i più piccoli. — È ancora un bel guadagno, senza contare poi le pelli e l'olio. Devono però fare delle stragi immense quei cacciatori. — Tali che i trichechi continuano a scemare e che finiranno, in un tempo non molto lontano, collo scomparire. Mentre chiacchieravano, due marinai erano saliti sulla piattaforma armati di ramponi, alle cui estremità erano state legate due solide funi, e si erano collocati presso la cancellata di babordo, aspettando il momento favorevole per fare un buon colpo. La loro attesa non fu lunga. Le morse, che parevano spronate da una crescente curiosità, erano tornate a circondare il battello cercando di issarsi sulle rotondità di prora e di poppa. I due ramponi, scagliati da due braccia vigorose, colpirono un grosso maschio armato di lunghi e grossi denti. Sentendosi ferito, subito s'immerse emettendo un lungo muggito, ma essendo trattenuto dalle funi che i marinai non avevano abbandonate, ricomparve a galla mentre l'acqua si tingeva di rosso. I due cacciatori si erano precipitati in soccorso dei marinai, temendo che la preda fuggisse, ma abbandonarono tosto le funi per afferrare dei ramponi che l'ingegnere aveva allora portati sulla piattaforma. Tutti i trichechi, vedendo il loro compagno ferito, si erano scagliati contro il battello muggendo orribilmente, risoluti a vendicare il moribondo. Maschi e femmine si affollavano confusamente attorno alla cancellata, battendo furiosamente l'acqua colle larghe pinne, agitando minacciosamente le zanne e facendo sforzi disperati per avventarsi contro gli uomini, per nulla spaventati dai latrati poderosi di Kamo. Quell'orda faceva paura a vederla così irritata, e non avrebbe di certo risparmiati i cacciatori ed i marinai, se questi avessero montata una scialuppa invece di quel grande battello corazzato. Alcuni maschi erano perfino riusciti a salire sulle parti superiori del Taimyr e si trascinavano sulle lastre metalliche, percuotendole rabbiosamente coi lunghi e robusti canini, credendo di sfondarle, mentre altri erano riusciti a sollevarsi fino alla cancellata che difendeva la piattaforma. Mac-Doil e Sandoë avevano impugnati i ramponi e si disponevano a fare un macello di quei poveri animali, ma l'ingegnere li fermò, dicendo: — È inutile ucciderli per poi perderli. Hanno già troppi nemici per concorrere anche noi alla loro distruzione e senza gran profitto per la nostra dispensa. Limitatevi a respingere quelli che potrebbero varcare la cancellata. Intanto i due marinai, aiutati da Orloff, cercavano di rimorchiare il vecchio maschio sotto l'orlo della piattaforma, ma il grosso animale si dibatteva con sovrumana energia, quantunque già avesse perduto tanto sangue che l'acqua era tutta rossa intorno a lui. Non doveva però durare a lungo, poiché i due ramponi avevano attraversato il grasso oleoso piantandosi profondamente nelle carni. Quando l'ingegnere lo vide agli estremi, comandò di riprendere la marcia per sbarazzare il battello da quella moltitudine di avversari, che impedivano di sezionare la preda, non potendo issare sulla piattaforma un peso così enorme. I trichechi, vedendo il battello fuggire a tutta velocità, s'affrettarono ad abbandonarlo, tentando poi di seguirlo muggendo orribilmente e battendo l'acqua con estremo furore, sforzi inutili non potendo gareggiare con un così rapido camminatore. Quando ogni pericolo cessò, i marinai ed i cacciatori varcarono la cancellata e sezionarono la preda, la quale pesava oltre un migliaio di chilogrammi. La lingua fu messa da parte da Mac-Doil, il quale voleva metterla in sale, il grasso fu raccolto con cura e destinato a lubrificare le diverse parti della macchina e la pelle fu riservata a Kamo non potendo altrimenti utilizzarla pel momento. Mentre i marinai ed i cacciatori s'affaccendavano attorno al tricheco, il Taimyr continuava la sua rapida corsa verso il sud-est, guidato da Orloff che aveva ripreso il suo posto nella gabbia di prora. I ghiacci pur essendo ancora numerosi, lasciavano qua e là dei canali abbastanza vasti per permettere al battello di passare, e tosto il secondo ne approfittava per cacciarlo in mezzo a quei passi con un'audacia ed una sicurezza straordinaria. Durante quella giornata però, il Taimyr dovette inabissarsi altre due volte per passare sotto due vastissimi campi di ghiaccio che scendevano verso il sud, come se si fossero staccati dalle spiagge dell'isola del Principe di Galles. Anche alla sera il battello continuò la sua rotta, senza rallentare la sua velocità. Nelle tre ore che il sole rimase sotto l'orizzonte, la potente lampada elettrica della gabbia di poppa sfolgorò i ghiacci coi suoi fasci luminosi, facendoli scintillare come enormi diamanti. Pareva che l'ingegnere avesse molta fretta di giungere nel luogo prefissosi e non voleva arrestarsi nemmeno alla notte, sebbene molti pericoli potessero minacciare il battello. La mattina del 27 maggio il Taimyr avvistava le coste orientali della Terra Vittoria e prendeva la corsa verso quelle del Re Guglielmo, isola di estensione considerevole, che si trova rinserrata fra la lunga penisola di Boothia all'est, la penisola Adelaide al sud e lo stretto di Vittoria all'ovest. Qualche cosa doveva tuttavia accadere in breve e dare ai due cacciatori qualche schiarimento su quella rotta inesplicabile verso le coste settentrionali del continente americano, poiché l'ingegnere ed Orloff parevano in preda ad una certa agitazione. Salivano di frequente sulla piattaforma per appuntare i cannocchiali verso l'est, esaminavano con viva attenzione le carte geografiche e parlavano a lungo insieme. Verso il mezzodì furono veduti risalire sulla piattaforma e fare il punto con maggior cura del solito, mentre il Taimyr procedeva con una velocità di diciotto nodi ed otto decimi all'ora, rapidità mai ottenuta in avanti. — Sta per accadere qualche avvenimento — disse Mac-Doil a Sandoë, che aveva seguite attentamente le diverse manovre dei due comandanti. — Che il viaggio stia per terminare?... — O per cominciare ora?... Non si regalano diecimila dollari per fare una semplice passeggiata fra i ghiacci. — Che cosa vengono a cercare qui? — Lo sapremo in breve, spero. — Vedi nulla di straordinario tu? — Non vedo che una costa coperta di ghiacci. — Che cerchino degli uomini forse?... — In questi luoghi? Non potrebbero trovare che degli orsi bianchi. — Taci!... Il secondo di bordo, che aveva finito allora di fare il punto, aveva detto all'ingegnere: — Ci siamo. — Lo credete?... — Siamo a 69°05' di latitudine e 98°23' di longitudine meridiano di Greenwich. — La corrente li ha trasportati per venti mesi. — Ma in così lungo tempo non hanno percorso che venti miglia, così stava scritto sui due documenti trovati nei due cairn eretti sulla costa del Re Guglielmo, dal luogotenente Gore e dal signor Veaux. — Allora possiamo trovarli investigando il fondo marino. Avete fatto gettare lo scandaglio?... — Da mezz'ora. — Ha dato?... — Mille ed ottanta metri. — Non credevo che questo canale avesse tale profondità. — Voi sapete che il Taimyr può scendere ben più giù. — Lo abbiamo provato e sappiamo quale sia la sua resistenza, signor Orloff. Però farà poco chiaro laggiù. — La luce elettrica ci aiuterà meglio del sole, signor Nikirka. — Quante ore saranno poi necessarie per giungere alla foce del Gran Pesce?... — In trenta ore vi possiamo essere. Volete esplorare quel delta?... — Desidererei incontrare degli esquimesi. — Ne troveremo di certo, essendo per loro cominciata la stagione della pesca. — Conto di trovare qualche ricordo e spero di poter fare piena luce sulla miseranda fine degli ultimi compagni di quello sventurato e forse... — Cosa sperate?... — Chi può affermare che siano tutti morti?... — Sono già trascorsi diciannove anni. — Qualcuno può essere stato tenuto come prigioniero o disperando di poter da solo attraversare gli immensi territori che lo separano dai coloni europei, può essersi fermato definitivamente, facendosi adottare da qualche tribù. — Si può ammetterlo. Devo dare l'ordine d'immergerci?... — Sì, signor Orloff. Sono impaziente di perlustrare il fondo del mare. — Scendete — disse il secondo ai due cacciatori. — Andiamo a visitare il fondo marino. — E lo potremo vedere? — chiese Mac-Doil. — Nessuno v'impedisce di guardarlo a vostro agio. — Andiamo, Sandoë. Credo che un simile spettacolo non possa da altri vedersi così facilmente. Scesero nel salotto e si collocarono presso gli sportelli che erano già stati aperti, mentre i marinai s'affrettavano a chiudere il boccaporto. — Hai udito, Mac-Doil? — chiese Sandoë. — Sì — rispose l'ebridano. — Sai di che cosa si tratta?... — Non ancora, ma pare che si vada a cercare qualche cosa in fondo al mare. — Ho udito parlare di morti... — Ed io anche di vivi, scomparsi da diciannove anni. Che razza d'istoria sia questa, non lo so davvero, abbiamo però degli occhi ancora buoni e vedremo di che cosa si tratta. In quel momento le eliche laterali si misero in movimento, imprimendo al battello un lieve dondolìo e l'ingegnere comparve nel salotto seguito da Orloff, mettendosi vicini ai due cacciatori. IN FONDO AL MARE Il Taimyr scendeva lentamente, trascinato nei baratri dell'oceano dall'acqua che irrompeva liberamente nei serbatoi e spintovi dalle due eliche, mantenendosi leggermente inclinato verso poppa. La luce scemava gradatamente nel salotto e l'acqua del mare a poco a poco diventava d'un azzurro più cupo, intersecata però da strisce più o meno chiare che parevano prodotte o dal riflesso di masse di ghiaccio o dal rifrangersi dei raggi solari attraverso gli ice-bergs galleggianti alla superficie. Qualche grosso pesce appariva, ma confusamente e tosto si dileguava, prima che i due cacciatori potessero indovinare a quale specie appartenesse, ben presto anche quei pochi abitanti di quel gelido mare scomparvero, come se temessero i profondi abissi marini. Il Taimyr continuava ad immergersi, mantenendo sempre la sua inclinazione verso poppa, mentre le due eliche funzionavano con maggior velocità per vincere la resistenza dell'acqua, la quale ormai tendeva a sollevare quel colossale cilindro semivuoto e ripieno d'aria. L'ingegnere, cogli occhi fissi sul dinamometro contava, a voce bassa, le centinaia di metri che il battello varcava: — Duecento, trecento, quattrocento... — Diavolo!... — borbottò Mac-Doil, udendo quel quattrocento. — Dove andiamo a finire noi?... L'immersione del Taimyr diventava sempre più lenta, faticosa non ostante il furioso girare delle due eliche, i cui cupi ronzìi si udivano perfino nel salotto. Le macchine dovevano funzionare febbrilmente, poiché i colpi di stantuffo facevano perfino tremare le tramezzate del battello. Il Taimyr doveva già sopportare una pressione notevole, non certo però quella enorme che si supponeva un tempo per simile profondità. La luce intanto scemava sempre, ci si vedeva nondimeno ancora tanto da distinguere perfettamente qualunque oggetto che si fosse trovato dinanzi alle lenti. A cinquecento metri però era così debole che pareva una luce crepuscolare. Di certo, a quella considerevole profondità, la luce solare doveva essere quasi interamente assorbita dall'enorme strato d'acqua, pure quella specie di crepuscolo non pareva che dovesse spegnersi così presto. Ad un tratto Mac-Doil, che guardava, con una certa ansietà, ed anche con una viva curiosità attraverso la grande lente di cristallo, si volse verso l'ingegnere, dicendogli: — Guardate!... Attraverso a quella debole luce si vedevano sorgere dalle misteriose profondità dell'Oceano Artico, come degli immensi serpenti stranamente dentellati, di colore oscuro, perfettamente rigidi dapprima come se fossero di metallo, ma che tutto d'un tratto si misero a contorcersi ed a curvarsi come se passasse sopra di loro una rapida ed impetuosa corrente d'aria. — Sono vivi! — esclamò Sandoë, che pareva un po' spaventato. — Sono le eliche che agitano gli strati d'acqua — rispose l'ingegnere sorridendo. — Ma che cosa sono?... — Alghe. — Così immense ed a simile profondità?... — Vi ho detto che nei mari polari l'acqua del fondo è meno fredda che alla superficie e permette quindi che la vegetazione qui si sviluppi più sotto che sopra. — Quelle alghe devono essere lunghissime — disse Mac-Doil. — Non mi sorprenderei che toccassero gli ottocento od anche i mille piedi — rispose l'ingegnere. Poi volgendosi verso Orloff, continuò: — Non vi sembra che queste alghe siano simili a quelle che formano il kelp dei mari australi. — Sì — rispose il secondo. — E mi sorprende che anche in questi mari non formino quelle fitte praterie galleggianti che circondano il continente Polare Australe. — La spiegazione è facile, signor Orloff. Qui vi è maggior profondità e queste alghe non possono raggiungere mille metri di lunghezza; sono però le istesse. — Non imbarazzeranno le nostre eliche?... — Sono così poco fitte che non possono nuocere alle pale e poi mi sembrano più fragili. Orloff aveva ragione. Quelle alghe smisurate non crescevano così unite come le macrocystis pyrifere che si estendono attorno al continente Polare Australe, formando quelle immense praterie galleggianti che i marinai inglesi chiamano kelp; dovevano però, come aveva notato l'ingegnere, appartenere alla stessa specie, poiché erano egualmente fornite di piccole vescichette e verso la cima di ramificazioni in forma di lamine dentellate. Il Taimyr che s'immergeva in mezzo a loro, le spostava violentemente e le faceva ondeggiare in tutti i sensi, come se fossero animate e talune venivano recise dalle pale delle eliche ed allora si vedevano innalzarsi rapidamente verso la lontana superficie del mare, trasportate dalle loro vescichette galleggianti. A seicento metri di profondità il battello s'arrestò un istante, come se non riuscisse a vincere la resistenza dell'acqua e provò alcune oscillazioni, ma poi riprese la discesa mentre le eliche turbinavano vertiginosamente rovesciando dinanzi ai vetri delle lenti dei fiotti di spuma che avevano talora degli strani bagliori. Ad un tratto le alghe scomparvero bruscamente ed a tribordo del battello apparve confusamente una massa oscura che pareva scendesse a picco nelle profondità dell'oceano. Era una costa la quale pareva che si estendesse in direzione dell'isola del Re Guglielmo e che formasse il margine di qualche profonda vallata sottomarina, entro cui stava per scendere il Taimyr. Orloff l'additò all'ingegnere, il quale si limitò ad abbassare due volte il capo. La muraglia rocciosa, che probabilmente serviva di base all'isola del Re Guglielmo, fra quella luce crepuscolare non era ben visibile, però di quando in quando i due cacciatori, Orloff e l'ingegnere potevano distinguere delle grandi fenditure, delle punte aguzze e delle sporgenze che apparivano tappezzate da certe specie di spugne e da vegetali corti che non parevano alghe. Probabilmente era quella specie di lino molle e vischioso che fu riportato a galla dalle draghe di molte navi e che venne pescato nelle immense pianure sottomarine dell'Atlantico e del Pacifico a delle profondità di quattro o cinquemila metri, smentendo completamente la vecchia asserzione che a cinquecento metri sotto le onde la vita vegetale doveva essere nulla o quasi. In mezzo a quei vegetali che s'aggrovigliavano confusamente, talora si vedevano apparire dei bagliori misteriosi. Ora erano sprazzi di luce verdastra, che tosto si spegnevano per apparire altrove; ora punti luminosi azzurrognoli che si muovevano rapidamente; ora come nembi di scintille che parevano prodotti da gruppi di nottilughe fosforescenti. Quali misteriosi abitanti del fondo marino s'agitavano sotto quelle strane praterie, situate a sei o settecento metri di profondità?... Mac-Doil e Sandoë, cogli occhi appoggiati al cristallo della lente, guardavano senza parlare, ma i loro volti tradivano una viva emozione. Parevano sorpresi, ed anche inquieti, quasi atterriti di scendere in fondo a quei baratri e di sentirsi accumulare sopra le loro teste centinaia e centinaia di metri d'acqua. Intanto il Taimyr continuava ad inabissarsi nel cupo vallone, seguendo la grande muraglia, la cui base si perdeva fra le acque che diventavano sempre più oscure. Pareva che scendesse nel regno delle tenebre eterne, in un mondo nuovo e pauroso. — Mille metri — disse ad un tratto l'ingegnere, rompendo il silenzio che regnava nel salotto. L'ebridano e Sandoë si scossero, ripetendo con una intonazione di paura: — Mille metri!... Poi Mac-Doil, staccandosi quasi a forza dal vetro, disse, rivolgendosi verso l'ingegnere: — Ma fin dove scendiamo noi, signore? Nikirka non rispose: pareva che porgesse attento orecchio alle precipitose pulsazioni della macchina, le quali echeggiavano sempre più forti, facendo vibrare stranamente la corazza d'acciaio del fuso gigante. — Signore — ripetè l'ebridano, con voce alterata. — Se poi non si potesse più risalire?... L'ingegnere guardò questa volta Mac-Doil per qualche istante, poi chiese: — Avreste forse paura?... — No, ma... — rispose l'ebridano. — Il mio battello è sicuro e mi sorprende che voi, che affrontate così coraggiosamente gli orsi bianchi, siate impressionato. — Lo confesso, signore e... — Il fondo — disse in quel momento Orloff. Mac-Doil udendo quelle parole si era precipitato nuovamente verso il vetro, dimenticando le proprie apprensioni. Una distesa immensa, oscura, indefinita, essendo la luce quasi nulla, pareva che volasse incontro al battello salendo dalle viscere della terra e tutta punteggiata di scintille variopinte. Pareva che invece di essere sceso nel fondo del mare, il Taimyr fosse per immergersi in mezzo ad un enorme nuvolone color della pece, ma attraverso il quale si scorgessero scintillare gli astri. Da che cosa provenivano quelle luci?... Da quali esseri perduti in fondo a quel tetro vallone sottomarino, in mezzo ad una continua oscurità, venivano proiettate?... Quali pesci sconosciuti, quali crostacei, quali mostri dalle forme forse mai create dalla fantasia umana, vivevano, e si moltiplicavano laggiù?... Il battello scendeva, scendeva, immergendosi sempre fra quelle acque tenebrose, da nessun raggio di sole mai illuminate e che forse nessun occhio umano aveva prima d'allora scrutate, ma anche le luci crescevano, si moltiplicavano. Ora erano semplici punti luminosi, ora guizzi, ora lampi ed ora come ondate che parevano prodotte da getti di metallo fuso. Mac-Doil e Sandoë, l'ingegnere ed Orloff, cogli occhi quasi incollati al cristallo, guardavano senza quasi fiatare. I primi campioni di quel mondo sottomarino cominciavano ad apparire attorno al battello, innalzandosi dal fondo. Quali strane e paurose creature si contorcevano dinanzi al cristallo! La luce elettrica, che era stata bruscamente accesa nel salotto e che faceva scintillare le due grandi lenti, permetteva di distinguerli perfettamente. Erano pesci che somigliavano alle anguille, lunghi mezzo metro, di colore oscuro-lucido, cogli organi della locomozione quasi rudimentali e con delle bocche larghissime ed informi e somiglianti ai macrurus;[1] erano pesci cilindrici, col capo adorno di una serie di tentacoli e somiglianti alle olutarie, e che avevano gli occhi fosforescenti; erano lunghi serpenti di mare, o somiglianti a questi, sottili come nastri, che s'intrecciavano fra di loro e che sferzavano le lenti colle loro esili code o pesci di forma piatta, formati di una materia trasparente come i leptocephalus o certe strane meduse in forma di globi luminosi e che avevano dei tentacoli lunghissimi e piumati. Il fondo era vicino ed altri strani esseri apparivano entro quel cupo vallone, ma quale spettacolo di luci variopinte!... Ecco le splendide brisinghe, queste stelle gigantesche, mollemente coricate su quel fondo tappezzato d'una vegetazione non ancora conosciuta e dai cui corpi sgorgavano sprazzi di luce sanguigna, o violacea, o gialla o azzurrina come se le loro punte fossero coperte delle più belle e più luccicanti gemme della terra; ecco le alte isidi che scintillano e che si lasciano ondeggiare fra quelle acque profonde, illuminando bande di crostacei dalle forme barocche che strisciano sul fondo; ecco file lunghissime di anellidi che s'alzano fra ammassi di materie sconosciute, forse da avanzi di antiche madrepore della prima età, mostrando le loro branchie penniformi simili a nastri scintillanti come smeraldi, come ametiste o come granate; più sotto gli spongiari dalle forme svariate ed eleganti che aprono e chiudono le loro immense corolle fulgide, e molluschi che si trascinano spargendo all'intorno luci azzurre o rosso-pallide, come zaffiri o rubini viventi e miriadi di larve di crostacei dagli occhi fosforescenti. Ad un tratto quell'oscurità quasi completa, rotta solo dall'intrecciarsi di luci variopinte, ma che si mantenevano solo sul fondo senza diradare le cupe tinte delle acque sovrastanti, sparisce ed un immenso sprazzo di luce intensa, bianca, si diffonde e sembra correre dinanzi al battello, illuminando come in pieno giorno quel vallone sottomarino. Il Taimyr ha preso il suo slancio: le eliche di poppa si sono messe in movimento ed il gigantesco fuso scivola fra quelle acque profonde, mantenuto laggiù dalle eliche laterali, mentre la sua potente lampada elettrica della gabbia di poppa lancia i suoi fasci luminosi. Gli abitanti sottomarini, abbagliati da quella luce che scorre sul fondo del vallone, forse spaventati, non avendo mai veduto un raggio luminoso scendere laggiù, in quel regno delle tenebre, si agitano burrascosamente e fuggono in tutte le direzioni. Balzano in alto, si contorcono, poi scompariscono in mezzo alla vegetazione sottomarina, cercando un rifugio sotto le sabbie e la melma. Ora sono enormi granchi somiglianti ai ragni di mare che balzano sulle loro lunghe e sottili zampe; ora sono tribù di serpenti di mare dai corpi cilindrici e dalla pelle bruno-nera o giallo-biancastra, che s'alzano e che poi si lasciano cadere come se fossero colpiti da una scarica elettrica; ora sono pesci strani, mal conformati ed incapaci di spingersi fino alla superficie del mare, che si mostrano un istante e che poi fuggono, o dei mostri forniti di numerose gambe e di robuste branche, o dei cefalopodi orridi che agitano pazzamente i loro tentacoli armati di ventose. Il battello, sfolgorante di luce, s'avanza sempre sul fondo marino mostrando agli stupiti cacciatori nuove meraviglie, nuovi esseri, nuove sorprese. Talora passa sopra piccole pianure sulle quali strisciano migliaia di crostacei di tutte le forme, che assomigliano ora alle squille, ora alle caridine, ora ai palemonidi; ora rasenta i margini d'un abisso dove si scorgono incrostate lunghe file di grandi conchiglie che hanno riflessi di madreperla o i colori dell'iride e che sembrano appartenere alla specie delle haliotes giganti, che sono così numerose nei mari settentrionali della Cina e del Giappone; o scende in certi avvallamenti dalle pareti tagliate a picco e dove, illuminati dalla luce elettrica, appariscono gigantesche tridacne che hanno un metro di diametro e che mostrano i loro bordi semiaperti pallidi azzurri; o rosse gorgonie le cui fronde reticolate si allargano come ventagli o centinaia di chatodontidae somiglianti a quelle che si trovano sotto i climi temperati e di forme strane e scintillanti di tinte rosee, verdi, gialle a strisce svariate, o certe specie di grosse actinie in forma di masse cilindriche irte di tentacoli conici e che rassomigliano a grandi fiori azzurri; ed ora il Taimyr sfonda coll'acuto sperone ammassi di meduse che galleggiano liberamente o che si tengono afferrate sulle cime di certi bizzarri spongiari, o lacera dei banchi fitti di crostacei diafani. Di tratto in tratto, sono invece avanzi di altri pesci che appariscono su quei fondi dell'Oceano Artico. Ora il fascio di luce mostra degli scheletri di trichechi brulicanti di crostacei che si disputano l'ultimo brano di carne, o di foche, o di narvali i quali sembrano tendere ancora minacciosamente il lungo corno di avorio. Anche lo scheletro di un'enorme balena appare, incastrato fra due rocce. Le costole gigantesche, le mascelle immense ma ormai spoglie di carne e le possenti pinne sono coperte d'incrostazioni, di larve di crostacei, di granchi armati di robuste pinze, di serpenti di mare e di conchiglie. Chissà da quanto tempo riposa là sotto quel gigante dei mari; forse da parecchi lustri, forse da secoli; ma ben altri ne passeranno prima che le enormi ossa possano venire distrutte dai sali marini o polverizzate dalle branche di quegli abitanti del fondo marino. Ma anche quella montagna di ossa scompare ed il battello, che prosegue la sua marcia senza arrestarsi, collo sperone sfonda un kayak esquimese galleggiante fra due acque. Il leggero canotto di pelle si spezza a metà ed i due cacciatori scorgono, con un brivido, sfuggire dall'interno uno scheletro umano. Chi sarà quel povero abitante del paese del gelo che la gran voragine liquida ha inghiottito?... La misera spoglia volteggia un istante fra le acque e va a coricarsi sul fondo dove viene subito coperta da una miriade di affamati granchi. Ma ecco che qualche cosa di nero si delinea all'estremità del gran fascio di luce, sul margine d'un abisso e che assume proporzioni colossali. L'ingegnere ed Orloff si scambiano un lungo sguardo, mentre Sandoë e l'ebridano si staccano dal vetro, facendo istintivamente un passo indietro. Quella massa aveva delle forme troppo note a tutti quattro per potersi ingannare. — Una delle loro navi, forse — mormorò l'ingegnere. — Forse — rispose Orloff. — Lo sa il timoniere? — Sì. — Voglio vederla. — Il Taimyr virerà di bordo. — Siamo?... — A ventiquattro miglia dalla costa, se i miei calcoli sono esatti. Il battello rallentava la marcia e virava lentamente, in modo da far cadere il fascio di luce su quella massa. I quattro uomini si erano addossati alla lente di tribordo e la guardavano attentamente, mentre i loro volti tradivano una viva emozione. — Una nave? — chiese finalmente Mac-Doil, con voce soffocata. Né l'ingegnere, né Orloff risposero: guardavano sempre e pareva che tutta la loro attenzione fosse concentrata su di un punto solo di quella grande massa. In pochi slanci il Taimyr giunse vicino. Sì, quella massa nera era la carena d'una nave di dimensioni ragguardevoli, semicoricata sul tribordo, ma priva d'alberi e di manovre. Aveva entrambi i fianchi fracassati come se avesse sopportata una violenta, irresistibile pressione lungo le costole, e dalle squarciature erano scivolate fuori casse e barili che si erano ammonticchiati disordinatamente le une sopra gli altri. A poppa di quel legno, sospeso ad un'asta, si vedeva pendere uno straccio rossastro, l'avanzo d'una bandiera. Il Taimyr continuava a virare di bordo, descrivendo un grande cerchio intorno alla nave naufragata e proiettando su di essa il fascio luminoso della lampada elettrica. Ad un tratto, mentre passava dinanzi alla poppa di quella nave, l'ingegnere afferrò Orloff per un braccio e gli additò delle lettere che si scorgevano sotto il quadro, dicendogli con voce commossa: — Guardate!... — Terror — lesse Orloff. UN DRAMMA POLARE Il Terror!... Mac-Doil non era uno scienziato, non aveva mai navigato nei mari artici, ma quel nome era stato per lui una rivelazione. Il Terror!... Il nome di quella nave era troppo noto in tutte le regioni dell'America settentrionale ed il cacciatore lo aveva udito più volte nominare sulle spiagge dell'Alaska unitamente a quello d'un altro vascello, ed a un nome celebre che ricordava una delle più tremende catastrofi svoltasi in quelle regioni di ghiacci. Udendo Orloff a pronunciarlo, si era volto verso l'ingegnere, il quale curvo verso il vetro, non staccava gli sguardi da quel legno naufragato che a poco a poco imputridiva in fondo al vallone sottomarino. — Il Terror... — esclamò. — Una delle navi di Franklin, forse?... Parlate, signore. L'ingegnere fece col capo un segno affermativo. — Ma l'Erebus?... — Non sarà lontano. — Lo vedremo?... — Lo spero. — Continuiamo? — chiese Orloff. — Sì — rispose l'ingegnere. Il secondo aveva accostato un dito ad un campanello elettrico che doveva corrispondere col timoniere. Il Taimyr aveva descritto mezzo giro a tribordo e riprendeva la sua corsa verso il nord, seguendo sempre il vallone. La massa del Terror spariva a poco a poco di passo in passo che il battello si allontanava, ma l'ingegnere lo guardava sempre, mentre sul suo maschio volto si dipingeva una viva commozione. Quando scomparve fra l'oscurità, un sospiro gli uscì dalle labbra e Mac-Doil lo udì mormorare a più riprese: — Disgraziati!... Ecco a cosa li aveva tratti il fascino del polo!... Il Taimyr continuava la sua marcia, ma non si avanzava colla velocità di prima e descriveva delle lunghe serpentine, esplorando il fondo del vallone. Di quando in quando, in mezzo ai crostacei che popolavano quelle rocce e quei crepacci, apparivano degli oggetti che dovevano aver appartenuto a delle navi. Ora erano delle ancore alle cui ghirlande si vedevano attaccati ancora dei pezzi di catene o di gomene; ora era qualche canotto sfondato, poi dei pezzi di manovre le cui sartie si mantenevano ritte come se tendessero a ritornare a galla o dei pezzi di pennoni trattenuti laggiù da qualche armatura pesante, o dei frammenti di tavole fasciate di lastre di rame e perfino una slitta che giaceva rovesciata ed attaccata ad un avanzo di nave, ad un pezzo di sperone col bordo di metallo. Un quarto d'ora dopo, dietro una rupe fra il fascio luminoso della lampada elettrica, si videro apparire due tronconi d'alberi, ma privi di pennoni e di manovre. — Eccolo — disse l'ingegnere. — Sì — rispose Orloff. Il battello rallentava la sua marcia e manovrava in modo da girare attorno alla rupe. Appena l'ebbe oltrepassata, una seconda nave apparve, pure semirovesciata e coi fianchi squarciati come l'altra. Il suo ponte era intatto, la sua tolda si scorgeva perfettamente sgombra, ed aveva i boccaporti aperti. Appena la luce la colpì in pieno, da quelle aperture si videro irrompere legioni di mostri marini, pesci di nuova specie, calamari mostruosi, crostacei di forme strane. Disturbati da quello sfolgorìo che penetrava attraverso le squarciature della carena illuminando l'interno della stiva, s'affrettavano a lasciare il loro tenebroso ricovero dove, forse da lunghi anni, avevano goduto una tranquillità perfetta. Il Taimyr passò al largo per evitare le punte rocciose contro le quali la misera nave si era incastrata, e s'arrestò di fronte alla poppa sul cui quadro si vedevano spiccare delle lettere che avevano ancora degli scintillìi d'oro. — L'Erebus — disse Orloff. — Sì, la seconda nave — rispose l'ingegnere. — Ecco il punto preciso dove si è svolto il dramma polare, che ha costato all'Inghilterra uno dei suoi più valenti ammiragli. — Che sia morto qui? — chiese Mac-Doil. — No — rispose l'ingegnere. — Erano queste le navi che cercavate? — Sì. — Ma a quale scopo?... — Per ricostruire la drammatica istoria di quella miseranda spedizione. La conoscete voi?... — Ne ho udito parlare vagamente nell'Alaska, parecchi anni or sono. Si parlava di spedizioni organizzate su vasta scala per cercare gli avanzi di quel grande disastro e trovare i superstiti perduti sul mare polare. — Ascoltatemi adunque ed apprenderete delle notizie che forse ancora s'ignorano in Europa, quantunque trentadue navi inglesi ed otto americane comandate dai più intrepidi esploratori polari, quali Austen coi vascelli Risolute, Intrepid, Assistance e Pioneer, Penny colla Lady Franklin e la Sofia; Kellet col Resolute e l'Intrepid, Collinson, Mac-Clintok ed altri, abbiano investigate queste regioni passo a passo, per dilucidare la misteriosa e drammatica scomparsa di quei centotrenta uomini. «Era la spedizione più numerosa e la meglio organizzata che fosse stata allestita nei porti inglesi, e l'uomo che la guidava era il più intrepido marinaio che vantasse in quell'epoca l'Inghilterra. «Il nome di John Franklin era popolare in Europa ed in America. Soldato valoroso aveva preso parte a parecchie battaglie navali compresa quella gloriosa di Trafalgar, ed esploratore audace, aveva già fatte non poche scoperte sulle estreme coste dell'America settentrionale. «La scienza era certa d'un successo e non dubitava di veder scoperto il famoso passaggio del Nord-Ovest e fors'anche il misterioso Polo Artico. «Il 26 maggio del 1846 l'Erebus ed il Terror salpavano dalle coste inglesi, accompagnate dagli auguri di tutte le nazioni d'Europa. Centotrenta uomini, scelti fra i migliori ufficiali e marinai le montavano e nulla era stato dimenticato, affinchè le due navi fossero in grado di poter sostenere parecchi svernamenti. «Il 26 luglio la spedizione veniva segnalata dai balenieri della baia di Baffin, poi più nessuno l'aveva riveduta. «Il 1846 trascorse senza che alcuna notizia fosse giunta in Europa, poi il 1847, poi il 1848, il 1849. «Le nazioni marinaresche cominciavano ad inquietarsi e soprattutto gl'inglesi e gli americani. «Cominciarono a nascere dei timori, le ultime speranze si dileguarono ben presto e si diffusero le voci d'una tremenda catastrofe. «L'Inghilterra e gli Stati Uniti allestirono le prime spedizioni, le quali non diedero risultati, ed il mistero continuò a rimanere avvolto nelle tenebre. «Lady Franklin, la coraggiosa consorte dell'ammiraglio, non disperava ancora ed armava altre spedizioni. Nel 1851 allestisce il Prince Albert e lo invia nelle regioni polari, i suoi marinai però non riescono che a scoprire una tenda, eretta sulla punta Walker e che aveva appartenuto alle due navi guidate dall'ammiraglio, ma era vuota. «Nel 1853 arma il Phoènix, senza poter sollevare il velo che si stende sulla sorte delle due navi. Anzi ritorna in Inghilterra priva del comandante, lo sventurato Renato Bellot, scomparso in un crepaccio aperto fra i ghiacci che stava esplorando. «La speranza di ritrovare le due navi ed i loro equipaggi si dileguava a poco a poco, mentre gli anni trascorrevano, ma le spedizioni si succedevano. Si voleva ad ogni costo conoscere la sorte toccata a quei centotrenta coraggiosi perduti fra i ghiacci del polo. «Nel 1859 Mac-Clintock, spinto da lady Franklin, tenta per la terza volta una nuova spedizione e va ad investigare col Tosc, lo stretto che porta ora il suo nome e le coste dell'isola del Re Guglielmo. «Le sue ricerche furono coronate da un successo completo e dopo tredici lunghi anni si poterono finalmente trovare le tracce degli equipaggi dell'Erebus e del Terror e conoscere la triste sorte che li aveva colpiti. «Sulle coste dell'isola del Re Guglielmo si raccolgono i primi avanzi della spedizione: delle zappe, dei badili, degli utensili da cucina, dei cordami, delle vele ed un sestante che portava inciso il nome di Federico Hornbhy seguito da un R ed un N, iniziali degli oggetti appartenenti alla Regia marina inglese. «Intanto il 6 maggio il luogotenente Hosborne, alle ore 11.15 scopriva a quattro miglia dal punto ove erasi accampato coi suoi uomini un cairn, ossia una piramide di sassi entro la quale rinveniva una scatola di latta contenente il rapporto della spedizione di Franklin e che portava la seguente scritta: «"Chi trova queste carte è pregato d'inviarle al segretario dell'Ammiragliato a Londra o se è più comodo, consegnarle al Console Britannico più vicino". «Più tardi ne scopriva un altro più piccolo che portava le seguenti indicazioni: «"Questo segnacolo è stato eretto dalle imbarcazioni dei vascelli Erebus e Terror a Victory Point dell'isola del Re Guglielmo, dove sbarcavano il 22 aprile 1846 abbandonando le loro navi e da dove il 26 partirono in direzione meridionale, con barche montate da slitte". «Intorno ai due cairn si trovarono molti rottami dei due vascelli, vestiari, picconi ecc. che furono poi raccolti da Mac-Clintock. «Per ultimo lo stesso luogotenente, a 69°09' di latitudine Nord e 99°27' di longitudine, presso la foce del Gran Pesce o di Backs rinveniva un battello appartenente agli equipaggi delle due navi, lungo ventisette piedi, largo sette e mezzo, che posava su di una slitta di quercia e contenente uno scheletro umano disseccato e coricato sopra un cumulo di vesti, e poco discosto un secondo scheletro mezzo divorato, due fucili a doppia canna ed ancora carichi, dei libri di devozione, parecchi orologi da tasca, delle forchette e dei cucchiai d'argento, delle munizioni, quaranta libbre di cioccolato, un po' di thè ed alcuni pacchi di tabacco. «Solo allora si potè ricostruire il viaggio fatto dalle due navi e conoscere le diverse fasi del disastro. «Si potè così sapere che la spedizione si era dapprima spinta fino al 77° di latitudine risalendo il canale di Wellington e che quindi era tornata verso l'ovest dell'isola di Cornovaglia e che era stata bloccata dai ghiacci nei pressi dell'isola Becckey. «L'anno seguente la spedizione veniva arrestata dai ghiacci a 69°05' di latitudine ed a 98°23' di longitudine a circa quindici miglia dalla costa nord-ovest dell'isola del Re Guglielmo. «Quel secondo svernamento doveva essere fatale. «Per venti lunghi mesi le due navi erano state trascinate attraverso lo stretto di Mac-Clintock finché i loro equipaggi, avendo perduta ogni speranza di rivederle libere le avevano abbandonate. Di centotrenta erano rimasti cento cinque poiché nove ufficiali e quindici marinai erano già morti e lo stesso ammiraglio aveva cessato di vivere l'11 giugno del 1847. «Quei disgraziati, guidati da Crozier comandante del Terror e da Fitz James comandante dell'Erebus il 22 aprile del 1848 erano approdati all'isola del Re Guglielmo ed il 25 si erano messi in marcia verso il sud. «Il loro progetto era di giungere alla Riviera del Gran Pesce, ma quei lunghi svernamenti e lo scorbuto dovevano averli indeboliti e resi incapaci di affrontare un tale viaggio. «Cosa sia accaduto poi, ancora lo si ignora, ma lo si suppone e qualche cosa si è potuto ancora sapere. «Si sa che la carovana, decimata dalla fame e dalle sofferenze fu incontrata da alcuni esquimesi nei pressi della baia di Washington, e che furono ben tosto abbandonati. Sembra che alcuni cercassero di passare lo stretto di Simpson, ma che vi giungessero troppo tardi per tentare la traversata sui ghiacci. «È certo che dovettero colà attendere il nuovo inverno lottando colla fame. Dovevano essere ancora una diecina e si crede che portassero con loro i libri di bordo, i giornali e gl'istrumenti. «Cosa è accaduto di loro? Probabilmente quegli ultimi superstiti della grande spedizione, sono andati a perire di fame nei pressi di Starvation Cove, mentre i loro compagni spiravano sulle nevi della costa o venivano inghiottiti dall'oceano apertosi sotto i campi di ghiaccio. «Chissà quali orribili scene si sono svolte fra quei disgraziati. Gli avanzi rinvenuti in una caldaia abbandonata fra i ghiacci erano troppo riconoscibili per ingannarsi sulla loro natura. Le scene d'antropofagia della Medusa che hanno inorridito l'Europa, si sono ripetute anche qui, fra i ghiacci e le nevi della regione polare.» L'ingegnere tacque, mentre Mac-Doil e Sandoë lo guardavano come se ascoltassero ancora la sua voce. Una brusca scossa che li fece rotolare l'uno addosso all'altro, li strappò dalla loro immobilità. — Fulmini! — esclamò Sandoë, aggrappandosi allo sportello. — Risaliamo — disse Orloff. Il Taimyr infatti abbandonava il fondo del mare e rimontava con una velocità fulminea, inclinato a poppa. Il suo sperone fendeva le acque con grande impeto, facendo vibrare le lastre metalliche, mentre lungo i vetri scorrevano due larghi fiotti di spuma candidissima. La luce tornava a scendere dalla gabbia di poppa mentre la lampada elettrica era stata spenta. Il fuso gigante in un minuto varcò l'enorme strato d'acqua, si raddrizzò come un cavallo che s'inalbera slanciandosi più di mezzo fuori dalle onde, poi ricadde con cupo fragore, sollevando due montagne d'acqua. Le eliche di poppa, che erano state fermate si rimisero tosto in movimento ed il Taimyr si slanciò verso il sud, abbandonando frettolosamente quei tristi paraggi. GLI ESQUIMESI Il Taimyr continuava a scendere verso il sud con una velocità di diciotto nodi, puntando a quanto pareva, verso la penisola di Adelaide che fa parte della costa settentrionale dell'America, e che si stende fra lo stretto di Vittoria e la grande penisola di Boothia. Pareva che l'ingegnere avesse molta fretta di scorgere la costa americana, poiché il battello si scagliava con impeto irresistibile contro i ghiacci che sbarravano il passo, senza deviare d'una sola linea. Quella massa d'acciaio agiva come un ariete di potenza incalcolabile e sfracellava gli streams, i palks, gli hummoks ed assaliva perfino i banchi aprendosi un passaggio con speronate formidabili. Dove lo guidava Orloff, che aveva ripreso il suo posto nella gabbia di prora?... Mac-Doil e Sandoë se lo chiedevano, senza poter indovinare la nuova rotta del battello, poiché anche l'ingegnere era ridiventato silenzioso. Il 28 maggio il Taimyr avvistava le coste settentrionali della penisola di Adelaide, ma invece di continuare la sua corsa verso terra, deviò verso l'est come se avesse l'intenzione di dirigersi verso la baia di Elliot che si trova sulla penisola di Boothia. La sera istessa però cambiava nuovamente rotta e piegava verso il sud inoltrandosi in quel profondo golfo che formasi presso la foce della Riviera del Gran Pesce e l'indomani si arrestava presso una costa deserta; sulla quale, arenati fra i ghiacci, si scorgevano alcuni di quei piccoli canotti di pelle, colle costole formate di ossa di balena, usati dalle tribù esquimesi per la caccia delle foche e delle morse o per la pesca dei narvali. L'ingegnere ed Orloff erano saliti sulla piattaforma ed i due cacciatori, curiosi di sapere cosa stava per accadere, si erano affrettati a raggiungerli. — Devono essere morti in questi dintorni — disse Nikirka ad Orloff, dopo d'aver osservato attentamente quelle spiagge che erano ancora coperte di nevi e di ghiacci. — Lo credete? — chiese il secondo. — Sarei certo di non ingannarmi. — Sperate di trovare le loro tracce?... — Sarà difficile essendo trascorsi ormai così tanti anni, ma degli oggetti che appartenevano a quei disgraziati, spero di trovarne ancora nelle mani degli esquimesi. Ah! Quale fortuna se potessi ricuperare i giornali di bordo almeno. — Mi sembra però che la costa sia deserta. — Se vi sono quei kayaks, — disse l'ingegnere additando i canotti, — ciò significa che i loro proprietari non devono essere lontani. — È probabile; sbarchiamo?... — Sì. — Andate a prendere i vostri fucili — disse Orloff ai due cacciatori. — Ci accompagnerete. Poco dopo i quattro uomini seguiti dal molosso sbarcavano su di un banco di ghiaccio, dirigendosi verso la costa la quale sorgeva ad un chilometro di distanza e s'innalzava per un centinaio di metri. Sulla neve rammollita dal sole, si scorgevano parecchie orme umane lasciate probabilmente dai proprietari dei canotti e che parevano recentissime. Pochi uccelli svolazzavano in aria o saltellavano in mezzo alla neve. Vi erano dei gabbiani, alcuni borgomastri (larus glaucus) e pigolavano alcuni piccoli plectrophanes nivales, graziosi uccelli delle nevi ed i piccolissimi auk che gli esquimesi prendono con certe reti simili a quelle che noi adoperiamo per impadronirci delle farfalle. Parevano invece abbastanza numerosi i piccoli animali, poiché di tratto in tratto si scorgevano delle martore dette di Charsa, lunghe sessanta centimetri e con una ricca coda di oltre quaranta, col pelame d'una bellissima tinta giallo-brillante e che sono così audaci da assalire perfino i cani; o delle mustele, bellissimi animaletti che raggiungono una lunghezza di quarantacinque centimetri e che hanno il pelame bruno, la testa bianca-grigiastra ed il petto macchiato di giallo e che si paga, perfino ottanta lire. Il molosso appena le scorgeva si slanciava sulle loro tracce, giungendo sempre tardi, poiché s'affrettavano a cacciarsi nelle loro profonde tane. Superata la costa però, il molosso si trovò improvvisamente dinanzi ad una superba lince polare, che pareva fosse allora uscita da un gruppo di larici. Prima che i due cacciatori potessero mettere mano ai fucili il cane l'aveva già strangolata, malgrado i colpi d'artiglio di quell'abitante delle regioni nevose. Queste linci polari sono le più grosse di tutte, essendo alte più di mezzo metro e lunghe uno, senza calcolare la coda che misura quindici o venti centimetri. La loro pelle è bellissima, grigio-argentea, con poche macchie sul dorso e sui fianchi ed il loro muso somiglia un po' a quello dei giovani leoni avendo anche attorno al capo una piccola criniera grigia. Bizzarri poi sono i loro orecchi adorni sulle punte di due pennacchi biancastri e diritti. Su tutte le coste settentrionali dell'America, questi animali sono accanitamente cacciati, pagandosi la loro pelle da quattro a sei dollari ed essendo la loro carne tutt'altro che cattiva. Si calcola che in media ben quarantamila ne vengano uccise annualmente. Mentre Mac-Doil s'affrettava a caricarsi di quella selvaggina, contando di regalarla al cuoco di bordo perché ne ricavasse un buon arrosto, l'ingegnere era salito su di una rupe coperta di ghiaccio, dalla cui cima si poteva dominare un vasto tratto di terreno. — Del fumo! — esclamò. — Lontano? — chiese Orloff. — A meno d'un chilometro. Lo vedo alzarsi dietro una curva della costa. — Ed io vedo un uomo che si avanza verso di noi — disse Sandoë. — Lo si direbbe un piccolo orso bianco, però deve essere un esquimese. — Buono — disse Orloff. — Ci risparmierà forse una gita inutile. Tutti gli sguardi si erano fissati verso il luogo che il cacciatore indicava. Un uomo, che fino allora doveva essersi tenuto nascosto dietro a qualche ripiegatura dello strato di neve, s'avvicinava con una certa prudenza. Era un individuo di statura bassa, inferiore alla media, assai grosso, forse però in causa del vestito di pelle d'orso che lo copriva e di altre pellicce che doveva aver sotto. Un grande cappuccio che pareva formato di pelle di cane gli copriva la testa ed in mano teneva un arpione, la cui punta pareva formata da un pezzo di corno di narvalo assai acuminato. L'ingegnere gli mosse risolutamente incontro tendendo ambe le braccia in segno di pace e si arrestò a dieci passi da lui. Quell'esquimese pareva giovane assai, forse non toccava i trent'anni. Aveva il volto largo e gli zigomi assai sporgenti come tutti quelli della sua razza, la fronte stretta e bassa, il naso piatto, gli occhi un po' inclinati come i mongoli, vivi ed intelligenti, i capelli lunghi, ruvidi e neri e la pelle quasi olivastra ed imbrattata di grasso. Egli guardò per alcuni istanti con curiosità l'ingegnere ed i suoi tre compagni, poi disse: — Nalegah tima. Invece di rispondere a quelle parole che significavano «capo, salute» l'ingegnere lo interpellò in inglese, chiedendogli chi fosse e dove risiedesse la sua tribù. Con sua viva sorpresa l'esquimese gli rispose nell'eguale lingua, ed abbastanza comprendibile, quantunque infiorata di vocaboli che dovevano appartenere alla lingua natìa e fors'anche a quella danese. — Io mi chiamo Kalutunak, — rispose, — la mia tribù risiede dietro a quelle montagne di ghiaccio che sorgono sulla spiaggia, ove vedi alzarsi quelle colonne di fumo. E tu, da dove vieni?... — Dai lontani mari dell'occidente. — Con una di quelle grandi case galleggianti forse?... — Sì, ma che somiglia ad una balena. — Io vorrei vederla. Sono molti anni che non ne compariscono su queste coste, come sono moltissimi anni che non vedo uomini dalla pelle bianca. Poi guardando la lince polare che Mac-Doil teneva in ispalla, riprese: — Me la regali?... Kalutunak non ha più vitello marino nella sua capanna e le foche non sono ancora giunte su queste spiagge. — Kalutunak porterà alla sua capanna la lince polare e se la mangerà, se mi dirà da chi ha imparato la lingua degli uomini bianchi. — L'ho appresa da un uomo venuto dai mari del nord molti anni or sono e che mio padre aveva raccolto, morente di fame, sulle nostre coste. — Quando? — chiese l'ingegnere, con emozione. L'esquimese si guardò le dita come se contasse, poi disse: — Sono trascorsi tredici inverni. Orloff e l'ingegnere si scambiarono un lungo sguardo, poi quest'ultimo riprese: — Era solo quell'uomo?... — Sì, perché tutti i suoi compagni erano morti di fame e di stenti. — E dove erano morti?... — Su una costa deserta, lontana da qui un'ora di slitta. — È ancora vivo quell'uomo bianco?... — No, è morto anche lui poco tempo dopo. — Ha lasciato degli oggetti alla tua tribù?... — Sì, degli istrumenti che noi non conosciamo e che l'angekok conserva ancora. — Potresti condurmi sulla spiaggia dove sono morti i compagni dell'uomo bianco? — Sì, se lo vorrai. — Se mi conduci ti regalo un fucile. Gli sguardi dell'esquimese mandarono un lampo. — E m'insegnerai ad adoperarlo? — chiese. — Sì. — E mi darai della polvere?... — Te ne darò. — Così ne avremo due. — Perché due?... — Perché mio padre possedeva quello dell'uomo bianco, ma la polvere manca e non tuona più. — Conducimi alla tua tribù. — Seguimi. I quattro europei e l'esquimese si misero in marcia, seguendo la costa la quale era interrotta da alte rupi rivestite ancora del loro manto invernale, ma però lasciavano vedere, alle loro basi, dei tratti sgombri, avendo già il sole cominciato a sciogliere le nevi ed i ghiacci. In quei piccoli spazi scoperti si erano affrettate a spuntare timidamente le prime pianticelle primaverili. Si scorgevano già dei piccoli ranuncoli, delle sassifraghe, le graziose lychinis dalla corolla purpurea che sfidano anche le nevi ed i piccoli monties dai bianchi petali. In certi crepacci, riparati dai freddi venti del settentrione, si vedevano anche dei papaverini dai petali dorati e qualche gruppetto di quei salici piccini piccini, alti appena otto o dieci centimetri. Mezz'ora dopo gli europei giungevano al campo esquimese, il quale era situato in fondo ad una specie di fiord, riparato da altissime rupi tagliate a picco. Si componeva di una mezza dozzina di capanne di ghiaccio, di forma circolare, munite di piccole finestre e d'una galleria bassa e stretta, appena sufficiente a lasciar passare un uomo trascinandosi carponi, e che serviva d'entrata, mentre impediva la dispersione del calore interno. La piccola tribù, composta di otto uomini, di cinque o sei donne, di alcuni ragazzi e d'un numeroso branco di cani, avvisata da Kalutunak s'affrettò ad accorrere incontro agli europei con a capo l'angekok, personaggio importante che riassume le funzioni di medico, di stregone, di consigliere generale e sovente di capo, quando le tribù sono poco numerose. Tutti quegli uomini erano di statura piccola, tarchiati, e robusti; indossavano casacche di pelle di volpe o di foca, calzoni di pelle d'orso bianco; quelli delle donne però erano fatti con una certa eleganza, bianchi e tinti qua e là a sfumature rosse ed uniti strettamente con nervi d'animali. L'angekok, che come distintivo della sua alta carica portava una collana di pezzetti d'ossa di balena, invitò cortesemente gli europei ad entrare nella sua capanna. Quantunque l'ingegnere avrebbe preferito rimanere fuori, sapendo già come si trovano male gli europei in quelle puzzolenti capanne, si vide costretto ad accettare l'invito. S'introdussero tutt'e cinque in uno stretto corridoio e strisciando un dietro l'altro come i serpenti, giunsero nella dimora dello stregone, non senza molti sternuti e molti brontolìi da parte di Mac-Doil, poiché quella galleria era piena di fumo acre ed impregnato d'un nauseante odore di pesce rancido. La capanna era piccola assai, non misurando la volta più di quindici piedi per sei d'altezza e lurida come un porcile. In mezzo, sospesa alla vòlta, pendeva una strana lampada o kotluk formata d'un pezzo di pietra scavata, dalla quale alzavasi una fiamma fumosa che riscaldava un ramino dove di certo bolliva qualche pezzo di foca; intorno alle pareti vi erano delle pelli che formavano il così detto kolopsut e che dovevano servire di letto, poi certi sacchi di pelle contenenti forse dei pezzi di foca o di tricheco arrostiti e conservati nel grasso di balena, poi dei grossi pezzi di sangue gelato, un piatto delizioso per gli esquimesi, quindi arpioni, coltelli, corna di narvalo, ed in tutti gli angoli ossami d'ogni specie e pelli di pesci che esalavano un odore insopportabile di carne corrotta. — Al diavolo lo stregone e la sua capanna — disse Mac-Doil, arrestandosi all'estremità del corridoio. — Sandoë, amico mio, andiamocene o soffocheremo in questo buco. — Non chiedo di meglio — disse il cacciatore. — Preferisco gelare all'aperto. Anche l'ingegnere ed Orloff non si trovavano troppo bene in mezzo a quei profumi diabolici ed a quel fumo fetente che mandava la lampada, ed adducendo il motivo che non potevano sopportare il caldo, s'affrettarono a sloggiare, lasciando lo stregone un po' umiliato per quella ritirata precipitosa. — Che ti venga il crampo — gridò Mac-Doil precipitandosi fuori dalla galleria e respirando a pieni polmoni l'aria fredda sì, ma pura. — Io non so come facciano a vivere in quelle tane da orsi. Cosa ne dite, signor Orloff. — Vi sono abituati, Mac-Doil. — Ma non hanno naso adunque gli esquimesi?... — Anzi l'hanno migliore del nostro, ma si trovano bene nelle loro capanne ed anche in questi deserti di neve. — Se provassero un po' ad abitare le nostre case d'Europa e nei nostri climi, sono convinto che non tornerebbero più mai in questi paesi del freddo. — Ecco dove v'ingannate. Molti naviganti artici hanno condotto in Inghilterra degli esquimesi, ma lo credereste?... Dopo qualche tempo si trovavano male in mezzo alla civiltà, rimpiangevano la loro vita libera e piena di stenti e venivano presi da una nostalgia così acuta, da costringere coloro che li avevano rapiti al paese dei ghiacci a ricondurveli per non vederli morire. — Sembrerebbero frottole, se non avessi udito anch'io raccontare di questi casi. — Gli uomini liberi non possono adattarsi alla nostra civiltà e preferiscono condurre la loro vita errabonda e piena di privazioni, mio caro Mac-Doil. Oh! Pare che ci sia qualche cosa di nuovo e che il signor Nikirka abbia potuto ottenere quanto desiderava. — Ma che cosa? — chiese Mac-Doil. — Zitto: lo saprete poi. AVANZI DELLA SPEDIZIONE DI FRANKLIN Mentre chiacchieravano, l'ingegnere aveva avuto un lungo colloquio collo stregone della tribù e con Kalutunak, che era il solo che conoscesse l'inglese, avendo suo padre ospitato l'uomo bianco che era giunto dalle regioni settentrionali diciassette anni prima. Quel colloquio doveva aver avuto buoni risultati, poiché poco dopo lo stregone aveva portato all'ingegnere una carabina di fabbrica inglese adorna d'una targhetta d'argento su cui stava scritto: Fitz-James, cioè il nome del comandante dell'Erebus, una delle due navi della spedizione di Franklin; un cronometro, ma già guasto, su cui si scorgevano un N e un R, iniziale degli oggetti appartenenti alla Regia marina britannica; un vecchio orologio d'argento, una bibbia che doveva aver appartenuto al luogotenente Gore, poiché si leggeva questo nome sulla legatura di cartapecora ed una scure. Mancavano però i giornali di bordo, essendo stata adoperata la carta per dare fuoco al fucile quando le capsule erano state consumate. Quegli oggetti, ormai non vi era alcun dubbio, avevano appartenuto agli equipaggi della disgraziata spedizione e provavano chiaramente come l'ultimo superstite fosse riuscito a raggiungere le coste del continente americano, ponendo così fine alle infinite supposizioni fatte in Inghilterra ed in America, intorno alla sorte toccata agli ultimi marinai delle due navi. Essendogli però stato riconfermato anche dallo stregone, che alcune miglia più al nord, su di una spiaggia deserta, erano stati rinvenuti dei cadaveri e trovati molti oggetti, l'ingegnere che si era proposto di chiarire l'ultima fase di quel dramma che aveva commosso le nazioni dei due mondi, decise di recarvisi, promettendo alla piccola tribù dei coltelli ed alcune bottiglie d'acquavite. La promessa era troppo attraente per non far risolvere l'angekok ed i suoi sudditi ad accettare, ed essendo il ghiaccio favorevole, fu stabilito di recarsi a quella costa nelle slitte. Quattro di quei leggeri veicoli costruiti con ossa di balena e con corregge di pelle di foca, furono tolti da una capanna di ghiaccio, che serviva di magazzino alla piccola tribù, ed a ciascuna furono attaccati dieci cani disposti su una sola fronte, ma con un guinzaglio lungo ben venti piedi per mantenerli lontani dai pattini. I quattro europei vi presero posto, accompagnati dall'angekok, da Kalutunak e da due giovani esquimesi armati di fruste dal manico corto, e colla correggia lunga ventiquattro piedi, di pelle di foca non conciata, più larga all'estremità anteriore che posteriore e terminante in un pezzo di nervo indurito, istrumento terribile nelle mani di quei cocchieri, poiché con un solo colpo sono capaci di strappare un pezzo di pelle al cane disobbediente. Ad un fischio dei conduttori, i cani partirono di galoppo mettendo dei latrati lamentevoli, e procedendo disordinatamente da principio, tirando ognuno dal suo verso ed a suo capriccio, ma ai primi scoppiettìi delle lunghe fruste, che dovevano ben conoscere quanto erano pericolose pei loro dorsi, presero un'andatura regolare e così rapida, da poter percorrere dieci chilometri all'ora. Questi animali, così necessari pei popoli perduti ai confini del mondo abitabile, e senza i quali non potrebbero forse vivere, sono di statura piuttosto alta toccando comunemente i sessanta centimetri. Hanno gli orecchi diritti, il pelo fitto e lanoso, la coda villosa e penzolante, gli occhi obliqui ed astuti come quelli dei lupi, animali cui somigliano sotto molti aspetti. Si sono molto vantati questi cani, ma si è molto detto e scritto erroneamente e sono ben lungi dal somigliare ai nostri. Rendono preziosissimi servigi, è vero, poiché sono capaci di trascinare in dieci una slitta carica di quattrocento chilogrammi, percorrendo perfino sessanta ed anche ottanta chilometri al giorno, ed aiutano efficacemente i loro padroni nella caccia, ma non sono affatto affezionati e non obbediscono che per paura della frusta. Sono ladri, scaltri, cattivi quando possono esserlo senza tema di correzioni e diventano facilmente selvatici. Cercano tutti i modi per rovesciare le slitte che trascinano o di condurle in mezzo agli ostacoli, per sbarazzarsi dei loro padroni e se non temessero la frusta, sarebbero capaci di strozzarli, né più né meno come farebbero i lupi. L'ingegnere ed i suoi compagni fecero ben presto l'esperienza della pessima educazione di quei cani. Malgrado le grida dei conduttori e gli scoppiettìi minacciosi delle fruste, si azzuffavano sovente fra di loro imbrogliando la lunga correggia ed obbligando gli uomini a discendere per isbarazzarli, o cercavano di trascinare le slitte sull'orlo dei crepacci o si ponevano ad inseguire le volpi o le mustele che vedevano apparire, essendo questi cani valenti cacciatori, più per loro conto che pei loro padroni. Fortunatamente vi era Kamo, il quale abituato a mantenere in ordine i cani del Kamsciatka, che sono peggiori di quelli esquimesi, con brontolìi minacciosi, accompagnati da qualche sapiente colpo di zampa ben applicato, costringeva i trottatori a riprendere la via diritta. Dopo un'ora di corsa più o meno disordinata, ma pur rapidissima, le quattro slitte giungevano su di una spiaggia che formava una piccola baia assai profonda, ingombra in gran parte di ghiacci e difesa da rupi tagliate a picco. Su una piccola pianura, ancora coperta di neve, l'ingegnere notò subito una croce semiatterrata, costruita con due rozze tavole strappate a qualche battello e piantata sopra un tumulo di vaste proporzioni. — Riposano là, i compagni dell'uomo bianco? — chiese a Kalutunak. — Sì — rispose l'esquimese. — Da chi sono stati sepolti? — Dall'uomo bianco aiutato da mio padre. — Quanti erano?... — Non lo so, poiché non trovarono che degli avanzi di scheletri. Gli orsi bianchi avevano banchettato colle carni di quegli uomini. L'ingegnere ed i suoi compagni scesero dalle slitte e s'appressarono al tumulo scoprendosi il capo. Intorno a quella tomba, seminascosti dallo strato di neve di già in parte sciolta dal sole, si scorgevano gli avanzi d'una slitta, la poppa semifracassata d'una piccola baleniera, dei cocci di vetro nero e degli stracci. I due cacciatori ed Orloff, dietro ordine dell'ingegnere, scavarono la neve intorno alla tomba sperando che sotto vi fossero degli oggetti appartenenti a quelle vittime dei viaggi polari, senza però alcun frutto. Forse l'ultimo superstite di quell'ecatombe o gli esquimesi, avevano portato via ogni cosa. Forse scavando più innanzi e mettendo allo scoperto gli avanzi di quei disgraziati, avrebbero potuto trovare qualche oggetto, ma l'ingegnere non l'osò. D'altronde ormai, sapeva abbastanza intorno alla fine miseranda di quella spedizione, ed un oggetto di più non avrebbe di certo servito a fare maggior luce sulle ultime e dolorose vicende degli equipaggi dell'Erebus e del Terror. — Ritorniamo — disse. — Questo luogo è troppo triste. Risalirono nelle slitte e tornarono al campo esquimese, dove il signor Nikirka ebbe un ultimo colloquio con l'angekok e con Kalutunak; poi verso sera i quattro europei tornarono al battello portando con loro il fucile, il cronometro, la scure e la bibbia appartenenti alla spedizione di Franklin. — Corna di narvalo — disse Sandoë, quando si trovò solo con Mac-Doil. — Vedremo cosa scaturirà da tutte queste gite e da questi colloqui. Che il nostro viaggio sia finito, Mac-Doil? — Non saprei cosa dirti, per centomila balene! — esclamò l'ebridano. — Pare che l'ingegnere avesse un grande desiderio di sapere che cosa era accaduto degli equipaggi dell'Erebus e del Terror, ma ora che lo sa, dove vorrà andare?... — Che vada a cercare qualche altra nave naufragata o degli altri morti?... — Al diavolo!... Che viaggio funebre!... — O che si risolva a tornarsene in Europa per portare in Inghilterra le reliquie della spedizione?... — Sarebbe una bella occasione per tornarmene alle Ebridi coi miei diecimila dollari. — Ed io alle Fär-Öer. — Amico Sandoë, mi pare di vedermi nella taverna di papà Craig a bere un buon bicchiere di gin. — Ed io di ritrovare una certa brava figliuola che mi faceva gli occhietti dolci, la figlia di Lüf-doë il più ricco pescatore delle isole. Diamine! Quando quel ruvidaccio mi vedrà con un sacchetto pieno di dollari fiammanti, non mi dirà più di no. — Andiamo a dormire e sognare le nostre isole. I due cacciatori salirono nelle loro amache e s'addormentarono, cullandosi e sognando l'uno la taverna di papà Craig e l'altro la bionda figlia di Lüf-doë. Quando però all'indomani si svegliarono, furono vivamente sorpresi nell'udire un concerto indemoniato di latrati ai quali si mescevano le grida di Kalutunak. — Corna di narvalo!... — esclamò Sandoë. — Dei cani e l'esquimese a bordo!... Cosa vuol dir ciò?... — Sangue di tricheco!... — gridò l'ebridano. — Temo mio caro, che papà Craig non mi riveda così presto come sperava e che la tua fanciulla ti aspetti un bel po' ancora. — Ma il battello cammina. — Sì, per centomila orsi bianchi!... — Andiamo a vedere dove si va. Si slanciarono nella sala e vedendo scendere la luce dal boccaporto, salirono sulla piattaforma sulla quale videro Orloff che stava fumando flemmaticamente una sigaretta. Il Taimyr navigava colla velocità di una torpediniera ed aveva ormai percorsa tanta via che non si scorgeva più alcuna costa in nessuna direzione. — Signor Orloff — chiese Mac-Doil, che pareva scombussolato. — Dove andiamo noi?... Non vedo più la costa abitata dagli esquimesi. — Gli esquimesi sono già molto lontani — rispose il secondo. — Sono sei ore che corriamo. — Dove andiamo?... — Verso il nord per ora. — Diavolo!... — esclamò l'ebridano, grattandosi il capo e guardando Sandoë il quale pareva avvilito. — E si andrà molto lontano? — È probabile. — A cercare qualche altra nave? — Non credo. — Degli altri morti?... — Credo che l'ingegnere ne abbia avuto abbastanza di quelli dell'Erebus e del Terror. — Ma... cosa fa Kalutunak a bordo?... Mi pare di aver udita la sua voce. — L'ingegnere ha voluto imbarcarlo. Chissà!... Un esquimese può essere utile in queste regioni. — Un esquimese sia pure... ma dei cani!... C'era Kamo per cacciare. — Possono essere utili anche i cani esquimesi. Mac-Doil non insistette e credette miglior partito di mettersi a fischiare un'arietta del suo paese, forse per consolarsi di quel brutto capitombolo delle sue speranze. Fece due o tre giri sulla piattaforma, poi prese Sandoë a braccetto e lo condusse verso la scala, dicendogli con aria rassegnata: — Considerato che papa Craig non potrà darmi da bere, andiamo a trovare il cuoco, amico Sandoë. Anche quello ha del gin eccellente, te lo assicuro. L'Europa è andata a picco; andiamo adunque al nord con questi diavoli d'uomini. IL POLO MAGNETICO La corsa rapidissima del Taimyr, continuata anche alla notte, non durò che venti o ventidue ore, poiché il battello tornò ad arrestarsi presso un'altra costa che sembrava dovesse appartenere alla grande penisola di Boothia. Dinanzi ai banchi di ghiaccio che la stringevano ancora, non vi erano però canotti esquimesi, né si scorgeva alcuna colonna di fumo che indicasse la presenza di qualche campo o di qualche abitazione. Mac-Doil e Sandoë, che si erano già rassegnati e che avevano già stretta amicizia anche coll'esquimese senza però riuscire a strappargli di bocca il motivo del suo imbarco, si erano affrettati a salire sulla piattaforma, curiosi di sapere cosa sarebbe accaduto, ma non trovarono né Orloff, né l'ingegnere. Li videro però comparire pochi istanti prima del mezzodì, portando con loro una bussola ed il sestante per fare il punto. Avendo dato uno sguardo alla prima per accertarsi della direzione seguita dal battello, con loro vivo stupore videro che l'ago calamitato indicante il nord, invece di essere orizzontale, era inclinato a segno da toccare coll'estremità della lancetta il fondo della scatola. — È guasta questa bussola? — chiese Mac-Doil. — No — disse l'ingegnere. — Vi dico, signore, che è squilibrata. — Ed io vi dico che è perfettamente equilibrata e che se non è più orizzontale la colpa non è sua, ma del luogo dove ci troviamo. Signor Orloff, avete finito?... — Sì, signor Nikirka. — Abbiamo?... — 70°5'16" di latitudine Nord e 96°46'45" di longitudine Ovest. — Aggiungiamo un minuto secondo alla latitudine, essendo noi lontani qualche po' dalla costa ed avremo il punto esatto. Giacomo Ross non si è ingannato d'un solo minuto secondo. — Ripartiamo?... — Sì — rispose l'ingegnere, scendendo la scala. — Signor Orloff — chiese Mac-Doil. — Dove siamo noi? — Al polo... — Lampi!... — Ma magnetico. — Cosa volete dire? — chiesero i due cacciatori stupiti. — Che ci troviamo al polo magnetico, vi ho detto. — Ma se siamo presso la costa americana! — esclamò Sandoë. — Vi sono forse due poli?... — Certo, mio caro cacciatore. Quello magnetico che si trova a qualche miglio da noi, essendo situato presso le coste occidentali della penisola di Boothia, a 7O°5'17" di latitudine e 96°46'45" di longitudine Ovest, e quello geografico o reale che si trova al 90°. — Ma vi sono anche al sud due poli? — chiese Mac-Doil. — Sì, però non si sa precisamente dove si trovi quello magnetico, poiché secondo Hansteen sarebbe situato a 70° di latitudine e 190° di longitudine e secondo Duperrey a 70°80' di latitudine e 135° di longitudine. — E chi lo ha scoperto questo polo magnetico boreale? — Giacomo Ross, un nipote di Giovanni Ross, il celebre esploratore che nel 1829 visitò questi luoghi scoprendo la penisola di Boothia. — Ma ditemi, signor Orloff, il polo magnetico, quale influenza esercita sulle bussole?... — Un'attrazione disastrosa pei naviganti, poiché l'ago si sfalsa e non ci darà più, d'oggi innanzi, delle indicazioni esatte. «Di passo in passo che una nave si avvicina alle regioni polari gli aghi tendono ad inclinarsi verso il nord, od al sud, se le navi s'avvicinano al polo Australe, e per mantenerli orizzontali è necessario porre all'opposta estremità un leggiero peso, un pezzo di ceralacca o qualche cosa di simile. «Quando la nave poi giunge al polo magnetico, l'ago, se è libero, colla punta tocca il fondo della scatola e non si muove più. Allontanandosi sembra che impazzisca, perde la sua proprietà di segnare il nord e subisce dei cangiamenti dall'ovest all'est.» — E da cosa deriva quell'attrazione? — Ecco una domanda che non ha risposta, poiché gli scienziati non hanno finora potuto trovare il vero motivo. — E come farete ora a dirigervi se le bussole sono sfalsate? — Sarà necessario fare molte osservazioni collocando le bussole in differenti posti del battello e prendere una media che non sarà poi sempre esatta. — Rimontiamo ancora al nord?... — Cioè scendiamo verso il sud del polo magnetico, — disse Orloff, ridendo, — ma viceversa, saliamo verso il polo geografico. Mentre chiacchieravano il Taimyr aveva ripresa la corsa tenendosi ad otto o dieci miglia dalle coste della penisola, inoltrandosi nel canale di Franklin il quale bagna le spiagge di Boothia e della Terra di Sommerset all'est e l'isola del Principe di Galles all'ovest. Essendo il mare quasi sgombro di ghiacci, non scorgendosi che pochi ice-bergs galleggianti e qualche banco, precipitava la corsa come se l'ingegnere volesse raggiungere presto le latitudini elevate. Le due eliche funzionavano con furore, sollevando a poppa delle ondate spumeggianti ed imprimendo al fuso d'acciaio una velocità di quasi diciannove nodi, marcia straordinaria, quasi incredibile in quell'epoca. Di quando in quando sui banchi di ghiaccio si vedevano apparire delle foche e qualche tricheco, ma scorgendo quello strano fuso s'affrettavano ad immergersi. Talora invece erano dei branchi di delfini gladiatori che apparivano e che correvano intorno al battello, scambiandolo forse per una balena. Quei mostri sono i più grandi di tutti poiché raggiungono sei e perfino otto metri e sono anche i più robusti, anzi sono dotati d'una forza veramente prodigiosa. D'istinti battaglieri, si scagliano contro le balene con furia incredibile, tormentandole accanitamente e cercando di privarle della lingua. Cercavano di prendersela anche col battello, ma quando s'accorsero che le lastre sfidavano i loro robusti denti e che lo sperone era pericoloso pei loro corpi, s'affrettarono a prendere il largo. Durante tutta la giornata il Taimyr continuò la sua corsa lungo le coste della penisola di Boothia mantenendo la sua straordinaria velocità ed all'indomani, verso il mezzodì, girava la punta settentrionale inoltrandosi nello stretto dell'isola di Sommerset o canale di Murchison. Il 1° giugno il battello navigava nelle acque del canale della Reggente, ampio braccio di mare che bagna le coste orientali dell'isola di Sommerset e della penisola di Boothia e quelle occidentali della Terra di Baffin, di Cockburn e dell'isola di Port Bowen. Vi erano ancora molti ghiacci galleggianti in quel canale, tuttavia il Taimyr non s'inquietava e muoveva diritto verso il nord, senza rallentare la sua corsa precipitosa e tenendosi in vista dell'isola di Sommerset. Il 3 giugno però attraversava il canale all'altezza del 73° parallelo e giungeva sulle coste della Terra di Cockburn, una delle meno note, poiché s'ignora ancora se sia unita a quella di Baffin o separata da qualche canale. Anche su quelle spiagge si erano accumulati grandi banchi di ghiaccio rendendo impossibile qualunque esplorazione, quantunque l'estate polare fosse già cominciata e la temperatura oscillasse fra i 3° ed i 7° centigradi. I FURORI DELL'OCEANO ARTICO Il 5 giugno il battello navigava nelle acque dello stretto di Lancaster, un altro vastissimo canale aperto fra le coste settentrionali delle Terre di Baffin e l'isola di Devon settentrionale. Attraversava allora i paraggi esplorati dal più instancabile dei viaggiatori artici, da Parry, il primo che si era slanciato alla ricerca del famoso passaggio del Nord-Ovest. Si può dire che quel valente marinaio fu il più celebre di tutti ed anche il più fortunato, poiché fu il primo a scoprire i diversi passaggi, che dovevano condurre gli altri nei mari dell'ovest, a rilevare un grandissimo tratto di coste ed a visitare un gran numero d'isole, delle quali s'ignorava prima l'esistenza. Il tempo che fino allora si era mantenuto bello, cominciava a guastarsi. Dalle coste meridionali dell'isola di Devon, spinti da un vento freddissimo che soffiava dalle regioni nordiche, s'avanzavano pesanti nebbioni, mentre lo stretto veniva percorso da gigantesche ondate le quali facevano oscillare pericolosamente i ghiacci galleggianti, diventati già numerosissimi. Di tratto in tratto qualche enorme ice-berg, perduto l'equilibrio, precipitava con immenso fragore inabissandosi o si rovesciava su qualche banco con uno scroscio spaventevole, fracassandolo e sminuzzandolo. Il vento intanto cresceva sempre ed ululava sinistramente fra tutte quelle vette di ghiaccio e sollevava ondate più mostruose, le quali si sfasciavano le une sulle altre con estrema violenza. Il Taimyr però continuava a mantenersi alla superficie e non aveva rallentata la corsa. Nemmeno gli sportelli della piattaforma erano stati chiusi, quantunque qualche ondata di tratto in tratto s'infrangesse contro la cancellata. Il gigantesco fuso d'acciaio d'altronde pareva dotato di grandi qualità nautiche, poiché balzava agilmente sui marosi, mantenendo sempre scoperte le sue parti superiori. Il rollìo però si faceva sentire vivamente in causa della sua forma troppo arrotondata, ma nessuno soffriva il mal di mare, nemmeno i due cacciatori. Continuando tuttavia ad avanzarsi il nebbione e crescendo i ghiacci, la navigazione diventava difficile anche pel Taimyr, il quale non poteva avere una rotta precisa essendo le sue bussole sfalsate. Orloff si era messo al timone, non riuscendo sempre a scorgere i ghiacci che la nebbia cominciava a nascondere, di tratto in tratto il battello vi urtava contro con estrema violenza. Verso sera il mare divenne burrascosissimo, assumendo un aspetto pauroso, selvaggio. Le raffiche si succedevano alle raffiche sempre più impetuose, ruggendo o fischiando; le acque dello stretto s'alzavano in forma di vere montagne, le quali correvano disordinatamente verso le desolate spiagge della Terra di Cockburn, rompendovisi contro con fragori assordanti; i ghiacci danzavano furiosamente ora scintillando sulle creste spumeggianti ed ora precipitandosi negli avvallamenti, entro i quali s'urtavano fra di loro sfracellandosi con tali detonazioni da credere che contenessero nel loro interno delle cariche di dinamite. L'ingegnere, coperto da un ampio mantello di tela cerata, era salito sulla piattaforma assieme ai due cacciatori e pareva che si divertisse ad ammirare quello spettacolo pauroso, mentre il suo battello sfidava impavido la tempesta e speronava gagliardamente i ghiacci. Il fanale elettrico, che era stato acceso per vincere l'oscurità della nebbia, rendeva quella scena più strana, facendo balenare gli ice-bergs, i quali brillavano come se fossero diamanti di proporzioni mai sognate. — Per mille balene! — esclamò Mac-Doil. — Ecco uno spettacolo che fa venire i brividi, ma che non si cesserebbe mai di guardare. — È vero — rispose l'ingegnere che si era seduto sull'ultimo gradino. — È uno spettacolo che solamente qui, in queste alte latitudini, si può vedere ed ammirare. — Il vostro battello non correrà pericolo, con questo mare irritato?... — No, il mio Taimyr non lo teme. — Ma può avvenire un incontro cogli ice-bergs, signore. — Me ne rido degli ice-bergs io. — E se uno si rovesciasse su di noi?... — Nessuno ci impedisce di sottrarci ai loro urti. — In qual modo?... — Immergendoci. — È vero, signor Nikirka e quante navi sarebbero contente di imitare il vostro Taimyr, se potessero poi ritornare a galla. — Sì e anche quella che passa ora. — Quale, signore? — Ascoltate!... Fra i muggiti delle onde, gli scrosci dei ghiacci e gli ululati del vento, si erano udite delle voci umane echeggiare in mezzo al nebbione. Una grande ombra passava al di là della striscia luminosa proiettata dalla lampada elettrica, tuffata negli umidi vapori che il vento sbatteva in tutte le direzioni. — Luce a tribordo!... — aveva gridato una voce. — Un fenomeno? — aveva chiesto un'altra. — All'orza, timoniere!... Alle gabbie, ai bracci... Ma il battello era passato oltre e le voci si erano perdute fra i fischi del vento ed i fragori delle onde. — Chi saranno quei naviganti? — chiese Sandoë. — Balenieri inglesi — rispose l'ingegnere. — Scendiamo prima che il mio battello possa causare qualche disastro. Il boccaporto fu chiuso, le eliche laterali furono messe in movimento ed il battello, riempiti i suoi serbatoi, scese a cinquecento metri sotto la superficie, profondità a cui non potevano giungere le punte subacquee dei più colossali ice-bergs. Neanche però laggiù regnava la calma, poiché il battello provava delle brusche oscillazioni che lo gettavano di frequente fuori di rotta e le acque, scorte attraverso gli sportelli ed illuminate dalla lampada elettrica, apparivano torbide. Quale silenzio però negli abissi marini!... Mentre alla superficie i ghiacci tuonavano, mentre le onde si sfasciavano con muggiti paurosi ed il vento ruggiva, nessun rumore scendeva sotto le onde e giungeva agli orecchi dell'equipaggio. Se il Taimyr non avesse continuato a provare delle oscillazioni, si avrebbe potuto credere che alla superficie regnava una calma assoluta, mentre invece imperversava una terribile bufera. — Avrei però creduto di trovare l'acqua tranquilla a simile profondità — disse Mac-Doil ad Orloff, il quale aveva allora abbandonata la gabbia del timone. — Altri hanno creduto che ad otto o dieci metri sotto le onde il mare si trovasse tranquillo anche durante le grandi tempeste, e come potete osservare, erano in errore — rispose Orloff. — Forse credevano che le onde non si alzassero che pochi metri, mentre ora si sa che gli uragani, in certi paraggi, sollevano delle onde di dimensioni gigantesche che misurano sovente trenta e più metri d'altezza. — Teste di balena!... Trenta metri!... — Sì, Mac-Doil, e come potete immaginarvi, simili ondate devono scombussolare il mare fino ad una ragguardevole profondità. — Però ci troviamo a cinquecento metri, signor Orloff. — È vero, ma ogni onda propaga la sua azione nel senso verticale fino a trecentocinquanta volte la sua altezza, quindi un cavallone alto trenta metri dovrebbe eccitare le acque sottostanti ad oltre dieci chilometri di profondità. — Diavolo!... — Non crediate però che a tale profondità si debba risentire una forte agitazione. — Allora quando il mare è in tempesta, deve scombussolare il suo fondo dovunque. — No, poiché non sempre le onde misurano un'altezza di trenta metri e non sempre il fondo dell'oceano ha una profondità di soli dieci chilometri. «Ordinariamente le onde non superano i sei o sette metri, però se ne misurarono di quelle che avevano un'altezza di trentasei e perfino di quarantadue piedi, specialmente nei pressi del capo Horn e di quello di Buona Speranza, e perfino di sessanta nell'Oceano Australe. «Anzi Dumont d'Urville afferma di averne vedute alcune di settanta piedi.» — Quelle masse liquide così enormi, dovevano di certo rimuovere il fondo. — Non sempre, poiché certi oceani hanno dei baratri immensi, spaventosi. — E dove si sono trovati questi abissi?... — In vari punti. Sembra però che le maggiori profondità si trovino fra le isole giapponesi e la penisola di Kamsciakta, dove lo scandaglio diede ottomilacinquecentoquindici metri ed a levante delle isole Kurrili ottomilacinquecento e fra le isole Samoa e Tonga dove si misurò un baratro profondo ottomiladuecentottanta metri. — Credete che vi siano profondità maggiori? — È probabile, anzi si dice che nell'Oceano Pacifico si sia misurato un abisso che avrebbe quattordicimila metri. — Che vi siano dei pesci in fondo a quei baratri? — Non credo che potrebbero esistere ad otto, dieci o dodicimila metri, ma a seimila furono pescati degli animali marini dalle forme bizzarre e dai colori smaglianti e che erano provveduti di un apparecchio luminoso, che doveva guidarli fra quelle tenebrose acque. — Come mi piacerebbe scendere a quelle profondità. Credete che il Taimyr resisterebbe? — È probabile. — Lo tenterà il signor Nikirka? — Lo spero, ma dopo il nostro ritorno. — Il nostro ritorno?... Quando torneremo noi?... — Tutto dipende dai ghiacci. — Ma infine, mi volete dire dove andiamo? — Al nord. — Lo vedo, per centomila trichechi, e fino dove?... — Lo sapremo presto. — Ditemelo ora. Orloff alzò le spalle e come le altre volte non rispose. L'indomani, il Taimyr navigava sotto le acque della baia di Baffin. UNA NAVE SPERONATA La baia di Baffin, così chiamata perché il navigatore che la scoprì credeva in buona fede che non avesse alcun sfogo verso il nord e l'ovest, è uno dei più vasti mari che s'incontrano sulle coste e fra le numerose isole dell'America settentrionale, spingendosi dal 70° all'80° parallelo. Ad oriente bagna le coste della Groenlandia ed a occidente le Terre di Baffin, di Devon e di Lincoln, di Ellesmere e di Grinnell ultimamente scoperte, formando dovunque ampi porti, baie e canali, quasi sempre impraticabili a motivo dei ghiacci che s'incontrano numerosissimi in quel vasto bacino. La sua scoperta non è antica come quella della baia di Hudson fatta dallo sventurato navigatore omonimo, scomparso così misteriosamente per la malvagità del suo equipaggio, poiché risale al 1654. In quell'epoca Guglielmo Baffin che aveva già preso parte ad altre spedizioni polari con Hudson, Button, Gibbins e Bileth ed aveva fatta la campagna del 1612, 1615 e 16 con Giacomo Hall, si spingeva audacemente fra i ghiacci dello stretto di Davis e s'avanzava nella baia che ora porta il suo nome, sperando di trovare anche lui il passaggio Nord-Ovest, ma dopo una lunga navigazione fu costretto a retrocedere affermando, erroneamente, non esistere alcun passaggio. Più tardi, Jones, Middleton ed altri inglesi ne esplorarono le coste constatando il contrario, senza però osare inoltrarsi verso l'ovest, finché Ross e Parry riuscivano a scoprire gli stretti del Principe Reggente e di Lancaster. Quando il Taimyr, abbandonate le coste dell'isola Bylot si inoltrò nelle acque della baia, si trovò subito dinanzi ad enormi ice-bergs che navigavano verso occidente, scendendo dal canale di Smith. Ve n'erano di tutte le dimensioni e di tutte le forme ed alcuni dovevano pesare parecchie migliaia di tonnellate. Alcuni erano aguzzi ed in forma di piramide; altri sembravano dadi giganteschi ed altri ancora veri castelli galleggianti irti di punte, di guglie, di strane torri semidiroccate, di bastioni capricciosamente merlati o di cupole bizzarre e di arcate d'una arditezza ammirabile. I raggi del sole, illuminando quei giganti, li facevano scintillare di mille tinte. Ve n'erano di quelli che parevano diamanti, o topazi, o smeraldi o incrostati di perle e di ametiste. Di tratto in tratto qualche torre, o qualche guglia o qualche bastione si sfasciavano con grande fracasso, con vere detonazioni, le quali si propagavano indefinitamente fra quei colossi; oppure qualche montagna, perduto l'equilibrio in causa delle acque che erano meno fredde dell'aria e che ne rodevano le basi, strapiombava bruscamente, sollevando delle ondate enormi, le quali facevano oscillare gli altri colossi, causando altre cadute. L'ingegnere, avvertito dal timoniere della presenza di quelle barriere polari, erasi affrettato a salire sulla piattaforma in compagnia di Orloff e le esaminava attentamente col cannocchiale, onde cercare un passaggio abbastanza vasto da lasciare il passo al Taimyr, senza che questi potesse correre il pericolo di venire schiacciato o guastato. — Ebbene, signor Nikirka — chiese il secondo, dopo alcuni minuti. — Credete che sia giunto il momento?... — Non ancora — rispose l'ingegnere. — Dietro a queste barriere noi troveremo ancora il mare libero, poiché verso il nord non iscorgo l'ice-blink. — Credete che i grandi campi di ghiaccio siano ancora lontani?... — Forse non lo sono tanto, ma qualche giorno passerà prima d'incontrarli. Pieghiamo verso la costa groenlandese, signor Orloff. — Avete intenzione di seguirla?... — Sì, finché lo potremo. — Sperate che si spinga fin dove noi andremo?... — Sì, io lo credo. — Andiamo all'est, adunque. Dopo quel breve colloquio da cui Mac-Doil, che stava sempre all'erta, non aveva potuto ricavare alcuna notizia sulla rotta misteriosa del battello, i due comandanti scesero ed il Taimyr riprese la sua corsa, cacciandosi audacemente in mezzo agli ice-bergs. La sua corsa a fior d'acqua fu però di breve durata poiché le montagne di ghiaccio crescevano di numero e crollavano così frequentemente da rendere pericolosissimo il passaggio fra di loro. Per di più i canali che esistevano fra quei colossi erano ingombri di ghiacci minori, i quali tuttavia avevano tale spessore da mettere a dura prova lo sperone del battello. L'ingegnere non volendo rallentare la velocità o perdere tempo nella ricerca d'altri passaggi, fece chiudere il boccaporto e diede il comando di scendere a quattrocentocinquanta metri per passare sotto quegli ostacoli. Il Taimyr potè quindi proseguire liberamente la sua corsa verso le coste occidentali della Groenlandia, malgrado quelle montagne di ghiaccio che avrebbero impedito l'avanzarsi di qualsiasi nave. Mac-Doil e Sandoë si erano messi agli sportelli in compagnia di Kalutunak, sperando di vedere dei pesci, ma l'Oceano Artico, almeno in quelle regioni, pareva molto scarso di abitanti. Erano sempre i soliti narvali, le solite foche, qualche banda di aringhe o di merluzzi. Poterono però osservare una balenottera franca nel momento in cui saliva verso la superficie per respirare o per cercare la sua zuppa di boete. Era lunga dodici o tredici metri, di colore nerastro a riflessi d'acciaio, col capo enorme, la coda conica terminante in una immensa pinna triangolare e le pinne pettorali lunghe almeno due metri. Vedendo il battello, la balenottera si avvicinò fino a sfiorarlo colle sue pinne, credendo forse che fosse qualche compagna, e lo seguì per alcuni istanti battendo vigorosamente la coda, ma accortasi dell'errore s'affrettò ad innalzarsi, scomparendo agli sguardi attoniti dei due cacciatori e dell'esquimese. Verso le quattro del meriggio, l'ingegnere, non scorgendo più nelle acque quei riflessi bianchi proiettati dai ghiacci e credendo di aver superata quella formidabile barriera d'ice-bergs, diede il comando di risalire a galla per rendersi conto della situazione e per accertarsi se il mare era libero. Il Taimyr era già quasi giunto a fior d'acqua, senza rallentare la corsa, quando tutto d'un tratto, avvenne un urto così formidabile, che tutti gli uomini che lo montavano furono atterrati, mentre la mobilia si spostava o si rovesciava. Le lastre d'acciaio del gigantesco fuso non cedettero, ma rintronarono con un fragore metallico assordante. — Per centomila foche! — urlò Mac-Doil che era balzato lestamente in piedi. — È scoppiata la macchina?... — Fuggiamo! — gridò Sandoë. — Forse stiamo per saltare! Trascinando con loro l'esquimese che pareva istupidito, si precipitarono verso la scaletta, dove s'incontrarono coll'ingegnere e con Orloff che uscivano allora dalle cabine. — Dove andate? — chiese l'ingegnere, con voce affatto tranquilla. — Fulmini! — rispose Sandoë. — È scoppiata la macchina, signore. — Con vostro permesso, la macchina funziona e continuerà per un bel po' ancora. — Non avete sentito quell'urto, signore? — chiese Mac-Doil, stupito della calma dell'ingegnere. — Bah!... Abbiamo urtato: ecco tutto. — Contro chi?... — Lo sapremo presto. — Ma il battello è immobile, signore! — Lo so. In quel momento giungeva il marinaio che fino allora aveva tenuto la ruota del timone, seguito dai macchinisti. — Ebbene? — chiese l'ingegnere, al primo. — Si scorge una massa oscura dinanzi la prua del battello — rispose il timoniere. Il signor Nikirka aggrottò la fronte, poi riprese: — Non è un banco? — No, signore. — Ne siete certo? — Certissimo, signore. — Funziona sempre la macchina? — Sì, — rispose un macchinista, — ma le eliche girano senza agire. — Ciò vuol dire che abbiamo dinanzi a noi una massa ben più enorme del Taimyr — disse l'ingegnere. — Cosa dite, signor Orloff?... — Forse abbiamo speronata una nave? — chiese invece il secondo. — Ma non odo alcun grido. — Forse una nave abbandonata o un rottame. — La piattaforma è sommersa? — Ad un metro di profondità. — Macchina indietro e fate funzionare le eliche laterali in senso inverso — disse l'ingegnere, dopo qualche istante di riflessione. — Bisogna liberare lo sperone. In quell'istante il Taimyr cominciò ad inclinarsi verso prora, mentre verso le ultime lastre che si congiungevano allo sperone, si udivano dei violenti scricchiolìi. Orloff impallidì. — Udite? — chiese. — Sì — rispose l'ingegnere, che pareva inquieto. — Signore, cosa succede? — chiese Mac-Doil. — Succede che noi affondiamo assieme alla nave che abbiamo incautamente speronata. — E non torneremo più a galla? Il signor Nikirka alzò le spalle, dicendo: — Non è del mio battello che mi preoccupo, ma degli uomini che forse montano quella nave e che noi, per ora, non possiamo soccorrere. Ciò detto si recò nella gabbia di prora seguito dal secondo, mentre gli scricchiolìi aumentavano ed il battello s'inclinava come se venisse costretto a scendere nei baratri dell'Oceano Artico da un peso enorme. Ormai non vi era da ingannarsi. Il Taimyr, nel salire alla superficie senza rallentare la sua velocità, era andato a speronare la carena d'un veliero, forse una nave baleniera; e questa ora, empiendosi d'acqua, lo trascinava a picco non avendo potuto le eliche liberare la prora che doveva essere entrata tutta nella stiva. Giunti nella gabbia, i due comandanti guardarono dinanzi a loro ed a tre metri di distanza videro una massa enorme, nerastra, entro la quale era penetrato non solo lo sperone, ma un quarto del gigantesco fuso. — Sì, è una nave — esclamò l'ingegnere, il quale provò un fremito. — Quale disastro abbiamo noi commesso?... — Ma si udrebbero delle grida, mentre nessun rumore giunge fino a noi — disse Orloff. — Credete che sia proprio un rottame? — Lo credo, signor Nikirka. Guardate: non si scorge nessuna ombra sulla superficie del mare, mentre a quest'ora le scialuppe dovrebbero essere state calate in acqua. E poi, quale nave baleniera oserebbe spingersi fino a queste alte latitudini? Pensate che siamo al settantacinquesimo parallelo. — Sarà forse qualche nave abbandonata e che le correnti o gli uragani hanno spinta fino qui? Mi dorrebbe immensamente, se io avessi causato un disastro. — Credo, signore, che dobbiamo più preoccuparci di noi, che di questo rottame che ci trascina a fondo. Orloff aveva ragione. Quantunque le eliche di poppa funzionassero furiosamente in senso inverso e le eliche laterali turbinassero, il battello non riusciva a liberare lo sperone, mentre la nave, che doveva essersi prontamente riempita d'acqua, affondava rapidamente trascinandolo con sé. L'ingegnere però non sembrava preoccuparsi di quella discesa involontaria. — Bah! Riusciremo a liberarci — disse ad Orloff. — Quando giungeremo ad una certa profondità, il Taimyr, spinto dallo sforzo delle acque che tendono a portarlo a galla, abbandonerà la funebre compagnia. — Non si sarà guastato lo sperone? — Non temete: è a prova di scoglio e potrebbe sfondare una corazzata senza subire la menoma avaria. Intanto la nave affondava sempre ed in sua compagnia affondava il battello, il quale vi si era incastrato come un cuneo dentro un albero. Dalla gabbia di prora, l'ingegnere ed il secondo potevano ormai scorgere attraverso le acque il bordo della nave e parte dell'alberatura, però pareva che l'uno e l'altra fossero in cattivissimo stato, poiché nel primo si scorgevano delle spaccature e nell'altra dei pennoni privi di manovre e semispezzati. Nessuna scialuppa era stata scorta e nessun volto umano era stato veduto. Doveva quindi trattarsi d'una nave abbandonata e forse da molto tempo. Il Taimyr l'aveva speronata sotto la poppa, in vicinanza del timone, un po' a tribordo, aprendole uno squarcio immenso e fracassandole completamente l'asta, in modo da spostare gli ultimi corbetti ed il fasciame. Cinque minuti dopo la nave ed il suo speronatore scendevano proprio a picco, ma obliquamente. Le quattro eliche continuavano a turbinare, senza però risultato, anzi non facevano altro che imprimere al battello ed alla nave delle scosse disordinate. A prora si udivano degli scricchiolìi violenti, continui, mentre la poppa, che veniva spinta in alto dallo sforzo delle acque tendenti a condurre a galla quel grande fuso vuoto, continuava a spostarsi. Erano già discesi a quattrocento metri, quando il Taimyr si liberò bruscamente da quella carcassa che lo trascinava negli abissi, abbandonandola al suo triste destino. Allora la nave, che continuava a scendere obliquamente attraverso gli strati acquei, apparve distintamente. Un fremito d'orrore percorse le membra dei due cacciatori e dei due comandanti. Quella nave era un bel brick di due o trecento tonnellate, coperto di neve e di ghiaccio, con un albero spezzato, i pennoni bracciati a capriccio ed ancora forniti di vele sbrandellate, colle murate sfondate e le cui scialuppe fracassate, ondeggiavano ai suoi fianchi, ancora trattenute dalle corde che le univano alle grue. Dei cadaveri coperti di pellicce si agitavano sul suo cassero, spinti e respinti dalle acque. Qualcuno di quando in quando veniva portato in alto, dove lo si vedeva roteare per alcuni istanti su se stesso, come se avesse riacquistata la vita e poi ridiscendere ondeggiando. Già alcuni pesci, dei delfini gladiatori, erano accorsi alla nave e vi giravano intorno, pronti a precipitarsi su quelle disgraziate vittime dei freddi polari. — Una nave baleniera? — chiese l'ingegnere ad Orloff, con accento triste. — Sì, signor Nikirka — rispose il secondo. — Vedo a poppa il fornello per la fusione del grasso. — A quale nazione apparterrà?... — Possiamo forse saperlo. — È vero. L'ingegnere si era avvicinato ad un portavoce che comunicava colla sala della macchina e colla gabbia del timoniere ed aveva dato alcuni comandi. Il battello che veniva trasportato a galla allontanandosi dalla nave affondante, arrestò la sua ascensione e poco dopo tornava ad inabissarsi, descrivendo una grande curva. La nave baleniera, che a poco a poco spariva, in pochi istanti fu raggiunta ed il Taimyr descrisse attorno ad essa un cerchio, fugando i feroci delfini gladiatori che si erano già gettati sui cadaveri. Passando sotto la poppa, delle lettere bianche, ancora ben distinte, apparvero sopra il quadro, lungo il coronamento. — Labrador-S. Johns — lesse l'ingegnere. — Una nave baleniera di Terranuova — disse Orloff. — Riposate in pace — mormorò Mac-Doil. Il Taimyr riprendeva la salita verso la superficie. La nave, che aveva ormai raggiunti i fondi tenebrosi, non si distingueva che come una massa confusa. Continuava a scendere obliquamente, con una ondulazione marcata, lasciandosi indietro qualche cadavere che l'acqua, essendo meno fredda, faceva staccare dalla coperta, sciogliendo il ghiaccio che ve lo teneva aderente. A poco a poco la grande massa scomparve negli strati inferiori, mentre il Taimyr s'innalzava frettolosamente, come se avesse paura di venire attirato nei tenebrosi abissi dell'Oceano Artico. Quando Mac-Doil udì la prora balzare sull'acqua e vide un raggio di sole scendere dalla gabbia della lampada elettrica, emise un sospirone, mentre l'ingegnere ed Orloff si guardavano a lungo. — Chissà — mormorò il primo. — Speriamo — rispose il secondo. — Venite, signor Orloff. — Vi seguo signore. Salirono entrambi sulla piattaforma, essendo già stati aperti i boccaporti e girarono gli sguardi all'intorno. A due o trecento metri dalla poppa galleggiavano numerosi rottami. V'erano un albero a cui erano ancora appesi dei pennoni, dei pezzi di fasciame, un battello colla chiglia in aria, poi dei barili, delle casse, degli attrezzi. Era quanto rimaneva della nave baleniera. — Quale triste incontro — disse l'ingegnere. — Se fossi superstizioso, lo direi un funebre presagio. — Il vostro battello è solido — rispose Orloff. — Sì, ma anche i banchi saranno enormi. — Abbiamo le torpedini. — Saranno capaci di aprirci un varco sotto i banchi, che avranno uno spessore enorme? — Ci basterà una fessura per lanciare le manichelle e provvederci d'aria. — Lo vedremo, signor Orloff. — Credete che siamo vicini?... — Non sentite quest'aria freddissima?... — Sì, la sento e ciò indica che gli ice-fields non devono essere molto lontani. — Guardate le loro avanguardie. Ecco là dei piccoli campi che scendono dietro le montagne di ghiaccio. — È vero, signor Nikirka. Torniamo ad inabissarci? — Vedo un vasto canale aperto attraverso a quel banco e che mi pare si prolunghi assai. Se troveremo il passo chiuso, lo forzeremo a colpi di sperone e vi passeremo sotto. — Andiamo ancora all'est? — Sì, fino a che vedremo le coste della Groenlandia. — Volete sbarcare su quelle coste? — Sì, prima di tentare la grande traversata sottomarina, cercheremo di provvederci di un po' di carne fresca per tenere lontano lo scorbuto e poi, le provviste non sono mai troppe in queste regioni. UNA CACCIA ALL'ORSO Il banco che minacciava di chiudere il passo al Taimyr era il più grande che fino allora avevano incontrato i naviganti del battello, poiché doveva misurare una lunghezza di almeno venti miglia ed una larghezza di dodici o quattordici. Doveva formare l'avanguardia degli ice-fields o campi senza limiti che si estendono al di là dell'80° parallelo e che sembra si spingano fino al polo, essendosi ormai perduta la speranza che lassù, sotto la stella polare, si estenda quel famoso mare libero ammesso da taluni naviganti e da taluni scienziati senza però averlo mai veduto. Quel colosso pareva che sorreggesse una città rovinata da qualche tremendo cataclisma. Si vedevano ammassi di piramidi tronche o completamente diroccate, ammassi di rottami enormi, torri che parevano dovessero crollare al primo urto o alla prima stretta delle pressioni, arcate spezzate a metà, bastioni sfondati e cupole strane semirovesciate. Sui suoi fianchi, enormi ice-bergs si erano già saldati e pareva che volessero, colle loro masse mostruose, difenderlo contro qualsiasi attacco o servire di baluardo contro qualsiasi urto. Una luce accecante, che pareva impregnasse perfino l'aria sovrastante, s'alzava sopra il banco, facendo doppiamente risaltare la tinta azzurro-cupa del mare che lo circondava. Il Taimyr, guidato da Orloff che si era collocato nella gabbia di prora, si era cacciato in un vasto canale aperto attraverso al colosso e che pareva dovesse prolungarsi per parecchie miglia. Quell'immane squarciatura, prodotta forse dalle irresistibili pressioni dei ghiacci, non era però diritta, serpeggiando capricciosamente ed era ingombra di frammenti di hummoks e di streams, i quali tendevano ad unirsi per chiudere il passo, ma lo sperone del Taimyr non trovava alcuna difficoltà a spezzarli nuovamente. Le rive del canale erano popolate solamente da volatili ed abbondavano soprattutto gli eider o edredon, uccelli preziosissimi ed assai ricercati da tutti i cacciatori norvegiani ed islandesi. Questi volatili, che s'incontrano solamente nelle regioni nordiche molto fredde, somigliano alle nostre anitre; hanno il dorso, il ventre ed il collo bianco giallastro ed il capo adorno di splendide penne verdi a riflessi d'oro. Sono del pari acquatici, ma cibandosi di vermiciattoli e di pesci, la loro carne acquista un sapore non troppo delizioso pe' nostri palati. Nondimeno sono accanitamente perseguitati in tutte le regioni settentrionali, non già per ucciderli, ma per privare i loro nidi delle piume che i poveri volatili si strappano dal ventre per tenere calde le uova. Quelle piume, che sono d'una morbidezza unica, d'una leggerezza ed elasticità straordinaria, formano un articolo di grande commercio, essendo adoperate per la fabbricazione dei guanciali e dei copripiedi di lusso. Pagandosi carissime, tutti gli anni numerose bande di cacciatori vanno visitando le spiagge settentrionali della Norvegia, dell'Islanda e quelle della Groenlandia per fare la raccolta. Scoperti i nidi s'affrettano a saccheggiarli, cercando però di non guastare le uova, né di privarli completamente di quella calda piuma, poi tornano qualche tempo dopo per ripetere il ladrocinio, né smettono finché la povera femmina, priva ormai di tutte le penne del petto, non incarichi il compagno di riguarnire il nido. Essendo però le penne dei maschi più grossolane e meno pregiate, vengono finalmente lasciati in pace. Non si creda tuttavia che sia cosa facile giungere a quei nidi, situati per lo più in mezzo a dirupi quasi impossibili a scalarsi; ogni anno parecchi cacciatori pagano la loro arditezza colla vita. Alcuni cacciatori preferiscono uccidere quei volatili, anziché tentare i rischi di quelle ascensioni e, cosa davvero strana, le penne conservano egualmente la loro elasticità e morbidezza, e perciò dagli esquimesi le piume degli eider vengono chiamate pelurie viventi. Mac-Doil e Sandoë che le credevano in buona fede anitre, avrebbero voluto sbarcare per prendere i preziosi volatili a fucilate, ma il Taimyr continuava ad inoltrarsi nel canale a grande velocità, senza accennare ad arrestarsi, come se l'ingegnere avesse fretta di trovarsi fuori da quel passo, il quale poteva restringersi sotto le pressioni che dovevano esercitare gli ice-bergs accumulati lungo i margini. Forse non erano infondati i suoi timori, poiché il banco non sembrava calmo. Di tratto in tratto i due cacciatori, che si mantenevano sulla piattaforma non ostante il freddo fosse assai acuto, segnando già il termometro -14°, lo udivano crepitare e tuonare rumorosamente e vedevano crollare delle piramidi e delle guglie, o sfasciarsi qualche arcata o qualche bastione. Talora invece franava un tratto delle sponde e si aprivano dei crepacci profondi, attraverso i quali schizzava subito fuori l'acqua del mare. A mezzodì, quando l'ingegnere comparve sulla piattaforma per fare il punto, i due cacciatori scorsero parecchie foche che stavano coricate presso i loro buchi aperti nel campo di ghiaccio. Si voltavano e rivoltavano indolentemente scaldandosi al sole e non si muovevano scorgendo il battello, essendo assai pigre quando i raggi hanno un po' di tepore. L'ingegnere, fatto il punto, s'era messo a guardarle con viva curiosità, in compagnia di Orloff il quale era pure salito. — Ditemi, — chiese ad un tratto, volgendosi al secondo, — avete mai osservati i buchi che le foche si aprono attraverso i banchi?... — Sì e più volte — rispose Orloff. — È vero che li aprono soffregando il naso contro il ghiaccio?... — È una diceria inesatta, signor Nikirka, poiché il naso delle foche non è caldo, tutt'altro e se anche lo fosse non so come farebbero a sciogliere del ghiaccio che ha uno spessore di cinque, otto, dieci metri e fors'anche di più. — Allora come li aprono? Coi denti o colle pinne no di certo. — Cominciano a farlo quando il ghiaccio è ancora debole, e mantengono il foro aperto passando e ripassando continuamente. — È vero — disse Mac-Doil. — Sono proprio necessari quei buchi alle foche? — Sì, — rispose Orloff, — poiché le foche non possono rimanere a lungo senza respirare. Si calcola che la loro massima immersione non superi i quindici minuti. — Allora fra due o tre minuti una di quelle foche cadrà fra le zampe del suo nemico. — Cosa intendete di dire?... — Guardate laggiù, presso quella guglia che si innalza a sei o settecento passi da questa sponda; non vedete una massa biancastra coricata presso uno di quei buchi e che pare immobile?... — È un orso bianco! — esclamò Mac-Doil, balzando in piedi. — E che spia una foca — disse Sandoë. — Sì — rispose l'ingegnere. — Signor Orloff, fate arrestare il battello ed andiamo a cacciare quel ghiottone. Il Taimyr fu accostato al margine del grande banco ed i due comandanti, Sandoë e Mac-Doil armati di fucili e di coltellacci e Kalutunak munito d'una fiocina, salirono la sponda, celandosi dietro ai massi di ghiaccio. L'orso, un vecchio maschio a giudicarlo dalla pelliccia che cominciava a diventare giallognola e di proporzioni gigantesche, misurando oltre due metri di lunghezza, era tanto occupato nello spiare la foca, da non accorgersi della vicinanza dei cacciatori, quantunque simili fiere abbiano un odorato fino ed una vista assai acuta. Sdraiato sul ghiaccio, col muso sull'orlo del buco aperto dall'anfibio ed una zampa alzata per essere più pronto ad impadronirsi della preda, conservava una immobilità assoluta e si sarebbe potuto confonderlo per qualche hummok rovesciato. I cinque uomini si misero a strisciare fra i massi di ghiaccio, l'un dietro l'altro, per giungere a buon tiro, e nel più profondo silenzio. Erano già giunti a soli cento passi e si preparavano a dividersi per circondare il feroce carnivoro, quando lo videro abbassare bruscamente la zampa che teneva alzata, poi estrarre, con una fulminea scossa, una massa nerastra che si agitava nel buco. Era una grossa foca kadolik, la quale si dibatteva disperatamente, mandando dei latrati acuti e facendo sforzi disperati per isfuggire agli artigli del suo nemico. Il vecchio orso però non se la lasciava sfuggire e, cingendola colle zampe anteriori, cercava di soffocarla contro la villosa pelliccia e di spezzarle la colonna vertebrale con una poderosa stretta. — Buono! — disse Mac-Doil. — Prenderemo l'uno e l'altra! La fiera aveva udita la voce del cacciatore. S'alzò di scatto senza però abbandonare la povera foca che era già agonizzante, e lanciò intorno uno sguardo inquieto, facendo poi udire un sordo nitrito. Quasi nel medesimo istante l'ingegnere ed Orloff scaricavano i loro fucili. Colpito di certo, l'orso cadde, però subito si rialzò preparandosi a sostenere la lotta ed a difendere la propria preda. Vedendo i cacciatori, parve che stimasse miglior partito a battere in ritirata e cominciò ad indietreggiare mostrando i lunghi denti ingialliti e mugolando; Kamo che aveva seguito il suo padrone, in quel momento gli piombò addosso, azzannandolo per di dietro. — Bravo Kamo — urlò l'ebridano. — Tieni fermo un momento e te lo mando al diavolo. Il cacciatore era balzato innanzi ed aveva scaricato il fucile a soli quindici passi di distanza, ma, forse per la prima volta in vita sua, mancò il colpo. Sandoë fu pronto a scaricare il proprio fucile, e nemmeno quella palla fu bastante per abbattere il carnivoro, anzi lo rese più furibondo. Liberatosi del molosso con una scossa furiosa, piombò addosso all'ebridano con tale rapidità, da impedirgli di ricaricare l'arma. — Fuggite!... — gridarono l'ingegnere ed Orloff. — No, signori — rispose Mac-Doil. Aveva abbandonato il fucile che non gli era più d'alcuna utilità ed aveva impugnato il coltello, ma Kalutunak in pochi slanci gli si era gettato dinanzi. Il bravo e coraggioso esquimese, già abituato a lottare con simili animali, immerse nel petto dell'orso più di mezza fiocina, passandolo da parte a parte. Dall'urto ricevuto fu atterrato, però ormai non correva più alcun pericolo, poiché l'animalaccio era pure caduto su di un fianco e stava spirando sotto i morsi del molosso. — Per centomila orsi! — esclamò Mac-Doil, rialzando l'esquimese. — Hai la mano pronta, mio caro, e ricompenserò il tuo coraggio che mi ha forse salvato la pelle, preparandoti colle mie mani uno zampone arrostito come non ne hai mai assaggiato. Se sei sempre così lesto, noi ammazzeremo un bel numero di simili bestie, se continuiamo il viaggio. — Non finirà così presto ed avrete tempo d'ammazzarne molti — disse l'ingegnere che li aveva raggiunti. — Non mi rincresce andar lontano, signore — rispose l'ebridano. — Sei ferito, Kalutunak? — No, padrone — rispose l'esquimese. — Aveva la pelle dura quest'orso — disse Orloff. — È vero che talvolta fuggono con parecchie palle nel corpo. — A bordo — comandò l'ingegnere. — Vedo scendere della nebbia e non vorrei che ci sorprendesse in mezzo a questo banco. L'esquimese, i due cacciatori e due marinai che erano accorsi trascinarono l'orso e la foca fino al margine del banco e li fecero cadere sulla piattaforma, poi ripresero frettolosamente il largo, mentre Mac-Doil si metteva a scuoiarli per regalare a Kalutunak lo zampone arrostito. Il nebbione segnalato dall'ingegnere continuava intanto ad avanzarsi, avvolgendo i ghiacci ed il canale aperto fra il banco, il quale cominciava a restringersi come se accennasse a finire ingombrandosi di hummoks e di streams, costringendo in tal guisa il Taimyr a lavorare di sperone. Anche la temperatura si abbassava bruscamente annunciando una burrasca di neve o la vicinanza di grandi campi. In meno di tre ore era scesa di -4°, segnando ora -18°. Alle sei pomeridiane il nebbione aveva avvolto tutto il banco ed era diventato così denso, che Mac-Doil, dalla piattaforma, non riusciva a scorgere la prora del battello. L'ingegnere, temendo che il Taimyr andasse ad urtare contro le sponde o contro qualche ice-berg, causando lo sfasciarsi dei ghiacci, fece chiudere il boccaporto e comandò d'immergersi fino a cento metri, profondità sufficiente per attraversare il campo senza pericolo di toccarlo. Essendo l'oscurità profonda anche a quella poca distanza dalla superficie, intercettando il nebbione la luce, fu accesa la lampada elettrica ed il battello guizzò sotto il banco proiettando dinanzi a sé il suo splendido fascio luminoso. Tutta la notte navigò sotto i ghiacci tenendo la prora all'est, immergendosi talora a trecento metri per evitare le basi di alcune enormi montagne di ghiaccio; poi alle dieci del mattino risalì alla superficie per rifornirsi d'aria più respirabile. Appena riaperto il boccaporto, i due cacciatori ed Orloff si erano affrettati a salire malgrado il freddo intenso che regnava all'aperto, ed essendosi alzato il nebbione, scorsero a meno di cinque o sei miglia un'alta costa dominata da una grande montagna coperta di neve, la cui vetta doveva innalzarsi oltre i mille metri. — Una terra? — chiesero i due cacciatori. — Sì — rispose l'ingegnere che li aveva raggiunti. — Siamo dinanzi alla Groenlandia. — Allora troveremo degli uomini. L'ingegnere ed Orloff non risposero. Avevano puntato i loro cannocchiali verso la costa e la osservavano con vivo interesse. — Vedete quella casetta che sembra costruita di tavole imbiancate, situata su quel promontorio? — chiese Nikirka. — Sì, — rispose Orloff, — e vedo più oltre una diecina di casupole. — Che stazione credete che sia?... Mi sembra impossibile trovare una borgata ad una latitudine così alta. — Dall'alta montagna che sorge dietro la costa, io credo che ci troviamo dinanzi al fiord di Aukpadlartok, il quale si trova nella baia di Melville che ora abbiamo attraversata. — Allora quella borgatella sarebbe Kresarsoak. — Sì, signor Nikirka, l'ultima stazione dei possedimenti danesi della Groenlandia. — Siete sbarcato mai laggiù? — Sì, una volta e scommetterei che il governatore è ancora Filippo. — Chi è questo Filippo? — Il più famoso cacciatore della Groenlandia,[1] un bell'uomo biondo, di origine danese e che è venuto qui per fare fortuna, conducendo seco sua moglie ed i suoi sette figli. Ho cacciato un giorno l'orso bianco in compagnia di Cristiano, il suo primogenito. — Vi sono molti esquimesi? — Una quarantina fra uomini, donne e ragazzi, barbari affatto e che vivono di pesca e di caccia. — Una ben brutta dimora, sotto questo clima. — Lo credo, signore. Sono gli abitanti più prossimi al polo non distando che ottocentosessanta miglia. — Se io fossi uno di loro fuggirei altrettante miglia più al sud — disse Mac-Doil. — Qui l'inverno deve durare almeno nove mesi. — Eppure si trovano contenti, poiché se non lo fossero, nessuno impedirebbe loro di rifugiarsi ad Upernawick o a Discko — disse l'ingegnere. — Orsù, riprendiamo la corsa. SOTTO I GRANDI BANCHI DI GHIACCIO Durante il 9 ed il 10 giugno il Taimyr risalì costantemente verso il nord senza allontanarsi dalla costa groenlandese, tenendosi i ghiacci ordinariamente lontani dalle terre, ma ogni qual tratto era però costretto ad interrompere la sua marcia per evitare dei grandi banchi che accennavano ad accumularsi nella baia di Melville, e soprattutto intorno alle isole che fronteggiano quella parte della costa, chiamata oggi penisola di Hayes. L'11 però fu bruscamente fermato da una barriera di ghiaccio che si estendeva dinanzi ad una punta aguzza della costa groenlandese, dirigendosi verso l'ovest dove pareva che si delineasse all'orizzonte un'altra terra.[1] Era un ostacolo imponente ed impenetrabile, che avrebbe arrestata qualsiasi nave e che avrebbe reso vano qualunque tentativo di demolizione da parte degli uomini. Sembrava una costa, tanto era massiccia, tutta irta di ice-bergs, forse secolari, di punte, di guglie, di arcate ed aveva un tale spessore che non doveva essere inferiore ai cinquanta metri, compresa la parte immersa. Sopra quell'enorme ostacolo, l'atmosfera scintillava d'una bianchezza strana e perfino il cielo, che era coperto di nubi gravide di neve, appariva madreperlaceo a grandi striature candidissime. Era l'ice-blink, quel riflesso abbagliante che tramandano i grandi banchi di ghiacci e che talvolta è così intenso, da potersi distinguere anche fra i più fitti nebbioni. — Siamo arrestati — disse Mac-Doil a Sandoë. — Allora ritorneremo. L'ebridano crollò il capo. — Non lo credi? — No, Sandoë. — Ma dove vuoi che il battello passi. — Sotto, per centomila foche. — E se questo banco fosse così immenso da estendersi fino al polo come farebbe a provvedersi d'aria? — Non lo so, ma ti dico che il nostro viaggio non è finito. — Dove vuoi che ci conduca l'ingegnere? — Dove?... Eh diavolo!... Dovremmo averlo ormai compreso. Mio caro Sandoë, noi andiamo al polo e ci scommetterei la mia carabina contro un coltello da due penny. — Fulmini!... — Puoi aggiungere anche i tuoi corni di narvalo, i miei lampi e le mie foche, ma io ti dico che andiamo al polo. L'isolano fece una smorfia e parve che s'immergesse in profondi pensieri. — Ebbene? — chiese Mac-Doil, vedendo che non si decideva ad aprire le labbra. — Pensi forse alla graziosa figlia del ricco pescatore?... Io, per mio conto, ho mandato un addio a papà Craig e mi rifaccio col gin del cuoco. — Penso, amico Mac-Doil, che dal polo non si tornerà forse più mai e che vi lasceremo le ossa, la pelle ed anche i diecimila dollari. — Potevi aggiungere anche le nostre armi e le nostre scarpe. Io, vedi, in compagnia di questi diavoli d'uomini, ho la convinzione di tornarmene indietro con le mie ossa, la mia pelle, i miei dollari ed anche il mio fucile. — Ma cosa vuol andare a fare l'ingegnere al polo? — Diavolo, vorrà vedere cosa si trova in quel luogo. — Dimmi, Mac-Doil, che vi siano dei tesori al polo?... C'è tanta ostinazione nel cercare di raggiungerlo... — Sì, un tesoro accumulato dagli orsi bianchi — rispose l'ebridano, ridendo. — Vedrai che grossi diamanti... di ghiaccio!... Ti faranno venire la pelle d'oca anche sulla punta del naso o te lo faranno perdere se non lo coprirai per bene. Toh!... Ecco il signor Nikirka e l'inseparabile suo compagno. L'ingegnere ed Orloff salivano allora per osservare quella gigantesca parete di ghiaccio. La esaminarono accuratamente coi cannocchiali, cercando se vi era qualche passaggio, poi il primo disse: — È giunto il momento di tentare la grande traversata. — Credete che non ritroveremo più acqua libera? — chiese Orloff. — Lo spero, ma chissà a quale distanza. — In due giorni possiamo percorrere un tratto immenso. — Sì, mantenendo una velocità di diciotto nodi all'ora — disse l'ingegnere. — In quattrocentotrentadue miglia si potrà trovare qualche spaccatura, qualche crepaccio, qualche buco ove poter rinnovare la nostra provvista d'aria. — Potremo resistere più di ventiquattro ore colle nostre riserve di ossigeno, signor Orloff. Calcolo che possiamo percorrere seicento miglia senza aver bisogno di risalire a galla. — Ma saremo ancora lontani? — Duecento sole miglia, una inezia pel nostro Taimyr che procede così rapido. — E se non trovassimo una squarciatura?... Se questo banco si prolungasse fino al polo?... — Abbiamo le torpedini e cercheremo di farlo saltare in qualche punto debole. — Signore, — chiese Mac-Doil, facendosi innanzi, — si va al polo, adunque?... — Sì — rispose l'ingegnere. — Vi dispiace? — No, signore. Sono curioso anch'io di vedere cosa si troverà laggiù. — Ma potremo poi ritornare? — chiese Sandoë. — E perché no?... Se troveremo la via per andarvi, la ritroveremo anche pel ritorno e forse rivedrete le vostre isole più presto che non lo crediate. Conto di giungere nei mari d'Europa fra qualche mese, se tutto andrà bene. — Te lo avevo detto io — disse Mac-Doil. — Ora vieni ed andiamo a fare un brindisi al polo col gin del cuoco. L'ingegnere ed Orloff avevano pure abbandonata la piattaforma ed eseguivano una visita minuziosa del battello, prima di avventurarsi sotto quell'ice-field che forse non aveva confine. Esaminarono le lastre per assicurarsi della loro perfetta solidità, lo sperone, le tramezzate che dovevano servire di paratie stagne nel caso che si manifestasse qualche falla, la macchina, le pompe, le eliche e soprattutto i tubi di lancio delle torpedini, i cilindri d'ossigeno e le due manichelle fermate ai lati della piattaforma che dovevano rifornire d'aria il battello, se avessero potuto trovare un crepaccio o un buco qualunque aperto negli immensi campi. Rinnovata la provvista d'acqua facendo fondere una quantità considerevole di neve, raccolta su di uno stream che andava alla deriva lungo le coste della Groenlandia, il boccaporto fu chiuso ed il battello s'immerse a trecento metri per passare sotto i grandi banchi. — A quanto pare, stiamo per giuocare una partita pericolosa — disse Sandoë a Mac-Doil, che si era collocato presso lo sportello di babordo. — Si sta giuocando la sorte di tutti — rispose l'ebridano. — Che il Taimyr vada a sfasciarsi? — Non è questo il pericolo che ci minaccia. — E quale? — L'asfissia, mio caro Sandoë. Pare che il battello non possa contenere che l'aria bastante per sole ventiquattro ore o poche di più ricorrendo ai serbatoi di ossigeno. — Sicché se questo banco fosse immenso, interminabile?... — Morremo tutti. — Questo pericolo mi fa venire la pelle d'oca peggio del freddo polare, Mac-Doil! — Ma volevi ricevere diecimila... — Eh!... Lo so che ci pagano diecimila dollari, ma la pelle mi spiacerebbe lasciarla qui, poiché perderei anche la paga. — Cercheremo di respirare solamente a metà, considerato che l'aria sta per diventare più preziosa dei dollari, e salveremo la pelle. — E l'aria la consumeranno gli altri intanto. Respiriamo a pieni polmoni anzi, finché ve n'è in abbondanza. Ohe!... Che oscuro che fa qui! La luce, che poco prima era ancora limpida, s'era improvvisamente ottenebrata, essendosi il battello spinto sotto il grande banco. Quel vecchio colosso doveva avere una crosta di neve enorme per intercettare completamente il riflesso dei raggi solari, però l'oscurità non era assoluta. Il ghiaccio rifletteva attraverso le onde un debole ice-blink, ma non sufficiente ad illuminare l'interno del battello. La lampada elettrica fu subito accesa e proiettò sotto il campo un fascio di luce così limpida, da permettere di distinguere perfettamente il menomo ostacolo che si fosse trovato dinanzi la prora del Taimyr. La celerità del battello subito si accrebbe fino a diciannove nodi ed alcuni decimi, la massima che poteva dare la macchina. Sandoë, Mac-Doil e l'ingegnere si erano collocati agli sportelli, mentre Orloff aveva preso posto nella gabbia del timone, volendo dirigere egli stesso il battello. Nessun pesce si vedeva nuotare sotto l'ice-field, segno evidente che quelle acque dovevano essere così fredde da non permettere ai suoi abitanti un lungo soggiorno. Mancavano perfino le foche e ciò significava che il ghiaccio doveva avere uno spessore così enorme, da impedire a quegli anfibi di mantenere aperti i loro buchi o di issarsi fino alla superficie. Il fondo di quell'immenso banco, che il battello quasi radeva, presentava un orribile caos, peggiore forse di quello che doveva trovarsi alla superficie. Ora erano punte aguzze che s'immergevano a grande profondità e che il Taimyr evitava, essendo perfettamente visibili fra la luce che sfolgorava la lampada elettrica; ora erano avvallamenti strani, o piramidi rovesciate, o squarciature immense dalle quali scendevano sprazzi di luce che si diffondevano sotto le acque, o rigonfiamenti giganteschi ma semisgretolati che la corrente, promossa dal rapido battello, bastava a far crollare o una selva di punte sottili e lunghissime che lo sperone decapitava con certi stridori, che si udivano perfino nel salotto dove stavano i due cacciatori e l'ingegnere. Tutte quelle punte e quelle piramidi, sotto la luce della lampada elettrica, avevano dei bagliori splendidi, incomparabili. Ora mandavano baleni azzurrognoli, ora porporini o verdi pallidi o verdi smeraldo, o scintillavano come se fossero tappezzati di diamanti. Era una fantasmagoria di colori e di luci che faceva male agli occhi dei due cacciatori e dell'ingegnere, ma pur sempre splendida. Il Taimyr intanto precipitava la sua marcia toccando quasi i diciannove nodi e mezzo all'ora. Le eliche di poppa funzionavano rabbiosamente, mentre i colpi degli stantuffi risuonavano con maggior forza, rimbombando in tutte le cabine ed i salotti. Passava sotto il grande banco come una meteora abbagliante, sfondando coll'acuto sperone gli ostacoli che incontrava, facendo capitombolare fra quelle acque luminose punte di piramidi, massi di ghiaccio ed una pioggia di quei sottili e lunghissimi aghi. Talora, quando qualche ostacolo che pareva troppo resistente, appariva all'estremità del gran fascio di luce, deviava bruscamente, ma poi riprendeva tosto la rotta primitiva senza scartare d'una sola linea. Il banco era diventato compatto e le fenditure che prima si erano scorte erano ormai sparite, anzi pareva che il suo spessore andasse aumentando, poiché più nessuna luce trapelava sotto di esso. Le acque però conservavano sempre un certo chiarore dovuto al riflesso di quelle masse di ghiaccio. Verso le dieci del mattino, dopo due ore di marcia rapidissima, il Taimyr incontrava ammassi di ghiacciuoli che si erano accumulati sotto il banco. Ve n'erano dei milioni, i quali volteggiavano in tutte le direzioni sotto la corrente prodotta dalle eliche e si sentivano stridere e scrosciare sulle lastre metalliche. Splendido era l'effetto che produceva la luce elettrica sopra quei ghiacciuoli. Pareva che il battello navigasse fra miriadi di diamanti galleggianti, che sprizzavano bagliori di tutte le tinte. Alle undici, Orloff, che aveva terminato il suo quarto nella gabbia del timone, raggiunse l'ingegnere ed i due cacciatori i quali non avevano abbandonato le grandi lenti. — Continua sempre? — gli chiese Nikirka. — Sì — rispose il secondo. — Temo che questo non sia un banco ma una parte della colossale calotta di ghiaccio che circonda il polo. — Lo temo anch'io — rispose l'ingegnere. — Avete scorto nessuna squarciatura? — No, signore. È una massa compatta che sfiderà il nostro sperone e fors'anche le nostre torpedini. — Credete che sulla nostra destra si prolunghi ancora la costa groenlandese? — Sono certo che continua. — Ed alla nostra sinistra?... — Forse si prolunga la terra che noi abbiamo veduta ieri. — Che il ghiaccio abbia minor spessore sotto le coste? — Temo il contrario, signor Nikirka. — Aspettiamo; chissà!... Le ore trascorrevano, ma il banco non cessava, anzi la sua massa diventava più enorme costringendo il Taimyr ad inabissarsi sempre più, onde evitare le punte gigantesche che si estendevano sotto il colosso polare. L'acqua, di miglio in miglio che il battello guadagnava verso il nord, pareva che diventasse più densa come se fosse prossima a gelare e s'ingombrava sempre più di ghiacci, i quali forse sfilavano sotto l'ice-field cercando un'uscita per tornare a galla. Anche il freddo aumentava. I termometri delle cabine e del salotto indicavano già -17° centigradi, quantunque il battello si tenesse ad una profondità di centocinquanta a duecentocinquanta metri e qualche volta perfino a trecento. Una viva inquietudine agitava l'ingegnere ed anche Orloff. Abbandonavano di frequente i vetri del salotto per consultare gli istrumenti; si recavano ogni quarto d'ora nella gabbia del timoniere per meglio osservare il fondo del campo di ghiaccio e s'interrogavano con una certa ansietà. Perfino i cani parevano irrequieti, poiché di tratto in tratto risuonavano i latrati di Kamo ai quali facevano eco i guaiti lamentosi dei cani esquimesi. Alle nove di sera Mac-Doil, che guardava sovente i termometri, avvertì una sensibile diminuzione di freddo. — Abbiamo soli -15° centigradi — disse ad Orloff. — Che ciò indichi la fine del banco?... — Ciò indicherà forse la fine della zona freddissima, ma credo che il banco non termini così presto — rispose il secondo. — La fine della zona freddissima!... Ma se non siamo ancora al polo!... — E cosa intendete di dire?... — Che quando saremo giunti al polo, avremo ben più freddo di ora. — V'ingannate poiché è una falsa credenza, che il polo debba essere il punto più freddo del globo, come è falsa di certo quella che esista al polo un mare completamente libero. — L'avevo udito raccontare da tante persone istruite. — Vi credo, ma dopo le ultime osservazioni fatte da navigatori polari degni di fede, pare che i luoghi più freddi non si trovino né al polo, né nelle sue vicinanze. «I più grandi freddi finora notati, non sono stati trovati né nella baia di Baffin, né sulle coste della Groenlandia così prossima al polo, ma bensì sulle coste settentrionali della Siberia, a 79° di latitudine Nord e 120° di longitudine Est, dove i termometri segnano ogni anno 60° e perfino 67° sotto lo zero ed a 78° di latitudine Nord e 97° di longitudine Est, cioè al nord delle isole Parry, dove si sono notati 52°, 54° ed anche 55° sotto zero.» — Allora si potrebbe sperare di trovare un mare libero attorno al polo. — No, Mac-Doil. Attorno al polo si estende una calotta di ghiaccio massiccio che forse non si scioglie nemmeno nell'estate, e noi ne abbiamo ora la prova in questo banco che attraversiamo. Vi potranno essere forse dei canali, degli spazi liberi, non essendo mia convinzione, come non lo è pure di numerosi naviganti artici, che vi sia un clima rigido al pari di quello delle due regioni che vi ho citate, ma un vero mare libero no. Guardate: siamo già alla metà di giugno e non si vede qui ancora alcuna traccia di scioglimento dei ghiacci. — Ma questo banco, che si spinga fino al polo?... — Dio non lo voglia. — Non avremo bastante aria per giungere fino al polo? — Forse... vedremo — rispose Orloff, evasivamente. Poi lasciandolo bruscamente si diresse nella gabbia del timone, dove già si trovava l'ingegnere. Il Taimyr continuava a divorare le miglia, pure la volta impenetrabile dell'ice-field non accennava a cessare. Parecchie volte l'ingegnere aveva fatto spegnere la lampada elettrica sperando di scorgere in qualche parte un lembo d'acqua illuminata, ma invano. Lo strato di ghiaccio non aveva nessun crepaccio, nessun buco che permettesse il passaggio della luce esterna. A mezzanotte ancora nulla, quantunque il Taimyr avesse percorso dal mattino quasi trecento miglia. Le inquietudini dei due comandanti e dell'equipaggio aumentavano, avendo notato che l'aria cominciava ad impoverirsi. Alle una i due cacciatori e l'esquimese, non abituati all'aria viziata, respiravano con maggior frequenza, e senza riuscire a empire completamente i loro polmoni ed accusavano un principio di emicrania. L'asfissia lentamente si avanzava, nemico terribile che né l'ingegnere, né Orloff potevano combattere in modo alcuno. Alle due Nikirka ravvivò l'aria lanciando nel battello alcuni metri cubi d'ossigeno. Alle tre, vedendo che la vòlta di ghiaccio continuava, fu fatto un primo tentativo per sfondare la gigantesca prigione. Il Taimyr fu immerso fino a quattrocento metri onde potesse prendere lo slancio, poi fu avventato contro il banco a tutta velocità. L'urto fu terribile. Il battello rimbombò come se fosse scoppiata la macchina o una cassa di dinamite e le sue lastre metalliche scrosciarono come se si fossero spezzate o disarticolate. I mobili del salotto e delle cabine si rovesciarono con indicibile fracasso, mentre gli uomini venivano sbalzati innanzi come fossero stati colli di mercanzia, quantunque avessero avuto la precauzione di aggrapparsi alle sbarre interne del battello. Orloff e l'ingegnere, rialzatisi, si erano affrettati a correre nella gabbia di prora per vedere se la vòlta del colosso polare aveva ceduto sotto l'urto, ma una sgradita sorpresa li aspettava. L'enorme massa di ghiaccio era stata bensì intaccata dall'acuto sperone del Taimyr, però nessun crepaccio era stato aperto. Il fuso gigante d'acciaio era stato vinto dal banco gigante della regione polare. — Non si farà nulla — disse l'ingegnere, coi denti stretti. — Questo ice-field è inattaccabile. — Tentiamo un'altra speronata? — Non avrà un successo migliore, signor Orloff. Se il ghiaccio non ha ceduto dinanzi a simile urto, non si aprirà più mai. — Pensate che fra tre ore quest'aria non sarà più respirabile. Tutta la vostra riserva d'ossigeno non basterà a ravvivarla. — È vero — rispose l'ingegnere, con voce cupa. — Non avevamo calcolato che vi erano a bordo tre uomini di più ed i cani. — Cosa pensate di fare? Riprendere la corsa? — No, proviamo una torpedine. Se possiamo aprire un crepaccio, lanceremo le manichelle. — Credo che sia il partito migliore. — Venite, signor Orloff. — Ma... lo scoppio non determinerà la caduta di qualche masso enorme?... — Un masso, per quanto grande fosse, nessun danno potrebbe causare alla nostra corazza, trovandoci noi sommersi. — È vero, signore. — Seguitemi. I due comandanti si recarono a prora e si misero tosto all'opera. Da un riparto laterale del battello, che era pieno di segatura di legno e di bombace e rivestito d'un grosso strato di celluloide, estrassero un fuso lungo un metro e mezzo, fornito a poppa d'una piccola elica che doveva funzionare mediante un meccanismo d'orologio inventato dall'ingegnere. Era una specie di siluro con cinque chilogrammi di fulmicotone, quantità sufficiente per causare uno scoppio formidabile. Aiutati dai due cacciatori, la torpedine fu caricata poi cacciata nel tubo di lancio che fu subito chiuso. Tosto, mediante la semplice pressione d'un bottone, scomparve entro un'apposita scanalatura una lastra in forma di disco, e l'acqua entrò inondando lo scompartimento del tubo. Un istante dopo si udì il timoniere della gabbia a gridare: — La torpedine è uscita!... — Indietro a tutta velocità! — comandò l'ingegnere. Il battello virò di bordo quasi sul posto e tornò indietro, mentre la torpedine spinta innanzi dall'elica, s'allontanava in senso inverso, radendo la vòlta del banco. — Quanti minuti durerà prima di scoppiare? — chiese Orloff. — Cinque — rispose l'ingegnere, che aveva estratto l'orologio. Erano tornati nella gabbia del timoniere mentre i due cacciatori si erano precipitati agli sportelli del salotto. D'improvviso una sorda detonazione si ripercosse in lontananza ed un turbine di spuma si rovesciò sotto il banco, avanzandosi con una velocità fulminea. Il Taimyr fu avvolto fra quell'onda spumeggiante e fu scosso violentemente da prora a poppa, mentre dalla base dell'ice-field precipitavano, attraverso gli strati acquei, degli enormi blocchi di ghiaccio. — Buon segno — disse l'ingegnere ad Orloff. Il fuso gigante, passata l'onda, erasi lanciato innanzi mentre la lampada veniva spenta. Appena le acque tornarono oscure, l'ingegnere ed il secondo che non avevano abbandonata la gabbia del timone, scorsero un riflesso biancastro che spiccava nettamente a circa sei o settecento metri. Era una macchia di forma irregolare, che pareva prodotta da un raggio di sole riflettentesi attraverso gli strati acquei. — La luce! — esclamò Orloff. — Sì, la luce! — confermò l'ingegnere. — Il campo ha ceduto. — Sì, e fra poco respireremo dell'aria pura. In due minuti il Taimyr era giunto là dove era scoppiata la torpedine. Il fulmicotone aveva prodotto dei guasti enormi nel grande banco. Un tratto immenso del colosso polare era stato screpolato, quasi sventrato, ma la parte superiore aveva però resistito. Un foro nondimeno erasi aperto, della circonferenza di un metro, e di là scendeva un raggio di sole scialbo, ma bastante per illuminare le acque. — È troppo poco — disse Orloff. — Avrei desiderato un crepaccio che ci permettesse di salire sul banco. — Basterà per rinnovare la nostra provvista d'aria, signor Orloff. Salirono la scaletta che conduceva al boccaporto e fecero scattare due molle che dovevano comunicare coll'esterno e che un tampone di caucciù stringeva in modo, da impedire l'entrata della più piccola goccia d'acqua. — Cosa fate signore? — chiese Mac-Doil, che li aveva seguiti. — Mettiamo in libertà le manichelle incaricate di provvederci d'aria — rispose l'ingegnere. — E non ci manderanno dell'acqua invece? — No, poiché alla loro estremità sono fornite di valvole automatiche che non possono funzionare che al contatto dell'aria. Tornarono nella gabbia e scorsero le due manichelle riunite presso il foro, mantenute a galla da un pezzo di sughero circolare. Il battello ad un comando dell'ingegnere fece una mossa innanzi in modo da costringerle a trovarsi proprio sotto l'apertura, poi s'immerse lentamente di alcune diecine di metri, per mantenerle tese. Poco dopo Mac-Doil e Sandoë, che si erano arrestati presso la scala, udirono un leggero sibilo che veniva da uno dei buchi comunicanti colle manichelle e sentirono che l'aria, già tanto impoverita, diventava rapidamente più respirabile. — Che diavoli d'uomini! — esclamò l'ebridano, con ammirazione. — Hanno pensato anche al modo di procurarsi l'aria senza essere costretti a salire alla superficie. Mio caro Sandoë, comincio a credere che noi vedremo ben presto il polo e che ritorneremo tranquillamente senza perdere un solo dollaro. — Anch'io Mac-Doil — rispose Sandoë. — Non ti nascondo però che ero molto inquieto vedendo che i miei polmoni non funzionavano più regolarmente. — Ed io avevo la pelle d'oca. — Credi tu che... — Che cosa?... — Taci!... — Cosa c'è di nuovo?... — Non odi?... — Dove?... — Lassù... da quel tubo che ci trasmette l'aria. Ascolta!... Ascolta, Mac-Doil. — Ohe!... Sandoë!... Sei pazzo?... — No, per mille corna di narvalo!... Ascolta! Mac-Doil stette zitto, aguzzando gli orecchi. Allora udì una voce umana scendere attraverso la manichella che conduceva l'aria e gridare per tre volte: — Hook!... Ka!... Koah!... Hook!... DEGLI UOMINI A TRECENTO MIGLIA DAL POLO Per quanto sembrasse inverosimile, pure non v'era da ingannarsi: era una vera voce umana quella che scendeva dalla manichella la quale funzionava come una tromba acustica. Cosa volessero significare quelle parole, i due cacciatori lo ignoravano; come non potevano immaginarsi chi fosse lo sconosciuto che si trovava su quell'enorme banco, così lontano dalle terre abitate e così vicine al polo. — Fulmini! — aveva esclamato Sandoë. — E lampi! — aveva aggiunto l'ebridano. Poi si erano guardati in viso col più vivo stupore, che tradiva anche un certo terrore. — Che mistero è questo, Mac-Doil? — chiese finalmente Sandoë. — A me lo chiedi?... Voleva domandarlo a te. — Che sia qualche... — Spirito o qualche fantasma?... — Sì, Mac-Doil. — Per centomila foche!... — Corna di narvalo!... — Al diavolo?... — Fuggiamo!... I due cacciatori girarono di comune accordo sui talloni, mentre la voce continuava a scendere distinta, ripetendo: — Hoah!... Ka!... Hoak!... Nel salotto incontrarono l'ingegnere ed Orloff i quali stavano per recarsi nella gabbia di prora, dove si udiva echeggiare la voce del timoniere. — Signore!... — esclamò Mac-Doil, precipitandosi verso l'ingegnere. — Vi sono degli uomini sul banco!... — Degli uomini!... — disse Nikirka, con stupore. — Sognate, Mac-Doil? — No, signore — disse Sandoë. — Vi sono degli uomini o un uomo ed abbiamo udito parlare. — A parlare!... Eh via!... Forse che è possibile udire una voce umana che venga dall'esterno?... — Scende dalla manichella, signore!... — Possibile!... — Sì, sì — confermò Mac-Doil. — Signor Orloff, credete che vi siano degli uomini in questi paraggi? — chiese l'ingegnere. — Qui, a trecento miglia dal polo!... Non lo credo, signore — rispose il secondo. — Ma venite! — gridò l'ebridano. I due comandanti, quantunque fossero convinti che i due cacciatori si erano ingannati, li seguirono sotto il boccaporto ed udirono una voce che scendeva attraverso la manichella. — È vero — disse l'ingegnere, meravigliato. — Qualcuno parla all'estremità del tubo!... — È strano, signor Nikirka, inverosimile, eppure non v'è da ingannarsi — disse Orloff. — Chi credete che siano?... — Forse degli esquimesi. — Ma degli esquimesi ad una così grande distanza dagli ultimi stabilimenti della Groenlandia?... — Che abbiano pescate le manichette? — chiese Mac-Doil. — Sì — rispose l'ingegnere. — Le avranno scambiate per qualche animale di nuova specie. — Che le strappino?... — Non sarebbe da stupirsi. Chiamate Kalutunak e vediamo se intende questa lingua. L'esquimese, che stava sdraiato in mezzo ai suoi cani, fu lesto ad accorrere ed appena udì quella voce che non cessava dal parlare, disse: — Ma questi sono esquimesi, padrone. Io comprendo questa lingua quantunque non sia del tutto eguale a quella che parla la mia tribù. — Rispondi adunque — disse l'ingegnere. L'esquimese accostò le labbra al foro comunicante colla manichella di babordo e fra lui e lo sconosciuto abitatore del banco, s'impegnò questo strano colloquio: — Chi sei?... — Un uomo — rispose lo sconosciuto. — E tu?... Odo uscire delle voci dall'estremità di questo animale. Sei un uomo o una foca, o una morsa di forma diversa dalle altre?... — No, sono un uomo. — Allora perché hai spaventato la mia tribù e non sali?... — Perché mi trovo sotto il mare. — Allora non sei un uomo. — Lo sono. — Ma né io né gli uomini della mia tribù possiamo scendere in acqua. Sei diverso da noi?... — Sono come te. — Lascia che ti veda tutto. È la tua coda quella che io ho pescato col mio arpione? — No, mi manda l'aria per respirare. — Ma non respiri come noi? — Sì. — Allora non comprendo nulla. Da dove vieni? — Da lontano. — Vi sono degli altri uomini fra questi ghiacci?... — Sì. — Ho sempre creduto che non esistesse che la mia tribù, ma se tu parli come me vuoi dire che ve ne sono degli altri. Puoi salire?... — No, se non spezzi il banco. — Lo farò spezzare. — No — disse l'ingegnere il quale ascoltava la traduzione che faceva Kalutunak. — Sarebbero necessarie parecchie settimane di lavoro per aprire un varco così vasto da permettere al battello di galleggiare. Che si ritiri lontano e noi faremo scoppiare un'altra torpedine. Kalutunak trasmise all'abitante della regione polare le parole dell'ingegnere, comandandogli di allontanarsi tosto se non voleva saltare in aria assieme ai ghiacci e di abbandonare la manichella che aveva arpionata. Quando Orloff, dalla gabbia di prora, avvertì che la manichella era ricaduta in acqua, l'ingegnere, da un altro ripostiglio laterale fece levare una seconda torpedine e la introdusse nel tubo di lancio, comandando macchina indietro. La seconda esplosione fu più tremenda della prima ed il battello, quantunque si trovasse ad ottocento metri dal luogo ove la torpedine era scoppiata, fu spinto con grande impeto contro la vòlta dell'ice-field e perdette una delle due manichelle, strappata forse dalla caduta di qualche masso o recisa da qualche ghiaccione coi margini taglienti. Gli effetti di quella nuova carica di fulmicotone furono maggiori delle precedenti. Un tratto di cinquanta metri del banco su una larghezza di venti o trenta, era crollato e da quella grande apertura scendeva un gran fascio di luce. Il battello s'inoltrò entro quel grande squarcio, emergendo tutta la piattaforma e buona parte dell'estremità superiore della poppa e della prora, comprese le due gabbie. L'ingegnere, Orloff, i due cacciatori e l'esquimese salirono sulla piattaforma, ben lieti di poter respirare a pieni polmoni e di poter contemplare un po' di cielo illuminato dal sole. — Che ritorni l'uomo che ci parlò? — chiese Mac-Doil. — Sarà spaventato e si guarderà per ora dall'avvicinarsi — rispose Orloff. — Ma possiamo salire noi — disse l'ingegnere. — Vedo là quel margine che può permetterci una scalata. — Che faccia issare un alberetto? — chiese il secondo. — Ne abbiamo qualcuno nella camera delle macchine e potrà servirci. — Fate pure. I marinai furono tosto avvertiti e s'affrettarono a trasportare sulla piattaforma un alberetto lungo cinque o sei metri, il quale fu appoggiato ad un margine della squarciatura. I due cacciatori prima, poi l'ingegnere, Orloff e l'esquimese s'arrampicarono lestamente su quella specie di ponte, e aiutandosi poscia l'un l'altro salirono sull'ice-field girando intorno, con viva curiosità, gli sguardi. Le prime cose che scorsero su quella immensa distesa di ghiacci, furono tre capannucce di forma semicircolare, simili a quelle usate dagli esquimesi della Groenlandia ossia fabbricate di ghiaccio e di neve e tre uomini di bassa statura, coperti di pelle d'orso bianco ed armati di corni di narvalo aguzzati all'estremità. Quei tre sconosciuti stavano avanzandosi verso la spaccatura, la quale era tutta all'intorno sparsa di enormi massi di ghiaccio sollevati dall'esplosione, ma vedendo quegli uomini che pareva salissero dal mare, si erano subito arrestati come se fossero indecisi fra l'avanzarsi ed il fuggire. Kalutunak si fece però innanzi, gridando: — Tima!... Tima!... (Salute!... Salute!...) Udendo parlare la loro lingua, i tre esquimesi s'avanzarono, con prudenza però, guardando colla più viva curiosità i due comandanti ed i due cacciatori ed emettendo grida di meraviglia. Resi arditi dalle parole di Kalutunak, si misero a girare attorno ai quattro europei, come se volessero accertarsi che non appartenevano ad una specie diversa, toccando i loro stivali, i loro fucili, le loro vesti e finalmente osarono grattare perfino i loro volti come non credessero che quella tinta bianca fosse naturale. L'ingegnere ed Orloff dal canto loro, osservavano con interesse quegli abitanti dell'immenso campo di ghiaccio. Non si potevano ingannare sulla loro origine, poiché avevano i medesimi lineamenti dei groenlandesi, ma le loro vesti non erano lavorate come quelle dei loro compatrioti del sud e nemmeno le loro armi, le quali erano affatto primitive. Si comprendeva anche a prima vista che quei disgraziati, perduti ad una distanza così ragguardevole dagli ultimi stabilimenti danesi, non dovevano aver avuto alcun contatto cogli uomini bianchi non solo, ma nemmeno con quelli della loro razza. Probabilmente molti anni prima, forse dei secoli, qualche famiglia si era spinta fino a così breve distanza dal polo o costretta dalla carestia o da qualche altro imperioso motivo ed i suoi discendenti avevano perduto le tracce del ritorno ed erano sempre rimasti colà, non conservando, dei loro compatrioti che la sola lingua ed anche alterata. Kalutunak si era messo ad interrogare quei tre uomini per sapere come si trovassero colà, ma non aveva ricevuto una risposta soddisfacente. Erano nati in mezzo a quel deserto di ghiaccio dove erano stati sepolti i loro avi, credendo di essere i soli abitatori di quelle regioni, mai avendo udito raccontare dai loro padri che altri uomini vivessero nelle regioni del sud, né mai avendo pensato che altri ne esistessero. — Si credevano soli ad abitare il nostro globo — disse Mac-Doil, dopo udita la traduzione di Kalutunak. — Bella consolazione!... — Per loro il nostro globo non esiste — disse l'ingegnere. — Probabilmente credevano che al di là di questo banco più nulla si trovasse. — Gli avi di questi uomini devono essersi spinti fino qui da parecchie centinaia d'anni — disse Orloff. — Lo credo — rispose l'ingegnere. — Perfino la loro lingua si è corrotta. Mentre chiacchieravano, altri due uomini più giovani e tre donne seguite da alcuni ragazzi, erano usciti dalle capanne di ghiaccio, guardando con stupore quegli esseri sorti dal mare. — Che faccie affamate — disse Mac-Doil. — L'abbondanza non deve regnare qui — rispose Orloff. — Colle armi primitive che posseggono, non devono essere in grado di procurarsi molta selvaggina. — Mancano perfino di cani — disse Sandoë. — Saranno morti forse da secoli. Di tratto in tratto scoppia una epidemia violentissima fra i cani esquimesi e li distrugge in gran numero. — Provvederemo questi poveri abitanti d'armi e d'animali — disse l'ingegnere. Poi volgendosi verso Kalutunak: — Domanda a questi uomini se procedendo verso il nord hanno mai trovato il mare libero. L'esquimese interrogò i suoi compatrioti, ma ci volle molto a spiegare a loro cosa fosse il mare libero e per far comprendere dove fosse il nord. Tutti confermarono di non aver veduto che ghiacci, ma di aver incontrato, nella stagione meno rigida, degli spazi sgombri dove si recavano a cacciare le foche e le morse e dove avevano veduto dei grossi orsi ed altri animali che non avevano osato assalire, essendo grandissimi e vivendo in acqua. Probabilmente alludevano alle balene o altri cetacei di gran mole. Non potendo ricavare maggiori notizie da quegli uomini, i quali non dovevano essersi spinti molto al nord non possedendo né cani, né slitte, l'ingegnere diede il comando di tornare a bordo, avendo fretta di riprendere la navigazione. Prima però di abbandonare il crepaccio, fece dono a quei poveri abitanti di una certa quantità di biscotti, di una cassa di pemmican, d'un barile di maiale salato, di alcune fiocine, d'alcune scuri e coltelli e di due cani esquimesi, maschio e femmina, facendo insegnare a loro da Kalutunak il modo di servirsene, e d'una piccola slitta. A mezzodì il Taimyr, seguito dagli sguardi meravigliati di quegli esquimesi, s'inabissava per riprendere la corsa sotto l'interminabile banco di ghiaccio. AVANZI D'ANIMALI ANTIDILUVIANI L'ice-field continuava sempre compatto, senza spaccature, ma accennava però a diminuire di spessore, poiché il battello il quale si manteneva a cento metri di profondità, non incontrava più alcun ostacolo e vedeva crescere la zona d'acqua superiore, segno evidente che l'immersione del colosso a poco a poco diminuiva. S'incontravano però ancora miriadi di frammenti di ghiaccio, che una corrente scendente al sud trascinava verso i climi più miti, facendoli scivolare sotto il banco. Anche qualche pesce appariva nei pressi degli sportelli e così pure qualche foca e la presenza di questi anfibi indicava come il ghiaccio fosse già meno grosso. Certo lo sgelo doveva essere cominciato anche in quelle alte latitudini, e doveva aver cominciato a sciogliere la gigantesca calotta di ghiaccio che stringeva il polo come entro una morsa. Già si sentivano delle sorde detonazioni echeggiare di tratto in tratto in mezzo ai ghiacci e quello era un indizio certo dello scioglimento dei colossi polari. Per altre sei ore il Taimyr continuò a divorare le miglia senza rinnovare il tentativo per aprirsi il passo attraverso il banco, poi fu bruscamente arrestato da un comando che il timoniere aveva rapidamente trasmesso agli uomini della macchina. Dalla gabbia di prora aveva scorto una massa enorme, di colore oscuro, disegnarsi all'estremità del fascio luminoso proiettato dalla lampada elettrica ed ignorando cosa fosse, aveva comandato precipitosamente macchina indietro. L'ingegnere, Orloff ed i due cacciatori che stavano cenando, sentendo il battello ad arrestarsi s'alzarono frettolosamente e si recarono nella gabbia. — Cosa succede? — chiese l'ingegnere, al marinaio che stava al timone. — Signore, — rispose questi, — la via ci è chiusa. — Dai ghiacci? — No, da una massa oscura che pare sorga dal fondo del mare. — Un'isola forse?... — O la costa groenlandese? — disse Orloff. — Non abbiamo mantenuta una direzione costante? — Sì, signor Nikirka, — rispose il secondo, — ma la costa può spingersi verso l'ovest. — Ora lo vedremo: governate verso l'ovest. Il battello virò di bordo avvicinandosi ad una costa che saliva verticalmente dal fondo del mare e liscia come una parete e si mise a seguirla, tenendosi a quattrocento metri di distanza. Il campo di ghiaccio si univa a quella terra senza che vi si scorgesse alcuna fessura, però non doveva avere un grande spessore, poiché lasciava trapelare una pallida luce dovuta ai raggi del sole che lo illuminavano esternamente. Per mezz'ora il Taimyr seguì la costa, poi questa si ripiegò bruscamente verso l'est ed il mare tornò libero. — Forse è un'isola — disse l'ingegnere ad Orloff. — Lo credo anch'io — rispose questi. Un'ora più tardi un'altra terra apparve dinanzi la prora del battello, mentre il fondo marino si mostrava a soli pochi metri forse dieci o dodici, cosparso di certe specie d'alghe di color nero e molto sottili. Il Taimyr la girò con estrema prudenza per tema di arenarsi su qualche bassofondo, ma più oltre ne trovò una terza mentre l'acqua continuava a scemare e la crosta di ghiaccio diventava sempre più sottile. Pareva che in quel luogo si estendesse un piccolo arcipelago e che il mare accennasse a terminare in mezzo ad una lunga serie di bassifondi. Il Taimyr si trovava imbarazzato a manovrare in mezzo a quei banchi coperti d'alghe, i quali potevano da un istante all'altro arrestarlo e forse per sempre. — Bisogna rompere il ghiaccio — disse l'ingegnere, che cominciava a diventare inquieto. — Dove credete che ci troviamo, signor Orloff? — A duecento miglia dal polo e fors'anche meno, se i miei calcoli sono esatti. Ho tenuto rigorosamente conto delle miglia che abbiamo percorse. — Sfondiamo la volta di ghiaccio ed andiamo a vedere dove possiamo trovare un passaggio. — Basterà una leggera speronata. Lo sgelo ha minato il banco, il quale ormai non ha più d'un metro e mezzo o due di spessore. — Approfittiamo finché abbiamo acqua bastante per assalirlo. Furono aperte le valvole dei serbatoi di poppa per spostare l'asse del Taimyr, poi il banco fu assalito. Bastò una sola speronata per produrre una grande squarciatura che aveva una lunghezza di sessanta o settanta metri. Il battello, appena galleggiò libero, riprese il suo equilibrio essendo state messe in opera le pompe per ricacciare l'acqua dai serbatoi di poppa ed il boccaporto fu aperto. L'ingegnere, Orloff ed i due inseparabili cacciatori salirono, salutando il sole, che splendeva superbamente in un cielo purissimo, facendo scintillare i campi di ghiaccio. Dinanzi al battello, a meno di mezzo chilometro dalla prora, un isolotto di forse due miglia d'estensione, irto di rocce e colle sponde basse, emergeva dal campo e tre altri se ne scorgevano a poppa, ma ad una distanza maggiore ed egualmente piccoli. Lo sgelo aveva già denudate le sponde del loro rivestimento invernale, però nelle loro vicinanze si vedevano dei grandi ice-bergs che dovevano essersi arenati sui bassifondi. Verso l'est, a quindici o venti miglia, si profilava una costa che doveva essere assai alta e più oltre si vedeva una montagna giganteggiare sul luminoso orizzonte, ma ancora tutta coperta di neve. Animali non se ne vedevano, però in alto e sul banco di ghiaccio vi erano bande numerosissime di uccelli, di urie, di lumme, di pernici di neve, di strolaghe, di oche bernide, di gazze marine e di auk. — Che isola è quella? — chiese l'ebridano, indicando la più vicina. — L'isola Mac-Doil — rispose l'ingegnere, sorridendo. — L'isola Mac-Doil!... — esclamò l'ebridano. — Scherzate signore?... — No. — E le altre? — chiese Sandoë. — La prima è l'isola Taimyr, la seconda Orloff e la terza Sandoë. Vi garba?... — Ma io non ho mai saputo che vi fossero qui delle isole... — Che portano i vostri nomi, quello di Orloff e del nostro battello, ma essendo queste isole da nessuno mai vedute prima d'ora, le chiameremo così. Le abbiamo scoperte noi e possiamo imporre loro i nomi che vogliamo. — Grazie, signore — dissero i due cacciatori. — E quella costa che sorge all'est, la chiameremo Terra di Nikirka — disse Orloff. — Vi piace signore? — Sia — rispose l'ingegnere. — Faremo uno schizzo di queste isole e di quella costa e lo riporteremo sulla nostra carta polare unitamente ai nostri nomi. Vedete acqua libera in nessun luogo signor Orloff? — No, però la crosta di ghiaccio mi pare che diventi così sottile più oltre, da poter navigare a fior d'acqua. — Allora cercheremo di guadagnare quell'isola. Sono curioso di visitarla. Essendo il ghiaccio ancora troppo grosso dove era stato spezzato, il Taimyr tornò ad immergersi e navigò lentamente verso l'isola segnalata, girando attorno ai banchi coperti di alghe nere ed altifondi melmosi. Un quarto d'ora dopo tornava a sfondare la crosta di ghiaccio ed essendo quello grosso solamente pochi pollici, si mantenne a fior d'acqua, speronandola poderosamente per aprirsi il passo. Il ghiaccio si spezzava dovunque crepitando e rimbalzando in forma di lastroni, senza opporre una seria resistenza continuando a diminuire il suo spessore, specialmente in vicinanza dell'isola. Alle tre pomeridiane il battello si arrestava in una piccola baia che terminava in una palude coperta di crostoni di ghiaccio e di pochi hummoks arenati e già in parte disciolti. I due comandanti ed i due cacciatori armatisi di fucili ed accompagnati dal molosso presero terra, fugando colla loro presenza stormi di oche e di urie. Lo sgelo era già cominciato su quell'isolotto. Alcuni tratti di terreno erano ormai sgombri di neve ed i licheni erano spuntati assieme ai piccoli salici, ai muschi ed alle sassifraghe. Nelle bassure si vedevano già dei piccoli laghetti sulle cui acque nuotavano parecchi uccelli marini e dei torrentelli i quali seguendo i pendii della costa, scorrevano verso il mare, mentre dalle rupi semisgelate scendevano rumoreggiando e scrosciando delle cascatelle. L'ingegnere ed i suoi compagni stavano per mettersi in cammino, essendo certi di poter scovare qualche selvaggina o sulle coste o nelle parti centrali dell'isolotto, che erano irte di rocce d'origine vulcanica, quando udirono Kamo latrare con furore. — Che abbia trovato qualche foca o qualche tricheco? — chiese Sandoë. — È probabile — rispose Mac-Doil. — Avanziamoci in silenzio — disse l'ingegnere. — Un po' di carne fresca la desidero. Armarono i fucili e girarono alcune rupi dietro le quali si era cacciato il molosso; giunti in un terreno semi-inondato invece d'una foca o d'una morsa, videro semiaffondato in uno strato melmoso uno scheletro enorme, mostruoso, che di primo aspetto potevasi scambiare per una nave priva di fasciame, coi soli corbetti. — Lampi! — esclamò Sandoë. — Cos'è?... — Lo scheletro d'una balena, forse?... — chiese Mac-Doil. — Una balena a terra!... — esclamò Orloff. — Che io sappia, i cetacei non hanno ancora imparato a camminare. S'appressarono a quello scheletro guardandolo curiosamente. Era di dimensioni assolutamente straordinarie, poiché misurava almeno dodici metri in lunghezza e doveva avere una circonferenza di almeno dieci. Il capo, pure di dimensioni enormi, era armato di due lunghissimi denti ricurvi, tre volte più grossi di quegli degli elefanti e molto più arcuati e che parevano d'avorio, mentre le ossa delle zampe, grosse come la coscia d'un uomo, misuravano almeno cinque metri. — Lampi!... — esclamò Mac-Doil. — Se non fossi certo di essere lontano parecchie migliaia di miglia dall'Africa, direi che questo è lo scheletro d'un elefante colossale. — Se non è lo scheletro d'un vero elefante, appartiene alla medesima specie, poiché questo è un mammouth, — rispose l'ingegnere. — Che specie di bestia è?... — chiese Sandoë. — Un animale, che somigliava agli elefanti, ma la cui mole raggiungeva il triplo di quelli che vivono ora fra le foreste dell'Asia e dell'Africa. — Non vi sorprende signore, di trovare presso al polo un simile animale?... — No, poiché anche nelle tundra, ossia negli immensi ghiacciai e nelle paludi della Siberia, si trovarono numerose ossa di questi animali. Anzi so che a Pietroburgo si conserva la testa d'un mammouth in ottimo stato. — Erano animali polari?... — Sembra invece che non lo fossero. — Come si trovano qui in mezzo ai ghiacci, mentre gli elefanti preferiscono i paesi caldi? — Probabilmente perché nell'epoca in cui i mammouth vivevano, la terra non si era ancora raffreddata alle estremità del suo asse — rispose l'ingegnere. — Orsù, basta e mettiamoci in caccia. Ho scorto laggiù qualche cosa di biancastro che si muove e può essere un orso. Abbandonarono il gigantesco carcame e si misero a seguire le sponde dell'isola, essendo più certi di abbattere della selvaggina non allontanandosi le foche, le morse e gli orsi bianchi dal mare. L'ingegnere non si era ingannato dicendo che scorgeva qualche cosa di bianco agitarsi presso i ghiacci della sponda. Pareva un piccolo anfibio, poiché si vedeva immergersi presso il margine del grande banco il quale presentava in quel luogo parecchie spaccature. — Si direbbe una piccola foca — disse Mac-Doil, che aveva armato il fucile. — So che i piccini d'alcune specie sono bianchi come la neve. — Allora ci sarà anche la madre — disse l'ingegnere. Tenendosi nascosti dietro le rocce ed agli hummoks, in pochi minuti giunsero a cento passi da quell'animale e videro che si trattava precisamente d'una piccola foca dal mantello perfettamente bianco, lunga appena sessanta centimetri. Sandoë spianò prontamente l'arma e con una palla ben aggiustata la stese a terra senza vita. Stava per lanciarsi innanzi, quando si vide emergere dalle acque la madre e salire faticosamente la spiaggia, lanciando dei latrati rauchi e profondi che tradivano una viva irritazione. — Corna di narvalo! — esclamò il cacciatore, stupito. — Che specie di foca è quella?... La sorpresa di Sandoë era legittima, poiché quell'anfibio era diverso dalle altre foche, se non di corpo, certo la sua testa era molto strana. Misurava due metri, lunghezza straordinaria per una foca, aveva il corpo grosso, la coda assai piatta, i piedi armati di unghie lunghe e ricurve ed il mantello setoloso, leggermente sollevato, di tinta bruna rossiccia a macchie ovali oscure ed il ventre grigiastro. La sua testa poi era grossa, col muso pieno, ed aveva sul cranio una specie di berretto o di cresta rigonfia, lunga un venticinque centimetri ed alta altrettanto, che dava all'animale un aspetto stranissimo e minaccioso. — Un neitersoak — disse Orloff. — State in guardia: questi anfibi sono coraggiosi e non indietreggiano dinanzi ai cacciatori. — Una foca crestuta o dal berretto? — chiese l'ingegnere. — Sì, signore. — Sia anche indiavolata, io la ucciderò — disse Mac-Doil. La foca, scorgendo i cacciatori e vedendo il suo piccino morto, immerso in una pozza di sangue, si era gettata innanzi, facendo sforzi furiosi per trascinarsi. Kamo si era subito precipitato contro l'anfibio, ma aveva tosto ricevuto un colpo di testa così violento, da mandarlo a gambe levate. Mac-Doil furioso di vedere il suo coraggioso cane tenuto in iscacco da una semplice foca mentre si cimentava coi formidabili orsi bianchi, si slanciò innanzi e fece fuoco a quaranta passi. Il cacciatore non aveva mancato al colpo. La povera madre, colpita nel cranio, si era violentemente rizzata sulle pinne posteriori, poi era caduta presso il piccino dibattendosi fra le ultime strette dell'agonia, mentre la sua cresta si sgonfiava rapidamente ricadendole sul naso ma conservando una forma bizzarra che ricordava la carena d'una nave. — Signore — disse Mac-Doil, che girava attorno alla preda. — Non ho mai veduto di queste foche. — Sono piuttosto rare nelle isole americane del Nord e sono scarse anche sulle coste della Groenlandia e perciò poco conosciute — rispose l'ingegnere. — Nondimeno se ne uccidono ogni anno mille ed anche duemila. — Hanno costumi diversi dalle altre? — Non lo credo. — No — disse Orloff. — Sono però più battagliere. — A cosa serve quella cresta? — A nulla. È una specie di membrana che si gonfia solamente quando l'anfibio è irritato. — Potete tornare a bordo colla selvaggina — disse l'ingegnere ai cacciatori. — Venite signor Orloff, faremo il giro dell'isola; una passeggiata ci farà bene. I PRIMI BUOI MUSCHIATI Mentre i due cacciatori, aiutati da Kamo, si affrettavano a porre in salvo le foche trascinandole verso la spiaggia, i due comandanti si rimettevano in marcia seguendo le coste dell'isola. Migliaia di uccelli nidificavano fra le rocce e si lasciavano avvicinare senza troppo spaventarsi, segno evidente che non erano abituati a vedere uomini, né a temerli. Abbondavano sopratutto le lumme, chiamate anche baccalaobird, le quali covavano il loro uovo mantenuto ritto con ambe le zampette, standovi come sedute sopra, e le procellarie fulmar, volatili assai grossi che servono di lampade per gli esquimesi, bastando cacciare nella loro gola un lucignolo per vederlo ardere benissimo e che covando le loro uova producono un rumore somigliante a quello d'una ruota mossa rapidissimamente. Vi era anche qualche albatro il quale volteggiava sopra i banchi di ghiaccio con grande rapidità, lanciando di tratto in tratto il suo sordo grugnito. Nelle pianure dell'isola si vedevano invece delle volpi polari dalla splendida pelliccia azzurro-argentea, le quali parevano assai sorprese nel vedere quegli uomini e che non si decidevano a fuggire se non quando udivano i latrati minacciosi di Kamo. Anche una pekan o mustela pescatrice fu scorta presso un crepaccio del ghiaccio, ma fu lesta a scomparire. Di quando in quando l'ingegnere ed Orloff s'arrestavano per osservare il suolo, il quale sembrava assolutamente vulcanico, essendo composto di tufo rossastro, di vecchie lave, di scorie e di pomici come quello delle regioni australi. Altre volte invece si arrestavano per disseppellire delle ossa mostruose appartenenti ad altri mammouth e ne trovarono pure alcune che parevano avessero appartenuto ad altri animali più giganteschi, probabilmente a dei mastodonti, avendo messo allo scoperto un cranio colossale munito di due mandibole lunghe parecchi metri. Proseguendo la marcia, videro galoppare fra le rocce dell'isolotto dei grossi capi di selvaggina, che non credevano di trovare a così breve distanza dal polo. Quegli animali avevano più l'apparenza di grossi montoni che di buoi, parevano anzi segnare un passaggio fra le pecore ed i bovini, quantunque somigliassero pure anche ai bufali. Erano di corporatura massiccia, con gambe corte, il muso peloso, breve ed ottuso, col capo armato di due corna, assai larghe alla base dove formavano sul cranio due grosse protuberanze che difendevano anche parte della fronte, e che poi s'incurvavano in avanti terminando in punte assai aguzze. Il loro pelame era bellissimo, lungo tanto che scendeva quasi fino a terra, setoloso, bruno-oscuro sul dorso e più chiaro verso le estremità inferiori. I due comandanti li riconobbero senza fatica. Erano buoi muschiati, animali che s'incontrano solamente nelle isole americane dell'Oceano Artico, ed in numero scarso. Avrebbero desiderato abbatterne qualcuno, ma quei buoi che sono estremamente sospettosi, non si lasciavano avvicinare e fuggivano nelle vallette. Quando tornarono a bordo, dopo d'aver compiuto il giro dell'isola, erano le otto di sera. I due cacciatori avevano già scuoiata la foca e fatto cucinare il cervello e la lingua, due bocconi non disprezzabili. Il Taimyr alle nove riprendeva la corsa verso il nord, speronando i ghiacci, i quali cedevano facilmente all'urto. Al di là dell'isola l'acqua era tornata profonda, sicché poteva procedere liberamente senza tema di arenarsi su qualche banco. Manteneva però una velocità moderata, non sapendo i due comandanti se l'acqua avrebbe continuato a mantenersi sufficiente. Tutta la notte — notte per modo di dire, poiché ormai il sole non tramontava più — il Taimyr s'avanzò verso il nord e verso le sei antimeridiane incontrava un altro isolotto di mezzo miglio di circonferenza, mentre sulla sua destra, la costa intraveduta il giorno precedente, s'abbassava rapidamente e s'incurvava verso l'est. Pareva che la costa della Groenlandia finisse là, non scorgendosi oltre nessuna altra terra spingersi verso il nord. I ghiacci intanto scemavano sempre e la temperatura diventava quasi tiepida, oscillando fra lo 0° ed i 7°. Vi erano però qua e là alcuni vecchi ice-bergs ancora di grandi dimensioni, che dovevano sfidare la breve estate polare senza sciogliersi completamente, e gran numero di streams e di palks che si lasciavano trasportare da qualche corrente che pareva scendesse verso l'ovest. Alle dieci il secondo isolotto fu veduto verso l'ovest, un po' più grande del precedente e sulle cui sponde si vedevano alcuni orsi bianchi che pareva spiassero le foche o le morse, ma quasi contemporaneamente Orloff, che aveva allora gettato lo scandaglio, avvertì che il fondo marino saliva rapidamente. — Ma invece del famoso mar libero, che vi sia una specie di palude al Polo Nord? — disse l'ingegnere. — Tutto lo indica — rispose Orloff. — Guardate quante alghe si vedono sorgere dal fondo dei canali. — È vero — disse Nikirka. — Mi rincrescerebbe di non trovare acqua bastante, per spingere il mio battello proprio sotto la stella polare. La velocità del Taimyr fu ridotta a tre nodi all'ora, dovendosi procedere collo scandaglio alla mano, il quale non dava che undici metri d'acqua. Sperando di trovare una profondità maggiore, l'ingegnere fece dirigere il battello verso l'est, poi verso l'ovest, però senza felice risultato. Dovunque il fondo saliva ed era ingombro di alghe nere e sottili e sparso di banchi melmosi. A mezzodì i due comandanti fecero il punto. — Siamo a 88° e 53' di latitudine ed a 60° e 14' di longitudine, — disse Orloff a Mac-Doil che lo interrogava, — ossia noi siamo a sole sessantasette miglia dal polo. — Fulmini!... — esclamò Sandoë. — E lampi! — aggiunse l'ebridano. — Si può dire che siamo a due passi da quel famoso polo. Vedremo finalmente cosa si troverà. — Ve lo potete immaginare ormai — disse l'ingegnere. — Poca acqua, dei banchi fangosi e qualche isolotto. Signor Orloff, abbiamo acqua sufficiente? Il secondo che stava scandagliando il fondo colla sonda, mentre il Taimyr descriveva un semicerchio da levante a ponente, rispose: — Abbiamo nove metri a tribordo e mi pare che questa profondità accenni a continuare verso il nord. — Cerchiamo di avanzare, signor Orloff. Il comando fu trasmesso agli uomini della macchina ed il battello si ripose in marcia, procedendo con una velocità di tre nodi all'ora, mentre il secondo continuava a scandagliare il fondo. Pareva che avessero trovato una specie di canale, poiché l'acqua si manteneva sempre alta dai nove ai dodici metri, profondità più che sufficiente per il battello che non pescava molto. Alle cinque, quando già il Taimyr, che aveva accelerata la corsa, si trovava a sole cinquanta miglia dal polo, i naviganti incontrarono un gruppo d'isolotti pantanosi, circondati da ice-bergs. Erano sei o sette, tutti piccoli, non misurando il maggiore più di ottocento metri di circonferenza ed abitati da un numero enorme di uccelli marini, i quali facevano un baccano indescrivibile. In un pantano furono pure veduti tre orsi bianchi, ma erano troppo lontani per pensare ad inseguirli, e poi il battello non avrebbe forse trovata acqua bastante per avvicinarsi a quegli isolotti. Alle undici l'ingegnere, il quale non aveva abbandonato la piattaforma un solo istante, segnalò verso il nord la cima d'una montagna che pareva dovesse avere una considerevole elevazione. — Signor Orloff, — chiese con una viva emozione, — avete tenuto conto della via percorsa? — Scrupolosamente — rispose il secondo. — Quanto distiamo dal polo?... — Ventisette miglia. — Quanto credete che sia lontana quella vetta? — Forse venticinque o ventisei. — Il polo è là, adunque?... — Sì, signor Nikirka. — Continua il canale? — Sempre. — Acceleriamo la marcia. Il Taimyr un istante dopo riprendeva la sua corsa ordinaria di quindici nodi all'ora. A destra ed a sinistra continuavano ad apparire bassifondi melmosi coperti di ghiacci arenati; dinanzi alla prora del battello però l'acqua non veniva meno. I due cacciatori erano saliti sulla piattaforma e, come l'ingegnere, non staccavano gli sguardi da quella montagna che ingigantiva di momento in momento e che doveva servire per modo di dire, di perno al nostro pianeta. Parevano entrambi commossi, come dovevano esserlo i comandanti del battello. La montagna che pareva emergesse dalle acque di passo in passo che il battello s'avanzava verso il nord, sembrava un enorme pane di zucchero e l'illusione era perfetta poiché era coperto d'un candido manto dalla base alla cima ed i suoi fianchi apparivano perfettamente lisci ed inaccessibili. Il sole che allora sfiorava l'orizzonte, colpendolo di traverso, lo faceva scintillare e tingeva la sommità d'una splendida tinta rosso-viva, come se lassù irrompessero delle lave ardenti. Alla mezzanotte sole undici miglia separavano il battello dalla montagna, la quale ormai mostrava la sua base che sembrava perfettamente circolare e che si vedeva circondata da ghiacci che i raggi del sole rendevano fiammeggianti. L'ingegnere, in piedi, colle mani appoggiate alla cancellata della piattaforma, sembrava che a poco a poco si trasfigurasse. Una gioia intensa traspariva dal suo viso, mentre i suoi sguardi, che brillavano d'una strana luce, non si staccavano un solo istante dalla vetta della montagna, come se quella esercitasse su di lui un fascino misterioso. Anche Orloff si dimenticava di scandagliare il fondo e rimaneva immobile per qualche minuto, cogli sguardi fissi sulla montagna giganteggiante fra un mare di luce porporina. Alle dodici e ventisette minuti il Taimyr s'arrestava sotto quel cono, urtandolo col tribordo con un tintinnìo metallico, che risuonò lungamente fra il profondo silenzio che regnava in quel punto, dove avrebbero dovuto riunirsi tutti i meridiani del globo. L'ingegnere appoggiò ambe le mani su quella montagna, prima d'allora immacolata, vergine da qualsiasi contatto cogli uomini della terra, dicendo: — Sei mia!... Poi afferrando una bandiera azzurra, in mezzo alla quale campeggiava in lettere dorate il nome del Taimyr e che Orloff gli porgeva, piantò l'asta fra le nevi che coprivano le ripe, mentre i due cacciatori e l'equipaggio che era salito sulla piattaforma si scoprivano il capo, gridando: — Urrah!... Urrah!... Urrah!... I MISTERI DEL POLO Il Polo Nord, quel terribile polo che aveva costato tante vittime umane alle nazioni europee ed americane; che aveva inghiottite tante navi, che aveva fatto piangere tante vedove, che aveva divorato tanti milioni, che aveva distrutte tante energie per tre lunghi secoli, era stato finalmente vinto. La sua formidabile barriera di ghiacci che lo guardava gelosamente e contro la quale erano andate ad infrangersi miseramente tante spedizioni, era stata ormai violata, come non era più rimasta segreta la sua montagna che rappresentava uno dei due culmini del mondo. Il battello sottomarino tutto aveva vinto: i campi di ghiaccio, i freddi intensi, lo scorbuto, questa terribile malattia che pare imperi nelle regioni polari, i furori dell'Oceano Artico, i foschi nebbioni, tutto!... Due mesi soli erano bastati, per quell'ammirabile fuso d'acciaio costruito dall'audace ingegnere finlandese, per abbattere tutti i formidabili ostacoli che avevano arrestate le navi dei più intrepidi naviganti dei due mondi, di Caboto, di Verazzano, di Hudson, di Baffin, di Barentz, di Fluntow, di Zorgdrager, di Phypps, di Davis, di Hall, di Knight, di Ross, di Parry, di Franklin, di Inglefield e di tanti e tanti altri avventuratisi fra i ghiacci polari. Ah! Poteva bene essere orgoglioso l'audace ingegnere di quel successo meraviglioso, incredibile, come lo potevano essere i suoi bravi marinai che lo avevano secondato nell'impresa. Il Taimyr dopo quel primo contatto con quella terra perduta si può dire, ai confini del mondo, aveva ripresa la marcia girando attorno alla montagna che s'innalzava bruscamente dal fondo del mare. Pareva che l'ingegnere cercasse qualche punto dove sbarcare e tentare forse l'ascensione di quel cono, ma si avrebbe detto che quella terra non volesse essere contaminata da alcun piede umano, poiché non offriva approdi in alcun luogo. Era un vero cono alto forse duecentocinquanta metri, colle pareti perfettamente lisce, senza una screpolatura, senza una sporgenza qualsiasi. Era una roccia gigante impossibile a scalare che doveva conservare forse per sempre la sua cima vergine da ogni contatto cogli abitanti del globo. Pareva che perfino gli ultimi ghiacci tentassero di difenderla, poiché all'intorno si erano accumulati colossali ice-bergs, formando un'ultima, ma formidabile barriera. Orloff e l'ingegnere, mentre il Taimyr compiva il giro del cono, scandagliavano il fondo, ma cosa strana: mentre fino allora avevano incontrati dei bassifondi, colà l'acqua doveva avere una profondità straordinaria, poiché le sonde di trecento braccia non toccavano. Senza dubbio in quel luogo doveva trovarsi un avvallamento enorme, una specie di bacino profondissimo. — Non posso toccare la cima, ma almeno andremo a toccare il fondo — disse l'ingegnere ad Orloff. — Lo desiderate, signore? — Sì, — rispose l'ingegnere, — ma dopo mezzogiorno. — Perché? — chiese Sandoë. — Per essere certo che noi siamo realmente al polo. — Torneremo poi verso il sud? — Sì, prima che il sole tocchi l'orizzonte, noi saremo lontani da qui. — Rifaremo il cammino percorso? — chiese Orloff. — No, se troveremo un altro passaggio fra questi banchi subacquei. Desidererei raggiungere i mari d'Europa girando le coste settentrionali della Groenlandia. Credete possibile questa ritirata verso il sud-est?... — Mi sembra che verso l'est non vi siano né banchi, né isolotti — rispose Orloff che aveva puntato il cannocchiale in quella direzione. — Meglio così; in venti giorni potremmo avvistare le coste dell'Islanda. — E poi le Fär-Öer? — chiese Sandoë, con viva emozione. — Se vorrete rivederle — disse l'ingegnere. — Grazie, signore. — Andiamo a far colazione — disse Mac-Doil. — Odo il campanello del mio amico cuoco. Il cuoco aveva preparata una colazione squisita e copiosa come se avesse voluto che il padrone e gli ospiti festeggiassero degnamente il lieto avvenimento. La dispensa era stata saccheggiata e così pure la riserva delle bottiglie. La minuta si componeva di prosciutti affumicati, di uova di oche bernide, che erano state raccolte due giorni innanzi sulle rive dell'isolotto visitato dai cacciatori, di kaviale di Russia, di bue muschiato in salsa piccante, di zampone d'orso arrostito, di pesci in aceto, di frutta secche e d'un pudding monumentale, poi di bottiglie del Reno, di Bordeaux, di birra e due di Champagne. Per ultimo fu servito un punch fiammeggiante. Tutti, l'equipaggio compreso che aveva ricevuto il permesso di sedersi alla tavola dei comandanti, assalirono quelle diverse vivande con appetito invidiabile e soprattutti Mac-Doil a cui l'aria del polo conferiva assai, almeno così asseriva con tutta serietà. Allo Champagne furono fatti numerosi brindisi all'ingegnere, ad Orloff, al Taimyr ed al Polo Nord. Quando s'alzarono era vicino il mezzogiorno. Orloff, l'ingegnere ed i due cacciatori salirono sulla piattaforma ed essendo il sole splendido, fu tosto fatto il punto. — Signori — disse Nikirka, scoprendosi il capo. — Noi siamo al Polo Nord!... — Sì — disse Orloff. — Siamo a 90° di latitudine Nord ed all'estremità del 60° parallelo. I tre urrah di rigore echeggiarono per la seconda volta su quell'estremo punto del mondo, fugando i pochi uccelli, che più fortunati degli esploratori, volteggiavano sulla candida vetta della montagna. Un istante dopo il boccaporto veniva chiuso ed il Taimyr si inabissava lentamente nell'Oceano Artico, per esplorarne il fondo. Gli sportelli del salotto erano stati aperti e la lampada elettrica accesa, prevedendo che quel bacino sarebbe stato ben profondo, dopo gli scandagli fatti. L'ingegnere, Orloff ed i due cacciatori si erano messi dinanzi alle grandi lenti sperando di vedere qualche abitatore di quel bacino, ma senza poter soddisfare la loro legittima curiosità poiché quelle acque parevano disabitate. Quella mancanza assoluta di pesci parve sorprendesse vivamente l'ingegnere e la sua meraviglia dovette accrescersi nel constatare degli strani, inesplicabili fenomeni. Di metro in metro che il battello s'immergeva, le bussole di bordo, come al polo magnetico, davano segni d'una viva irrequietezza. Oscillavano vivamente, poi compivano dei giri vertiginosi e le loro lancette s'inclinavano fino a toccare il fondo delle scatole metalliche. Cosa ancora più strana: perfino alcune calamite sospese a dei fili, che servivano a calamitare gli aghi delle bussole, parevano che subissero una attrazione violentissima, poiché quantunque il battello s'inabissasse senza scosse, ondulavano dal nord al sud. Da che cosa poteva derivare quell'attrazione potente che faceva impazzire gli aghi e che scuoteva perfino le calamite?... Né l'ingegnere, né Orloff erano capaci di trovare una spiegazione di quel singolare fenomeno. Perfino il gigantesco fuso d'acciaio pareva che subisse un'attrazione verso il fondo dell'oceano, poiché scendeva con maggior rapidità, come se non trovasse alcun ostacolo nell'acqua. — Cosa pensate voi di questo fenomeno sorprendente? — chiese Orloff all'ingegnere. — Non so cosa dirvi. — Che nel fondo del mare vi siano delle enormi masse di calamita?... — È probabile, ma dovrebbero essere d'una potenza straordinaria, poiché anche il Taimyr ne sente l'influenza. — E... — Dite. — Non provate alcuna cosa voi?... — Sì, un'alterazione strana dei miei nervi. — Sì, signor Nikirka. Da cosa credete che provenga?... — Non lo saprei, ma si direbbe che quest'acqua che circonda il polo è straordinariamente satura di elettricità. — L'avete notata stamane, all'aria libera, l'agitazione dei vostri nervi? — No, signor Orloff. — E nemmeno io. Che stia per succedere qualche fenomeno?... — Chi può dirlo?... A quale profondità siamo? — Ad ottocento metri. — Fate spegnere la lampada elettrica. — Perché signor Nikirka?... — Lo saprete poi. L'ordine fu tosto trasmesso nella sala delle macchine ed una profonda oscurità circondò il battello, il quale allora stava per toccare i mille metri. D'improvviso fra le acque si vide balenare una strana luce ma che subito si spense. Pareva che un lampo, sorto dalle profondità del mare, avesse illuminati gli strati d'acqua, ed aveva infatti quella tinta livida, cadaverica, che tramandano i lampi prima che scoppi un uragano. — Avete veduto? — chiese l'ingegnere ad Orloff. — Sì — rispose questi, che era al colmo dello stupore. — Signore — disse Sandoë, che era diventato pallido. — Scendiamo all'inferno noi?... Si direbbe che il Taimyr precipita verso gli abissi dell'oceano. L'ingegnere non rispose. Un altro lampo aveva squarciato le tenebre facendo scintillare le acque, mentre delle lunghe strisce rosse pallide e verdi languide erano state vedute guizzare in varie direzioni, per poi spegnersi quasi subito. — Signor Orloff — disse ad un tratto l'ingegnere. — Che sia da queste acque che s'innalzano le aurore boreali?... Cosa dite voi?... — Dico signore, — rispose il secondo che per la prima volta sembrava in preda ad un vivo terrore, — che noi siamo a mille e cinquanta metri di profondità, che il fondo non si vede ancora e che le nostre bussole, se continuiamo la discesa, si sfalseranno in modo da non poter più ottenere una direzione approssimativa. — Volete dire che sarebbe meglio ritornare alla superficie del mare. — Sì, signore. — E lo desidero vivamente anch'io, per centomila foche! — disse Mac-Doil. — Queste luci misteriose mi fanno paura, signor Nikirka. L'ingegnere guardò le bussole. Parevano assolutamente impazzite. Giravano vertiginosamente, oscillavano e subivano delle scosse così repentine da credere che volessero sbalzare giù dalla punta che le sosteneva. — Saliamo — disse. — Le bussole sono troppo preziose per perderle. Le due eliche laterali furono arrestate, le pompe dei serbatoi si misero in opera ed il Taimyr si mise a risalire ma quasi a fatica, come se il suo slancio fosse neutralizzato da quella misteriosa attrazione. Quando il boccaporto fu aperto ed i due comandanti ed i cacciatori uscirono sulla piattaforma, scorsero una enorme nuvola nera che si aggirava sulla vetta della montagna e che accennava ad allargarsi rapidamente, mentre tutto all'intorno l'orizzonte si copriva d'una densa nebbia la quale aveva di già oscurato il sole. Una violenta perturbazione atmosferica pareva imminente. L'aria, come l'acqua che poco prima circondava il battello, era eccessivamente satura di elettricità e così secca che in pochi istanti aveva ridotto in polvere il tabacco che i due cacciatori tenevano nei loro borsellini. Il mare aveva assunta una tinta plumbea, d'aspetto sinistro, ma nessun soffio d'aria per ora spirava. Anzi una calma perfetta regnava dovunque. — Signor Nikirka — disse Orloff. — Temo che si prepari qualche uragano o qualche sorpresa che la prudenza c'insegna di evitare. — Cosa volete dire? — Fuggiamo, signore. Se un uragano scoppiasse qui, fra questi bassifondi, le onde potrebbero gettare il nostro Taimyr su qualche banco ed immobilizzarci per sempre. — Sia, partiamo — rispose l'ingegnere che pareva pure inquieto. — Sono ancora impazzite le bussole? — Sempre. — Potreste mantenere la rotta dell'est. — Lo spero. — Macchina avanti e scandaglio in mano. Il Taimyr si mise in marcia verso l'est a piccola velocità, non sapendosi se in quella direzione l'acqua era sufficientemente profonda o se scemasse. Lo scandaglio diede però ben presto delle profondità straordinarie anche in quella direzione, poiché una sola volta potè toccare il fondo a trecentosessanta braccia. Non scorgendosi alcuna terra e continuando l'acqua ad essere profondissima, il battello riprese la sua rapida marcia di quindici o sedici nodi. Mentre s'allontanava, l'ingegnere, appoggiato alla cancellata di poppa, continuava a tenere gli sguardi fissi sulla montagna che a poco a poco pareva si abbassasse e che sfumasse. La gigantesca nuvola nera che aveva ormai invaso tutto l'orizzonte congiungendosi colla nebbia, formava sopra di essa come una immensa cappa offuscando, colla sua tetra tinta, il candore delle nevi. La bandiera, lasciata piantonata sui fianchi del cono gigante, era di già scomparsa sotto l'orizzonte. La marcia precipitava. Pareva che il Taimyr fosse impaziente di allontanarsi da quelle regioni e che temesse di subire un'altra volta quella misteriosa attrazione che aveva spaventato perfino l'audace compagno dell'ingegnere. La luce scompariva rapidamente come se fosse per piombare, su quella regione dove il sole per sei mesi non tramontava, la lunga e cupa notte polare. Si sarebbe detto che l'astro diurno era scomparso sotto l'orizzonte, poiché più nessun raggio di luce trapelava fra gli strappi della fosca nube. Le acque erano sempre immobili, ma diventavano color dell'inchiostro ed assumevano un aspetto sempre più pauroso. Un superstizioso terrore agitava gli animi degli audaci scopritori del polo, e tutti, fors'anche lo stesso ingegnere, avrebbero desiderato in quel momento trovarsi mille miglia più al sud. Alle nove di sera il Taimyr incontrava i primi ghiacci galleggianti, l'avanguardia della gigantesca barriera degli ice-fields. Erano grandi ice-bergs che cappeggiavano lentamente e che pareva navigassero verso l'est, trasportati forse da qualche corrente marina. Alle dieci, quando maggiore era l'oscurità e più acuta la tensione elettrica, alcune fiammelle azzurre comparvero sullo sperone del battello, balzando e scorrendo lungo la parte emergente del grande fuso e saltellando perfino sulla gabbia del timoniere. Quasi nel medesimo istante verso il nord, in direzione della montagna, parve che il mare ed il cielo avvampassero. Una luce vivida s'alzava percorrendo, con un fremito, le nuvole addensate negli spazi celesti, con ondeggiamenti biancastri, azzurrini, rossi o verdi-pallidi, formando come una mezza cupola immensa. Nel punto centrale di quella splendida arcata spiegantesi in fuori, salivano senza posa fasci luminosi che si sdoppiavano, che si triplicavano, formando come una specie di ventaglio e che poi si scioglievano in una pioggia sanguigna, mentre altre lingue salivano colla veemenza dei razzi, riflettendo bagliori d'oro. Per alcuni minuti fu un continuo succedersi di raggi; poi tutto quell'ammasso di luce parve che impazzisse. Quelle lingue immani oscillavano come se fossero percosse da un vento impetuoso, si fondevano colle vicine, cangiavano forma e tinte, si scioglievano, si disperdevano in una pioggia d'oro. Era una splendida ridda di luci meravigliose, abbaglianti, gialle, rosse, porporine, verdi, argentee, azzurrognole. A poco a poco però quelle oscillazioni cessarono, le svariate tinte scomparvero sotto una invasione di luce intensamente rossa la quale alzandosi verso le nubi formò un'immensa cupola di fuoco, in mezzo alla quale spiccava la montagna polare. Il mare pareva che fosse diventato di sangue ed i ghiacci galleggianti parevano trasformati in enormi massi di lave incandescenti. — Chissà — disse l'ingegnere, che ritto alla cancellata di poppa, ammirava quel superbo fenomeno. — Chissà che le forze magnetiche ed elettriche non irrompano dalle misteriose profondità di questo mare per formare queste aurore boreali. Quanti segreti nasconde ancora questo polo, che forse più mai nessuno altro essere umano riuscirà a rivedere. — E chissà quale tempesta ci annuncia questa aurora boreale — aggiunse il secondo, che gli stava accanto. — È vero, signor Orloff, e speriamo che non ci sia fatale. — Pel nostro valoroso Taimyr!... Non credetelo, signore. — Chi può dire cosa potrà accadere?... Io non lo so, signor Orloff, ma ho dei tristi presentimenti. — Voi?... — Sì io: ho paura che il polo porti sventura agli uomini. LA RITIRATA VERSO IL SUD Il primo luglio il Taimyr, che non aveva cessato di procedere con grande velocità, a duecentotrenta miglia dal polo incontrava i grandi banchi di ghiaccio della gigantesca barriera artica. Gli effetti dello sgelo si erano però fatti sentire sugli interminabili ice-fields sicché questi non formavano più una superficie compatta, senza spaccature e senza frane. Larghi canali si erano aperti qua e là permettendo il passaggio anche ad una nave se si fosse trovata colà, ma era da dubitarsi se si prolungassero attraverso a tutta la barriera. Probabilmente moltissimi erano ostruiti e difficilmente avrebbero permesso la ritirata completa ad un veliero o ad un piroscafo. Solamente un battello sottomarino era certo di trionfare su qualunque ostacolo, potendo inabissarsi e passare sotto. Il Taimyr, i cui comandanti avevano fretta di trovarsi al di là della barriera, non ignorando quanto fosse breve l'estate polare, si era cacciato in un canale che si prolungava verso l'est, con una tendenza a volgere al sud. Il fuso gigante precipitava la ritirata, poiché il cielo si manteneva sempre minaccioso ed il mare diventava cattivo. Il sole non si era più mostrato dopo la comparsa dell'aurora boreale e pesanti nebbioni, spinti innanzi dai freddi venti del nord, erravano sull'orizzonte. Farsi sorprendere in mezzo a quei campi di ghiaccio, che da un giorno all'altro potevano rinchiudere le loro aperture o che potevano franare facendo capitombolare gli enormi ice-bergs saldati ai loro fianchi, era pericoloso anche pel Taimyr. Il 2, quando già i naviganti si trovavano a quattrocento miglia dal polo, l'uragano che minacciava già da tre giorni, cominciò a scoppiare. Dalle regioni polari soffiavano raffiche impetuose e freddissime, le quali spingevano verso il sud, come cavalli sbrigliati, ammassi di dense nebbie. Il mare, anche entro i canali, aveva assunto un aspetto minaccioso e si alzava in ondate, le quali andavano a percuotere, con orribili scrosci, i margini dei campi di ghiaccio, diroccandoli in vari luoghi. Delle montagne di ghiaccio si staccavano dovunque ed oscillavano spaventosamente, urtandosi fra di loro o rovesciandosi contro i banchi. Cupi scroscii, detonazioni assordanti, crepitìi prolungati si mescevano agli ululati delle raffiche ed ai muggiti del mare. Perfino gli animali polari, abituati ai formidabili uragani di quelle regioni, parevano spaventati. Si vedevano gli orsi bianchi correre attraverso gli ice-fields mandando acuti nitriti, le foche e le morse guadagnare frettolosamente i loro buchi, mentre gli uccelli marini, le strolaghe, le procellarie fulmar, gli albatros e le oche fuggivano verso il nord, schiamazzando. — Pare che il polo si penta di averci lasciati vederlo — disse Mac-Doil, che era salito sulla piattaforma con Sandoë. — Temo che ci dia molto da fare, prima di lasciarci riguadagnare i mari del sud. — C'immergeremo, Mac-Doil. — Lo credo, ma se la bufera durasse un paio di giorni saremmo costretti a tornare a galla. — Ci ritufferemo. — Lo so, ma tornare alla superficie coi ghiacci che ballano una giga scapigliata può essere pericoloso, Sandoë. Guarda come danzano quegli ice-bergs. — Bah!... La spunteremo Mac-Doil e ti dico che noi rivedremo ben presto le coste dell'Islanda e poi le Fär-Öer. — Te lo auguro. Battiamocela amico Sandoë; il mare comincia a spazzare la piattaforma e l'acqua è assai fredda con tutto questo ghiaccio. Andiamo a scaldarci col gin del mio amico il cuoco. Era tempo che lasciassero la piattaforma e che chiudessero il boccaporto, poiché le onde cominciavano a spazzare la parte superiore del battello, frangendosi contro le gabbie. Il Taimyr però non s'inabissava e continuava la rapidissima corsa entro quel canale. Probabilmente l'ingegnere temeva di perderlo e di trovarsi poi un'altra volta sotto i grandi banchi, i quali potevano impedirgli di tornare alla superficie per rinnovare la provvista d'aria. Mantenendosi tuttavia a fior d'acqua il Taimyr correva altri gravi pericoli, poiché gli ice-bergs erano sempre numerosi entro quella vasta squarciatura, e capitombolavano di frequente in causa delle furiose ondate. Per di più l'oscurità aumentava sempre e la nebbia s'avanzava, avvolgendo i campi di ghiaccio. Alle sette di sera il mare era cattivissimo ed il vento aveva acquistata una violenza irresistibile. Vere montagne d'acqua percorrevano impetuosamente il canale, diroccando i margini dei campi e scuotendo orribilmente il battello. Il pericolo di urtare contro qualche ghiaccione aumentava, non essendo sufficiente la lampada elettrica a diradare quel pesante nebbione. Fu decisa l'immersione. Il Taimyr riempì i suoi serbatoi, mise in funzione le eliche laterali e scese a quattrocentocinquanta metri, cercando però di mantenersi sotto le acque del canale, ma con poca probabilità di successo non essendo più le sue bussole in grado di dare una rotta esatta. Tutta la notte continuò a fuggire verso l'est, scrollato dalle onde che si facevano sentire anche a quella ragguardevole profondità, ed all'indomani, quando tentò di tornare a galla andò ad urtare contro i campi di ghiaccio. O il canale aveva deviato o era stato rinchiuso ed al Taimyr non rimaneva che di forzare la marcia per giungere in una nuova squarciatura. — Diavolo!... — brontolò Mac-Doil. — Che si ripeta il pericolo di morire asfissiati?... Mi spiacerebbe, ora che siamo stati al polo e che ho guadagnati i diecimila dollari. Andiamo a consolarci dal cuoco!... Il Taimyr dopo d'aver tentato, ma invano, di spaccare il banco con una potente speronata, aveva ripresa la corsa piegando verso il sud-est. Marciava con una velocità di diciotto nodi e sei decimi. La lampada era stata spenta per poter meglio scorgere la luce che poteva scendere da qualche crepaccio, però la semioscurità regnava sempre quantunque le miglia sfilassero rapidissime. Pareva proprio che dovesse ripetersi ciò che Mac-Doil temeva. La mattina del 3 ancora nulla, eppure allora i naviganti dovevano trovarsi a ben ottocentosessanta miglia dal polo e presso le coste orientali della Groenlandia già da una dozzina d'ore. Già l'aria cominciava a diventare pesante, viziata, quando verso il mezzodì la semioscurità fu bruscamente rotta. Il Taimyr s'innalzò rapidamente e si trovò in un nuovo e vasto canale ingombro di ghiacci, aperto fra un immenso ice-field ed una costa assai alta, sulla quale si scorgevano delle catene di montagne che tuffavano le loro vette nevose nelle nubi. L'uragano non era cessato. Soffiava sempre forte il vento del nord ed il mare era burrascosissimo. L'ingegnere ed Orloff, sfidando le onde che s'infrangevano contro le cancellate, salirono sulla piattaforma per osservare quella costa che delineavasi verso l'ovest. — È la costa della Groenlandia — disse Orloff. — Siete certo di non ingannarvi? — Non vi può essere altra terra laggiù. — Che sia un'isola invece? — Non avrebbe delle montagne così elevate, né così colossali. — Dove credete che ci troviamo? — Fra il 79° ed il 78° di latitudine suppongo. — Dunque noi navighiamo nel mare di Groenlandia. — Sì, signor Nikirka. — Fra tre o quattro giorni potremmo essere nello stretto di Danimarca. — E fra cinque sulle coste settentrionali dell'Islanda, signor Nikirka. Torniamo ad inabissarci?... — Sì, il mare è troppo cattivo per mantenerci a galla e gli ice-bergs troppo pericolosi. Spero che non incontreremo più dei banchi così immensi da farci temere la mancanza d'aria. Il Taimyr tornò ad immergersi a quattrocento metri, navigando fra la costa groenlandese ed il campo di ghiaccio, che si estendeva dal nord al sud con una fronte che doveva essere di parecchie centinaia di miglia. L'acqua però anche a quella profondità era assai turbata e scrollava disordinatamente il fuso d'acciaio. Le onde correvano contro la costa groenlandese, che forse si alzava rapidissima, e rimbalzando producevano i così detti flutti di fondo i quali rimescolavano le acque anche sotto la superficie. Vi erano certi momenti in cui gli uomini faticavano assai a mantenersi in piedi e che la mobilia si staccava dalle pareti, rotolando fragorosamente sui pavimenti. Perfino i cani parevano spaventati, latravano con furore. Il Taimyr però non s'arrestava e lottando energicamente contro quei flutti disordinati, proseguiva la sua rapida ritirata verso il sud. Già aveva superate altre duecento miglia e, secondo i calcoli approssimativi di Orloff, doveva aver raggiunto il 75° parallelo, quando verso le quattro del mattino si udì la voce del timoniere a tuonare precipitosamente: — Macchina indietro!... Mac-Doil e Sandoë, che stavano per abbandonare le loro amache, si erano lasciati cadere al suolo per accorrere nel salotto, quando un urto formidabile avvenne verso poppa. Il fuso d'acciaio tremò con un lungo fragore metallico, mentre si spostava violentemente sul tribordo rovesciando i mobili e facendo volare le casse fino all'opposta parete. — Fulmini!... — urlò Sandoë. — Cos'è accaduto?... — Per centomila balene!... — esclamò Mac-Doil. — Affondiamo?... Si erano precipitati fuori dalla loro cabina, mentre verso poppa si udivano le grida dei macchinisti ed i latrati possenti di Kamo e quelli selvaggi dei cani esquimesi. L'ingegnere ed Orloff erano già giunti nella sala delle macchine, dove si vedeva una parte del pavimento inondato e delle sbarre di sostegno contorte, come se fossero state violentemente piegate. Un albero delle eliche, spezzato a metà, pendeva dalla vòlta e l'altro non funzionava più. — Signore! — esclamò Sandoë, spaventato. — Affondiamo noi? — No — rispose l'ingegnere, ma con voce agitata. — Ma quest'acqua?... — chiese Mac-Doil. — Silenzio, ora. Poi volgendosi ai due macchinisti: — Sono perdute? — chiese. — Sì, signore. L'elica di tribordo deve essere stata infranta e l'altra non può funzionare — rispose un macchinista. — Dove ha ceduto la corazza?... — A babordo, sotto il serbatoio. — Sono danneggiate le pompe? — Lo vedremo. — Lasciate la macchina che per ora non ha bisogno di voi e visitate le pompe. In quel momento giungeva il timoniere. Il marinaio era pallido come un cencio lavato ed in preda ad una viva agitazione. — Signore — disse rivolgendosi all'ingegnere. — Il Taimyr non governa più. — Lo sospettavo — rispose il comandante, la cui voce a poco a poco tornava calma. — Sale il battello?... — Siamo già alla superficie. — È tempestoso il mare? — Sì, ma meno di ieri. — Ed il boccaporto, si potrà aprire?... — No, signore. L'asse del battello è spostato e se apriamo il boccaporto le onde faranno irruzione. — Ciò è grave — disse l'ingegnere, come parlando fra se stesso. — Seguitemi nella gabbia, signor Orloff. — Fulmini! — esclamò Sandoë. — È proprio finita per noi. L'ingegnere che stava per uscire dalla sala delle macchine, uditolo, s'arrestò: — Non ancora — disse. — Spero di condurvi in Europa. — Ma cos'è accaduto, signore? — chiese Mac-Doil. — Un urto che ha sfondato alcune lastre sotto il serbatoio d'acqua di babordo. Poi uscì con Orloff, senza spiegarsi di più. — Fulmini! — esclamò Mac-Doil. — Si sono spezzate le costole del Taimyr?... Io temo che per noi la sia finita. — E le eliche non funzionano più — aggiunse Sandoë. — Siamo gravemente ammalati o moribondi. — Poco importa per le eliche e pel timone — disse il timoniere. — Abbiamo da ricambiare le une e l'altro. — Ma le lastre fracassate!... — Non cederanno e poi vi è un doppio scompartimento ed il celluloide il quale ha ormai turata la squarciatura. La cosa più grave è lo squilibrio del battello. — Non si potrà raddrizzarlo? — chiese Sandoë. — Lo si tenterà con ogni mezzo, perché se non ci raddrizziamo non potremo aprire il boccaporto che è già quasi tutto sommerso. — Per centomila trichechi!... Si corre pericolo di morire asfissiati o annegati come sorci in trappola!... Ma cosa è accaduto adunque? — Abbiamo incontrato una massa enorme di rocce che ci rinchiudevano come entro un arco. — E non avete potuto evitarle? — Sì, ma nel retrocedere il battello ha urtato contro una roccia sottomarina che prima non era stata scorta e la poppa ha riportata una grave avaria. — E dove siamo noi? — Solo il signor Orloff può saperlo. — Sandoë, andiamo nella gabbia di prora. — Andiamo, Mac-Doil. Io comincio ad essere assai inquieto. — L'ingegnere è un valentuomo. — Ma il battello può affondare da un istante all'altro ed allora buona notte a tutti. — Compresa la figlia del ricco pescatore. — E papà Craig, Mac-Doil. UNA TREMENDA CATASTROFE Il valoroso Taimyr si trovava realmente in condizioni gravissime. Urtando colla poppa contro lo scoglio sottomarino, nel momento in cui il timoniere, per evitare l'isola apparsa bruscamente dinanzi alla prora, aveva dato precipitosamente il comando di «macchina indietro», qualche punta rocciosa d'una resistenza incalcolabile, aveva spostata una lastra metallica, producendo probabilmente una fessura notevole. Per colmo di sventura il timone era stato spezzato, un'elica fracassata e l'altra ridotta in così cattivo stato da non poter forse più servire, essendo stati, per la violenza dell'urto, contorti gli alberi motori. Come il timoniere aveva detto, non vi era pericolo di affondare, essendosi il celluloide subito dilatato otturando lo strappo, ma vi era il pericolo di non poter più uscire dal battello poiché l'acqua avendo invaso il serbatoio poppiero aveva spostato il centro di gravita del battello, sommergendo parte del boccaporto. Non vi era nemmeno il pericolo di morire asfissiati, perché rimaneva una manichella e quella bastava per rinnovare l'aria interna, tuttavia la condizione era gravissima. La burrasca che imperversava ancora al di fuori poteva spingere il fuso gigante o contro l'isolotto causa di quel disastro o contro le coste della Groenlandia ed arenarlo su qualche bassofondo, immobilizzandolo per sempre o peggio ancora, scagliarlo violentemente fra le scogliere a sfondarsi i fianchi. I due comandanti, che erano inquietissimi malgrado il loro provato coraggio, giunti nella gabbia di prora si erano affrettati a guardare al di fuori. A quattrocento metri si scorgeva un'isola di dimensioni notevoli, la quale formava dinanzi al battello come un ampio semicerchio. Era coperta di alte rocce rivestite di nevi e di ghiacci e probabilmente disabitata. Verso l'est si scorgevano il grande banco di ghiaccio e numerosissimi ice-bergs che le ondate facevano cappeggiare pericolosamente, e verso l'ovest, ad una distanza di sei o sette miglia, la costa di Groenlandia, altissima, dirupata ed irta di scogliere. Il battello fortunatamente veniva spinto al largo dell'isola, in direzione del grande banco, ma vi poteva urtare contro o andare addosso a qualche ice-berg male equilibrato e farsi schiacciare. Era tornato a galla, nondimeno tutta la poppa si trovava sommersa in causa dell'acqua che aveva invaso il serbatoio ed era rimasto inclinato sul babordo. Perfino le gabbie si trovavano in parte immerse verso quel lato. — La nostra situazione è grave, signor Orloff, — disse l'ingegnere, — ma non disperata. Se le pompe funzionano, possiamo riacquistare ancora l'equilibrio. — Volete riempire il serbatoio di tribordo? — E quelli di prora. C'immergeremo per poi tornare a galla. — Il battello non governa più, signore. — Ci lasceremo trasportare verso il banco e cercheremo di approdare. Abbiamo dei timoni e delle eliche di ricambio. Lasciarono la gabbia e tornarono nella sala delle macchine, dove si erano radunati i marinai ed i cacciatori. — Funzionano le pompe? — chiese l'ingegnere. — Sì, signore — risposero i macchinisti. — Allora siamo salvi. Si riempiano i serbatoi di poppa e di prora. I marinai ed i due cacciatori, guidati da Orloff, si misero al lavoro. Tutti i buchi d'immissione furono aperti ed i serbatoi di prora e quello di tribordo si empirono rapidamente d'acqua. Il battello, equilibrato da tutte le parti, riprese tosto la sua posizione orizzontale, conservando una inclinazione sul babordo, causata dall'acqua che era penetrata dalla squarciatura e che aveva reso pesante il celluloide del fasciame poppiero. Le eliche laterali, che non avevano sofferto, si misero in movimento in senso contrario e spinsero il battello verso la superficie, malgrado il suo peso considerevole. Le pompe furono rimesse in opera e ricacciarono fuori, a gran forza, prima l'acqua del serbatoio di babordo, poi degli altri tre. Un evviva fragoroso rintronò allora nel battello. Il fuso aveva conservato il suo equilibrio. Solamente verso poppa, a babordo, pendeva un po', ma gli sportelli si potevano aprire senza tema che l'acqua invadesse la piattaforma. L'ingegnere, Orloff ed i due cacciatori s'affrettarono a salire. Il Taimyr, spinto dalle onde, non si trovava che a trecento metri dal grande banco; però degli ice-bergs enormi lo circondavano, minacciando di squilibrarsi e di sfracellarlo. Ve n'erano almeno cinquanta attorno a lui ed ondeggiavano pericolosamente, urtandosi gli uni cogli altri con assordanti detonazioni. Nello scorgere quei colossi, l'ingegnere era diventato pallido. Il battello era sfuggito ad un gravissimo pericolo per trovarsi dinanzi ad un altro forse peggiore. Non potendo più governare, né muoversi, né evitare quei giganti del polo, poteva venire, da un istante all'altro, sventrato o schiacciato come una nocciuola. — Siamo perduti! — esclamò involontariamente l'ingegnere. — Se non raggiungiamo il banco, periremo tutti. — Signor Nikirka, — disse Orloff, — abbiamo il canotto. — È vero... ma... abbandonare il mio Taimyr, ora che mi ha portato fino al polo... — Non vi è da scegliere, signore — disse Mac-Doil. — Bisogna fuggire o nessuno rivedrà i mari d'Europa. L'ingegnere taceva. Colle braccia incrociate sul petto, i lineamenti alterati, la fronte cupa, lanciava sguardi corrucciati su quei colossi che sempre più si stringevano attorno al povero Taimyr. Pareva che un'aspra battaglia si combattesse, in quei supremi istanti, nel cuore dell'audace esploratore polare. Ma il pericolo incalzava e forse i minuti erano contati pel battello. Un ritardo, anche piccolo, poteva essere fatale a tutti. — Signor Nikirka — disse Orloff che vedeva, con angoscia, avanzarsi gli ice-bergs. — Decidetevi!... — Decidermi! — rispose l'ingegnere con voce tremula. — Il mio Taimyr è perduto!... Poi ricacciando in fondo al cuore l'emozione che gli montava alla gola, chiese: — Quanti uomini può portare il canotto? — Tre. — Che s'imbarchino prima i cacciatori e Kalutunak. Poi volgendosi verso Mac-Doil, continuò: — Seguitemi. Il cacciatore si slanciò dietro di lui senza parlare. Scesero nel salotto, poi entrarono in una cabina ammobiliata con molta eleganza. L'ingegnere aprì un cassetto d'una scrivania d'ebano ad intarsi di madreperla, prese un pacco di carte e le consegnò all'ebridano, dicendo: — Può mancare a me il tempo di salvarmi. Ecco le mie note di bordo, una lettera che, nel caso che io ed il mio equipaggio dovessimo perderci, potrà esservi utile e quarantamila dollari. Affrettatevi: sento che l'ultima ora del Taimyr sta per scoccare. Quando risalirono sulla piattaforma, i marinai avevano lanciato in acqua un piccolo canotto che era appena capace di portare tre persone. L'esquimese e Sandoë si erano già imbarcati. — Partite e raggiungete il banco — disse l'ingegnere. — Se vedrete il battello ancora galleggiante, manderete Kalutunak per imbarcare due altre persone. Chissà!... Forse potremo salvarci tutti. — Verrò io a salvarvi signore — gridò Mac-Doil. — Ohe!... Forza alle braccia!... Il canotto si era allontanato rapidamente, seguito da Kamo che nuotava vigorosamente, latrando. L'ingegnere, Orloff ed i loro marinai erano rimasti sulla piattaforma, mentre il battello, sospinto dalle onde, errava fra gli ice-bergs come un rottame qualsiasi. I due cacciatori e l'esquimese arrancavano con furore per giungere presto al banco e per evitare le strette dei colossi polari. Tutti e tre si sentivano invasi da sinistre inquietudini e pur remigando, voltavano di frequente il capo verso il battello. — Forza!... Forza, amici!... — ripeteva l'ebridano. — Il Taimyr sta per venire circondato!... Il canotto spinto innanzi dai remi vigorosamente manovrati, filò rapido come una freccia attraverso gli ice-bergs e potè finalmente giungere presso il margine dell'immenso campo di ghiaccio. — Presto, salite! — gridò Mac-Doil. Sandoë e Kalutunak presero le carte dell'ingegnere e s'arrampicarono sul banco mettendosi in salvo. L'ebridano stava per riafferrare i remi, quando udì echeggiare delle grida di terrore in direzione del battello. — Gran Dio!... Cosa succede?... — esclamò. — Mac-Doil!... — urlò Sandoë, che si copriva il viso colle mani. — Sono perduti!... Quasi nel medesimo istante s'udì una formidabile detonazione. Due ice-bergs, perduto l'equilibrio, si erano urtati rovesciandosi sopra il battello. Si udì uno stridore metallico, poi un cupo rimbombo, quindi uno scoppio terribile. Le acque, spinte in alto da una forza prodigiosa, s'innalzarono in forma d'una gigantesca colonna, scagliando a destra ed a sinistra enormi massi di ghiaccio, poi ricaddero formando un'onda gigantesca la quale si rovesciò, con impeto irresistibile, contro il banco. Il canotto, sollevato di colpo, fu scaraventato sull'ice-field e capovolto, mentre l'ebridano batteva il capo con tale violenza contro la punta di qualche hummok, da perdere i sensi. Quando Mac-Doil rinvenne, si trovò coricato in fondo al canotto, a fianco di Kamo, il quale cercava di riscaldarlo col proprio alito, e colla testa fasciata. Sandoë e Kalutunak, entrambi tristi, taciturni, arrancavano con sovrumana energia, uno a poppa e l'altro a prora, quasi sepolti fra un ammasso di pelli ancora bagnate, di tavole, di rottami d'ogni specie. Pareva che la burrasca fosse cessata, poiché il canotto procedeva senza rollare, né beccheggiare, né si udivano i muggiti delle onde, né gli ululati sinistri del vento polare. L'ebridano s'alzò a sedere facendo uno sforzo, tanto era debole e portò le mani al capo indolenzito chiedendo: — Dove sono io?... Sandoë ritirò i remi e si volse verso di lui, sorridendogli tristamente. — Come stai, Mac-Doil? — gli chiese. — Provo degli acuti dolori al capo, ma... Sandoë... parlami di loro... parlami... — Perduti — rispose l'isolano, con voce singhiozzante. — Non si è salvato nessuno?... — No, Mac-Doil. L'oceano ha inghiottito tutto. Successe un lungo silenzio: i due cacciatori si guardavano cogli occhi umidi, mentre l'esquimese, non meno triste di loro, lasciava andare i remi prendendosi il capo fra le mani e Kamo mandava dei lunghi guaiti. — Sei certo, Sandoë? — chiese finalmente l'ebridano. — Sì, Mac-Doil. Abbiamo esplorato i ghiacci vicini un giorno intero. — È stato sfracellato il Taimyr. — Sì. — Dai ghiacci?... — Sì, dagli ice-bergs prima e poi da uno scoppio spaventevole. — Da uno scoppio?... Le torpedini, Sandoë!... L'urto ha fatto scoppiare le torpedini. — Od i cilindri dell'ossigeno. — Quale orribile disastro!... E proprio ora, quando il mistero polare era stato svelato e stavamo per rivedere i mari d'Europa!... Povero signor Nikirka, povero Orloff!... Ed ora, dove andiamo noi?... — Fuggiamo al sud, Mac-Doil. — Dove siamo noi?... — Chi può dirlo?... Da dodici ore arranchiamo come due galeotti. — Da dodici ore!... Quanto sono rimasto svenuto io?... — Trentasei ore. — Mi ero ferito gravemente?... — Hai riportata una contusione al capo, che poteva produrti gravi conseguenze. — Sì — disse Mac-Doil, come parlando fra sé. — Mi ricordo vagamente di essere stato scagliato sul banco e di aver provato un acuto dolore al capo. Ma cos'era la mia ferita in confronto alla morte di tutti quei valorosi?... Distruggersi così quel capolavoro ammirabile che ci aveva condotti fino al polo!... Spegnersi in così orribile modo le vite di quegli audaci navigatori e quando stavano per recare in Europa la notizia della grande scoperta!... Chi crederà ora a noi?... Sandoë!... Sandoë!... Sono stati perduti i documenti che l'ingegnere mi aveva affidati in quel supremo istante?... — No, Mac-Doil. Sono stati conservati gelosamente. — Dimmi, siamo lontani dal luogo del disastro? — Forse quaranta miglia. — Ritorniamo. — Cosa speri di ritrovare? — Il cadavere dell'ingegnere e quelli dei suoi compagni. — Sono stati polverizzati tutti dall'esplosione. — Ritorniamo, rinnoviamo le ricerche, Sandoë. — No. — Che importa a noi il tempo?... Il freddo non ci fa paura. — Il freddo no, ma bensì la fame, Mac-Doil. — La fame!... — Sì, poiché da trentasei ore non abbiamo posto sotto i denti una briciola di pane e siamo già esausti. — Non abbiamo viveri adunque? — No, Mac-Doil e nemmeno i nostri fucili. Solamente Kalutunak ha potuto salvare il suo rampone, e quest'arma a cosa potrà giovare?... Fuggiamo verso il sud o seguiremo nella tomba lo sfortunato ingegnere ed i suoi compagni, seppellendo con noi la notizia della scoperta del polo boreale. COME SI UCCIDE UN ORSO SENZ'ARMI La catastrofe del Taimyr stava per causare anche la perdita dei due cacciatori e dell'esquimese, sfuggiti miracolosamente alle strette degli ice-bergs ed all'esplosione delle torpedini o dei serbatoi dell'ossigeno. Un altro dramma, forse più angoscioso del primo, minacciava l'esistenza dei superstiti. Cosa sarebbe avvenuto di quei disgraziati perduti fra i ghiacci del mare di Groenlandia, in un canotto che non era in grado di reggersi alla prima burrasca, senz'armi e senza viveri?... Avrebbero potuto raggiungere le coste dell'Islanda o gli stabilimenti della Groenlandia meridionale, lontani parecchie centinaia di miglia?... Se fatale era stata la sorte toccata agli uomini del battello, ben triste appariva anche quella dei due cacciatori e dell'esquimese. Trentasei ore erano trascorse e più nulla avevano posto sotto i denti, poiché nella fuga precipitosa non avevano pensato né a provvedersi d'armi, né di viveri. Sandoë e Kalutunak arrancavano ancora approfittando del mare tranquillo, ma quanto avrebbero potuto ancora resistere?... Già si sentivano spossati da quel lungo digiuno ed incapaci di continuare quel faticoso esercizio. Mac-Doil era ricaduto nel fondo del canotto in preda a tristi pensieri e non aveva più osato interrogare Sandoë, mentre i suoi due compagni lanciavano all'intorno sguardi disperati, spiando la comparsa di qualche foca o di qualche narvalo. Era già trascorsa un'ora ed avevano abbandonati i remi, quando Kamo fece udire un sonoro latrato. Mac-Doil conosceva troppo bene il suo cane per ingannarsi sul significato dei suoi latrati. Facendo uno sforzo, si era alzato sulle ginocchia, dicendo: — Guarda intorno, Sandoë. Kamo ha sentito della selvaggina. Sandoë lasciò andare i remi alzandosi precipitosamente in piedi, mentre l'esquimese impugnava il suo rampone. Il canotto si trovava allora a duecento passi da un banco di ghiaccio che poteva avere trecento metri di circuito e che portava un vero carico di piramidi e di hummoks. Alcuni uccelli marini si vedevano svolazzare attorno ai margini, però non si scorgeva alcuna grossa selvaggina. Pure Kamo continuava a latrare, colle zampe anteriori appoggiate a bordo del canotto. — Vedi nulla, Sandoë? — chiese Mac-Doil. — No, ma vi può essere qualche animale nascosto dietro quei picchi di ghiaccio. — Approdiamo?... — Sì, andiamo ad esplorare quel banco. Vi può essere qualche foca. — No, foche — disse l'esquimese che era salito sulla prora. — Come lo sai tu? — chiese Sandoë. — Vedo due orsi bianchi. — Fulmini!... Se si potesse catturarne uno!... — Affrontarli colla fiocina sarebbe una pazzia che potrebbe costare la vita a qualcuno di noi — disse l'ebridano. — Siamo troppo deboli e male armati, per osare una lotta con simili animali. — Kamo ci aiuterà. — E se fuggono invece?... Cosa dici, Kalutunak?... L'esquimese, che da qualche istante aveva fissati gli sguardi sui rottami che ingombravano il canotto, disse con vivacità: — Io dico che uno lo cattureremo. — Col tuo rampone? — chiese Mac-Doil. — Senza rampone. — Vuoi prenderli colle mani forse? — Senza mani. — Uno squalo mi divori se io comprendo qualche cosa. Invece di rispondere Kalutunak si curvò, frugò fra i rottami e tirò fuori un pezzo di pelle, a cui vi erano attaccati dei fanoni di balena leggermente arcuati. Pareva un pezzo del kayak, ossia del piccolo canotto di pelle di foca colle costole di ossa di cetaceo, che l'esquimese aveva portato con sé prima d'imbarcarsi sul Taimyr. Strappò uno di quei fanoni e disse: — Ecco l'arma che ucciderà l'orso bianco. I due cacciatori lo guardarono con stupore, chiedendosi se l'esquimese era diventato pazzo, non potendo ammettere che fosse capace di scherzare in quei momenti. — L'arma che ucciderà l'orso? — esclamò l'ebridano. — Come vuoi che un pezzo di fanone così flessibile fori la pelle di quei mostri?... Vuoi ridere alle nostre spalle, Kalutunak? — No — rispose l'esquimese. — Approdiamo e riusciremo ad abbattere uno di quegli animali, ma mi sono necessarie alcune ore. — Te ne concediamo anche dodici, se lo vorrai. Siamo affamati come lupi digiuni da una settimana, ma ci rifaremo più tardi, purché tu risponda della cattura. — Non dubitate; accostiamo il banco. Riprese i remi imitato da Sandoë e spinse il canotto verso il ghiaccione, mentre Mac-Doil costringeva il molosso a starsene zitto. Giunti presso il margine, l'esquimese fece segno ai compagni di non parlare, poi salì sul banco portando con sé l'arpione e s'arrampicò su di una piramide di ghiaccio, guardando attentamente in tutte le direzioni, per vedere se gli orsi si erano allontanati. Dopo alcuni minuti potè vederli verso le coste meridionali di quell'isola galleggiante. Erano due, uno grosso e l'altro più piccolo e magro assai, forse maschio e femmina. Dovevano già essersi accorti della presenza degli uomini, poiché guardavano precisamente verso il luogo ove era approdato il canotto. L'esquimese, soddisfatto, discese e tornò verso i compagni. — Ci sono? — chiese Mac-Doil. — Sì, e mi pare che non abbiano alcuna intenzione d'allontanarsi. — Saranno affamati e spereranno di banchettare colle nostre carni — disse Sandoë. — Come faremo a prenderli? Invece di rispondere, l'esquimese prese il fanone di balena che era lungo quaranta o cinquanta centimetri e largo due o tre, lo curvò a forza facendo una legatura stretta alle due estremità, poi sotto la prora del canotto prese una grossa pallottola di grasso, colà riposta forse per ungere i bordi della scialuppa nel posto dove si fissavano i remi. — Bisogna scioglierlo — disse a Sandoë. — Ma come?... Bisognerebbe accendere del fuoco. Mac-Doil strappò da un pezzo di fune attaccata all'anello di prora del canotto alcuni fili di canapa e formato una specie di lucignolo, lo cacciò in mezzo alla palla di grasso. — Accendilo e si scioglierà — disse. Sandoë obbedì, possedendo fortunatamente un acciarino ed un pezzo d'esca. L'esquimese prese quella candela di nuova specie e fece gocciolare la cera sul fanone di balena, coprendolo accuratamente sotto, sopra e sui lati. Quando lo vide ben rivestito di quella materia grassa, lo depose sul ghiaccio, dicendo: — Aspettiamo. — Ma cosa vuoi fare? — chiese Mac-Doil, impazientito. — Squarciare gl'intestini di un orso. — Con quell'oggetto?... Io comincio a credere che tu sia pazzo davvero, Kalutunak. — Vi dico che fra poche ore avremo della carne d'orso. I due cacciatori, vedendo che non vi era modo di strappare alcuna spiegazione, e fidando d'altronde nella furberia dell'esquimese, sapendo che tutti quegli uomini delle regioni dei ghiacci sono valentissimi cacciatori, si rassegnarono ad attendere. Due ore dopo Kalutunak andava a riprendere quell'arma singolare, se così si poteva chiamare. Il freddo intenso aveva gelato tutto il grasso, rendendolo così duro che difficilmente si poteva intaccare. L'esquimese levò la legatura senza che l'osso scattasse, se lo appese alla cintola, poi armatosi dell'arpione invitò Sandoë a seguirlo dicendo a Mac-Doil: — Rimanete nel canotto e trattenete Kamo o gli orsi fuggiranno. Salirono sul banco e s'avanzarono fra i picchi di ghiaccio e gli hummoks, con grande prudenza, potendo trovarsi da un istante all'altro dinanzi agli orsi. Il freddo era acutissimo, soffiando il vento del nord il quale produce sui termometri degli abbassamenti straordinari di 15° e perfino di 25°, ma Sandoë e l'esquimese, già abituati a quei climi rigidi, lo sopportavano bene senza lagnarsi. Dopo d'aver percorso trecento passi, Kalutunak s'arrestò, indicando al compagno delle tracce impresse sulla neve. — Gli orsi? — chiese Sandoë. — Sì — rispose l'esquimese. — Ci hanno fiutati e sono venuti a spiarci. — Che siano fuggiti? — Io credo che siano affamati, essendo questo banco sprovvisto di foche. — Dunque ci assaliranno. — Certamente. — Ma io, cosa devo fare, che non ho che un meschino coltello? — Fuggire più lesto che potrete. — Allora era inutile che ti seguissi, se vuoi affrontarli tu solo. — Non li affronterò, poiché fuggirò anch'io. — Dunque, cosa vuoi fare? — Far mangiare all'orso l'osso di balena. — E perché? — Per farlo morire. — Ma tu sei pazzo, Kalutunak. — Ancora? — disse l'esquimese, sorridendo. — Aspettate che l'orso lo inghiotta e poi vedrete. — Lo mangerà innanzi tutto? — Come un boccone di carne. Lo crederà un bel pezzo di grasso e lo manderà giù. — E poi?... — Poi il calore dei suoi intestini scioglierà il grasso, l'osso scatterà di colpo e lacererà gli intestini. — Fulmini!... Se Mac-Doil fosse qui, aggiungerebbe i suoi «lampi» e credo che avrebbe ragione. Non ho mai udito parlare d'un simile modo di caccia. — Vedrete l'esito. Ho cacciato parecchi orsi con un osso di balena rivestito... Oh oh!... Avete udito?... — Sì, il nitrito d'un orso — rispose Sandoë, girando all'intorno due occhi spaventati. — Credo che sia giunto il momento di mettere al lavoro le gambe. — Non ancora. — E se i due orsi si gettano contro di noi?... Lo sai che corrono molto lesti? — Lo so, ma sono anche molto curiosi. — Cosa vuoi dire?... — Che se vi raggiungono, vi consiglio di gettare via il vostro berretto, poi i vostri guanti ed anche la vostra giacca, se sarà necessario. — E perché?... — Essendo gli orsi curiosissimi, si fermeranno per fiutare gli oggetti che avrete gettati e vi lasceranno il tempo di guadagnare via. D'altronde il canotto non è lontano e Mac-Doil non esiterà a lanciare Kamo se ci vede in pericolo. Ohah!... Ancora!... Stiamo in guardia. Aveva appena pronunciate quelle parole che dal dietro di una piramide di ghiaccio videro uscire gli orsi. I due animali, che dovevano essere molto affamati, s'arrestarono un istante come fossero sorpresi di quell'improvviso incontro, poi si gettarono contro Sandoë e l'esquimese, mostrando i robusti denti e le lunghe unghie. — Fuggite!... — gridò Kalutunak. Sandoë non aveva atteso l'ordine. Trovandosi assolutamente inerme, si era messo a correre come un daino, vigorosamente inseguito dal maschio il quale era di statura straordinaria. Quantunque avesse le gambe lunghe, il cacciatore s'accorse ben presto che l'avversario guadagnava via e che lo avrebbe di certo raggiunto prima di toccare la sponda del banco. Ricordandosi dei consigli dell'esquimese, si levò il berretto e lo scagliò da una parte. L'orso, vedendo quell'oggetto cadere in mezzo alla neve, vi si precipitò sopra credendolo forse un commestibile; lo fiutò, lo voltò più volte, poi si ripose in caccia, ma ormai l'isolano era giunto sulla sponda ed era balzato nel canotto. L'esquimese sbucava allora fra due piramidi di ghiaccio. In pochi slanci raggiunse i compagni, gridando: — Presto, ai remi!... Il canotto prese rapidamente il largo, allontanandosi dal banco. L'orso si era arrestato sul margine, indeciso fra il rimanere o continuare l'inseguimento, poi si gettò risolutamente in acqua nuotando furiosamente. Il mostro balzava innanzi uscendo più di mezzo dall'acqua e mandava sordi nitriti. Malgrado la sua mole, filava più rapido del canotto, facendo schizzare l'acqua a destra ed a sinistra. — Arrancate! Arrancate! — gridò Mac-Doil, che aveva pure afferrati i remi. — Se ci raggiunge rovescerà il canotto! I due cacciatori e l'esquimese maneggiavano disperatamente i remi, ma erano esausti dal lungo digiuno ed il canotto era troppo carico per procedere lesto. Erano sforzi inutili contro quel robusto nuotatore che poteva inseguirli per trenta o quaranta miglia senza stancarsi. Si erano già allontanati tre miglia dal banco, quando Sandoë si lasciò sfuggire un remo. Il pover'uomo non ne poteva più ed anche Mac-Doil, sfinito per la perdita di sangue, si sentiva impotente a continuare la faticosa manovra. — Kalutunak, il rampone — disse Sandoë. — Non ho più forze. L'esquimese lasciò andare i remi ed impugnò l'arma, mentre Kamo abbaiava con furore, preparandosi a balzare in acqua. — Bada di non mancarlo — disse Mac-Doil afferrando un remo. — Non temete — rispose Kalutunak. L'orso non distava che trenta passi. Con pochi slanci superò la distanza e si precipitò verso il canotto cercando di affondarlo a poppa, però l'esquimese gli vibrò un colpo d'arpione fra le fauci spalancate, lacerandogli il palato ed attraversandogli la lingua. Il mostro mandò un urlo feroce e s'immerse lasciando alla superficie una larga macchia di sangue. Ricomparve venti passi più lontano, ma pareva che non avesse più intenzione di ritentare l'assalto. Tornò ad inabissarsi, poi ritornò a galla a maggior distanza. Egli fuggiva cercando di raggiungere un altro banco di ghiaccio che andava alla deriva verso il sud-ovest. — Inseguiamolo — disse Sandoë. — Forse sta per morire. — Non così presto — rispose Mac-Doil. — E poi siamo troppo stanchi per gareggiare con lui. Torniamo al banco. Mentre l'orso scompariva in mezzo ai ghiacci, i due cacciatori e l'esquimese riprendevano i remi per raggiungere il banco, il quale andava pure alla deriva verso il sud-ovest. Quando vi approdarono, udirono delle urla acute che risuonavano fra le piramidi di ghiaccio. — È l'orso che sta per morire — disse l'esquimese. — Il calore degli intestini ha sciolto il grasso e l'osso è scattato. Legarono il canotto ad un hummok e salirono sul banco seguiti dal molosso, il quale già brontolava minacciosamente come se si preparasse alla lotta. Girate alcune piramidi di ghiaccio, i tre cacciatori videro l'orso sdraiato in mezzo alle neve. La povera bestia lanciava urla strazianti e si dibatteva disperatamente, come fosse stata assalita da atroci dolori. Kamo le balzò addosso con furore, azzannandola alla gola. La fiera tentò di respingerlo colle zampe anteriori, però le forze tosto le mancarono e si distese sulla neve, mentre Kalutunak le vibrava un colpo di rampone in direzione del cuore. I tre disgraziati, che da quaranta ore non avevano inghiottito una briciola di pane, si gettarono su quel corpo ancora scosso dalle ultime strette dell'agonia e, applicate le labbra alle ferite, succhiarono avidamente il sangue caldo che ne usciva. LE ULTIME VITTIME DELLE REGIONI POLARI Quell'orso doveva aver sofferto dei lunghissimi digiuni, essendo estremamente magro, però poteva fornire ancora un duecento e forse più chilogrammi di carne, e pei superstiti del Taimyr bastavano per continuare il viaggio fino alle coste dell'Islanda. Rinvigoriti da quella scorpacciata di sangue, scorticarono l'animale adoperando due coltelli da tasca che i cacciatori ancora possedevano, e che fortunatamente avevano la lama solida e tagliente, e dopo un lungo lavoro riuscirono a spogliare le ossa ed a raccogliere anche alcuni chilogrammi di grasso, materia preziosissima necessaria per sciogliere la neve onde ottenere dell'acqua. Il carcame fu abbandonato a Kamo, il quale potè finalmente calmare la fame che lo rodeva. Non potendo accendere il fuoco, essendo i pochi legnami galleggianti raccolti sul luogo del disastro, ancora troppo bagnati per poter ardere, i due cacciatori e l'esquimese si videro costretti a cibarsi di carne cruda, cibo ripugnante pei due primi, ma gradevolissimo pel terzo, essendo abituato a quell'alimento. La loro fermata sul banco di ghiaccio fu di poche ore. La prudenza li consigliava di abbandonare in fretta quei paraggi freddissimi e così scarsi di risorse, specialmente allora che si trovavano sprovvisti di vesti, di coperte e quasi privi di fuoco. Imbarcarono i loro viveri, tesero la pelle dell'orso su due remi incrociati facendola servire da vela, volendo approfittare del vento del nord che soffiava vivamente e ripresero la corsa verso il sud, filando fra grandi banchi di ghiaccio che andavano alla deriva verso i mari d'Europa. Alla sera s'arrestarono presso le coste d'un isolotto deserto che distava una ventina di miglia dalle coste della Groenlandia, e dove si trovavano migliaia di uccelli marini. L'esquimese, che era stato nominato cuoco e provveditore, fece una discreta raccolta di uova d'uccelli e di una specie di lichene che ben cucinato e ridotto in pasta viene avidamente mangiato dai groenlandesi, poi si stesero l'uno accanto all'altro nel fondo del canotto e copertisi colla pelle dell'orso, si addormentarono sotto la guardia del molosso. Il 28 giugno[1] riprendevano il largo. Il mare fortunatamente si manteneva tranquillo, ma il freddo era acutissimo ed i ghiacci diventavano numerosissimi in quel tratto di mare, minacciando d'imprigionarli. Ice-bergs colossali, banchi, streams e hummoks andavano alla deriva urtandosi reciprocamente e sfracellandosi. Alcuni, perduto il loro centro di gravità, cadevano bruscamente e colle ondate che sollevavano rendevano pericoloso l'avanzarsi del canotto, il quale minacciava ad ogni istante di venire inghiottito. Il primo luglio, dopo quattro giorni di navigazione penosissima, approdavano ad un'altra isola, di grandi dimensioni che formava una specie di semicerchio con una vastissima baia verso l'est. Sandoë opinava che fosse quella di Liverpool o una delle Sabine, ma Mac-Doil, con maggiori probabilità, data la forma di quella terra, credeva che fosse quella di Shannon che si trova dinanzi alla costa groenlandese chiamata oggi del Re Guglielmo. Avendo le membra rattrappite pel freddo e per la immobilità a cui trovavansi condannati in quell'incomodo canotto, decisero d'arrestarsi alcuni giorni, anche perché speravano di poter catturare qualche foca che procurasse dell'olio per cucinar i viveri e per riscaldarsi. Quella fermata però fu assolutamente infruttuosa, poiché quell'isola era abitata da soli uccelli marini ed anche assai diffidenti. Tuttavia poterono raccogliere una certa quantità di lichene che poteva fornire una discreta minestra. Il 3 luglio riprendevano la ritirata sempre in mezzo ai ghiacci e con un freddo che doveva toccare i 20° centigradi sotto lo zero. Privi di fuoco come erano e di frequente spruzzati dalle onde, i disgraziati soffrivano immensamente, ma erano costretti a precipitare la fuga per non vedersi chiudere la via dai ghiacci galleggianti, i quali aumentavano sempre. Il 5 il tempo cominciò a diventare cattivo. Il vento del nord soffiava con violenza, il mare diventava burrascoso e dalle coste della Groenlandia s'avanzavano delle dense nebbie. Correvano il pericolo di farsi fracassare dai ghiacci o di affondare fra quelle onde che minacciavano di riempire il canotto. Decisero di ritirarsi su di un banco di ghiaccio e di attendere che l'uragano si sfogasse. Il progetto fu tosto effettuato e si rifugiarono su di un ghiaccione che aveva uno spessore notevole ed una circonferenza di tre o quattrocento metri. Anche il canotto fu issato per impedire che le onde lo portassero via o l'affondassero. Per tre lunghi giorni i superstiti del Taimyr, sbattuti dalla tempesta, immersi in un nebbione fittissimo, semigelati dal vento rigidissimo del nord, errarono su quel mare sconvolto. Le loro sofferenze erano giunte a tale punto da desiderare la morte. Il quarto giorno una tremenda disgrazia li colpiva, rendendo la loro situazione disperata. Kalutunak si era recato verso il margine del banco per vedere se il canotto aveva sofferto, ma giunto ad un certo punto s'accorse che una parte del ghiaccione era stata fracassata, forse dall'urto di qualche enorme ice-berg. Non scorgendo più il canotto in alcuna direzione, s'affrettò a raggiungere i compagni e ad informarli della scomparsa del galleggiante. Sandoë e Mac-Doil, quantunque fossero rattrappiti dal freddo, angosciati, spaventati, si misero a percorrere le coste del banco sperando di ritrovarlo, però le loro ricerche furono vane. Quella perdita li abbattè; si considerarono come morti, non possedendo ormai più alcun mezzo per compiere la ritirata verso il sud, e non avendo per somma sventura che pochi pezzi di carne le rimanenti provviste essendo rimaste nel canotto. — È inutile ogni lotta — disse Sandoë, con voce sorda. — Era destino che nessuno di noi dovesse recare in Europa la notizia della scoperta del polo. Mac-Doil non rispose. Pareva che anche l'energico ebridano, avesse perduto ogni speranza di guadagnare le coste dell'Islanda. Solo Kalutunak forse sperava ancora. Abituato alla lotta diurna per l'esistenza, ai freddi ed a vivere fra i ghiacci, non vedeva la cosa grave come i suoi compagni. Con un colpo di tosse richiamò l'attenzione dei due cacciatori, poi disse con voce tranquilla: — Ho il mio rampone. — E noi abbiamo quarantamila dollari che ci sono inutili quanto il tuo rampone — disse Sandoë. — Andrò a ramponare le foche — proruppe l'esquimese. — E quali?... Non se ne vedono più. — Le cercheremo. — Non abbiamo più canotto. — Ma i ghiacci galleggianti sono numerosi attorno a noi. — E cosa vuoi dire? — chiese Mac-Doil. — Che possiamo abbandonare questo banco e passare su altri maggiori. — Il canotto non vi è più?... — I ghiacci si urtano presto o tardi. Ecco lassù un grande banco che viene a toccare il nostro. Chi c'impedisce di abbandonare questo per l'altro?... I due cacciatori si erano alzati. Un pack che doveva avere un circuito di un miglio e forse di più, s'apriva il passo fra gli altri ghiacci natanti e stava per investire il banco montato dai naufraghi. Sopra i suoi picchi e sopra gli ice-bergs che si erano saldati ai suoi fianchi, si vedevano svolazzare bande di uccelli marini. — Credo che Kalutunak abbia ragione — disse Mac-Doil. — Cerchiamo di raggiungere quel nuovo ghiaccio. Forse troveremo qualche foca o qualche morsa o per lo meno delle uova di uccelli marini. Si caricarono della pelle dell'orso, unico loro riparo, dei documenti, del rampone e dei pochi pezzi di carne che ancora possedevano e si diressero verso la costa settentrionale. Il pack non era lontano che due o trecento passi e spinto dal vento che urtava contro gli ice-bergs e le piramidi, procedeva più rapido di tutti, fracassando, colla propria massa, i ghiacci minori che incontrava sul suo passaggio. Un quarto d'ora dopo investiva il banco montato dai naufraghi, diroccandolo in gran parte con un urto poderoso. Mac-Doil ed i suoi compagni, dopo d'aver corso il pericolo di cadere nei crepacci apertisi in seguito alla collisione, furono lesti ad approdare sul ghiaccio gigante, il quale prometteva di resistere lungamente alla lenta sì, ma continua corrosione delle acque. La fortuna parve arridere ai disgraziati superstiti del Taimyr, poiché poco dopo il loro approdo sul pack, poterono scorgere delle foche ed anche numerosi buchi aperti attraverso il campo. Per non allarmarle ed obbligarle ad abbandonare i loro rifugi, si tennero nascosti in mezzo ad alcuni picchi di ghiaccio che potevano anche proteggerli contro i freddissimi soffi del vento polare. — Penserà Kalutunak a catturarle — disse Sandoë. — Noi non potremmo far altro che spaventarle. — Spero di prenderne alcune — rispose l'esquimese. — È necessario però che impedite a Kamo di allontanarsi. — Resteremo accampati qui — disse Mac-Doil. — Ormai non potremo più abbandonare questo banco di ghiaccio che mi sembra il più grande ed il più solido di quanti ci circondano. — Ma poi?... — chiese Sandoë. — Cosa accadrà di noi quando questo pack si scioglierà?... — Ci vorrà del tempo perché le acque lo corrodano tutto e spero, prima di allora, di veder comparire all'orizzonte le coste settentrionali dell'Islanda o qualche nave. Dei balenieri vengono a pescare i cetacei sulle spiagge della Groenlandia e la buona stagione non è per anco terminata. — E questo freddo che non cessa? Riusciremo a resistere? Siamo già ridotti in cattive condizioni. — Costruiremo una capanna di ghiaccio, Sandoë. Il materiale non manca e Kalutunak è abile in simil lavori. — La costruirò — disse l'esquimese. — Se riesco ad uccidere delle foche, non soffriremo più il freddo. — Mettiamoci al lavoro adunque — disse Sandoë, che tremava. — Io non posso più resistere. Il povero cacciatore diceva il vero. Meno agguerrito dell'ebridano, che era ormai da lunga pezza abituato al freddo clima dell'Alaska, si trovava in uno stato compassionevole. Il vento polare aveva screpolata la pelle del suo viso la cui carne era stata messa a nudo in più parti; il suo naso aveva sofferto un principio di congelamento ed era diventato grosso e rosso come un peperone ed una tosse ostinata lo tormentava già da qualche giorno. Un'altra prova a quella temperatura che si manteneva crudissima, poteva essergli fatale. L'erezione d'una capanna di ghiaccio fu adunque tosto cominciata. Kalutunak e Mac-Doil si misero ad ammonticchiare dei grossi pezzi di ghiaccio che saldavano gli uni agli altri colla neve, disponendoli in cerchio e continuarono, sempre più restringendo il giro, finché riuscirono a costruire una specie di cupoletta avente un diametro di tre metri ed un'altezza di due. Da una parte scavarono una specie di galleria lunga parecchi piedi, la quale terminava entro la capanna, rendendo meno rapida, in tal modo, la dispersione del calore. La pelle dell'orso fu stesa nell'interno ed i tre naufraghi poterono finalmente gustare un lungo sonno al riparo del vento polare e godere una temperatura relativamente mite. L'indomani, messi in buon umore da quel riposo, decisero di porsi in caccia. Avevano consumata tutta la carne dell'orso e desideravano ardentemente un pezzo di foca bene o male arrostita ed un po' di luce, facendo assai oscuro nella capanna di ghiaccio essendo questa quasi tutta ricoperta di neve. Avendo osservato che le foche si erano mostrate verso le coste settentrionali, si recarono da quel lato del pack, tenendo però il molosso pel collare onde non le spaventasse. Mezz'ora dopo scoprivano sei di quegli anfibi che si trovavano sdraiati a cinquanta passi dal mare. Erano delle kassigiah, animali che raggiungono ordinariamente un metro di lunghezza e che hanno la testa ovale, il muso corto ed il pelame grigio-giallognolo. Cosa strana però: le femmine, invece di essere più piccole, hanno uno sviluppo maggiore dei maschi. I tre cacciatori, che si tenevano prudentemente sottovento, si divisero per impedir loro la ritirata verso il mare, poi si slanciarono innanzi emettendo alte grida e lasciando libero Kamo. I sei anfibi, scorgendoli, si misero a strisciare sul campo e poco dopo cinque si lasciavano cadere nei loro buchi immergendosi in mare, ma il sesto fu azzannato a tempo dal molosso e strangolato. Quell'anfibio era piccolo, essendo lungo appena ottanta centimetri, ma grasso. Poteva bastare per qualche settimana e fornire parecchi chilogrammi di materia oleosa. I cacciatori, dopo d'aver bevuto il suo sangue, lo portarono trionfalmente nella loro capanna, lo scuoiarono, lo fecero a pezzi e raccolsero preziosamente il grasso. Kalutunak fabbricò delle candele grossolane, ma erano troppo fumose per poter arrostirvi sopra un pezzo di carne, e d'altronde non possedevano altro recipiente che una scatola di metallo, conservata gelosamente per sciogliere il ghiaccio necessario a dissetarsi. Si videro quindi costretti a cibarsi ancora di carne cruda, di quella carne oleosa, nerastra, impregnata d'un sapore di rancido da rivoltare lo stomaco a qualunque altra persona. La fame però era tale, che i cacciatori si chiamarono ben fortunati di poter avere quel cibo, che del resto era il più atto a combattere il freddo, essendo ricco di materie grasse. Il secondo giorno, credendo che le foche si fossero tranquillizzate e volendo ingrossare le loro provviste, tornarono a visitare il pack ma con loro terrore non ne videro nemmeno una. Certo, non credendosi più sicure, avevano abbandonato il banco, cercando un rifugio più tranquillo su altri. Il 9 luglio il tempo tornò a diventare cattivo. Il vento del nord ricominciava a soffiare ed il mare diventava minaccioso, battendo furiosamente i margini del pack. Anche le nebbie s'avanzavano, venendo da occidente. I tre naufraghi furono costretti a tapparsi nella loro capannuccia, per non esporsi a quel freddo intenso prodotto dal vento polare. Il banco, sollevato e sbattuto dalle onde, crepitava sinistramente come se dovesse da un momento all'altro aprirsi; correva però più rapido verso i mari d'Europa. Il vento urtando contro gli ice-bergs e le piramidi di ghiaccio, lo spingeva verso il sud con notevole velocità. Il 14 luglio, essendosi il tempo rasserenato, i naufraghi lasciarono la loro capanna e perlustrarono le spiagge sperando sempre di poter catturare qualche altro anfibio, però senza risultato. Scorsero bensì, su di uno stream, un orso bianco che si lasciava trasportare dalla corrente ed anche una foca crestata, ma essendo sprovvisti del canotto e senz'armi da fuoco, dovettero accontentarsi di guardare malinconicamente quelle prede che avrebbero fornito loro delle copiose provviste. Ritornarono alla capanna tristi, scoraggiati. La foca era quasi terminata, il grasso stava pure per cessare e per di più Sandoë era tanto debole da non potersi quasi più reggere. Il povero isolano era tormentato da una tosse ostinata e pareva anche minacciato dallo scorbuto, poiché la sua pelle andava coprendosi di macchie e le sue gengive sanguinavano. Mac-Doil cominciava a disperare ed anche l'esquimese aveva perduto la sua fede. Il 15 la loro situazione non migliorò. Il mare si manteneva burrascoso, la nebbia avvolgeva il pack ed il freddo, invece di scemare, era sempre rigidissimo. L'esquimese, malgrado ciò, volle uscire per cercare d'impadronirsi di qualche foca. Aveva scoperti altri buchi verso le coste occidentali e non dubitava che fossero abitati. Partì solo, portando con sé il rampone. — Torna presto — gli disse Mac-Doil. — Non dubitate — rispose egli. — Se mi udite gridare, accorrete ad aiutarmi. Si cacciò nel corridoio e scomparve mentre al di fuori il vento ululava attraverso i picchi di ghiaccio ed il mare muggiva sinistramente. Mac-Doil si era accovacciato accanto a Sandoë, il quale si era sdraiato sulla pelle dell'orso, cercando di soffocare la tosse che gli lacerava lo stomaco. Kamo che si era collocato presso la galleria, si mostrava inquieto. Pareva che ascoltasse attentamente i rumori che venivano dal di fuori e di quando in quando emetteva dei sordi brontolìi. Era trascorsa un'ora, quando il molosso fece atto di slanciarsi all'aperto. — Che Kalutunak m'abbia chiamato? — chiese Mac-Doil. — Non ho udito nulla — disse Sandoë. — Pure Kamo mi sembra assai inquieto. Voglio andare a cercare l'esquimese. — La tempesta continua al di fuori, Mac-Doil. — L'affronterò. — Copriti colla pelle dell'orso. — No, povero amico. Servirà più a te che sei ammalato che a me. Vieni, Kamo. Si cacciò nella galleria entro la quale ingolfavasi il vento con mille gemiti ed uscì. La bufera imperversava con rabbia estrema. Il mare muggiva e scrosciava attorno al banco e la nebbia turbinava in mezzo ai picchi ed agli ice-bergs, mentre il vento spingeva innanzi a sé nembi di nevischio e sprazzi d'acqua marina. Appena il molosso fiutò l'aria esterna, lanciò un latrato lamentevole che aveva qualche cosa di lugubre. L'ebridano, superstizioso come tutti i suoi compatrioti, rabbrividì. — Triste presagio — mormorò, crollando il capo. — Che una disgrazia sia accaduta anche all'esquimese? Si provò a chiamarlo per nome con tutta la forza dei suoi polmoni; solamente le urla del ventaccio ed i muggiti del mare risposero. Allora una profonda inquietudine s'impadronì di lui. — Cerchiamolo, Kamo — disse con suprema energia. Entrambi s'avventurarono sul pack sfidando le nebbie e la neve, l'uno latrando e l'altro ripetendo le chiamate. Il ghiaccio crepitava sotto i loro piedi, come se dovesse spezzarsi ed inghiottirli; il ventaccio li spingeva a destra o a manca o li atterrava e l'oscurità era profonda, pure continuavano ad avanzarsi raddoppiando le chiamate ed i latrati. Ad un tratto il molosso si precipitò innanzi e s'arrestò sull'orlo d'un crepaccio. L'ebridano l'aveva seguito, facendo sforzi disperati per resistere alle raffiche che diventavano sempre più impetuose. — Cerca, Kamo, cerca — disse con voce angosciata. Il cane non si mosse: latrava sordamente. Solo allora Mac-Doil s'accorse che aveva appoggiate le zampe anteriori sul rampone che l'esquimese aveva abbandonato sull'orlo della fenditura. Comprese tutto: il disgraziato Kalutunak, spinto forse dal vento, era stato precipitato in mare e coperto di pelli come si trovava, doveva essersi annegato. Non vi era da ingannarsi, poiché non avrebbe di certo abbandonato colà il rampone che doveva servirgli a cacciare le foche. Mac-Doil, dinanzi a quella lugubre scoperta, credette d'impazzire. Cosa sarebbe avvenuto di lui, con Sandoë gravemente ammalato, senza l'aiuto dell'esquimese, il solo che era capace di ramponare gli anfibi, quasi senza viveri, perduto su quel mare tempestoso e su di un banco di ghiaccio che poteva venire infranto dagli ice-bergs?... Una cupa disperazione lo invase e si credette condannato a seguire ben presto i disgraziati comandanti del Taimyr ed i loro marinai. Gli mancò il coraggio di tornare alla misera capanna di ghiaccio per recare al compagno il triste annuncio ed errò come un pazzo, per parecchie ore, in mezzo al nebbione, alla neve, agli spruzzi d'acqua. Quando si decise a ritornare, trovò Sandoë coricato sulla pelle dell'orso, col capo nascosto fra le mani, in preda a furiosi ed incessanti colpi di tosse. Il povero isolano delle Fär-Öer pareva agli estremi o per lo meno tanto aggravato da disperare della sua guarigione. Udendolo entrare, con uno sforzo supremo si rialzò e lo interrogò cogli sguardi. — Mi ero ingannato — rispose Mac-Doil, lasciandosi cadere presso la galleria. Sandoë scosse il capo tristamente, poi fra un colpo di tosse ed un gemito, disse: — Tu... mi nascondi... la verità... Kamo ha... latrato... come quando i cani... annunciano una... sventura. — No, Sandoë. — Lo leggo nei tuoi occhi... Mac-Doil... L'hai... cercato... per parecchie ore... Poi vedendo che l'ebridano non accennava ad aprire le labbra, continuò: — È morto... è vero?... — Sì — rispose Mac-Doil, con voce sorda. — Ma io sono vivo ancora, sono robusto Sandoë e lotterò a lungo. Io ti salverò. Un pallido sorriso sfiorò le labbra del povero cacciatore. — È tardi... — mormorò. — Il polo... porta... sventura... e fra poco... sarò... morto anch'io. — No, t'inganni, Sandoë. Non disperare ancora; il vento spinge rapidamente il banco verso il sud e fra poco vedremo le coste dell'Islanda. Odi come soffia?... Corriamo come un veliero. Sandoë non rispose e tornò a ricadere sulla pelle dell'orso, mentre il cane faceva udire ancora una volta il suo lugubre latrato. Quante ore trascorsero dopo?... Forse molte senza dubbio. Quando Mac-Doil, che si era assopito presso il molosso, si svegliò, la candela che rischiarava la capanna di ghiaccio erasi spenta ed al di fuori ruggiva sempre il vento. Spaventato, chiamò Sandoë, ma non ricevette alcuna risposta. Strisciò verso il posto occupato dal compagno, ripetendo: — Sandoë!... Sandoë!... Mise le mani sopra il corpo dell'amico e sentì che ormai era freddo. Il povero cacciatore era morto e forse da parecchie ore. Cosa accadde dopo quella terribile notte?... Mac-Doil non me lo seppe mai dire, come non mi potè dire quanto tempo rimase su quel banco di ghiaccio che la tempesta trascinava verso i mari d'Europa. Si ricordò solamente di essersi svegliato, come dopo un lugubre sogno, a bordo d'una nave baleniera, la Bornholm, che tornava dai mari della Groenlandia dopo la stagione della pesca. Seppe solo che era stato raccolto a centosessanta miglia dalle coste orientali dell'Islanda, su di un piccolo banco di ghiaccio che stava per sciogliersi definitivamente, stracciato, semigelato, morente di fame, mentre mordeva rabbiosamente la borsa contenente i quarantamila dollari e le note del comandante del Taimyr. Il resto i lettori lo hanno già appreso dalla prefazione. LA SPEDIZIONE DI FRIDTHIOFF NANSEN Il secolo che sta per morire, è stato senza dubbio il più ricco di spedizioni marittime, dirette tutte attraverso i mari ghiacciati del settentrione, per cercare la conquista di uno dei due punti estremi del nostro globo: il Polo Nord. Numerosi sono stati i tentativi, specialmente in questi ultimi vent'anni, fatti dalle nazioni marinaresche dell'Europa e dell'America. Malgrado però l'ammirabile accanimento e la meravigliosa audacia degli esploratori, ben scarsi sono stati i successi, quantunque alcuni siano riusciti a giungere a così breve distanza dal polo, da far balenare la speranza che un altro, più fortunato o più temerario, riesca, in un tempo non lontano, a spiegare la bandiera delle nazioni civili su quel lontano punto della nostra terra. Uno, a cui ha sorriso più che agli altri la fortuna, e che per tre lunghi anni ha tenuto sospesa l'attenzione dei geografi e degli esploratori, e che ha fatto palpitar d'angoscia e di speranza tanti cuori, è stato il norvegese Fridthioff Nansen. Nemmeno a questo audace è riuscito di attraversare l'enorme barriera dei ghiacci che i secoli hanno accumulato nell'Oceano Artico e di raggiungere la mèta, ma più di tutti ha potuto avvicinarsi al polo, superando Markham, che s'era spinto fino a sole quattrocento miglia, e Lockwood che con un viaggio ardimentoso si era avanzato fino a trecentotrenta, superando quest'ultimo di ben settanta miglia. Già da parecchi anni Nansen aveva seguito attentamente le spedizioni organizzate in Europa ed in America e si era dato allo studio delle correnti marine polari, formandosi la convinzione che solamente seguendo il movimento dei ghiacci ed affidandosi al moto delle acque, una nave sarebbe forse riuscita ad aprirsi lentamente il passo attraverso l'enorme barriera e giungere, in un tempo più o meno lontano, alla sospirata mèta. Egli credeva all'esistenza di una grande corrente di ghiacci dovuta al movimento delle onde e dei venti e che partendo dalle coste settentrionali della Norvegia doveva spingere verso quelle della Groenlandia, girando attorno al polo; ma quantunque gli uomini di mare delle regioni artiche avessero divisa la sua opinione, aveva subito trovato un grande ostacolo negli scienziati e nei geografi da gabinetto. Presentata infatti una memoria al Congresso della Royal Geografic Society di Londra, come incoraggiamento aveva avuto, da parte di quei dotti, una risata così omerica, da dover sospendere la lettura ed andarsene più che presto col titolo di pazzo e d'ignorante. Nansen però, natura ferrea e decisa, più che mai convinto dell'esistenza della corrente, non s'era per questo scoraggiato. Comprese che erano troppe le difficoltà per convincere i teorici e lasciata Londra se ne tornava nella natìa Norvegia in cerca di capitali per tentare la spedizione. La fortuna arride all'audace. Uomini di cuore gli forniscono i mezzi per la costruzione della nave, un legno ben diverso dagli altri, colla carena molto convessa per poter meglio resistere alle enormi pressioni dei banchi di ghiaccio, ed ai primi d'agosto del 1893 salpa per le regioni polari pieno di confidenza nella riuscita dell'ardito tentativo, pronunciando queste fiere parole che riassumevano il suo programma: — A nessun patto tornerò indietro: io passerò e tornerò dall'altra parte!... Il 4 agosto il Fram — tale era il nome della nave montata dall'ardita spedizione — lasciato lo stretto di Jugor, naviga verso la costa siberiana dove incontra i primi ghiacci. Rileva un gran numero d'isole, mai forse prima di allora conosciute, ed il 15 settembre giunge di fronte all'Onelek dove tenta, ma invano, di giungere alla costa per imbarcare dei cani. Fino al 22 si avanza in un mare quasi sgombro di ghiacci, navigando al nord delle isole della Nuova Siberia, ma a 78°50' di latitudine Nord ed a 103°97' di longitudine la nave viene presa fra i banchi, lasciandosi trasportare, come già aveva indovinato l'esploratore, verso il nord e nord-ovest. L'esistenza della grande corrente, che aveva fatto ridere i dotti della Royal Geografic Society, era adunque perfettamente confermata. La marcia del Fram, assieme ai banchi di ghiaccio che lo circondano, continua senza interruzione. Il freddo aumenta di giorno in giorno coll'avanzarsi dell'inverno e le pressioni dei banchi si fanno sentire violente, però la nave resiste meravigliosamente mercé la sua speciale conformazione che le permette di alzarsi sui ghiacci invece di farsi stritolare. L'inverno sorprende l'ardito esploratore ed i suoi valorosi compagni. Furiose nevicate cadono senza interruzione ingombrando la coperta della nave ed il freddo diventa così acuto da far gelare perfino il mercurio dei barometri e dei termometri, toccando un giorno l'enorme cifra di 52° e 6' sotto lo zero, ma i membri della spedizione non s'inquietano, avendo imbarcato viveri per tre anni ed avendo piena confidenza nella solidità del loro vascello. La lunga notte polare giunge, però se il sole non si fa più vedere, se ne fabbricano uno che rischiara a sufficienza la nave ed i dintorni; è una poderosa lampada elettrica prodotta da un mulino a vento il quale funzionava magnificamente. Il 20 ottobre il Fram, sempre trasportato lentamente dalla corrente che durante l'inverno era diventata più rapida, si trovava all'83° parallelo e la notte di Natale toccava la più alta latitudine alla quale fino allora erano giunti gli altri esploratori, ossia l'83° 24'. Nel gennaio formidabili pressioni cominciano a stringere la nave. Enormi ghiacci si accumulano sui suoi fianchi con mille spaventosi muggiti, mentre i campi fremono e stridono. Pareva che il Fram dovesse da un istante all'altro venire stritolato come una semplice noce, invece resistette meravigliosamente alzandosi sempre più, sfuggendo alle ruvide carezze dei giganti del polo. Intanto la deriva diventava sempre più rapida verso il nord-ovest, spingendo la nave contro la Terra Francesco Giuseppe scoperta dal tenente della marina austro-ungarica Payer, durante la spedizione del 1874. Il 14 marzo era già giunta a 83° 50' di latitudine Nord ed a 102°27' di longitudine Est dal meridiano di Greenwich. Fu allora che Nansen, con un coraggio ammirabile, decise di abbandonarla per tentare di spingersi verso il polo a marce forzate, in compagnia d'un valoroso compagno, l'Johansen. Affida il comando della nave a Sverdrup e si mette animosamente in marcia attraverso gl'immensi campi di ghiaccio, portando con sé viveri per cento giorni, tre slitte, due piccoli canotti esquimesi di tela da vele impermeabile e ventotto cani. Il suo progetto era di spingersi più innanzi che poteva, quindi ripiegare verso la Terra Francesco Giuseppe e poi sulle Spitzbergen dove aveva la certezza d'incontrare, presto o tardi, qualche nave baleniera per farsi ricondurre in Europa. Aveva però la segreta speranza, con una rapida marcia, di poter finalmente giungere al polo. Durante i primi giorni, i due esploratori furono costretti a fare delle lunghe fermate in causa della cattiva conformazione dei campi di ghiaccio. Il freddo era sempre intenso, mantenendosi quasi costantemente a 40° sotto zero, però potevano resistere sebbene non avessero portato con loro le pellicce per non sovraccaricare troppo le slitte. Il 22 marzo i due intrepidi si erano già spinti fino all'85°10' di latitudine, ossia a soli cinque gradi dal polo. Già cominciavano a sperare di poter giungere alla mèta, quando s'accorsero che i ghiacci, invece di derivare verso il nord, scendevano al sud. Quella scoperta non isgomentò però i due esploratori, risoluti sempre di spingersi innanzi a qualunque costo, finché le loro forze lo permettevano. Ripresero la corsa verso il nord, lottando di velocità coi ghiacci, affrontando ogni giorno pericoli d'ogni specie e fatiche immense, con risultati però scarsi. Se guadagnavano venti miglia ne perdevano dieci in causa del moto retrogrado dei campi. Il 7 aprile, stremati di forze, a corto anche di viveri, si arrestano a 86° 13' di latitudine, ossia a sole 287 miglia dal polo!... Pochi giorni ancora di marcia e la scoperta sarebbe stata fatta, ma la più elementare prudenza imponeva un pronto ritorno e poi ogni lotta contro i ghiacci, i quali scendevano rapidamente verso il sud, era diventata impossibile. I due valorosi, dopo essersi a lungo consigliati, decisero di ripiegare verso la Terra Francesco Giuseppe, colla vaga speranza di poter più tardi giungere alle Spitzbergen e farsi raccogliere da qualche nave. Il ritorno fu triste. Il ghiaccio era diventato cattivo ed irregolare; la neve, cominciando a sciogliersi, rendeva difficile il percorso delle slitte; i loro orologi si erano fermati impedendo ai due disgraziati esploratori di stimare con certezza la latitudine, ed i viveri scemavano a vista d'occhio. Fuggivano come due disperati, sapendo bene che nella sola rapidità stava la loro salvezza. Uccisero alcuni cani per mantenere in vita gli altri, non volendo abbandonare le slitte che portavano la loro tenda, i pochi viveri che ancora possedevano, i due canotti e le munizioni. Le marce si succedevano alle marce, passando da un campo di ghiaccio all'altro, affondando nella neve ormai diventata troppo molle, aiutando i cani che ormai non avevano più forza dopo tanti digiuni. Ad ogni momento credevano di scoprire la Terra Francesco Giuseppe, ed invece non vi giungevano mai. Fortunatamente la selvaggina cominciava a mostrarsi ed ebbero la fortuna di abbattere alcune foche e qualche orso, e quella carne fu la loro salvezza poiché le provviste erano già finite e dei ventotto cani non ne avevano conservati che due soli. Il 6 agosto a 81°38' di latitudine Nord ed a 63° di longitudine, dopo d'essersi imbarcati sui due canotti, essendo il ghiaccio tutto infranto, scoprivano tre isolette che chiamarono le Isole bianche e continuando a navigare verso il sud-est, sei giorni dopo sbarcavano sulla costa ovest della Terra Francesco Giuseppe. La loro fermata fu breve. L'estate fuggiva rapidamente ed i ghiacci cominciavano a formarsi dappertutto, minacciando di bloccarli su quella costa desolata che non offriva alcun rifugio. Quantunque fossero esausti dalle fatiche e dalle privazioni, si rimisero animosamente in viaggio per giungere alle Spitzbergen prima che si chiudesse definitivamente la campagna dei balenieri, ma il 26 agosto venivano bloccati dai ghiacci. Si trovavano allora ancora in vista della Terra Francesco Giuseppe, presso una costa inesplorata. Sebbene senza provviste, decisero di raggiungerla e di svernare colà, fidando nella Divina Provvidenza. Con pietre e muschi si costruiscono una capanna, coprendola poi con pelle di foche ed i due poveri Robinson si preparano, in quell'umile ricovero battuto da gelidi venti del nord, a sfidare i rigori dell'inverno polare. Le loro fibre non cedono né alle fatiche, né alle privazioni. Finché il tempo lo permette, battono le coste vicine per provvedersi di cibo onde poter sopportare i tremendi freddi. Le foche e non pochi orsi bianchi, affrontati con coraggio disperato, somministrano a loro le pelli necessarie per coprirsi, l'olio per la illuminazione ed i viveri. Quando il freddo intenso sopraggiunge, i due Robinson erano pronti. Avevano ormai abbondanti provviste d'olio di foca per la loro lampada, molta carne d'orso la quale costituiva ormai il solo nutrimento, facendola bollire al mattino e friggere alla sera, e s'erano fabbricato un grande sacco di pelle entro cui dormivano assieme per scaldarsi meglio. Il lungo inverno polare trascorse, senza che la salute dei due esploratori soffrisse e senza che il loro appetito scemasse una sola volta. Soffrirono però la mancanza del pane, dello zucchero e del sapone!... La caccia alle foche ed il loro squartamento avevano ridotte le vesti dei Robinson in uno stato indescrivibile: un amalgama di olio puzzolente e di sangue, diventato assolutamente intollerabile. Quanto sarebbero stati felici se avessero posseduto un po' di sapone per pulirle!... Questo fu il loro più costante desiderio, senza speranza di poterlo soddisfare fino all'incontro di qualche nave. Il 19 maggio del 1895, ossia dopo dieci mesi di soggiorno forzato su quella terra deserta, vedendo che il mare cominciava a sbarazzarsi dai ghiacci, Nansen ed il suo compagno s'imbarcavano per raggiungere le Spitzbergen. Colle coperte che possedevano si erano fatti due abiti nuovi, colle pelli d'orso si erano cuciti due nuovi sacchi per dormire e colle vele una nuova tenda; inoltre avevano accumulato nuove provviste e dell'altro olio per la loro lampada. Lo stato dei ghiacci permise a loro di trovare dei canali e di guadagnare l'alto mare dove le acque erano quasi libere. I primi di giugno, dopo un'ardita e fortunata navigazione, giungevano all'81° di latitudine, su di un'altra costa. Essendo colà il mare libero, Nansen ed il suo compagno proseguirono la loro corsa per avvicinarsi alle Spitzbergen inoltrandosi in un vasto canale che seppero poi essere situato all'ovest di quello d'Austria. Ormai credevano di dover proseguire per molti giorni ancora il periglioso viaggio, quando il 13 giugno facevano improvvisamente l'incontro, presso il capo Flora, della spedizione comandata da Jackson, la quale si era stabilita su quella costa. Il 7 agosto i due fortunati esploratori, che l'Europa ormai aveva pianti come morti fra i deserti di ghiaccio del polo, lasciavano la Terra Francesco Giuseppe a bordo del Windward e sei giorni dopo sbarcavano sani e salvi a Vardò, in Norvegia, quasi contemporaneamente all'equipaggio del Fram, annunciando al mondo stupito la splendida riuscita della loro meravigliosa spedizione. Al valoroso esploratore, le nazioni d'Europa e d'America hanno tributato largamente onori ed elogi, ma quali sono stati i risultati pratici della spedizione?... L'esistenza, prima messa in dubbio, d'una grande corrente che dall'est va all'ovest e che può, se non portare direttamente una nave al polo, spingerla almeno assai vicina e la concezione d'una nave che può sopportare le pressioni dei ghiacci sfuggendo alle loro strette mortali. Potranno altri naviganti, dopo l'esperienza di Nansen, ritentare la prova e riuscire finalmente a porre i piedi su quel punto matematico e finora misterioso che è il polo?... Il tenente Payer, lo scopritore della Terra Francesco Giuseppe, uno dei veterani delle spedizioni polari, ed altri, dubitano che la fortuna dell'audace norvegiano possa ripetersi con maggior profitto. LA SPEDIZIONE ANDRÉE Un’altra audacissima spedizione che ha vivamente commosso il mondo scientifico e che ha pure fatto palpitare tanti cuori, è stata quella intrapresa da un compatriota di Nansen, dal signor Salomone Augusto Andrée e dai suoi due compagni, i signori Strindberg e Fraenkel. Già molti scienziati ed esploratori, in questi ultimi anni si erano occupati a studiare le possibilità d’una spedizione polare col mezzo dei palloni. Il tenente Cheyne della marina americana, pel primo aveva ventilato il progetto, anzi nel 1882 aveva già iniziata negli Stati Uniti una sottoscrizione nazionale per raccogliere gli 80.000 dollari necessari per le spese ma che poi sfumò. Invece di salpare dalle Spitzbergen, il Cheyne aveva scelto come punto di partenza la baia di San Patrick, lontana cinque miglia dal luogo dove il capitano Nares aveva svernato colla Discovery durante l’inverno del 1875-76, trovandosi colà un vasto giacimento di carbon fossile. Le difficoltà dell’impresa parvero allora tali, da rigettare immediatamente il progetto del luogotenente americano, anzi poco mancò che non venisse trattato da pazzo. Nondimeno alcuni scienziati ed alcuni aeronauti furono di parere affatto contrario, anzi uno di loro, l’Andrée, si mise a studiare seriamente l’audace tentativo e si convinse che se i pericoli erano grandi, le possibilità di giungere rapidamente al polo erano molte. Prima però di maturare il progetto volle conoscere le regioni polari e nel 1881 prendeva parte alla spedizione svedese del capitano Thorsder alle Spitzbergen, che aveva per iscopo di studiare il passaggio di Venere. Ritornato in patria, si consacrava completamente allo studio della navigazione aerea, facendo numerose ascensioni con un pallone che si era fatto fabbricare a Parigi da Gabriel Yvon. Nel 1895 l’intrepido aeronauta lanciava, al mondo stupito, la notizia che stava per tentare l’esplorazione del polo con un pallone. Tale audacia parve così enorme, che dapprima non fu creduta, quando però si seppe che già nella Svezia e Norvegia si raccoglievano i fondi necessari per la costruzione dell’aerostato o che il punto fissato per la partenza era una delle sette isole dell’arcipelago delle Spitzbergen, nel mondo scientifico si aprì una grossa campagna prò e contro il progetto che i più ritenevano, e forse non a torto, come una pazzia, ammirabile sì, ma pur sempre una pazzia. Infatti enormi difficoltà si presentavano e prima fra tutte quella di una corrente aerea stabile che lo portasse verso il polo, sapendosi ormai che i venti dominanti soffiano dal nord al sud; l’impossibilità che il pallone potesse sostenersi in aria parecchi giorni in una regione dove il freddo, anche in estate, è intenso, e dove un subitaneo gelo poteva guastare la seta; le difficoltà di portarsi provviste sufficienti per poter vivere parecchi mesi, nel caso che gli aeronauti fossero stati costretti a scendere sui grandi campi di ghiaccio. Ciò nondimeno Andrée, uomo risoluto e fermamente convinto nella buona riuscita del suo progetto, non esita. Raccolte, mediante una sottoscrizione nazionale, 130.000 corone delle quali 45.000 sottoscritte dal Re di Svezia, si fa costruire a Parigi, dal Lachambre, un enorme pallone di seta doppia, della cubatura di 4500 metri e nell’estate del 1896 salpa per le Spitzbergen a bordo della nave a vapore la Virgo, ma la corrente favorevole manca e dopo due mesi di soggiorno su quella terra deserta, trascorsi in vana aspettativa, la spedizione ritorna in Norvegia. Qualunque altro si sarebbe forse scoraggiato ed avrebbe rinunciato definitivamente al tentativo, ma non l’Andrée. Attende pazientemente l’estate successiva, occupando il tempo ad introdurre nuovi perfezionamenti nel suo pallone, ed il 18 maggio la spedizione salpa da Gothenborg a bordo della cannoniera Svendksund, seguita più tardi dal battello a vapore Virgo che l’attendeva a Tromsò. Il 30 maggio le due navi, che portavano anche numerosi invitati, si ancoravano all’isola dei Danesi, al nord dell’arcipelago delle Spitzbergen, luogo scelto per la partenza degli aeronauti, dove vengono raggiunte, alcuni giorni dopo, dallo sloop l'Express noleggiato da alcuni turisti e dal Lafoten condotto dal capitano Sverdrup, l’ex-comandante del Fram, la nave di Nansen. Lo sbarco del pallone ed il suo gonfiamento richiedono parecchie settimane; pei primi di luglio tutto è pronto ed il gigantesco pallone si libra superbamente entro la sua prigione di legno. Come fu detto, aveva una cubatura di 4500 metri ed era un vero capolavoro di costruzione. La sua seta era così fitta che non perdeva più di 35 metri di gas ogni ventiquattro ore, quindi si calcolava che potesse mantenersi in aria almeno cinquanta giorni, essendo fornito di 1700 chilogrammi di zavorra. Inoltre era stato munito di tre corde-guide del peso di 900 chilogrammi, lunghe ognuna 70 metri e che strisciando sui campi di ghiaccio dovevano modificare o rallentare la corsa dell’aerostato. Nella navicella erano stati collocati, con cura estrema, tutti gli oggetti indispensabili: barometri, bussole, apparecchi fotografici, medicine, lampade elettriche, armi, munizioni, coperte, una cucina, mentre i viveri, rinchiusi in trentasei sacchi contenenti 750 chilogrammi, erano stati sospesi ad altrettante corde pendenti intorno alla navicella. Consistevano in conserve alimentari, in carni concentrate ed in vini scelti. Oltre tuttociò, nella navicella eran stati collocati un canotto smontabile, costruito con un doppio tessuto impermeabile e della stessa stoffa del pallone, lungo cinque metri e d’una leggerezza sorprendente, che avrebbe dovuto rendere dei preziosi servigi; una gabbia contenente 32 piccioni viaggiatori e parecchi galleggianti da lanciare in mare, portanti la marca: Andrée’s polar expedition-1897 e muniti d’un tubo per mettervi dei documenti. L’11 luglio, dopo una tempesta, il vento del sud comincia a soffiare irregolarmente. Prevedendo che la corrente si sarebbe presto definitivamente stabilita, i marinai delle navi demoliscono una parte della costruzione in legno che aveva servito al gonfiamento del pallone e spingono alacremente gli ultimi preparativi della partenza. Il momento di spiccare il volo verso il polo era giunto. Andrée rimette al comandante dello Svendksund un telegramma da spedirsi a Sua Maestà il Re di Svezia e Norvegia, così concepito: «Al momento di partire, i membri della spedizione al Polo Nord pregano Vostra Maestà di accettare i loro umili saluti e l’espressione della loro più viva riconoscenza». Andrée ed i due intrepidi compagni che si sono offerti di seguirlo, quantunque certi di correre incontro alla morte, salutano vivamente commossi gli equipaggi ed i comandanti delle navi, poi entrano nella navicella. L’aeronauta, con voce ferma, grida ai suoi compagni: — Strindberg!... Fraenkel!... Partiamo!... Gli equipaggi, ad un comando del capitano Ehrensvard e dei luogotenenti Norselius e Celsing, lasciano le funi ed il pallone si alza maestosamente nell’aria. Un urrah immenso scoppia: tutti i marinari della Svendksund e delle tre baleniere ancorate nella baia salutano entusiasticamente i tre eroi che salpano pel polo. Il gigantesco pallone si alza a cento metri, avendo le tre corde-guide sospese, poi prende decisamente la via del nord, allontanandosi con una velocità di trenta a trentacinque chilometri all’ora. Gli equipaggi, radunati sulla spiaggia, lo seguono cogli sguardi, con muta ansietà, col cuore stretto. Alle una dopo mezzodì, Andrée, i suoi due compagni ed il pallone che li portava scomparivano fra le nebbie dell’orizzonte. Cosa è avvenuto degli audaci aeronauti?... Mistero!... Quindici mesi sono trascorsi di già e più nessuna nuova è giunta né in Europa né in America, né in Asia, dopo quella trasmessa dall’equipaggio del battello da pesca l'Alken. Quella notizia, portata da un piccione viaggiatore, raccolto al capo Nord delle Spitzbergen, era in data del 13 luglio ed era stato scritto da Andrée, due giorni dopo la sua partenza, a 82°2’ di latitudine Nord ed a 15°5’ di longitudine Est. Diceva semplicemente: «Buona marcia verso il nord. Tutto va bene a bordo. Questo dispaccio è il tredicesimo che mando». Poi più nulla! Nessun altro piccione viaggiatore è stato raccolto né sulle coste della Russia settentrionale, né su quelle della Siberia. Hanno potuto, gli aeronauti, giungere al polo?... È probabile, se la corrente favorevole che gli spingeva non è stata spezzata da qualche altra proveniente dal nord, potendo, colla velocità di trenta chilometri all’ora, giungervi in meno di due giorni, ma poi?... Cosa è accaduto di loro?... Sono ancora vivi e tentano di giungere sulle sponde della Siberia o sulle isole dell’America settentrionale, oppure il freddo dello scorso inverno li ha uccisi?... Ecco quello che ancora si ignora. Una spedizione è stata organizzata in Norvegia per mettersi in cerca di Andrée e dei suoi compagni. Andrà a visitare l’Isola di Jan Mayen e le coste della Nuova Semlia, incrociando fra il 70° e l’80° di latitudine, però si dubita molto che possa portare un po’ di luce sulla sorte dei disgraziati aeronauti. LA FUTURA SPEDIZIONE DI SUA ALTEZZA REALE IL DUCA DEGLI ABRUZZI Un'altra spedizione destinata a suscitare vive apprensioni nel mondo scientifico e particolarmente in Italia, sarà certamente quella che presto o tardi intraprenderà Sua Altezza Reale il Duca degli Abruzzi, il fortunato ed ardito alpinista, che pel primo ha spiegato la bandiera tricolore sul gigantesco picco del Sant'Elia, la più alta montagna dell'Alaska, fino all'anno scorso creduta assolutamente inaccessibile. S'ignora ancora quando Sua Altezza Reale salperà per le regioni dei ghiacci, ma ormai è un fatto positivo che sta studiando con grande serietà l'ardito progetto, deciso di oltrepassare Nansen e di posare i piedi sulle immacolate nevi del polo. La spedizione, a quanto sembra, sarà assolutamente diversa da quelle fatte fino ad ora, poiché ormai si è convinti, dopo le cattive prove fatte dalle navi, che solamente a piedi si potrebbe raggiungere quel lontano e misterioso punto del nostro globo. Il luogo della partenza sarebbe la Terra Francesco Giuseppe, la stessa sulla quale Nansen svernò durante l'inverno del 1895 in compagnia di Johansen e che è, si può dire, la più prossima al polo, dopo la Groenlandia. Si comporrebbe d'un numeroso personale: un terzo d'italiani, possibilmente di guide alpine già pratiche delle nevi e dei ghiacci, e gli altri due di esquimesi con numeroso seguito di cani, di slitte, parecchi canotti e viveri in abbondanza. Sua Altezza Reale si avanzerebbe attraverso gl'immensi campi di ghiaccio a piccole tappe, formando varie stazioni lungo la via e vari depositi di viveri per assicurarsi il ritorno, assumendo personalmente la direzione morale e materiale della spedizione ed affidando al suo aiutante di campo, cavalier Cagni, la luogotenenza e la cooperazione diretta dell'impresa. Questo sistema di procedere per scaglioni, ha già dato splendidi risultati durante la spedizione del Sant'Elia, quindi Sua Altezza Reale ha ferma fiducia di ottenere buoni successi anche attraverso i campi di ghiaccio dell'Oceano Artico e di spingersi ben lontano dalla Terra Francesco Giuseppe, forse di poter finalmente strappare al polo il suo segreto ostinatamente cercato, ma invano, per tre secoli, dai più valorosi marinai ed esploratori dei due mondi e che ha già costato, alla scienza, tante vittime. Grandi senza dubbio saranno gli ostacoli che dovrà superare la spedizione e grandi i pericoli da vincere in quelle desolate regioni dei ghiacci eterni, ma la rara avvedutezza ed audacia mostrata dal giovane Duca nella difficile conquista del nevoso colosso dell'Alaska, fanno sperare una splendida riuscita anche in questo arditissimo tentativo. Speriamo che il vessillo, impugnato dal principe Sabaudo, vada ben oltre e spieghi i suoi colori ai venti del polo boreale. LE SPEDIZIONI DI LERNER, DI SVERDRUP, DI PEARY E DI WELLMAN Nella scorsa estate, verso la metà di giugno, quattro nuove spedizioni sono salpate pei paesi dei ghiacci eterni. La prima è partita da Amburgo a bordo della nave tedesca l'Heligoland, al comando di Teodoro Lerner, un noto esploratore che ha già solcato parecchie volte le fredde acque dell'Oceano Artico. La nave è stata costruita espressamente, tutta in acciaio e porta viveri per tredici mesi, ed undici persone fra le quali i dottori Bruhl, Romer e Schandien. Questa spedizione farà una campagna al nord delle Spitzbergen dove probabilmente svernerà. La seconda è quella di Otto Sverdrup col Fram, la nave ormai famosa che ha servito al Nansen durante la sua lunga e fortunata campagna nell'Oceano Artico. Lo Sverdrup si è diretto verso il polo pel canale di Robinson ed andrà a svernare sulla costa nord-ovest della Groenlandia per esplorare quella parte della grande isola o penisola che sia. La nave è montata da sedici uomini e porta viveri per quattro anni, stati per la maggior parte donati da privati norvegiani. Per di più la Regia Compagnia Groenlandese si è incaricata di depositare 60 tonnellate di carbone fossile a Godhawn e di fornire la spedizione di cani esquimesi. La terza spedizione è quella di Walter Wellman, americano, il quale salpò da Tromsò (Norvegia) a bordo del Frithyof, organizzata sotto l'alta protezione del presidente degli Stati Uniti MacKinley, di Hay, ambasciatore americano a Londra, e dei più noti milionari yankees, quali i Wanderbilt, i Morgan, ecc. Il Wellman si è proposto di esplorare l'Oceano Artico al nord delle Spitzbergen e della Terra Francesco Giuseppe, colla speranza di poter aver nuove di Andrée. Ha condotto con sé anche un drappello di svedesi i quali andranno ad esplorare le coste della Terra Francesco Giuseppe per cercare qualche traccia dell'audace aeronauta e dei suoi compagni. La quarta spedizione è pure americana, al comando del tenente Peary, un nome già noto fra gli esploratori polari. È salpato verso la fine di giugno per le coste settentrionali della Groenlandia e si è proposto di spingersi direttamente innanzi pel canale di Kennedy. La fortuna sorrida agli audaci che vanno a sfidare i ghiacci secolari del polo, spinti solo da un intenso amore per la scienza.