CAPITOLO I. I due rivali. — Hurràh for miss Ellen!... — Hurràh for Montcalm!... — Hurràh for Torpon!... Queste grida uscivano da diecimila petti se non di più, con un fragore assordante, quasi spaventevole. Se le acque del lago Ontario avessero rotto gli argini e si fossero rovesciate, con impeto irrefrenabile, attraverso la piccola e graziosa città canadese di Kingston, non avrebbero prodotto maggior fracasso. Pareva che una subitanea follia si fosse impadronita di quelle diecimila persone composte di americani, di canadesi e d’inglesi, accorsi dal di qua e dal di là del S. Lorenzo, e che si stipavano entro un vastissimo recinto, improvvisato alla meglio con rozzi panconi, ma ben fornito di banchi dove facevano bella mostra infiniti reggimenti di polverose bottiglie. — È la bionda miss!... — Sì, sì, è lei, che giunge sul suo automobile di ottanta cavalli!... — No, sono i due aspiranti alla sua mano. — Cento dollari che è miss Perkins!... Chi accetta? — Mille che sono Montcalm e Torpon!... — Cinquecento che sono dei noiosi policemen che verranno a proibire anche qui la partita di boxe!... — Se sono ancora essi li prenderemo a pedate. — No, li getteremo nel S. Lorenzo, colle mani legate dietro il dorso!... — Avanti i più forti!... — Morte ai policemen!... — Stupidi!... È l’automobile di miss Ellen!... Siete diventati ciechi? Ho vinto cinquecento dollari!... Posso andare a prendere un crabmeat cocktail!... — Hurràh for miss Ellen!... — Su una immensa strada diritta, fiancheggiata da una doppia fila di pini giganteschi, un punto nerastro che ingrandisce a vista d’occhio, spicca vivamente sul leggiero strato di neve, lasciandosi indietro una nuvola di nevischio. Non può essere che un automobile lanciato a velocità fantastica, forse a cento chilometri all’ora, se non di più. I diecimila spettatori, dopo aver urlato come una banda di lupi affamati e dopo aver perduta quasi completamente la voce a forza di hurràh così spaventosi da vincere tutti i cosacchi della Russia e della Siberia, si sbandano a destra ed a sinistra, schiacciandosi contro le cinte e rovesciando, nella loro fulminea ritirata, più d’un banco colle relative bottiglie. Diamine!... Non vi era da indugiare un solo minuto se si trattava dell’automobile della bellissima Ellen Perkins, la più indiavolata sportman di tutti gli stati dell’Unione Americana e già perfino troppo nota anche nel Canadà dove aveva storpiate, nelle sue pazze corse, una mezza dozzina di persone. — Largo!... Largo!... — si gridava da tutte le parti. Quel magnifico viale, tutto bianco, tutto diritto, metteva capo appunto allo spazioso recinto occupato da quella massa di scommettitori furibondi e di sportmen accorsi da tutte le città canadesi e della vicina frontiera americana. L’automobile, che s’avanzava colla velocità d’un treno diretto americano, non doveva fermarsi che in mezzo alla pista e dato l’impeto non era improbabile che succedessero delle disgrazie. Intanto l’entusiasmo degli spettatori aumentava con un crescendo inverosimile. Pareva che le gole, eccitate dai bicchieri di wisky, di gin, di grogs brandy, avessero ripresa una forza straordinaria, poichè gli hurràh ormai salivano al cielo. Il rumoreggiare del vicino S. Lorenzo non si udiva ormai più. Il fiume era stato vinto. — Hurràh for miss Ellen!... Hurràh!... Hurràh per Montcalm!... Hurràh per Torpon!... — E tutte quelle voci, quantunque ormai diventate rauche, si confondevano in un frastuono impossibile a descriversi. Nemmeno l’oceano Atlantico, nei suoi cattivi giorni di grande tempesta, avrebbe potuto vincere in un concorso di grande, spaventevole fracasso. L’automobile ormai era in vista. Era una magnifica macchina tutta scoperta, a dieci posti, dipinta in giallo, montata da sole cinque persone. Al volante stava una bellissima giovane, dai capelli biondissimi, con riflessi d’oro, occhi azzurri stranamente variegati, dai lineamenti un po’ forse troppo energici per essere una donna, dalla vita sottile come una vespa, che indossava un ampio gabbano di seta cruda adorno di pizzi di gran valore e che guidava con una sicurezza meravigliosa. Dietro di lei stavano due giovani, seduti ad una certa distanza l’uno dall’altro, fra i venticinque ed i trent’anni, l’uno bruno e baffuto, d’aspetto distinto, e l’altro biondastro, un po’ tozzo e sbarbato come un prete anglicano. Più indietro ve n’erano altri due, d’aspetto terribile, massicci come bisonti, di statura gigantesca, con certe mani e certe braccia da mettere un senso di terrore anche agli uomini più muscolosi degli Stati Uniti ed anche del Canadà. L’automobile, guidato dall’intrepida miss con una sicurezza e destrezza meravigliosa, si slanciò con velocità fulminea nella pista, descrisse sempre in volata due giri fra gli applausi clamorosi degli spettatori, poi si arrestò proprio nel centro, quasi di colpo. Miss Ellen, che doveva possedere dei muscoli proprio americani, aveva frenato a tempo, strappando ai diecimila uomini che si stringevano addosso alla rozza cinta ed ai bars improvvisati, un vero urlo di ammirazione. — Signor mio, — disse un giovanotto di ventiquattro o venticinque anni, coi baffetti biondi, di forme quasi erculee, ad un grosso americano tutto chiuso in una monumentale pelliccia e con tanto di cilindro in capo, alto quanto la canna d’un camino, che pure urlando non cessava di centellinare un bicchiere di gin cok tail (acquavite fortissima). — Quella splendida creatura maneggia il suo automobile meglio del più famoso chaffeur d’America e d’Europa. — L’americano, che stava per lanciare il suo centesimo hurràh, si volse verso il giovane e lo guardò quasi con compassione. Bevette un’altra lunga sorsata del suo gin cok tail, poi gli chiese un po’ ironicamente: — Ma di dove venite voi? — Dall’Inghilterra. — E siete giunto a Quebec od a Montreal? — Da solo quarant’otto ore. — By-good!... Allora comprendo la vostra ignoranza, — rispose il grosso americano, lisciandosi la sua barba da becco, più rossa di quella del diavolo zoppo. — Che cosa volete dire, gentleman? — chiese il giovane inglese, tendendo le sue braccia muscolose con un gesto quasi minaccioso. — Che voi non sapete chi è quella superba creatura che guida così meravigliosamente quel superbo automobile di ottanta cavalli. — Affatto, signor mio. — Vi credo, — disse l’americano, dopo d’aver bevuto un altro lungo sorso. — Chi è dunque, se non vi rincresce? — Miss Ellen Perkins. — Ne so meno di prima. — Si dice che sia la fanciulla più indiavolata di tutti gli Stati della grande Unione Americana. Ah!... Che demonio!... Amazzone intrepida che sfida e vince perfino i famosi cow-boys del lontano Far-West, canottiera insuperabile, automobilista, spadaccina, lottatrice e che so io?... È la regina dello sport. — E che cosa viene a fare qui, gentleman, se non vi annoio? — Tutt’altro, giovanotto. La bella miss, poichè converrete con me che è una fanciulla meravigliosa.... — Ho un buon paio d’occhi anch’io, gentleman. Sarei pronto pei suoi begli occhi, a sfidare nuovamente tutti gli studenti dell’Università di Cambridge alla corsa, al salto, alla corsa con ostacoli, al getto del martello.... — Ah!... Siete uno sportman anche voi, a quanto pare, — disse l’americano, interrompendolo. — Allora capirete meglio le cose. Dunque dovete sapere che due uomini si disputano la mano di quella bellissima creatura, e sono i due più celebri sportmans dell’America del nord. Se non fossero tali, avrebbero potuto rinunciare subito a qualsiasi speranza di conquistare il cuore di quella indiavolata fanciulla. — Chi sono? Ma.... scusate, finchè gli altri continuano a sfiatarsi sarebbe meglio che voi accettaste, se non vi spiace, un crabmeat cocktail, tanto più che il vostro bicchiere è vuoto. — Un yankee non rifiuta mai, giovanotto, — disse l’americano, avviandosi sollecitamente verso il banco più vicino. L’inglese gettò dinanzi al proprietario del bar improvvisato una sterlina fiammante, non senza mandare un sospiro, gridando per coprire il frastuono che faceva rintronare sempre la vasta pista. — Due crabmeat.... presto.... non abbiamo tempo da perdere. — Non aveva ancora terminato di parlare che un garzone negro, dai grandi occhi che sembravano di porcellana, spingeva dinanzi ai due un vassoio con due grossi bicchieri incrostati di ghiaccio e colmi d’un intruglio di vari colori che tramandava dei profumi strani. Un europeo avrebbe forse esitato a mandar giù quella robaccia, ma che delizia pei palati americani, sempre avidi di bevande e di cibi stravaganti!... Che cosa c’è di meglio d’un crabmeat? Pensate che per comporlo ci si mette insieme della carne di granchio di mare ben triturata, della salsa di pomodoro, del pepe rosso, del marsala ed infine un mezzo bicchiere di gin-cocktail. Si capisce come un simile intruglio possa, anzi debba soddisfare la gola d’un yankee!... Mentre l’americano pescava avidamente nel suo grosso bicchiere gelato per raccattare i frammenti della carne del granchio, non cessava di chiacchierare e d’informare il giovane inglese, il quale invece non faceva troppo onore al crabmeat, pur avendolo ordinato lui, più per curiosità che altro. — Come vi dicevo, — aveva ripreso il yankee, la cui vociaccia rauca si distingueva abbastanza bene fra gli interminabili hurràh della folla delirante, — due uomini, veramente straordinari, si contendono il cuore di miss Ellen Perkins. Uno è un nobile canadese, più ricco di nobiltà che di dollari, a quanto si dice, ma discendente di quei famosi Montcalm che hanno difeso strenuamente questo paese contro voi, signori inglesi. L’altro è un mio compatriotta, il signor Torpon, figlio d’un grande fabbricante d’automobili di Buffalo, padrone di non so quanti milioni. — Ah!... — fece il giovane inglese, il quale pareva che si interessasse straordinariamente di quelle spiegazioni. — Il signor di Montcalm gode la fama di essere il più celebre sportman del Canadà, mentre il mio compatriotta lo si crede il più celebre degli Stati dell’Unione. — E chi ha fatto finora breccia nel cuore di quell’indemoniata fanciulla? — Nessuno, finora, quantunque si affermi che miss Ellen Perkins in fondo li ami entrambi. — Che cuore largo!... — Adagio, giovanotto, — disse l’americano, corrugando la fronte. — Una ragazza del nostro paese non ha che una parola e morrà per mantenerla. — Che cosa volete dire, gentleman? — chiese l’inglese, un po’ ironicamente. — Che ha giurato di impalmare il più forte dei due campioni e che non mancherà di farlo. — E qual’è il più forte? — Non si sa ancora, perchè pare che un perverso destino perseguiti ostinatamente i due campioni. Si sono sfidati alla spada e si sono feriti reciprocamente; si sono sfidati a cavallo e sono caduti entrambi nel salto agli ostacoli; hanno fatto una corsa in canotto-automobile e le loro macchine sono scoppiate in alto mare, e non si sa per quale miracolo si sono salvati.... — Ed ora? — Si sfidano a pugni. — Dite, gentleman? — Che noi assisteremo ora ad una magnifica partita alla boxe. Chi vincerà avrà la mano ed il cuore di miss Ellen, poichè lo ha solennemente giurato. — E sono venuti qui a misurarsi? — Giovanotto mio, questo affare ha prodotto un gran chiasso al di là del S. Lorenzo e la polizia si è messa di mezzo per impedire che quei due valorosi finiscano per accopparsi del tutto e perciò siamo passati sul territorio canadese. La boxe è tollerata dagli inglesi. — Uhm!... — Non lo credete? Se si accoppano a gran colpi di pugno nel vostro paese. — Sì, una volta; ora non più. — L’americano si grattò la testa e fece un moto di stizza. — Che anche i policemen inglesi si vogliano occupare di questo affare? — disse poi. — Ciò mi dispiacerebbe perchè io ho scommesso cento dollari.... — Sul vostro compatriotta? — No, sul canadese. — Eh!... — Gli affari sono affari, giovanotto, ed io ho più fiducia nel signor di Montcalm che in Will Torpon. — È strano. — Che cosa volete? Quantunque il mio compatriotta sia più grosso e più alto del canadese, io sono certissimo che perderà la mano di miss Ellen Perkins. — Questi due rivali sono ricchi, gentleman? — Non sono dei Pierpont Morgan, nè dei Carnegie, nè dei Wanderbild, intendiamoci; tuttavia possono permettersi il lusso di gettar via, senza badarci tanto, qualche centinaio di migliaia di dollari. Il mio compatriotta ha ereditato da suo padre una mezza dozzina di pozzi di petrolio che sembrano inesauribili, poichè gettano sempre; il signor Montcalm invece è uno dei più grossi proprietari di terreni del dominio inglese. — E la miss? — Ne ha dei milioni, la terribile fanciulla. Suo padre, che era proprietario d’una linea di navigazione, le ha lasciato un bel gruzzolo che intascherei ben volentieri anch’io. — Assieme ai begli occhi della miss, è vero? — In quanto a quello non saprei proprio dirvi un sì. Mi riterrei più fortunato se non ci entrassero nell’affare. — Sono bellissimi, gentleman. — L’americano, per non rispondere, inghiottì d’un colpo solo quanto rimaneva nel suo bicchiere, poi trasse da una tasca una tavoletta di tabacco, ne ruppe un pezzo coi suoi denti da lupo, e dopo d’aver masticato per qualche istante, disse: — Mi pare che i partners (padrini) dei due sportmen si siano già messi d’accordo e che la partita stia per cominciare. Volete venire, giovanotto? Non perdete una così bella occasione. — Andiamo, gentleman. — Stavano per ricacciarsi fra la folla che non aveva cessato un solo istante di dimenarsi furiosamente e di sgolarsi con hurràh, che diventavano ormai sempre più rauchi, quando una voce formidabile rimbombò, coprendo per un istante tutto quel fracasso. — I policemen!... — A quell’annuncio un silenzio improvviso era successo a tutto quel pandemonio. Si sarebbe detto che le ugole di quei diecimila spettatori si erano spezzate di colpo. Fu una cosa che ebbe però la durata di soli pochi secondi. Urla più formidabili di prima si erano prontamente alzate in tutte le direzioni. — Dove sono quei furfanti? — Accoppiamoli!... — Gettiamoli nel S. Lorenzo!... — A morte!... A morte la polizia!... — Un grosso automobile, dipinto in grigio, s’avvicinava rapido alla pista, seguendo la bianca via poco prima percorsa da quello di miss Ellen Perkins. Sei uomini, armati di mazze, lo montavano e non si poteva aver dubbio, per la divisa che indossavano, sulla loro qualità. Erano dei policemen del Dominio che giungevano probabilmente coll’ordine d’impedire quel combattimento a colpi di pugno, che poteva terminare in modo egualmente tragico per l’uno o l’altro dei due avversari. L’automobile, lanciato a tutta velocità, passò come un fulmine attraverso il largo squarcio aperto nella palizzata, facendo fuggire precipitosamente gli spettatori, e dopo d’aver descritto un mezzo giro si fermò, con gran fragore, presso quello di miss Ellen. Proprio in quel momento il signor di Montcalm e mister Torpon si erano messi l’uno di fronte all’altro, nudi fino alla cintola, fiancheggiati dai loro partners, pronti a rompersi le costole od a fracassarsi il viso pei begli occhi, e più pei milioni, della bella americana. Il brigadiere dei policemen si era alzato e dopo d’aver reclamato, con un gesto energico, un po’ di silenzio, gridò con voce poderosa: — In nome della legge ed in forza del mandato di cui sono detentore, mi oppongo al combattimento. Obbedite!... — Un urlo spaventoso accolse quelle parole. — Morte ai policemen!... — Al fiume!... Al fiume!... — Accoppiamoli!... — Prima cento, poi mille uomini, invasi da un vero furore, si erano scagliati contro l’automobile. Il brigadiere, che forse si aspettava quel colpo, d’un balzo fu a terra prima che il cerchio si chiudesse, e si gettò disperatamente attraverso la pista, manovrando energicamente la sua mazza, senza badare se rompeva delle teste o fracassava delle costole. I suoi compagni, sorpresi da quell’improvviso assalto, erano rimasti sull’automobile, certissimi di aver facilmente ragione in nome della legge. Avevano però fatto male i conti. In un baleno cento mani robuste li afferrarono, li trassero giù stringendoli al collo, alle braccia, alle gambe, e li scaraventarono brutalmente a terra, disarmandoli prontamente delle loro mazze. I disgraziati, subito ben pesti, avevano appena toccato il suolo che si sentirono gettati in aria, colle divise a brandelli. La folla voleva la sua parte. Quei poveri diavoli, intontiti, ammaccati, contusi, quasi spogliati, passavano sulle teste degli spettatori, rimbalzando come palle di gomma. Erano sopratutto i yankees che si mostravano i più feroci. Forse non si erano mai trovati a tanta festa!... — Su la legge!... — urlavano. — In alto!... In alto!... Su, un’altra volata!... Hurràh!... Hurràh!... — Un’altra volata!... Su, intonate l’yankee Dodle!... — I cinque policemen, più morti che vivi, balzando e rimbalzando sopra le tube lucide degli spettatori, andarono a rotolare sul banco d’un bar, fracassando bottiglie, vasi, bicchieri e facendo scappare il proprietario ed i suoi garzoni. Un’idea infernale era sorta in un cervello esaltato. — Diamo loro da bere!... — Sì, sì!... Ubbriachiamoli!... — urlarono mille voci. — Sì, ubbriachiamo la legge!... — risposero altri mille, sghignazzando. — No, rimpinziamoli di crab-meat cocktail fino a farli scoppiare!... — No, no!... Diamo loro del gin cocktail!... Farà meglio! — E del wisky!... — Bene!... Presto!... — Sette od otto bookmakers, i più furibondi di tutti, poichè in quell’inaspettato intervento della polizia vedevano compromessi i loro interessi basati esclusivamente sulle scommesse e sulle quotazioni dei due campioni, piombano sui cinque disgraziati, e li inchiodano, per modo di dire, al suolo, tenendoli ben fermi. Altri prendono delle bottiglie, le poche rimaste intatte, bottiglie del contenuto d’un litro, e le introducono a forza nelle bocche dei policemen. I poveri diavoli stringono disperatamente i denti e fanno degli sforzi sovrumani per liberarsi dalle mani di ferro che li tengono inchiodati. Tutto è inutile. Delle dita brutali afferrano e stringono i loro nasi. Non vi è altro da fare: o bere, o morire asfissiati. — Giù!... Giù!... — urlano gli spettatori che si sospingono furiosamente. — Date da bere alla giustizia!... Ubbriacate la legge!... — Le bottiglie vengono alzate e cacciate a forza. I policemen bevono, bevono disperatamente, sbuffando, contorcendosi. I loro occhi si gonfiano e pare che da un momento all’altro debbano schizzare dalle orbite; i loro denti stridono sui colli delle bottiglie, tentando, ma invano, di sgretolare il vetro. Il wisky ed il gin gross gorgoglia entro le loro gole e scende negli intestini. Una ubbriachezza fulminante coglie i cinque rappresentanti della legge, i quali finiscono per rimanere immobili come se fossero morti. — Basta!... — gridano i bookmakers. — Per ventiquattro ore la legge non ci darà fastidio. Gentlemen!... I campioni ci aspettano!... Teniamo le scommesse!... — CAPITOLO II. Una partita di “boxe„. Durante quella baraonda, il campione canadese e quello americano non si erano scostati dall’automobile che si teneva sempre nel centro della pista e sul quale si trovava miss Ellen Perkins, appoggiata graziosamente al volante. I relativi partners avevano tenuto loro compagnia, conversando tranquillamente cogli allievi e non cessando di fare loro delle raccomandazioni per fare una bella figura dinanzi ad un pubblico così imponente che doveva, alla stretta delle cose, giudicare della superiorità della scuola americana o della inglese. Vedendo la folla rovesciarsi in massa verso il centro della pista, il signor di Montcalm e Torpon si erano affrettati a denudarsi fino alla cintola, malgrado il freddo ancora intenso che regnava sull’immensa regione canadese. Era necessario sbrigare la faccenda, poichè il brigadiere dei policemen, quantunque vigorosamente inseguito da una dozzina di buoni corridori, era riuscito a scavalcare la cinta prima di poter essere acciuffato, ed era scomparso in direzione del fiume, per raggiungere forse qualche ufficio telegrafico. — Signor di Montcalm, — disse Torpon, dopo di essersi ben stiracchiato e di essersi battuto rumorosamente il largo petto. — Volete che cominciamo? Sono curioso di vedere se il destino si stancherà di mantenerci sempre al medesimo livello. By-good!... Qualcuno di noi deve ben essere il più forte e strappare la vittoria. — Quando vorrete, signor mio, — rispose il canadese, il quale si stava facendo stropicciare i muscoli delle braccia dal suo partner, che era stato anche il suo maestro. — Miss Ellen, aprite gli occhi allora e non perdete un colpo, poichè voi sola sarete giudice competente. — La giovane abbozzò un sorriso di soddisfazione, staccò le mani dal volante e dopo essersi ravviata, con una mossa brusca, i biondi capelli, s’alzò in piedi. — Miss Ellen, — disse a sua volta il canadese, — voi mantenete sempre il vostro giuramento? — Più che mai, — rispose la giovane americana. — La mia mano apparterrà al vincitore. — Grazie, miss. Signor Torpon, vi aspetto. — I due partners si trassero da parte e levarono dalla tasca il loro cronometro d’oro, per la ripresa dei cinque minuti. Il canadese e l’americano s’inchinarono dinanzi a miss Ellen e si mossero incontro stringendosi la mano all’americana, vale a dire a rischio di disarticolarsi le braccia, mentre i diecimila spettatori prorompevano in un ultimo e più rimbombante hurràh. Si erano messi in guardia, coi pugni ben postati all’altezza del viso, fortemente appoggiati sulla gamba destra, in una posizione la quale dimostrava come entrambi dovessero conoscere profondamente la terribile e pericolosissima arte della boxe. Gli hurràh erano bruscamente cessati. Un profondo silenzio regnava nella pista, rotto solo dal soffio affannoso dell’automobile di miss Ellen Perkins. Si sarebbe detto che tutte quelle persone non respiravano più. I due campioni si guardarono per alcuni istanti nel bianco degli occhi, poi l’americano fece il primo passo tirando al canadese un formidabile fist-shoke che, se l’avesse colto giusto, gli avrebbe fracassata almeno una costola o mandati alcuni denti a passeggiare nella pista. L’avversario, quantunque in apparenza sembrasse molto meno robusto, aveva parata la botta con tale velocità e maestrìa da strappare, agli spettatori, un vero urlo d’entusiasmo. Perfino miss Ellen si era degnata di approvare con un gesto del capo. — By-good! — brontolo l’americano, sconcertato. — Non vi credevo così forte, signor di Montcalm. Mi tenevo sicuro di spazzarvi via subito, mentre ora mi accorgo d’aver di fronte un boxer di prima forza. Bah!... Vedremo la fine!... — Il canadese si limitò a sorridere ed a lanciare uno sguardo rapido verso miss Ellen. La giovane americana, in piedi dietro al volante, conservava una immobilità assoluta. Solamente i suoi occhi pareva che si fossero accesi. — Attento, signor di Montcalm, — riprese l’americano, il quale si era rimesso prontamente in guardia. — Vi avverto che io proverò contro di voi un colpo terribile, insegnatomi dal mio maestro, che se riesce vi spaccherà la fronte e vi farà, nel medesimo tempo, schizzare gli occhi dalle orbite. Lo chiamano il colpo di Tom Powell. — Chiacchierate meno e agite di più, signor Torpon, — rispose il canadese. — Non sentite dunque quest’aria frizzante? — Bah!... Noi yankees siamo ben corazzati contro il freddo e anche contro il caldo. Non per niente ci chiamano mezzi uomini e mezzi coccodrilli. Sfondate le mie scaglie, se ne siete capa.... — La frase fu bruscamente strozzata da un urlo di dolore. Il pugno del canadese gli era giunto, con velocità fulminea, in mezzo al petto, facendolo risuonare come un grosso tamburo. — Aho!... — esclamò l’americano, facendo una brutta smorfia ed un salto indietro. — Si è rotta qualche scaglia del coccodrillo? — chiese ironicamente il canadese. — Oh no!... Sono ben solide le mie!... — Un hurràh fragoroso, lanciato dai canadesi e dagl’inglesi che assistevano in buon numero alla lotta, aveva salutato quel primo colpo. Gli americani avevano risposto con dei grugniti e con delle imprecazioni, poichè avevano puntato molti dollari sul loro compatriotta. I due partners s’avvicinarono ai due campioni, offrendo loro un bicchiere di gin coktail affinchè si riscaldassero un po’ e potessero meglio resistere al freddo che accennava ad aumentare anzichè diminuire, poi diedero il segnale di rimettersi in guardia. L’americano, il quale si era già prontamente rimesso dalla formidabile tambussata, fu il primo ad assalire, facendo una serie di finte all’altezza del viso del canadese. Certo cercava di tirargli il famoso colpo di Tom Powell che avrebbe dovuto sfigurarlo per sempre e forse acciecarlo. Il signor di Montcalm, ripiegato su sè stesso come una tigre che sta per scagliarsi sulla preda, colle narici frementi, gli occhi scintillanti, parava con una velocità ed una precisione da strappare frequenti applausi così da parte degli anglo-canadesi come degli americani. Tuttavia non riuscì a parare in tempo un fist-soke che lo colpì in mezzo al petto e che lo fece un po’ traballare. Non era però il terribile colpo di pugno che il yankee si era giurato di assestargli, e che avrebbe dovuto spaccargli la fronte alla radice del naso. Il canadese aveva fatto a sua volta un salto indietro, e dopo essersi passate le mani sul punto colpito, operando un energico massaggio, aveva detto, con voce perfettamente tranquilla: — Siamo pari, signor Torpon. Io mi aspettavo il famoso colpo di Tom Powell. — Verrà più tardi, — rispose l’americano. — Uhm!... Ne dubito!... Ormai ho conosciuto il vostro giuoco. — Non ancora; miss Ellen giudicherà. — Un altro hurràh entusiastico aveva salutato quel colpo, mandato però questa volta esclusivamente dagli spettatori americani. I canadesi e gli inglesi erano rimasti impassibili come per dimostrare la piena fiducia che avevano nel loro campione. I due partners si erano nuovamente avanzati, offrendo ai due lottatori del brandy. L’americano tracannò d’un fiato il suo, mentre invece il signor di Montcalm lo respingeva, dicendo al partner: — Noi canadesi non abbiamo paura del freddo e non abbiamo sempre bisogno di scaldarci. — Vi darà maggior animo, — gli disse sottovoce il maestro di boxe. — Ne ho da vendere: aspettate un po’ e vedrete che cosa ne farò del mio rivale. È ora di finirla una buona volta. — Per l’onore della vecchia Francia picchiate sodo e demolitemi per bene quell’insolente yankee. Ricordatevi del colpo segreto che vi ho insegnato e che credo valga meglio di quello di Tom Powell. — Lasciate fare a me, maestro. E sopratutto sbrigatevi poichè temo sempre una nuova sorpresa da parte dei policemen. — Pronti? — aveva chiesto il partner dell’americano. — Pronti!... — avevano risposto ad una voce i due rivali, rimettendosi prontamente in guardia. L’americano era diventato prudentissimo, mentre invece il canadese aveva subito cominciato ad eseguire una serie di finte con una velocità così fulminea, che certi momenti gli spettatori non riuscivano più a distinguere i suoi pugni. Incalzava violentemente, come se fosse impaziente di finirla, costringendo il suo avversario a rompere senza posa ed a balzare indietro. Il suo maestro, che funzionava da partner, lo incoraggiava collo sguardo. L’americano, sconcertato, non osava più tentare il suo famoso colpo. Batteva invece sempre in ritirata suscitando, fra i suoi compatriotti, dei mormorii poco benevoli a suo riguardo. — Fugge! — borbottavano, pensando ai dollari che avevano scommesso. — Che abbia paura? — Ad un tratto un grido scoppia dietro le ultime file della folla, subito seguìto da cento, da mille altri. — I policemen!... I dragoni della Regina!... — Un immenso urlo di furore risponde: — Ancora loro!... — Tre automobili, lanciati a tutta velocità, montati ognuno da una dozzina di poliziotti, divorano la bianca via. Dietro di essi galoppano disperatamente due squadroni di dragoni. Gli elmi luccicano e luccicano pure le sciabole di già sguainate. La legge la vuole vinta a qualunque costo ed arriva con forze imponenti. I due campioni si sono fermati. Torpon bestemmia da vero americano; il canadese fa un gesto di furore. I partners impugnano minacciosamente le bottiglie di brandy, pronti a resistere alla forza. Delle grida s’incrociano. — È una bricconata!... — È una infamia!... — Non si può più scambiarsi dunque due pugni nè negli Stati dell’Unione, nè nel Canadà? — Dove è andata a finire la libera America? In fondo all’Atlantico forse? — Gentlemen, alla prepotenza rispondiamo colla prepotenza!... — Addosso alla legge!... — Morte ai poliziotti!... Abbasso gli sbirri!... — Sì, sì, addosso!... — Una rabbia folle ha invaso, per la seconda volta, i diecimila spettatori. Inglesi, canadesi ed americani si slanciano verso i bars improvvisati ed in un momento li pongono a sacco, malgrado le proteste e le grida disperate dei proprietari. Una tempesta di bottiglie è pronta a rovesciarsi addosso alla forza che sta per forzare l’entrata della pista. Miss Ellen era rimasta impassibile, dietro il volante del suo automobile, guardando curiosamente la folla che si apparecchiava a resistere energicamente non solo ai policemen, ma anche contro i dragoni della Regina e ad inzuppare le rosse divise di questi ultimi d’ogni sorta di liquori. Il canadese si era avvicinato a Torpon, il quale digrignava i suoi denti da orso grigio, sagrando: — Lo vedete: un’altra volta il destino si è frapposto fra voi e me. Lo vedo, gentlemen, — rispose l’americano. — Eppure dobbiamo ben finirla. — Lo desidero anch’io, ma per ora non ci rimane altro da fare che di battercela prima di venire arrestati. — Lo vedo bene, by-good!... — Sì, andiamo, — dissero i due partners, — e lasciamo che se la sbrighino i vostri ammiratori. — Si erano affrettati a raggiungere l’automobile, il quale pareva impaziente di riprendere lo slancio. — Salite dunque? — chiese miss Ellen. — Ormai non vi è più nulla da fare qui e la forza non tarderà ad aver ragione. Sarà per un’altra volta. — Siamo disgraziati, miss, — disse Torpon. — È proprio vero, mister, ma che cosa volete farci? Cercheremo un altro luogo dove potrete battervi. — Sì, dovessimo recarci al polo, — disse il signor di Montcalm. — Là almeno non ci troveremo sempre dinanzi questi odiosi policemen. — Su, salite, gentlemen. Approfittiamo di questo istante di sosta, — disse la giovane americana. — Usciremo dall’altra parte della pista. — I quattro uomini si arrampicarono sull’automobile, coprendosi frettolosamente coi loro soprabiti bene impellicciati e si misero dietro alla miss impugnando quattro grosse rivoltelle Colt. — Avanti!... — gridò mister Torpon. L’automobile ebbe un sussulto, poi si scagliò attraverso la pista verso il lato sgombro, filando colla velocità d’una rondine marina. Il passo era libero, poichè tutti gli spettatori si erano rovesciati verso l’entrata del recinto che stava per essere forzato dai poliziotti e dai dragoni del 3.° Reggimento della Regina. In un lampo l’automobile raggiunse l’uscita che si trovava verso l’estremità meridionale e si scagliò, sbuffando e rumoreggiando, sulla strada che conduceva verso il fiume S. Lorenzo, avvolgendosi in un turbinìo di nevischio. In quel momento dall’altra parte giungevano i tre automobili montati dai poliziotti. I due squadroni li seguivano a cinque o seicento passi, lanciati a corsa sfrenata. — Ecco la battaglia che comincia, — disse Torpon. — Che peccato non potervi prendere anche noi parte attiva! I miei compatriotti lavoreranno per bene di pugni. — Lasciate che se la sbrighino loro, — disse miss Ellen, la quale manovrava il volante con una sicurezza meravigliosa, facendo aumentare sempre più la velocità della sua splendida macchina. — Io non desidero affatto di vedervi arrestare. — Un urlìo spaventevole coprì le sue ultime parole. I diecimila spettatori avevano impegnata la lotta contro i rappresentanti della legge, con uno slancio ed un coraggio degno d’una causa migliore. Una bordata di bottiglie aveva accolto gli automobili, inondando le guardie d’ogni sorta di liquori e spaccando qualche testa. — A morte!... A morte!... — urlava la folla. — Indietro o vi uccidiamo!... — Qualche colpo di fuoco si era confuso fra il fragore dei vetri che si fracassavano contro le macchine. Gli americani sopratutto non scherzavano. I policemen, malgrado quella pessima accoglienza, che d’altronde si aspettavano, erano balzati rapidamente a terra impugnando le loro robuste mazze. Le legnate grandinano sulle prime file della folla e senza veruna misericordia, rompendo teste e costole in buon numero, ma un’altra bordata di bottiglie colpisce in pieno i rappresentanti della legge mandandone a terra un bel numero. — A noi, dragoni!... — urlano i disgraziati che gocciolano come se fossero stati appena tratti da delle vasche piene di gin, di brandy, di wisky e di coktail. Un odore acutissimo di alcool si spande dovunque e pare che ubbriachi di colpo la folla, poichè invece di dare indietro si caccia animosamente innanzi, prende d’assalto i tre automobili e li rovescia l’uno accanto all’altro, improvvisando una formidabile barricata tutt’altro che facile ad espugnarsi. I due squadroni, che hanno udito le grida d’aiuto dei policemen, giungono ventre a terra. I cavalleggieri, rossi di collera, fanno descrivere alle loro sciabole dei molinelli minacciosi, ma sono costretti a rompere bruscamente la furiosa carica dinanzi ai tre automobili che ingombrano l’entrata del turf. — Piede a terra!... — comandano i due capitani che li guidano. I soldati non hanno nemmeno il tempo di lasciare le selle che una tempesta di bottiglie li scompagina. Sono le ultime, poichè ormai i bars sono stati completamente vuotati, però la tempesta è tale che i cavalli, spaventati, s’impennano, tirando calci in tutte le direzioni. Dei dragoni sono sbalzati violentemente al suolo e si rotolano sotto le zampe degli animali, facendosi schiacciare gli elmi. Ne rimangono ancora però molti in sella e da abili cavalieri tentano, aizzati dai loro ufficiali, di superare la barricata. Che diamine!... Montano dei cavalli di razza e sopratutto di razza inglese. Ad un tratto però le povere bestie che puzzano di liquori, indietreggiano, poi si sbandano, malgrado i colpi di sperone dei cavalieri. Delle detonazioni echeggiano e delle fiammate altissime si alzano dinanzi a loro. I serbatoi di benzina degli automobili sono scoppiati e le magnifiche macchine ardono rapidamente. È un altro colpo della folla inferocita o meglio di un gruppo di audaci americani i quali hanno sfidato valorosamente le mazze dei policemen. Una barriera di fuoco divide gli assaliti dagli assalitori, barriera che diventa di momento in momento più gigante, poichè dei volonterosi l’alimentano, scaraventandovi in mezzo non più delle bottiglie, ormai esaurite, bensì dei fiasconi pieni di liquori, l’ultima riserva dei bars. È troppo!... Un’altra volta la legge sta per essere soprafatta da quegli ostinati ed il pericolo è gravissimo poichè policemen, dragoni e cavalli sono inzuppati di gin, di brandy, di wisky e d’altri liquori infiammabilissimi. I dragoni del 3.° Reggimento della Regina non devono indietreggiare. Non sono dei poliziotti. Fra i crepitii dell’incendio si odono i comandanti a urlare: — Armate i moschetti!... — Quel comando fa l’effetto d’una doccia gelata. I diecimila spettatori lasciano il campo libero alla legge e si scagliano attraverso il turf, scappando, colla velocità di tante lepri, dall’altra uscita. CAPITOLO III. Un duello all’americana. Mentre la folla fuggiva, udendo crepitare i primi colpi di moschetto, fossero pure sparati in aria pel momento, l’automobile di miss Ellen Perkins, giungeva felicemente sulla riva di quel fiume gigante che si chiama il S. Lorenzo, il maggiore che solca il Canadà e che è così vasto e così profondo da permettere alle navi di spingersi, senza correre alcun pericolo di arenarsi, fino a Montreal ed anche molto più sopra. Un gran numero di ferry-boat e di pontoni, noleggiati dagli spettatori americani giunti da Boston, da New-York e da altre città più lontane, stavano ancorati lungo la sponda. Il signor di Montcalm si era alzato e dopo d’aver accostato le mani alla bocca come per fare porta-voce, aveva gridato con voce stentorea: — Presto: un pontone!... I policemen del Canadà ci danno la caccia!... — L’automobile, guidato dalle piccole e bianchissime mani di miss Ellen, dotate però di una forza straordinaria per una fanciulla della sua età, si era arrestato bruscamente dinanzi ad un vasto barcone, coperto da un largo ponte, che ondeggiava lievemente sotto la spinta della fiumana. — Eccoci a voi, gentlemen!... — avevano gridato i dieci barcaiuoli che lo montavano, afferrando rapidamente i lunghissimi e pesanti remi. L’automobile, che russava minacciosamente, spiccò quasi un salto e si arrestò sul ponte della barcaccia. — Passa!... — gridò il signor di Montcalm, mentre due barcaiuoli gettavano dinanzi alle ruote anteriori della macchina una grossa trave, pel timore che riprendesse la corsa e che precipitasse nel fiume che in quel posto era molto rapido e probabilmente molto profondo. Miss Ellen si era voltata verso il canadese, sorridendogli graziosamente. — Comandate come un capitano d’un transatlantico, — gli disse. — Spero però che non ci farete naufragare. — Per oggi no di certo, — rispose il signor di Montcalm, con una sottile punta d’ironia. — E contate di venire con noi ad Albany? — No, signora. La mia casa non si trova sul territorio americano, lo sapete bene. — Volete tornare ad Ottawa? — Certo, miss. Vi accompagnerò fino ad Oswego, poi attraverserò l’Ontario su qualcuno dei tanti piroscafi che salpano quasi ad ogni ora. — Mi pare che sarebbe pericoloso per voi tornare ora sul territorio canadese. Non dovreste dimenticare che siete voi una delle cause principali della rivolta contro la polizia. — O sono stati invece i vostri begli occhi, miss? — Ah!... Non nego che possano averci avuto una certa parte, ma non si arrestano due occhi, siano essi neri od azzurri. — Ben detto, miss, — disse mister Torpon, ridendo. — Dunque, signor di Montcalm volete proprio lasciarci? — Pel momento sì, miss. Non abbiamo più nulla da fare per ora, è vero, mister Torpon? — Non so, — rispose l’americano, facendo un gesto vago. — Che cosa vorreste tentare? Dove riprendere la nostra partita di boxe? — Dove? Lo so io. — Potremmo andarci subito? Io sono pronto a lasciar andare ancora dei fist-shoke. — Ed io non meno di voi, signor di Montcalm, rispose l’yankee, quasi con ferocia, — però questo non è il momento. Riprenderemo questo discorso quando saremo giunti ad Oswego, se non vi rincresce. — Benissimo, mister Torpon, — rispose il canadese. — Vi chiederei solo di fermarvi fino a domani. — Ad Oswego? — Sì. — Accettato. — Miss Ellen aveva prestato orecchio attento a quello scambio di parole, non nascondendo una certa inquietudine. Anche i partners, ai quali non era sfuggita una sillaba del dialogo, si erano guardati l’un l’altro con un po’ di ansietà. — Mister Torpon, — disse la giovane americana, mi avete l’aria d’un cospiratore. Voi tramate certamente qualche cosa. — Non un tradimento, in tutti i casi, — rispose l’americano, con un sorriso un po’ grossolano. — Anche fra i yankees si trovano dei gentiluomini, più gentiluomini di quei grandi europei ed anche dei loro discendenti. — Ed infatti vi hanno chiamati orsi grigi, — disse il signor di Montcalm. — Chi? — gridò l’americano, rosso di collera. — I gentiluomini europei. — Perchè noi siamo più ricchi di loro e dei loro blasoni malamente dorati. — Vorreste alludere anche a me? — chiese il canadese. — Eh!... Anche il blasone dei Montcalm non vale quelle dei re del petrolio, del ferro, dell’acciaio, delle ferrovie e nemmeno quello del re dei porci salati di Chicago. — Che bei blasoni!... — esclamò il canadese, ironicamente. — Sicchè sul vostro avete fatto dipingere in oro, in campo azzurro, una lucerna accesa. — Il yankee fece un gesto d’ira e non rispose a quella mordace canzonatura. D’altronde la barcaccia era già giunta sull’altra riva e l’automobile si preparava a rimettersi in corsa. I barcaiuoli assicurarono fortemente il galleggiante, tolsero la trave, presero al volo un paio di dollari gettati loro dai due campioni, e l’automobile salì d’un colpo solo la riva, guadagnando la larga e comoda via che costeggiando il lago Ontario conduce ad Oswego, una delle più ridenti cittadine delle estreme frontiere settentrionali degli Stati dell’Unione. Miss Ellen, che conosceva benissimo i dintorni di tutti i grandi laghi, aveva lanciata la sua macchina alla velocità di ottanta chilometri all’ora, facendola quasi volare dinanzi alle fattorie che sorgevano lungo i margini della larghissima via, una delle più belle e delle migliori del Canadà. Quantunque vi fosse un buon palmo di neve, le ruote, fornite di robuste pneumatiche, scorrevano velocissime senza slittare. In capo a pochi minuti, l’automobile, uscito di fra la campagna, si trovò sulle rive del lago. L’Ontario scintillava superbamente, incastonato fra gigantesche foreste di pini bianchi, enormi vegetali che raggiungono una circonferenza di cinque ed anche sei metri, ed un’altezza di più di trenta, che le scuri dei boscaiuoli, quantunque da qualche secolo poderosamente manovrate, non erano ancora riuscite ad abbattere. Delle grosse barche da pesca, colle vele variopinte, si cullavano graziosamente fra le onde che un freddo vento del settentrione sollevava, e dei piroscafi lunghi e sottili, filavano rapidamente, lanciando in aria turbini di fumo e fischi interminabili. Dei grossi falchi pescatori, grandi distruttori di pesci, che attirano, a quanto pare, rigettando delle materie oleose, volavano via, ora alzandosi quasi a perdita d’occhio ed ora lasciandosi cadere, quasi a corpo morto, sulla superficie del lago, per rialzarsi poco dopo con qualche grossa trota stretta fra il robusto becco. Panorami splendidi si succedevano senza posa, ma gli automobilisti pareva che non se ne interessassero affatto, specialmente la miss, la quale concentrava tutta la sua attenzione sul volante e sulla interminabile via che le si apriva dinanzi, serpeggiando fra immensi filari di alberi della cicuta, piante preziosissime, poichè il loro legno serve alla costruzione delle palizzate costeggianti i laghi ed i fiumi, essendo incorruttibile, anche se immerso da centinaia d’anni. In quanto ai due campioni avevano ben altro da pensare in quel momento che starsene a contemplare le acque del lago o le navicelle che lo solcavano, e fors’anche i loro partners avevano troppe preoccupazioni. Le parole pronunciate poco prima da mister Torpon avevano gettato nei loro animi un certo sgomento. Con un’altra fulminea volata l’automobile girò intorno alle varie e profonde insenature che l’Ontario descrive presso l’imbocco del S. Lorenzo, poi verso le cinque di sera, nel momento che il sole autunnale stava per scomparire dietro le gigantesche foreste, infilò la gran via maestra di Oswego, arrestandosi dinanzi ad un grande albergo di sette piani. — È qui che volete fermarvi, mister Torpon? — chiese la giovane, arrestando la macchina. — Sì, miss, — rispose l’americano. — Vi fermate a cenare con noi o proseguirete per Albany? — Ho fretta di giungere a casa mia, signori miei. — Gli è che si fermeranno con noi anche i partners. — E così? — Volete partire sola, di notte? — Forse che non ho la mia rivoltella? — La vostra macchina potrebbe guastarsi lungo la via. Avete fatto male a non condurre con voi il vostro meccanico. — Miss Ellen alzò le spalle. — Forse che non vi è la cassetta contenente tutti gli ordigni necessari per fare una riparazione, e forse che io non ho fatto un corso di meccanica? Non inquietatevi per me, mister Torpon e nemmeno voi signor di Montcalm. Arrivederci presto, signori miei, e quando avrete deciso qualche cosa di nuovo, avvertitemi subito. Il destino che vi perseguita finirà di stancarsi e l’uno o l’altro avrà la mia mano, purchè sia il più forte. Buona notte!... — Buon viaggio, miss, — risposero i quattro uomini. L’indiavolata ragazza fece colla mano un ultimo gesto d’addio e lanciò nuovamente la sua splendida automobile a corsa sfrenata, facendo scappare i curiosi che si erano affollati sui due margini della via. Un minuto dopo non era più visibile. — Io credo che quella fanciulla abbia il sangue del demonio nelle sue vene, — disse mister Torpon. — Che cosa ne dite voi, signor di Montcalm? — Che è una donna da far paura, — rispose il canadese. — Ma bella, by-good!... — Non dico di no. — Affascinante. — Se tale non fosse, già da lungo tempo ve l’avrei abbandonata. Disgraziatamente mi ha bruciato il cuore e sento ormai che non potrei rassegnarmi a vivere senza di lei. — Allora si carica una buona rivoltella e si va a dimenticarla all’altro mondo. — Il consiglio mi pare buono, però vorrei che prima foste voi a metterlo in esecuzione. — Ah no, signor mio, — disse l’americano, con vivacità. — Provate prima voi. — Per ora no, quantunque io abbia la certezza che quella donna non possa far felice nessun uomo. — Allora si lascia andare. — No. — È un puntiglio allora il vostro. — Non lo so, ma mi pare che questo non sia il luogo per occuparci dei nostri affari, mister Torpon. — Avete ragione, signor di Montcalm. Io mi ero proposto di offrirvi una cena e di mangiarcela assieme ai nostri partners. Accettate? — Con tutto il piacere e tanto più che stamane non ho fatto che una leggierissima colazione per mantenermi più agile. — Per darmene di più, — disse l’americano, ridendo. — Venite, signori. — Entrarono nell’albergo, passando dinanzi ad una mezza dozzina di camerieri negri, vestiti correttamente di nero e con dei collettoni candidissimi che li tenevano come impiccati, ed entrarono in una magnifica e spaziosissima sala, illuminata sfarzosamente da un centinaio di lampade elettriche, prendendo posto dinanzi ad una tavola isolata, situata verso un angolo. Essendovi poche persone, potevano parlare a loro agio senza poter essere disturbati, nè uditi. L’yankee, abituato a fare le cose in grande, ordinò una cena degna d’un milionario come era lui, poi mentre si faceva servire, tanto per aguzzare maggiormente l’appetito, un paio di bottiglie di vino del Reno a cinque dollari l’una e cinque dozzine di gamberi di California a venti cents l’uno, disse: — Signor di Montcalm, vi ringrazio di aver accettato la mia proposta di seguirmi su territorio americano per definire una buona volta la nostra eterna questione, poichè vi dichiaro francamente che io sono estremamente stanco dei brutti giuochi che ci fa continuamente il destino. — Ed io non meno di voi, — rispose il canadese. — Voi non rinuncierete mai al possesso di miss Ellen Perkins? — Mai, dovessi affrontare mille volte la morte. — Nemmeno se vi offrissi dei milioni? — Oh!... Meno che meno. Un Montcalm non si lascia comperare dai dollari. — Vi stimo doppiamente, parola d’yankee. — Suvvia, dove volete andare a finire? — chiese il canadese, facendo un gesto d’impazienza. — Io vorrei farvi un’altra proposta. — Di ritentare la partita di boxe? — Avremmo delle altre noie da parte delle autorità e forse nessun risultato decisivo, poichè siamo, credo, della medesima forza anche in questo campo dello sport. Vorrei qualche cosa di più serio. — Dite pure. — Un giuoco, per esempio, che finisse col mandare me o voi a fare la conoscenza con Caronte e colla sua barca, ammesso che navighi ancora sulle nere acque dello Stige. — Vi preme di sopprimermi? — Potreste essere invece voi il fortunato. — Continuate, mister Torpon. — L’americano sgusciò il suo dodicesimo gambero, lo inghiotti d’un colpo versandoci dietro un bicchiere di vino, poi disse con voce grave: — Accettereste, signor di Montcalm, un duello all’americana? — Il canadese era rimasto silenzioso, mentre i due partners erano diventati assai pallidi. L’americano lasciò trascorrere qualche mezzo minuto, poi disse: — Signor di Montcalm, attendo una vostra risposta. — Il canadese si scosse. Vuotò lentamente il bicchiere che gli stava dinanzi, guardando fisso nel fondo, poi rispose: — Avrei preferito un duello alla spada, alla sciabola od alla pistola, mister Torpon. — E il destino che ci sta sempre addosso? Sarei sicuro che con quelle armi una partita d’onore non avrebbe buon esito per noi. Proviamo a batterci nell’oscurità. Si dice che la fortuna sia cieca; chissà che non lo sia anche il destino. — Lo volete proprio, mister Torpon? — chiese il canadese, con voce tranquilla. — Sì, signor di Montcalm. Noi siamo giunti ad un tal punto che è meglio che uno di noi scompaia per sempre dalla superficie del globo. — E dove ci batteremo? — Qui. — Quando? — Questa sera stessa, se non vi rincresce. — No, perchè penso anch’io che sarebbe meglio saldare al più presto il nostro conto. Senza testimoni, è vero? — Ci aspetteranno fuori: non abbiamo i nostri maestri di boxe? Accettate, è vero, signori, di aiutarci? — I due partners s’inchinarono, facendo un cenno d’assentimento. — Affitteremo tutto l’appartamento dell’ultimo piano che m’immagino sarà vuoto, — continuo l’yankee, — perchè nessuno venga a disturbare i nostri affari. — Il proprietario non sospetterà qualche cosa e non avvertirà quei dannati policemen? — osservò il maestro di boxe del canadese. — Lasciate fare a me, mister, — rispose il yankee. — E poi il dollaro può tutto, almeno negli Stati dell’Unione. — E le armi? — chiese il signor di Montcalm. — Oh!... Non sarà difficile trovare due solidi bowie-knife press’a poco uguali. Gli armaiuoli non mancano ad Oswego e s’incaricheranno i nostri partners di trovarceli. Sono appena le sei e si chiude un po’ tardi nelle nostre città. Ora signori ceniamo da buoni amici, allegramente, e non manchiamo di fare un brindisi a quello che domani mattina andrà a portare i nostri saluti a Caronte. — Quattro negri avevano cominciato a portare, su dei grandi ed artistici vassoi d’argento, delle vivande diverse che esalavano dei profumi da far venire l’acquolina in bocca anche ad un morto, mentre un quinto disponeva sulla tavola, dinanzi a ciascun commensale, delle bottiglie polverose che portavano delle marche celebri. I quattro uomini, tornati improvvisamente gai, diedero subito un formidabile assalto alle diverse portate, scherzando amabilmente e deridendo i negri. Pareva che avessero già dimenticato che uno di loro stava ingollando il suo ultimo pasto. Suonavano le sette alla ricca pendola dorata, collocata all’estremità del vasto salone, quando mister Torpon si alzò, dicendo: — Vado ad accomodare l’affare col proprietario, mentre la bottiglia di champagne gela per brindare al morto. — Ed io vado a provvedere le armi, — disse il maestro di boxe del canadese. — Spicciatevi!... — disse l’americano. Accese un grosso sigaro, essendo la cena ormai terminata, e si fece condurre nel gabinetto del proprietario, il quale stava seduto dinanzi ad una monumentale cassa-forte, tutto immerso nella lettura d’una copia del New-York Herald. — Mister, — gli disse senza preamboli Torpon, — è libero tutto l’ultimo piano del vostro hôtel? — Disgraziatamente sì, mio gentleman, — rispose l’albergatore, il quale avendo riconosciuto subito il personaggio che aveva ordinata quella cena luculliana e costosissima, era diventato subito molto amabile. — La stagione è cattiva e gli affari non prosperano al principio dell’inverno e.... — Vorreste affittarlo tutto a me per quarant’otto ore? — Tutto!... Vi sono trenta stanze ed una sala lassù, mio gentleman. — Non importa: fissate il prezzo. Io non ho l’abitudine di lesinare. — L’albergatore si lisciò due o tre volte la sua barba da becco e guardo con sorpresa il suo compatriotta. — Ma.... ditemi, aspettate molti altri amici forse? — Niente affatto. Non siamo che noi quattro. — E che cosa vorreste fare di tante stanze? — Avete mai assistito a nessuna seduta di spiritismo? — Io no: lascio in pace le anime dei trapassati. Già non verrebbero qui nè a mangiare, nè a bere, nè tanto meno a lasciarmi dei dollari. — Bene, si vede che siete un uomo pratico e mi congratulo con voi, — disse Torpon, un po’ ironicamente. — Dunque io affitto tutto l’ultimo piano del vostro hôtel per eseguire una serie di esperimenti, avendo condotto con me un medium d’una potenza straordinaria, già ammirato perfino dal nostro presidente. Siccome gli spiriti non vogliono essere disturbati, voi mi darete la vostra parola d’onore di lasciarci assolutamente tranquilli. Quanto? — Cinquecento dollari. — Siete ancora onesto. — Levò dal suo portafoglio una manata di biglietti di grosso taglio, contò la cifra, riaccese il sigaro e raggiunse il canadese ed il secondo partner, i quali chiacchieravano tranquillamente sottovoce, facendo di quando in quando girare la bottiglia di champagne immersa fino al collo in un vaso pieno di ghiaccio. — È fatto, disse. — Per quarant’otto ore noi saremo liberi di gettare anche all’aria tutte le trenta stanze. — E di scannarci con tutto il nostro comodo, — aggiunse il canadese, beffardamente. In quell’istante il partner che era uscito per acquistare le armi entrò, portando un pacco. — Marca di casa celebre, lame solide e capaci di troncare, con un colpo solo, la spina dorsale ad un bisonte. — disse. — Sturiamo, — disse il canadese, traendo dal recipiente gelato la bottiglia di champagne. — Chissà che a qualcuno, questo vino maturato nelle terre che videro nascere i miei avi, non porti fortuna. — Torpon aveva aggrottata la fronte. — By-good!... — esclamò. — È vino di Francia, e voi siete un discendente di quel popolo. Che porti sfortuna a me? — Sareste superstizioso, mister Torpon? — chiese il canadese. — Eh!... Qualche volta non si può far a meno di esserlo. — Allora dopo lo champagne berremo un bicchierino di wisky, il liquore americano per eccellenza. — Accettato, signor di Montcalm. Così saremo pari. — La bottiglia fu sturata e le tazze furono riempite. — Ai begli occhi di miss Ellen, prima di tutto, — disse il yankee. — Alla solidità ed al filo della mia lama, — disse invece il canadese. — Sareste feroce come un antropofago, signor di Montcalm? — chiese il yankee. — Può darsi, — rispose asciuttamente il canadese, e vuotò d’un colpo il bicchiere. Vi erano sulla tavola parecchie bottiglie di liquori. Ne prese una di wisky, la fece sturare e ne versò a tutti, dicendo: — Bevo al felice viaggio dell’uomo che domani sarà morto. — Come siete funebre, signor di Montcalm, — disse mister Torpon, il quale si era sentito correre per le ossa un brivido gelato. — È un brindisi come un altro. — Si erano alzati. I due rivali sembravano tranquillissimi; i due partners invece, quantunque abituati a vedere degli uomini fracassarsi reciprocamente i corpi e le teste a gran colpi di pugno, erano pallidissimi. Ad una chiamata del yankee un servo negro che reggeva un doppio candelabro d’argento, era accorso. — All’ultimo piano, — disse il canadese. Attraversarono la sala, entrarono nell’ascensore ed in un momento si trovarono in alto. Il negro accese le lampade elettriche e fece percorrere, ai quattro uomini, tutte le trenta stanze, introducendoli per ultimo in una vasta sala, lunga una quindicina di metri e larga non meno di dieci, il cui pavimento era coperto da un gigantesco tappeto. Non vi era che un solo mobile: un pianoforte. — Qui? — chiese sottovoce l’americano al canadese. — Sì, — rispose questi. — Puoi andartene, — disse il primo al negro. — Sopratutto che nessuno ci disturbi anche se succede un po’ di fracasso. Gli spiriti qualche volta si divertono a fare un po’ di chiasso. — Il negro sgranò i suoi grandi occhi di porcellana e scappò via come se avesse il diavolo alle spalle, chiudendo dietro di sè le porte. — Le armi? — chiese brevemente il canadese quando furono soli. Il partner che teneva il pacco ruppe le corde e mostrò due magnifici bowie-knife, lunghi un buon piede e larghi due pollici, affilati come rasoi ed assai acuminati. La luce proiettata dalle lampade elettriche raggruppate in mezzo alla sala, riflettendosi sul lucidissimo acciaio, proiettò negli occhi dei quattro uomini un lampo impressionante, tale da farli rabbrividire. — Buone armi, — disse il canadese, affettando una certa calma. — Queste sono ottime per la caccia dei caribou: un buon colpo nella spalla e si è sicuri di raggiungere il cuore. — Ed anche per spaccare la spina dorsale ai nostri giganteschi bisonti del Far-West, — disse mister Torpon, il quale non voleva tenersi indietro. Fra i quattro uomini regnò un breve silenzio, poi il signor di Montcalm, il quale aveva prontamente riacquistato il suo sangue freddo e tutta la sua audacia, riprese: — Mister Torpon, lascio a voi la scelta dell’arma. Quale preferite, quantunque mi sembrino perfettamente eguali? — V’ingannate, signor di Montcalm, — disse il yankee, — perchè sul manico d’uno vedo impresse tre stelle mentre sull’altro non ve ne sono che due e può essere quella protettrice che manca. — Ah!... Il superstizioso!... — La sorte, — dissero i due partners. — Sia, — risposero ad una voce i due rivali. Il maestro di boxe dell’americano chiuse nel pugno un cent, mise le braccia dietro il dorso facendole girare più volte, poi le tese innanzi ai due rivali dicendo: — Il pugno pieno per le tre stelle, il vuoto per le due. Il pieno per la porta di destra l’altro per quella di sinistra. — La sorte fu favorevole al yankee, il quale parve assai lieto d’aver guadagnato una stella di più. — Gentlemen, — disse allora il partner, con voce grave. — Siete pronti? — Sì, — risposero all’unisono il yankee ed il canadese. — Voi non entrerete in questa sala se non dopo trascorsi cinque minuti. — Benissimo. — Che Dio vi guardi. Mister Torpon seguitemi nella stanza di destra. — E voi, signor di Montcalm, seguitemi in quella di sinistra, — disse il maestro di boxe di Montcalm. I due rivali, con un moto spontaneo si stesero la destra e si diedero una vigorosa stretta, poi seguirono i loro partners senza scambiarsi una parola. Subito le lampade elettriche furono spente e la vasta sala s’immerse in una oscurità profondissima. CAPITOLO IV. I due colpi di coltello. Gli americani, popolo eccessivamente frettoloso, che non ama perdere tempo nemmeno nel mangiare, vanno per le spiccie nel definire le loro questioni d’onore. Le regole della cavalleria sono affatto sconosciute presso di loro ed i maestri di scherma, così di spada come di sciabola, hanno fatto sempre magrissima fortuna presso quel popolo il quale preferisce impiegare qualche minuto che può rubare agli affari, a qualche lezione di boxe. Il tempo è moneta: ecco la loro divisa. Quindi niente tempo da perdere nelle sale di scherma. Nondimeno, al pari di tutti gli altri popoli, si battono anche i yankee, ed i duelli sono tutt’altro che rari anche negli Stati dell’Unione. Per lo più preferiscono una buona partita di boxe, ma quando si tratta di cose gravissime si mandano all’altro mondo senza costole fracassate o denti rotti o teste peste in modo spaventevole. Allora, per essere più sicuri, ricorrono alle armi da fuoco ed al bowie-knife, contando più sulla fortuna che sull’abilità personale, che di rado posseggono. Negli Stati dell’Ovest i duellanti montano a cavallo armati d’un buon winchester a dodici colpi, si portano nella foresta più vicina, lanciano i loro destrieri a corsa sfrenata e si fucilano reciprocamente, nè cessano finchè l’uno o l’altro non vuoti l’arcione morto o moribondo. Negli Stati dell’Est, vanno più per le spiccie. Si prendono due pistole esattamente eguali, se ne carica una sola, si fa scegliere ai due avversari in una stanza oscura ed ognuno è obbligato a puntarsela al cuore od alla tempia e far scattare il grilletto. Tanto peggio per quel disgraziato che ha avuta la sfortuna di scegliere quella contenente la palla che lo manderà diritto a fare la conoscenza con messer Caronte. Più terribile, più emozionante invece è il duello col bowie-knife, quantunque di esito più incerto. I due rivali entrano per due diverse porte, a piedi nudi, in una stanza perfettamente oscura, armati del loro terribile coltellaccio, si cercano brancolando silenziosamente fra le tenebre e quando s’incontrano si accoltellano all’impazzata. Tanto peggio per quello che ne prende di più o a cui arriva una puntata al cuore od alla gola, che tronchi la carotide. Come abbiamo detto, il canadese era uscito dalla porta di sinistra assieme al suo maestro di boxe, entrando in una stanza che sembrava piuttosto un gabinetto per fumatori e che era ancora illuminata, poi aveva subito disposto su un tavolino laccato alla giapponese il suo cronometro d’oro per contare i cinque minuti. Quantunque potesse trovarsi sull’orlo della tomba, non ignorando d’aver da fare con un avversario risoluto e coraggioso, appariva tranquillissimo. Il suo partner gli aveva preso subito il polso della mano destra, tenendo gli occhi fissi sulle lancette dell’orologio. — Bene, — disse, facendo schioccare la lingua. — Batte regolarmente ed anche il vostro cuore deve funzionare come al solito. Sono soddisfatto del mio allievo. — Ne dubitavate? — chiese il canadese, sorridendo leggiermente. — Oh no, ma questi duelli americani, impegnati fra una profonda oscurità, devono produrre una grande impressione anche sugli animi più risoluti. — Forse, — rispose il canadese, il quale stava togliendosi le scarpe. — Volete un buon consiglio, signor di Montcalm? — Dite pure. — Appena entrate, appoggiatevi alla parete e lasciate che l’avversario vi cerchi. — E se mister Torpon facesse altrettanto? — Allora marciate, come meglio potete, verso il centro della sala e là aspettate che il vostro avversario si tradisca o con un respiro, o con uno strofinìo. Non seguite le pareti, ve lo raccomando. Sareste costretto ad appoggiarvi con una mano, e quel rumore, per quanto lieve, potrebbe allarmare l’avversario. — Grazie dei vostri consigli. — Avvolgete ora il vostro braccio sinistro colla vostra giacca e vibrate il colpo dall’alto in basso, essendo voi più alto di mister Torpon. Se non lo ucciderete sul colpo, gli produrrete una ferita tale da metterlo subito fuori di combattimento. Mi avete capito? — Sì, maestro, — rispose il canadese. Il partner lanciò un altro sguardo sul cronometro. — Otto ore e trentacinque minuti meno tre secondi. È il momento d’entrare. — Sono pronto: spegnete la lampada elettrica ed apritemi la porta senza far rumore. — Qua una buona stretta di mano, signor di Montcalm, — disse il maestro, con voce vivamente commossa. — Sangue freddo e colpo sicuro. — Si strinsero la mano, la porta fu aperta, poi la lampada spenta, ed il canadese entro nella tenebrosa sala, in punta dei piedi, impugnando solidamente il bowie-knife e riparandosi il petto col braccio sinistro difeso dalla giacca strettamente avvolta. Era già entrato l’americano e si era già messo in agguato? Ecco due terribili, angosciose domande, che non potevano avere per il momento nessuna risposta. Il canadese, come l’aveva consigliato il suo maestro, fece tre o quattro passi seguendo la parete, poi si fermò, avendo trovato un ostacolo. Doveva essere il pianoforte, l’unico mobile che ingombrava quella vasta sala che pareva fatta appositamente per i duelli americani. — Aspettiamolo, — mormorò fra sè il signor di Montcalm. Si appoggiò alla parete senza produrre il menomo rumore, raccogliendosi su se stesso come una tigre che si prepara ad avventarsi sulla preda, e si mise in ascolto, trattenendo il respiro. Dov’era mister Torpon? Chi poteva dirlo? S’avanzava cautamente attraverso la sala, col coltello alzato, pronto a vibrare il colpo o stava seguendo le pareti? Quanto avrebbe dato per saperlo. Invano i suoi occhi cercavano di forare le tenebre, colla speranza di scoprire, almeno vagamente, l’ombra del suo avversario; invano concentrava tutti i suoi sensi nell’udito, colla speranza di sorprendere uno strofinìo, un sospiro, un qualche rumore che lo tradisse. Il suo cuore cominciava a battere forte forte e così pure battevano, febbrilmente, le sue tempie. L’ansietà del pericolo che non sapeva da quale parte potesse giungere, lo vinceva, eppure quel canadese più di cento volte aveva affrontato gli orsi neri e bruno-giallastri delle immense foreste circondanti i laghi e le formidabili corna dei caribou, senza tremare. È noto già che le tenebre esercitano un’azione deprimente anche sugli animi più audaci. Degli uomini che in pieno giorno montavano all’assalto, sfidando intrepidamente la morte, si sono mostrati sovente vili durante i combattimenti notturni. Perfino un generale inglese, che nelle guerre dell’India si era acquistata una fama immensa di uomo coraggioso e sprezzante d’ogni pericolo, fu sorpreso una notte, durante un attacco, rannicchiato dietro un albero, più tremante dell’ultimo dei suoi cipai. Eppure aveva guadagnati i suoi galloni, tutti, sui campi di battaglia e l’avevano chiamato il leone!... L’ansietà che divorava il canadese, abbandonato fra quella profonda tenebrìa, in procinto di sentirsi, da un istante all’altro, spaccare il cuore senza avere alcuna possibilità di parare il colpo, era quindi scusabile. Sempre rannicchiato presso il pianoforte, col braccio destro armato, teso, pronto a tentare una parata disperata, come abbiamo detto, ascoltava sempre, cercando di sorprendere un qualunque rumore. Si trovava là da qualche minuto, sempre in attesa d’un colpo di coltello, quando uno scricchiolìo secco lo fece trasalire. Che cosa poteva essere stato? Si sarebbe detto che qualcuno aveva fatto scattare a vuoto il cane di una grossa rivoltella. Il canadese si era raddrizzato, dilatando spaventosamente le pupille. Cercava, cercava nell’oscurità che si stendeva dinanzi a lui, implacabile, impenetrabile. — Sarà stato il legname, — mormorò, dopo alcuni istanti d’angosciosa attesa. — Vi sono delle travi sul soffitto. — Si terse colla sinistra la fronte, copertasi subito d’un freddo sudore, poi tornò a rannicchiarsi a lato del pianoforte. Nell’abbassarsi però, la punta del coltello urtò sulla tastiera ed una nota ruppe bruscamente il profondo silenzio che regnava nella sala. Quel suono, un do profondo, aveva fatto vibrare l’aria tenebrosa, ripercuotendosi lungamente sotto il soffitto e negli angoli della sala. Il canadese ebbe un sussulto. — Mi sono tradito, — mormorò. Pronto come un lampo si gettò sul tappeto e scivolò silenziosamente verso il centro, almeno così credeva, della sala, poi si raddrizzò. L’americano, avvertito da quel suono non ancora del tutto spento, doveva ormai essersi diretto verso l’istrumento, per sorprendere l’avversario e forse inchiodarlo, con una tremenda coltellata, sulla tastiera. Passò un altro minuto, lungo quanto un secolo. Le ultime vibrazioni del do si erano a poco a poco affievolite ed un silenzio di tomba era piombato nuovamente sulla vasta sala. Ad un tratto l’udito piuttosto acuto del canadese, raccolse un rumore indistinto. Pareva ora che un piede nudo strisciasse sul soffice tappeto ed ora che invece fosse una mano che strisciasse lungo una parete. Si era bruscamente voltato, aguzzando invano gli sguardi. Proprio in quel momento nella via sottostante si udirono delle voci umane miste a scoppi di risa. Una brigatella di persone allegre passava dinanzi all’albergo cantando l’yankee-dodle. Quando quelle voci si perdettero in lontananza, lo stropiccìo che aveva allarmato il signor di Montcalm era cessato. Il silenzio era nuovamente piombato nella sala. — Me l’hanno fatto perdere, — mormorò il canadese, mordendosi con rabbia le labbra. — Quegli ubbriaconi potevano passare di qui un po’ più tardi. Dove sarà ora quel dannato yankee? Dove sorprenderlo? Che si sia fermato e che al pari di me tenti di raccogliere il rumore dei miei piedi? Ah no, può aspettarmi, perchè non mi muoverò così presto. Il sole è ben lontano ed in dieci ore possono scannarsi anche diecimila uomini.... — Si era bruscamente interrotto ed aveva fatto un mezzo giro su sè stesso, tornando a dilatare le pupille, poi si era lentamente abbassato stendendosi del tutto al suolo ed accostando un orecchio sul tappeto. Aveva udito un altro fruscìo, ma che pareva provenisse dall’opposta direzione. L’americano, approfittando di quello schiamazzo, aveva fatto il giro della sala portandosi dall’altra parte? Il canadese ascoltava sempre, premendo l’orecchio contro il tappeto. Il suo udito raccoglieva, di quando in quando, dei crepitii appena percettibili. Dei piedi premevano, con precauzione, il pesante tessuto, diventando sempre più distinti. Dunque il yankee si avvicinava, avanzandosi forse anche lui verso il centro della sala? Probabilmente, attratto da quella nota mandata dal pianoforte, aveva raggiunto l’istrumento e non avendo trovato l’avversario, doveva avere seguite le pareti per poi lasciarle. Ora doveva cercare verso il centro, brancolando nel buio ed avanzandosi naturalmente a casaccio. Il canadese lo udiva avvicinarsi sempre più, poichè i crepitii della stoffa, per quanto leggieri, giungevano più distinti al suo orecchio. Dove sarebbe passato l’avversario? Dinanzi o di dietro? A destra od a sinistra? Ecco quello che chiedeva con una certa angoscia. Non gli sarebbe invece caduto addosso, inciampando in quel lungo corpo disteso? Il signor di Montcalm riflettè un istante, si compresse colla mano sinistra il petto come se volesse imporre silenzio ai forti battiti del cuore, poi lentamente si sollevò e si mise in ginocchio, girando intorno a sè la destra armata. Sentiva il nemico, ma per quanti sforzi facesse per raccogliere meglio il rumore di quella marcia silenziosa, non riusciva a stabilire la direzione che teneva. D’improvviso udì, a brevissima distanza, un lieve sospiro, ma nello stesso tempo il crepitìo del tappeto cessò. Si era fermato il yankee? Si era accorto anche lui che il suo avversario gli stava così vicino? Lo aveva forse fiutato? Anche questo poteva, fra le tante cose, ammettersi. Il canadese non fiatava più. Girava solamente, con lentezza, il bowie-knife intorno a sè, pauroso di agitare l’aria e di tradirsi. Passarono parecchi secondi, forse invece parecchi minuti. Un’angoscia estrema si era impadronita del canadese, angoscia che si tramutava in un vero supplizio assolutamente insopportabile. Nessun uomo di certo avrebbe potuto mantenersi tranquillo dinanzi a quel pericolo che non poteva vedere, e che pure gli girava d’intorno, minacciando di sopprimerlo quando forse meno se l’aspettava. Era meglio slanciarsi, cercarlo, assalirlo coll’impeto della disperazione, dovesse pure quello scatto riuscire fatale. — Basta, — aveva mormorato fra sè il canadese. — Non posso più resistere.... la paura mi assale.... agiamo prima che mi privi di tutta la mia energia.... — Balzò in piedi, mandando un grido di belva ed avventando all’impazzata dei colpi furiosi. Non si nascondeva più, non voleva più precauzioni: voleva la lotta a qualunque costo. Al suo grido un altro aveva risposto, non meno rabbioso, non meno feroce e vicinissimo. Anche mister Torpon si trovava nelle medesime condizioni di spirito e cercava di dare o di ricevere la morte. Per alcuni istanti i due uomini brancolarono nel buio profondo, cercandosi ed avventando sempre colpi, senza sapere dove potessero andare a finire, poi i due corpi, s’incontrarono furiosamente. Due grida di dolore ruppero bruscamente il silenzio che regnava nella sala, poi si udirono due tonfi.... Erano caduti!... Morti entrambi forse? I due partners che avevano origliato dietro alle porte, sussultando al più lieve rumore ed asciugandosi senza posa il sudore che inondava le loro fronti, udendo quelle due grida e quei tonfi, avevano accese le lampade elettriche, poi si erano precipitati nella sala, chiamando angosciosamente: — Mister Torpon!... — Signor di Montcalm!... — Due gemiti e qualche bestemmia avevano risposto. Quasi nel centro della sala, a tre passi l’uno dall’altro, giacevano i due rivali, ciascuno con un coltello piantato nel petto. I partners, in preda ad una emozione facile a comprendersi, si erano gettati verso i disgraziati e subito un grido di stupore era sfuggito dalle loro labbra. Caso assolutamente straordinario, quasi incredibile! I due rivali si erano colpiti nel medesimo punto, sotto la terza costola di destra e le lame non erano penetrate che per pochi centimetri, pur rimanendo infisse. Il dolore provato e sopratutto l’emozione, avevano atterrati quei due giganti e li avevano fatti svenire. — Che cosa dite voi. mister Patterson? — chiese il maestro di boxe canadese. — Che il destino non vuole che nessuno di questi uomini sposi miss Perkins, — rispose il boxer americano. — Comincio a crederlo anch’io. — Presto, leviamo i bowie-knife e portiamo i feriti a letto. Agite con precauzione, senza strappi, mister Hall. — Oh, me ne intendo io di ferite, — rispose il boxer canadese. — Si sono colpiti gravemente? — Non mi sembra. Per atterrare questi uomini ci vogliono ben altre ferite! — Non perdiamo tempo: a voi il signor di Montcalm, a me mister Torpon. — I due maestri strapparono i loro fazzoletti per preparare alla meglio un primo bendaggio, poi s’inginocchiarono presso i feriti, sbottonando rapidamente le giacche ed i panciotti e strappando le camicie e le maglie, poi trassero delicatamente le armi. Due getti di sangue vivissimo irruppero tosto dai due tagli, espandendosi sui larghi petti del yankee e del canadese. — Buon segno, — disse mister Hall. — Il polmone non è stato toccato. — Nemmeno quello del signor Torpon, — aggiunse il boxer americano, — almeno così spero. — Portiamoli a letto. — Sì, e presto. — Fasciarono come meglio poterono le due ferite, per arrestare l’emorragia, poi ognuno si prese il suo allievo ed essendo due veri giganti, li trasportarono con non molta fatica in due stanze separate, l’una però attigua all’altra. In pochi istanti furono spogliati e coricati su dei buoni letti. Continuando il sangue a trapelare attraverso la improvvisata fasciatura, i due maestri stracciarono degli asciugamani e fecero un nuovo e più stabile bendaggio. — Ed ora, — chiese mister Patterson al boxer canadese. — Dobbiamo avvertire l’albergatore? — Sarebbe meglio che voi vi recaste a cercare qualche medico, mister Hall. Le ferite non mi sembrano gravi, tuttavia non commettiamo delle imprudenze. In quanto all’albergatore lasciatelo in pace. Forse ai nostri allievi non piacerà che metta il suo naso nei loro affari. Conoscete la città? — A menadito. — Andate subito, mentre io rimango di guardia. Sono appena le nove ed in qualche luogo potrete pescare qualche medico. — Vado e torno subito. — Il maestro americano era appena uscito, quando il boxer canadese udì un profondo sospiro uscire dalle labbra del signor di Montcalm. — Finalmente!... — esclamò il brav’uomo. — Cominciavo a diventare inquieto. Speriamo che anche mister Torpon torni presto in sè. — CAPITOLO V. Una sfida grandiosa. Il canadese, forse più robusto dell’americano, o forse ferito meno profondamente, dopo quel sospiro, aveva alzate le braccia, quindi, a poco a poco, aveva aperti gli occhi fissandoli sul suo maestro di boxe, con un misto di stupore e di ansietà. Il pallore, che poco prima copriva il suo viso, svaniva rapidamente e le sue gote si imporporavano lievemente. — Non muovetevi, signor di Montcalm, — gli disse Hill. — Finchè non giunge il medico voi dovete rimanere assolutamente immobile, poichè quantunque io me ne intenda un po’ di ferite, non ho studiato come quei signori che escono dall’università. — Ma che cosa è successo, mister Hill? — chiese il ferito, con voce abbastanza robusta. — Per centomila caimani!... — esclamò il boxer, un po’ spaventato. Non vi ricordate più dunque del duello all’americana che avete sostenuto con mister Torpon? Avete perduta la memoria, mio caro allievo? — Il canadese sgranò gli occhi, poi si battè la fronte, mossa che gli fece fare una smorfia, strappatagli dal dolore, poi chiese con voce alterata: — L’ho ucciso? — Il maestro di boxe indugiò un momento prima di rispondere. — Signor di Montcalm, — disse poi, bisogna proprio credere che esista un destino. — Perchè dite questo, mister Hill? — Perchè non può essere stato che il destino, quel destino che vi perseguita con un accanimento incomprensibile in tutte le vostre lotte, a guidare le vostre mani ed i vostri coltelli in modo da ferirvi reciprocamente nello stesso punto e probabilmente nelle medesime condizioni di gravità. — Che cosa dite? — Che vi siete accoltellati reciprocamente, senza uccidervi. — Infame destino!... — Non infuriatevi, signor di Montcalm, — disse il boxer. — Non dimenticate che siete ferito e che non so dove la punta del coltello del vostro rivale sia giunta. — Sono ancora vivo. — Lo vedo, corpo di centomila bombe!... Diavolo!... Ci vorrebbe altro che i miei allievi morissero così presto! — Dov’e Torpon? — chiese il canadese, coi denti stretti. — Nella stanza vicina e non è ancora tornato in sè. — Il signor di Montcalm si passò per la seconda volta una mano sulla fronte, senza fare smorfie questa volta, poi disse con voce un po’ rauca: — Avesse almeno ucciso me!... — Ah no, signor mio!... C’è sempre tempo a morire. — Eppure bisogna finirla e romperla con questo perverso destino che ci perseguita con tanto accanimento. — Udiamo, signor di Montcalm.... ma ditemi prima se soffrite a parlare. — Niente affatto. Mi pare di non essere nemmeno ferito, se non mi agito. — Possedete una fibra meravigliosa. — Dite dunque mister Hall. — L’amate proprio alla follia quella indiavolata americana? — Il canadese lo guardò per qualche istante, poi disse: — Non so. — Non ci sarebbe, invece d’una vera passione, un po’ di puntiglio? — Può darsi. — Io, se fossi nei vostri panni, me ne andrei a fare un viaggio nel nostro vecchio paese, nella nostra mai dimenticata Francia e abbandonerei gli occhi azzurri ed i capelli biondi a quell’ippopotamo di yankee. A Parigi troverei facilmente altre donne che mi consolerebbero e che me la farebbero dimenticare ben presto. — È troppo tardi, — rispose il signor di Montcalm. — Tutti gli sportmen degli Stati dell’Unione e del Canadà tengono gli occhi fissi su di noi, e se io abbandonassi la partita, proprio ora, non ci farei una bella figura, mio caro maestro. Si potrebbe dire che io mi sono ritirato per tema di prendermi un’altra coltellata o di ritentare qualche altra prova. No, mai!... — Eppure quell’americana, come moglie, mi farebbe paura. Quella non è una donna, è una diavolessa. — Il signor di Montcalm stava per dare qualche risposta, quando. si udirono delle porte ad aprirsi e poi si vide entrare mister Patterson seguito da un omiciattolo rotondo come una palla, con due gigantesche basette che gli scendevano fino alle spalle e gli occhi nascosti da un paio d’occhiali montati in oro. — Ecco il dottore, — disse il maestro americano. — Come va mister Torpon? — Non è ancora tornato in sè, rispose Hill. — Occupatevi prima del vostro allievo, — disse il signor di Montcalm. — Come vedete, non sto troppo male e posso attendere il turno. — E me ne congratulo con voi, signore, — disse Patterson. — Che fibre!... Dottore, passiamo nell’altra stanza. — L’omiciattolo gettò su una sedia il lucente cilindro ed il soprabito, lanciò sul canadese un rapido sguardo facendo un gesto incomprensibile, e seguì il maestro americano. — Forse credeva di trovare dei moribondi, — disse mister Hill, ridendo, — mentre ne trova uno che sta chiacchierando tranquillamente. Non abusate però delle vostre forze e della vostra straordinaria energia, signor di Montcalm. La febbre sopraggiungerà e quella brutta bestia talvolta giuoca dei pessimi tiri. Cacciatevi sotto e aspettiamo quella boccia di carne vivente. — — La visita a mister Torpon durò una mezz’ora. — Tutto bene, — disse Patterson, entrando nella stanza del canadese, seguito dal dottore. — È stato un buon colpo di coltello che per un caso miracoloso non ha prodotto conseguenze troppo gravi. Fra una settimana mister Torpon sarà in piedi. — Il destino non ci voleva morti, — rispose il signor di Montcalm. — Speriamo che un giorno finisca di stancarsi. — Il medico visitò la sua ferita, e non potè far a meno di manifestare il suo stupore nel constatare che era stata prodotta nel medesimo punto dell’altra e con eguale poca gravità. — È strano, — mormorava, mentre, dopo d’aver dato alcuni punti e di averla disinfettata, la fasciava. — È strano. Due colpi di coltello identici. Ciò succede di rado. Bah!... Fra otto giorni anche voi, signore, sarete perfettamente guarito. L’omiciattolo non si era ingannato nelle sue previsioni, poichè otto giorni dopo mister Torpon ed il signor di Montcalm si trovavano seduti, insieme ai due maestri di boxe, i quali non li avevano lasciati, dinanzi alla stessa tavola che aveva servito loro pel terribile brindisi augurante la morte o all’uno od all’altro. La loro guarigione era stata rapidissima, mercè le cure assidue del bravo dottore e sopratutto mercè la loro robusta fibra. Le ferite si erano perfettamente cicatrizzate quasi nello stesso tempo ed i due valentuomini pareva, almeno apparentemente, che non si fossero serbati alcun rancore per quei due colpi di coltello che ancora una volta li avevano pareggiati nelle loro sfide. Una splendida colazione era stata ordinata questa volta dal canadese e tutti vi si erano attaccati con grande appetito, inaffiandola coi migliori vini di Francia e anche d’Italia. Già avevano sorbito il caffè, quando il canadese, dopo di aver acceso un londres e di essersi rovesciato sulla sedia, disse: — Mister Torpon, che cosa pensate ora di fare? Di continuare la nostra lotta o di rinunciare alla mano di miss Perkins? Mi pare che le abbiamo provate tutte e sempre senza vantaggio nè per voi, nè per me. — L’americano che stava assaporando il fumo profumato d’un grosso cuba, guardò il canadese con vivo stupore. — Che cosa dite mai, signor di Montcalm!... — esclamò. — Io rinunciare agli occhi azzurri ed ai capelli biondi di quella deliziosa miss? Da quando in qua un yankee rinuncia alla lotta? Anche se caduto si rialza subito, se il diavolo non l’ha portato via, e più deciso che mai. Ah!... Su questo terreno, mio caro signore, non c’intenderemo mai. Se voi volete rinunciare, siete padronissimo di farlo, ma io rimarrò fermo ed incrollabile come la statua della Libertà che illumina la baia di New-York. Mi avete capito? — Perfettamente, mister Torpon, — rispose il canadese. — Sareste voi deciso allora a ritirarvi? — Io? Oh!... Rimarrò fermo come la enorme calotta di ghiaccio che si addensa intorno al polo nord. — Allora noi continueremo a disputarci miss Perkins. — Certo. — Suggeritemi ora in quale modo. Come avete veduto, anche i coltelli si rifiutano di dare ad uno di noi una tale supremazia sull’altro da soddisfare la miss. — Tentiamo una cosa, mister. — Dite. — Voi avete fatto venire la vostra automobile? — Si, perchè desidero tornarmene a Buffalo. — Andiamo invece ad Albany a trovare miss Perkins e chiediamo a lei un consiglio. — Volevo proporvelo anch’io. — Speriamo che ci dica quale sfida possiamo ormai tentare. Certe volte dai cervelli delle donne escono delle buone idee. — Specialmente dalle donne sportiste, — disse Hall, ironicamente. — Ne sanno trovare più delle altre, — rispose Torpon, seriamente. — Signori, non perdiamo altro tempo. Il mio pilota è stato già avvertito di tenersi pronto. — Saldarono il conto, un po’ salato, poichè durante quegli otto giorni avevano tenuto sempre a loro disposizione l’appartamento dell’ultimo piano, diedero ai servi negri una generosa mancia ed uscirono. Dinanzi all’hôtel russava una bellissima automobile tutto dipinta in grigio, della forza di sessanta cavalli, guidata da un giovane meccanico asciutto come un’aringa e dagli ocelli nerissimi e vivaci. I quattro uomini si accomodarono sui soffici cuscini e la macchina prese lo slancio, filando a grande velocità attraverso le vie di Oswego. Cinque minuti dopo marciava già attraverso la campagna coperta di uno strato piuttosto alto di neve, dirigendosi verso il sud-est. Quantunque le strade americane siano generalmente pessime e si prestino ben poco alle lunghe e fulminee volate delle automobili, specialmente quando cominciano i primi geli, cinque ore più tardi l’automobile di mister Torpon entrava nella bella e popolosa Albany, una delle più graziose dell’America del nord, e si arrestava dinanzi ad un villino d’architettura prettamente italiana, semi-circondato da uno spazioso giardino nel cui centro s’apriva una vasta cinta. Erano appena suonate le due, quindi miss Perkins doveva trovarsi ancora in casa. Avevano appena condotta l’automobile in un piccolo e grazioso garage che s’alzava a fianco della pista, entro cui sonnecchiavano parecchie macchine, motociclette, velocipedi, scialuppe-automobili ecc., quando la bella miss si presentò, tutta vestita in seta azzurra con pizzi bianchi, un cappellino piumato sui biondi e splendidi capelli ed un frustino in mano. — Ah!... Miei gentlemen!... — esclamò, tutta ilare. — Sono ben felice di rivedervi perfettamente ristabiliti. Voi volete commettere delle sciocchezze. Passi una partita di boxe, ma un duello a colpi di bowie-knife non si dovrebbe perdonare. Mio Dio!... Siete diventati dei cow-boys del Far-West? — Come!... Voi avete saputo, miss.... — balbettò mister Torpon, che la divorava cogli occhi. — E come non saperlo? I reporters americani cacciano il naso dappertutto e s’interessano specialmente delle persone che fanno molto chiasso. Voi minacciate di diventare più popolari ancora del signor Roosevelt!... Mister Torpon!... Il signor di Montcalm!... Ecco due nomi che corrono ormai su tutte le bocche e che si odono ripetersi perfino nei deserti dell’Arizona e del Colorado. — Ah!... — fece semplicemente il canadese, facendo un lieve inchino. — Se continuate così, — riprese l’indiavolata ragazza, — finirete per farvi portare alla presidenza nella prossima lotta elettorale. — Io sono canadese, miss, quindi non potrei mai aspirare ad un tanto onore, — disse il signor di Montcalm, con una sottile punta d’ironia. — Naturalizzatevi americano. È un buon consiglio che vi do, mio gentleman. — Ne chiederei un altro da voi, miss. — A me!... — A voi, poichè si tratta proprio di voi. — Per la vostra eterna questione? — Messa in campo da voi, miss. — È vero, — rispose la giovane. Riflettè un momento, poi raccogliendo graziosamente la sua lunga gonna da amazzone, disse: — Seguitemi nel mio chiosco favorito, signori. Prenderemo un thè insieme. — Uscì dal garage svelta e leggiera come un uccello e dopo d’aver attraversato parecchie aiuole ormai spoglie di fiori e di foglie, introdusse i due rivali ed i loro partners in un elegantissimo chiosco di stile chinese, tutto in pietra bianca, con vetrate colorate a disegni rappresentanti draghi mostruosi vomitanti fuoco, e lune sorridenti in mezzo ad un cielo d’una tinta indefinibile ed ammobiliato graziosamente. Una stufa a gaz ardeva in un angolo, spandendo un dolce tiepore che faceva crepitare i numerosi giornali gettati, semi-spiegazzati, su un tavolino laccato, di manifattura celestiale. Toccò un bottone elettrico, per dare qualche ordine, poi invitò i quattro uomini a sedersi su delle poltroncine di velluto azzurro, dicendo: — Signor di Montcalm, potete spiegarvi meglio. Quale consiglio desiderate da me? — Miss, — disse il canadese, con voce grave, — siete sempre risoluta a concedere la vostra mano al più forte di noi due? — Un’americana non ha che una parola, ve l’ho già detto, — rispose la giovane. — Non so se le canadesi siano così. — Uditemi, miss: noi abbiamo tentato tutte le prove e come avrete constatato, nè io, nè mister Torpon siamo riusciti a riportare una vittoria decisiva. Noi veniamo quindi a chiedere a voi che cosa d’altro possiamo provare, giacchè siete sempre risoluta ad accordare la vostra mano solamente al vincitore di questa singolare tenzone. — Ma credete, signor di Montcalm, di aver esaurite tutte le sfide? — Mi pare che non ci rimanga più nulla da tentare. — V’ingannate. Avete letto l’edizione di ieri del New-York Times? — Non ne ho avuto il tempo. M’interesso poco dei giornali americani. — Allora voi non avete udito ancora parlare della grande corsa intorno al mondo in automobile, organizzata dal New-York Times in unione al Matin di Parigi, quello che ha indetta la famosa corsa Pekino-Parigi guadagnata da uno sportmen italiano, il principe Borghese. — Una corsa intorno al mondo!... — esclamarono ad una voce i quattro uomini. — Sì, signori miei, un raid gigantesco al quale, si sa fin d’ora, prenderanno parte automobili italiani, francesi, americani e tedeschi. Si fanno già i nomi degli eroi che prenderanno parte alla gara. Si tratta d’una corsa di trentaseimila chilometri, trentamila dei quali verranno coperti dalle vetture. — Bisogna essere pazzi per tentare una simile prova! — esclamò mister Torpon. — E perchè, mio gentlemen? Io ammiro già quegli uomini che si slanciano attraverso il mondo sulla sbuffante macchina, sfidando chissà quali pericoli!... Ah!... Se io fossi un uomo invece di essere una donna, mi farei subito iscrivere. — Miss, — disse il canadese, mentre due servi negri entravano portando un superbo servizio di thè, con chicchere color del cielo dopo la pioggia e adorne di stravaganti caratteri cinesi; — che cosa vorreste dire con ciò? — Che se io fossi al vostro posto, tenterei anch’io un raid da far stupire e commuovere il mondo intero, — rispose miss Ellen, cogli occhi scintillanti d’entusiasmo. — Vorreste che ci iscrivessimo anche noi a quella grande corsa? — chiese il canadese. — Oh!... Io tenterei qualche cosa di meglio. Ormai quel raid è sfruttato, quantunque abbia ancora da cominciare. — Che cosa fareste voi allora? — Io!... Tenterei la conquista del Polo nord coll’automobile, per esempio!... — Superba idea!... — esclamò mister Torpon, che da buon americano non vedeva alcuna difficoltà anche nelle più pazzesche imprese. — Un po’ troppo pericolosa forse, — disse invece il canadese. — E perchè pericolosa, signor di Montcalm? Se i concorrenti della corsa organizzata dal New-York Times e dal Matin si propongono di attraversare la gelida Alaska, che come voi saprete non è altro che un immenso deserto di neve per non chiamarla addirittura un mostruoso ghiacciaio, per poi passare lo stretto di Behring gelato e quindi lanciarsi attraverso la non meno fredda Siberia, vuol dire che un’automobile può sfidare le nevi ed i ghiacci. Vi pare, signor Torpon? — Io dico ciò possibilissimo, rispose l’americano, senza esitare. — Aggiungerò anzi che si dice che se il raid intorno al mondo riuscirà, come si spera, l’anno venturo i due giornali lancieranno una sfida polare attraverso l’Artico. Sfruttate prima voi quel grandioso progetto e vi coprirete senza dubbio di gloria. — Se non morremo, — disse il canadese, con un sorriso sardonico. — Il destino che finora vi ha perseguitati, vi proteggerà, — disse la giovane americana, sempre più entusiasmandosi. — Volete la mia mano? Ebbene, marciate verso il Polo. L’avrà, ve lo giuro, chi si sarà spinto più innanzi. Se credete, disputatevela. — Nel chiosco regnò un silenzio piuttosto lungo. I due rivali si interrogavano collo sguardo, mentre la miss versava il thè. — Che cosa dite dunque voi, signor di Montcalm? — chiese finalmente Torpon. — Che se voi tenterete di raggiungere il Polo, io vi contrasterò, con tutte le mie forze, la mano di miss Perkins, — rispose il canadese con voce grave. — Accada quello che si vuole, io tenterò quest’ultima lotta. Tanto peggio per me se i ghiacci inghiottiranno me e la mia automobile, o se gli orsi bianchi faranno colazione colle mie carni. — Così dovevano parlare i grandi eroi dell’antichità!... — esclamò miss Ellen. — Qua la vostra mano, miei valorosi, e poi lanciatevi alla conquista di quel cardine del mondo che è stato il sogno di tanti audaci navigatori ed anche di tanti sportmen. Afferrate il volante e.... go ahead!... — Ecco una donna meravigliosa!... — esclamò mister Torpon. — Nelle vostre vene avete il vero sangue americano, miss. — Per mandarvi a tentare la pelle e farsi una clamorosa réclame, — borbottò fra sè il maestro di boxe canadese, aggrottando la fronte. — Preferisco le canadesi e quelle del nostro vecchio paese. Almeno sono più equilibrate. — E così, signori, siete ben decisi? — disse la giovane, dopo che tutti ebbero vuotate le tazze. — Per mio conto sì, — rispose il yankee. — Questa corsa verso il polo mi ha subito conquistato. O raggiungerò il punto ove s’incrociano tutti i meridiani del globo o morrò nell’impresa, col vostro nome sulle labbra, miss. — E voi, signor di Montcalm? — Vi ho detto già miss, che partirò ed al più presto possibile per disputare al signor Torpon la palma della vittoria. — Ah, la vedremo, mio gentleman!... — gridò il yankee. — Io spero di piantare lassù, fra il regno degli orsi bianchi, la bandiera degli Stati dell’Unione, prima di voi. — Non siete ancora giunto al Polo, mister. — Ci andrò, ve l’assicuro. — Non contate su nessun aiuto da parte mia. Ci considereremo come nemici implacabili. — Se io v’incontrassi, poichè io non partirò in vostra compagnia, e dovessi trovarvi morente di fame, non pensate che io vi dia una sola crosta dei miei biscotti. — Meglio così, mister. Almeno ora so che non dovrò calcolare che sulle mie sole forze, ribattè il canadese. — Nemmeno se vi vedessi fra le fauci d’un orso bianco, consumerò una cartuccia per voi. Ricordatevelo, signor di Montcalm. — Va bene. — Il canadese s’inchinò dinanzi alla giovane americana, la quale aveva assistito, impassibile, a quel battibecco, quasi come la cosa non le riguardasse, dicendole: — Miss, ritorno a Montreal per prepararmi al grande viaggio, poichè conto di partire prestissimo per approfittare dei grandi freddi. Se cadrò durante l’impresa, qualche volta pensate a me. — Ciò detto uscì bruscamente dal chiosco, seguito dal suo partner, il quale masticava delle bestemmie. Due giorni dopo su tutti i giornali di Montreal e di Quebec si leggeva, a grossi caratteri, nelle quarte pagine, il seguente annuncio: «Si cercano due uomini per accompagnare un signore che intende recarsi al Polo in automobile. Uno dovrà essere uno chaffeur già provato in lunghi viaggi». Rivolgersi al signor Gastone di Montcalm, Gordon Street, 27 Montreal. CAPITOLO VI. L’equipaggio dell’automobile. Tre giorni dopo l’annuncio pubblicato sui giornali — annuncio che aveva prodotta una immensa curiosità fra tutti gli abitanti delle principali città canadesi — un giovanotto di ventidue o ventitrè anni, biondo, roseo, con due baffetti appena nascenti, ben piantato, e che indossava un costume da ciclista che lasciava vedere la salda muscolatura di un buon paio di gambe, quantunque fossero piuttosto lunghe, si presentava alla porta della palazzina di Gastone di Montcalm, chiedendo di parlare al proprietario. Quel giovanotto era lo stesso che aveva assistito alla partita di boxe nella pista di Kingston e che per avere delle informazioni sui due rivali, si era permesso il lusso di cambiare la sua ultima sterlina per offrire al cicerone americano un coktail. Il portinaio, un vecchio canadese di forme erculee, un discendente certamente del vecchio paese, come chiamano laggiù la Francia sempre rimpianta, malgrado la sconfinata libertà ed i grandi privilegi accordati a quei coloni dall’Inghilterra, dopo averlo attentamente squadrato, lo introdusse in un piccolo studio, semplicemente ammobiliato, dove il signor di Montcalm stava in quel momento esaminando con grande attenzione parecchi disegni. — Chi siete e che cosa volete? — gli chiese senza preamboli il canadese, dopo d’aver risposto al saluto toccandosi lievemente la visiera del berretto da automobilista. — Spicciatevi, perchè veramente ho fretta. — Ho letto l’annuncio da voi fatto pubblicare sui giornali della città, — rispose il giovanotto. — Ah!... Benissimo, — disse il signor di Montcalm, facendogli cenno di sedere ed osservandolo con vivo interesse. — Voi vorreste venire con me al Polo nord. Siete inglese, se non m’inganno. — Si, gentleman. — Qual’è il vostro mestiere? — Non ne ho alcuno, signore, — rispose candidamente il giovanotto, poichè ho lasciato l’Università di Cambridge solamente tre mesi or sono e senza avere ottenuto nessuna laurea per colpa dello sport. — Dello sport? Spiegatevi meglio signor.... — Walter Graham. — Siete ben piantato, giovanotto mio, e confesso che mi interessate. Dunque avete detto che lo sport.... — Mi ha rovinato, signor di Montcalm. Che cosa volete? Si studia ora poco nelle Università di Cambridge e di Oxford, e tutto per colpa dello sport, il quale minaccia seriamente di soppiantare i libri e di mandare all’aria il pane della scienza. — Che cosa s’insegnano di più in quelle due celebri Università, dunque? — A coprire il più presto possibile la corsa delle cento yarde, del mezzo miglio, del miglio e delle tre miglia; che io ho battute, unico fra tutti, in 54 minuti e 53 secondi al Queen’s Club, nella classica pista di Baron’s Court, che si trova all’ovest di Londra, alla presenza di cinquantamila persone fra ladies e gentlemen, strappando la vittoria al campione di Oxford. Assistevano perfino il principino Alberto di Galles, il vescovo, e perfino S. A. Jam Sahib di Nawanagar, il più popolare ed il più noto dei principi indiani spodestati. — Ah!... — fece il signor di Montcalm, ridendo. — E poi si insegna altro di meglio in quelle Università? — La corsa agli ostacoli, il salto in altezza, il lancio del peso.... Diamine!... Bisogna ben dimostrare che i matricolini di Cambridge valgono quanto e forse meglio di quelli di Oxford. — Chi ha vinto dunque quest’anno? Oxford o Cambridge? — Cambridge, signor di Montcalm, poichè c’ero io, proclamato primo campione in tutti gli esercizi. — Ed ultimo come studio. — Ohimè, purtroppo. Lo sport ha ammazzato i miei libri. — Il canadese non potè frenare uno scoppio di risa. — Consolatevi, mister Walter Graham, perchè se voi vi foste invece presentato a me con una laurea d’ingegnere, d’avvocato o di dottore, vi avrei subito risposto che per quelle persone non c’era posto al Polo. — Ah!... Signore!... — esclamò l’inglese, col viso raggiante. — Adagio, mio caro giovanotto, disse il canadese, il quale non si stancava d’ammirare la solida muscolatura dello studente bocciato, — ditemi innanzi tutto che cosa siete venuto a cercare in America. — La fortuna, signor di Montcalm. Avevo intenzione di arruolarmi fra i cacciatori della Compagnia della baia di Hudson. — Ma quella compagnia recluta solo dei tiratori. — Io spengo una candela a duecento passi, con un colpo di mauser. — Scherzate? — No, signor di Montcalm. Non temo nessun tiratore, io. Quando vorrete ve ne darò una prova. — Avete fatto colazione? Il giovane inglese arrossì fino al bianco degli occhi, poi dopo una breve esitazione, disse: — No, signor di Montcalm, poichè il mio albergatore, dopo che ho spesa la mia ultima sterlina, non mi vuol più fare credito. È già molto se mi lascia ancora dormire sotto il suo tetto. D’altronde la povertà non è un delitto. — La vostra franchezza mi piace, signor Graham, disse il canadese, ridendo. — Vi darò più tardi tanto da saldare esuberantemente i vostri piccoli debiti, poichè fin d’ora vi considero come mio compagno nella mia corsa verso il Polo. — Ah!... Signore!... — esclamò lo studente bocciato, alzando le braccia. — Mi piacete e vi arruolo a tamburo battente a cento dollari al mese, con di più di un premio di altri cento ogni grado guadagnato oltre l’ottantesimo parallelo. Vi conviene? — Mi offrite una fortuna. — Modestissima, giovanotto, ma che io raddoppierò se avremo la fortuna di raggiungere il Polo nord. — Ne dubitereste, signor di Montcalm? — Eh, chi lo sa! Simili spedizioni hanno costato centinaia e centinaia di vittime umane. — Sulle navi però, non coll’automobile. — Il canadese guardò sorridendo l’energico poco studioso dell’Università di Cambridge. — Avete tanta fiducia, voi? — Sì, signor di Montcalm, e se vi occorrerà una vita umana per rapire i begli occhi di miss Perkins, prendetevi pure la mia, pur di battere quell’animale di yankee. — Una nube passò sulla fronte del canadese. — Ah!... Voi sapete.... — disse. — Eh!... Chi non lo sa che voi lottate per conquistare quell’indiavolata ragazza? — Indiavolata!... Avete ragione, è il suo vero nome. Amereste voi, Walter, una simile donna? Ditemelo francamente. — Il giovane inglese arrossì come una fanciulla, poi scuotendo il capo e lisciandosi con un certo sussiego i suoi baffettini biondi appena nascenti, disse: — Io, come inglese, no!... — Forse.... avete ragione, — rispose il canadese, corrugando la fronte. — Queste americane.... — Si arrestò di colpo, udendo squillare il campanello. — Ci deve essere qualcun altro che desidera di venire al Polo a gelare con me, — disse poi. Lo studente bocciato era diventato pallidissimo ed aveva guardato il canadese con estrema ansietà. — Rassicuratevi, — disse il canadese, a cui nulla era sfuggito. — Si presentassero anche James Ross, il famoso navigatore dei mari antartici, o Mac-Clure, il più ardito, per mio conto, dei navigatori artici, od anche l’ammiraglio Franklin in persona, morti purtroppo da tanti anni, non li accetterei dopo di voi. Potete quindi essere assolutamente tranquillo, giovanotto, perchè io conto.... — In quel momento il gigantesco portiere comparve, dicendo: — Padrone, vi è un uomo che ha in mano un giornale, e che desidera parlarvi. — Introducilo, Perrot. È un altro che vuole andare lontano in mia compagnia. Vedremo. — Un istante dopo un uomo sui trent’anni, bruno quasi come un portoghese od uno spagnuolo, con un occhio chiuso ed una rada barbetta nerissima, entrava nel gabinetto del canadese. Indossava un costume da chaffeur piuttosto malandato e teneva in mano un giornale. — Il signor Gastone di Montcalm? — chiese, facendo un goffo inchino. — Sono io, — rispose il canadese, alzandosi. — Indovino già lo scopo della vostra visita. Voi volete andare al Polo, è vero? — Sì, signore, se voi mi ci condurrete. — La vostra professione? — Una volta ero marinaio, poi sono diventato chaffeur. Si cambia sovente professione pur di migliorare e guadagnarsi meglio l’esistenza. Credo d’altronde di fare per voi, avendo guidato l’automobile di lord Hammer attraverso l’Alaska fino alla baia di Kotzebue. — Sicchè avete molta conoscenza colle nevi e coi ghiacci. — Sì, signore. — Avete dei documenti che comprovino quanto asserite? — Sì, signore. — Sareste capace di aggiustare una macchina anche in mezzo ai ghiacci polari? — Sono stato baleniere, signore, e del freddo e delle bufere di neve me ne rido, — rispose l’ex-marinaio. — Sicchè voi vi impegnate di condurmi al Polo? — Farò il possibile. — Diecimila dollari di premio vi basterebbero? — Per tale somma passerei sul corpo di tutti gli orsi bianchi del Polo, — rispose lo chaffeur, mentre il suo unico occhio si accendeva d’una luce intensa. Il signor di Montcalm si era alzato. Accese un sigaro, poi disse: — Ebbene, seguitemi nel mio garage. La mia macchina è già quasi pronta e fra qualche giorno noi potremo slanciarci alla conquista del Polo nord. Ah! Come vi chiamate? — Dik Mac Leod. — Scozzese? — Mio padre lo era. — Venite, Dik: vi faro vedere la mia macchina. — Uscirono dal gabinetto, attraversarono un piccolo giardino che si stendeva dietro la palazzina ed entrarono sotto una vasta tettoia chiusa da invetriate, dove cinque o sei uomini stavano lavorando assiduamente intorno ad un’automobile che aveva dietro di sè una specie di carrozzone tutto coperto, poco dissimile da quelli che usano i saltimbanchi ambulanti. — Ecco il mio treno, — disse il canadese, facendo segno agli operai di sospendere il lavoro. — È una Thomas di sessanta cavalli, modificata secondo i piani d’un ingegnere meccanico mio amico, e che credo ci porterà direttamente al Polo senza troppi fastidi. Osservatela bene Dik, giacchè sarete voi che dovrete condurla. Come vedete abbiamo delle pneumatiche di ricambio, dentellate con punte d’acciaio, perchè possano mordere i ghiacci quando noi ne avremo bisogno, ed una riserva di benzina notevolissima, accumulata sotto la prima vettura e divisa in casse assolutamente impermeabili. Noi però non dovremo contare che sul carrozzone, il quale diventerà la nostra casa. Avremo dei comodi letti, una buona stufa che brucerà essenze minerali per poter resistere ai grandi freddi; viveri per tre mesi; vesti di ricambio; una piccola armeria più che sufficiente per noi; una minuscola biblioteca per non annoiarci troppo, una farmacia. Guardate ora lassù, sul tetto della vettura: vi è un battello di pelle di foca, poco dissimile dei kayak esquimesi, ma capace di portare tre uomini invece d’uno. Io credo di aver pensato a tutto, però sono pronto a portare delle modificazioni al mio treno se avete qualche cosa da dire. — Signor di Montcalm, — disse lo studente bocciato, il quale girava e rigirava intorno all’automobile ed alla vettura di rimorchio. — Io credo che non vi sia più nulla da aggiungere. Il vostro rivale, quel bisonte americano, non avrà certo un simile treno. — Che cosa dite voi, Dik? — chiese il canadese al meccanico il quale, da uomo pratico, esaminava attentamente il motore. — Questa macchina è meravigliosa, — rispose il guercio. — Non ne avevo mai visto prima di simili. Quali straordinarie modificazioni! Non sono ancora i quattro cilindri fusi in blocco, coi movimenti a sfere, che gl’ingegneri cercano da tanto tempo, ma questa, signore, vi assicuro che è una macchina superba. — Ho dovuto modificarla sui disegni d’un mio amico ingegnere che si occupa molto di automobili. Noi non possiamo contare sulle più o meno comode strade che attraversano il Canadà, quindi ho dovuto modificare assai il mio treno perchè possa resistere alla lunghissima corsa attraverso i ghiacci del Polo. Come vedete il motore è semplice, solido, e nel medesimo tempo leggiero, poichè una macchina pesante non avrebbe risposto allo scopo che e quello di riunire il maximum della forza col minimum del peso, ed il massimo rendimento col minimo consumo di combustibile. Lo chassis e di una solidità straordinaria, con balestre rinforzate per quanto fu possibile, per resistere alle più forti scosse che certamente dovremo subire nei salti attraverso gli hummoh che incontreremo in gran numero sugli sconfinati paks. Guardate qui, Dik. Come voi sapete, il radiatore che è il congegno più delicato, che rappresenta nella macchina quello che nell’uomo e la circolazione del sangue, e stato sospeso mediante il sistema a sospensione a molle Migevet, in modo che l’urto improvviso giungerà al delicato istrumento doppiamente ammortito. Ma poichè spesso gli urti non giungono solo alle ruote, in paesi ove le strade sono affatto sconosciute, a proteggere il motore e stato disposto un carter d’acciaio che lo riparerà completamente dalle punte dei ghiacci e dagli ostacoli imprevisti. Il sistema di accensione è il magnete a bassa tensione, secondo il nuovo sistema Bosch il migliore che esista per mio conto. Vi è inoltre un dispositivo speciale pel riscaldamento dell’olio prima della partenza della macchina. — Meraviglioso, — mormorò il meccanico. — Ecco ciò che si può chiamare una macchina perfetta. E pel congelamento dell’acqua avete pensato, signore? Capirete che dovremo affrontare delle temperature spaventevoli. — Naturalmente, ed e per questo che ho pensato, o meglio che il mio amico ingegnere ha pensato di sostituirla con un miscuglio formato di una metà d’acqua ed una di acquavite di grano, miscuglio che non potrà gelare nemmeno a 60° sotto lo zero. — Benissimo, signore. — E le ruote? — Sono delle pneumatiche coperte completamente di pelle, per evitare che le basse temperature del Polo possano guastare le gomme. Adopreremo prima quelle liscie, poichè finora sono state quelle che hanno fatto la miglior prova sulle superficie gelate; più tardi vedremo che cosa sapranno fare quelle dentellate. Negli sgeli ci saranno forse più utili. Guardate ora lo chassis. Corto, quadrato, solidissimo, molto più rialzato degli altri per evitare maggiormente gli affondamenti nella neve, aperto sul dinanzi e, come ben vedete, fornito d’una grossa capote di cuoio che può coprirlo interamente. Per proteggervi meglio, ho fatto collocare dinanzi al volante uno scudo di metallo rivestito di cuoio che vi riparerà perfettamente il petto e le gambe ed un tubo che vi porterà l’aria calda nella ridotta, ottenuta semplicemente coi prodotti dello scappamento. — E la benzina? — Si trova sotto la seconda vettura, rinchiusa in serbatoi di quattrocento litri ognuno, sufficienti quindi per tremila miglia e divisi in latte di venti litri ciascuna. — Basterà per giungere lassù? È un po’ lontano il Polo. — Il canadese sorrise. — Ho pensato al pericolo di dover rimanere senza combustibile. Guardate, sotto la seconda vettura, abbastanza lontana dal deposito di benzina, ho fatto collocare una piccola macchina che noi potremo alimentare con canape inzuppata d’olio di foca, con grasso d’orso e magari di balena. Non otterremo certo una notevole velocità, ma quella macchinetta ci eviterà delle panne inguaribili in una regione dove non troveremo delle drogherie aperte per venderci il combustibile che ci è necessario. — Meraviglioso!... — mormorò per la seconda volta l’ex-marinaio. — Con simile treno si può andare anche in capo al mondo. E l’illuminazione? — Ho pensato anche a quella. Noi porteremo una riserva di carburo abbastanza considerevole che ci servirà per alimentare due magnifici fanali a vetri sostituibili. Quando non ne avremo più, arderemo dell’olio di foca o di morsa e vedrete che mediante un sistema ottico speciale avremo luce finchè vorremo. — Che preparazione splendida!... — esclamò lo studente bocciato. — Quel bisonte americano non avrà di certo un simile treno. — Lo credo anch’io, — rispose il canadese. — Non avete saputo più nulla di lui? — Assolutamente no. — Che sia già partito? — È impossibile. E poi un americano non parte senza farsi fare della réclame, e finora i giornali non hanno scritto una riga. Venite a visitare la nostra casa, poichè la vettura di rimorchio diventerà la nostra abitazione, quando i grandi freddi ci piomberanno addosso. Guardate, è tutta foderata di hickory, tutto è legato di chatterstone, poichè colle basse temperature non è prudente fidarsi del metallo. Ecco i nostri letti, ecco la nostra cucina, la nostra stufa, e queste ruote? Toccatele!... Non sono mica delle semplici pneumatiche, sono delle Ducasble che non si possono rompere e ne ho altre due di ricambio. Potrei percorrere, con tutta sicurezza, venticinquemila chilometri. E poi guardate questi predellini. Vi sembrano ben larghi ma questi nascondono dei segreti. Quando correremo sulle nevi sorreggeranno meravigliosamente la nostra casa e le impediranno di affondare. E guardate sotto che cosa nascondono: delle scatole d’acciaio che contengono incudini, lime, utensili d’ogni genere, i pezzi di ricambio, tutti bene avvolti e classificati. Che cosa vorreste di più? Io sono convinto di poter raggiungere il Polo. — Ed io più di voi, signor di Montcalm, — disse lo studente bocciato. — E voi, Dik? Il meccanico lo guardo col suo unico occhio, poi disse: — Io spero di farvi salire perfino sulle cime degli ice-bergs con una simile macchina, signore. Vi assicuro che faremo una bella corsa. — Toccheremo la Groenlandia, signore? — chiese Walter. — Sì, ma molto tardi, poichè io conto di passare a ponente dell’immensa baia di Hudson, anche perchè mi hanno riferito, per caso, che il mio rivale passerà invece lungo le rive di levante. Risparmierà via, questo è certo, ma io preferisco marciare sulle innumerevoli isole che l’Artico racchiude nel suo seno. Quando avremo raggiunta la terra di Grant, potremo andare a trovare gli esquimesi, se ne troveremo a tale latitudine. Ora basta: avete veduto abbastanza, quindi possiamo andare a far colazione. Fra un boccone e l’altro discuteremo sulla via da tenersi, quantunque ormai abbia preso il mio partito, per evitare qualsiasi possibile incontro con mister Torpon. Venite. — CAPITOLO VII. I traditori. Dik Mac Leod, il poco simpatico chaffeur, dopo un’abbondante colazione, durante la quale aveva dato una sorprendente prova del suo appetito, aveva lasciata la palazzina per recarsi a preparare il suo bagaglio, quando un uomo di statura quasi gigantesca e di forme massiccie, avvolto in un gran pastrano foderato di pelle di bisonte, che da qualche ora passeggiava poco lontano dalla cancellata che chiudeva il giardino, lo abbordò bruscamente, dicendogli: — Vorreste permettermi una parola, mister? Se non m’inganno siete uno chaffeur, o almeno ne indossate il costume. — Se il signor di Montcalm non si fosse trovato nel suo garage assieme allo studente per sorvegliare gli operai che davano gli ultimi colpi alla preparazione dell’automobile, avrebbe subito riconosciuto, con non poca sorpresa, in quel gigante il maestro di boxe di mister Torpon. Dik Mac Leod, udendo quelle parole, si era fermato, osservando attentamente l’americano ed ammirandone sopratutto le forme imponenti. — Dite pure, mister, — rispose finalmente. — Questo veramente non è il luogo per fare delle confidenze, mio caro chaffeur, — rispose il yankee, lanciando un’occhiata sospettosa verso la palazzina del canadese. — Posso offrirvi un buon bicchiere di wisky od un grog? — Un po’ di alcool non fa male quando si è mangiato abbondantemente, — disse l’ex-baleniere. — E poi io ho l’abitudine di non rifiutare mai un invito quando mi viene fatto da un gentleman. — Avete fatto colazione dal signor di Montcalm? — Avete proprio indovinato, signore. — Allora un buon bicchiere di wisky vi farà digerire meglio d’ogni altro liquore. — Anche due, mister. — Il maestro di boxe attraverso la via che era in quell’ora piuttosto frequentata, e dopo d’aver svoltato l’angolo d’un vasto caseggiato, entrò in un bar, chiedendo un gabinetto ed una bottiglia di wisky, del migliore. Pochi istanti dopo si trovava seduto di fronte allo chaffeur, in un salottino minuscolo e silenzioso. — Bevete innanzi tutto, mister.... — Dik Mac Leod, — rispose l’ex-baleniere, vuotando d’un colpo il bicchiere e facendo scoppiettare la lingua con visibile soddisfazione. — Ed ora, signore, ditemi che cosa desiderate da me ed al più presto possibile, non avendo troppo tempo da perdere. — Vorrei sapere se siete libero o se il signor di Montcalm vi ha arruolato. — Parto pel Polo, mister. — Coll’automobile di quel signore? — Precisamente. Volevate forse farmi anche voi qualche proposta? — Invece di rispondere, il maestro di boxe gli chiese bruscamente: — Siete un uomo scrupoloso o ne avreste quando si trattasse di guadagnare una bella somma? — L’occhio dell’ex-baleniere fiammeggiò sinistramente. — Mi avete capito? — chiese l’americano, vedendo che lo chaffeur indugiava a rispondere. — Pur di guadagnare del denaro, mi sentirei capace di scendere all’inferno e di andare a rompere tutte le corna di compare Belzebù, — disse l’ex-baleniere. — Perchè credete che io abbia accettato di condurre il signor di Montcalm al Polo? Per rivedere i ghiacci e fare la conoscenza, o meglio rinnovarla, cogli orsi bianchi, le foche e le morse? No; ma per la grossa somma che mi ha offerto, mio gentleman. — Molto grossa? — Eh!... Diecimila dollari. — Che cosa direste allora se vi fosse una persona che ve ne offrisse altrettanti per impedire che il signor di Montcalm giunga proprio fino al Polo? — Dik Mac Leod prese la bottiglia di wisky, si empì il bicchiere e dopo d’averlo vuotato d’un fiato lo depose sul tavolo con fracasso, dicendo: — Che razza d’affare è mai questo? — Un affare di diecimila dollari che potreste guadagnare, immobilizzando un’automobile, operazione semplicissima per uno chaffeur. — Un colpo al radiatore ed è bella e finita, — disse l’ex-baleniere. — Un affare di cinque minuti. — Ma nemmeno d’uno, mio signore. — E sareste proprio capace di darlo? — Per diecimila dollari!... Farei saltare anche l’automobile e la vettura di rimorchio. Basta un zolfanello e la benzina scoppia come una bomba insieme a tutti i suoi serbatoi. — Che bel furfante!... — non potè a meno di pensare il maestro di boxe. Il signor Torpon ha avuto fortuna, e non sarà certo il signor di Montcalm che andrà a pranzare là dove s’incrociano tutti i meridiani. — Levò da una tasca una bellissima pipa di schiuma levantina, regalo certamente del suo munifico allievo, la riempì di tabacco, impiegando un certo tempo che l’ex-baleniere occupava intanto a baciare amorosamente la bottiglia di wisky, l’accese, e dopo d’aver lanciato in aria tre o quattro boccate di fumo, in modo da avvolgersi quasi completamente dentro una nuvola, riprese: — Sapete per quale motivo il signor di Montcalm tenta di recarsi al Polo? — Eh!... — fece il baleniere. — Chi non lo sa? I giornali hanno parlato abbastanza. È una sfida che finirà dentro gli occhi azzurri d’una ricca ereditiera yankee: miss Ellen Perkins, se non m’inganno. — Benissimo, giovanotto. — E che mister Torpon vorrebbe portare via al signor di Montcalm, è vero? — chiese lo chaffeur, sorridendo. — Meglio che meglio. Ciò mi eviterà di darvi soverchie e poco interessanti spiegazioni. — E mister Torpon ha mandato voi ad offrirmi una somma, per impedire che questo signor canadese vinca la sfida. — Avete una intelligenza straordinaria, giovanotto. Al di là del S. Lorenzo fareste maggior fortuna che al Canadà. — Pare che si possa farla anche sulla riva sinistra del fiume, mio gentleman, poichè centomila lire non si guadagnano facilmente in un giorno quando non si portano i nomi d’un Carnegie o di un Pierpont Morgan. — Avete ragione. — Ora spiegatevi meglio. — Sareste deciso ad accettare la proposta che vi ho fatta? — Sarà un tradimento assai nero, tuttavia pur di guadagnare una così bella giornata, che mi permetterà un giorno d’armare anch’io una goletta baleniera e di comandarla non più come marinaio, bensì come padrone, sono pronto a tutto. — Galeotto, — brontolò il maestro di boxe, facendo un gesto di disgusto che sfuggì allo chaffeur, occupato in quel momento a mandar giù un altro bicchiere. — Giacchè sono venuto qui, cerchiamo di fare gl’interessi del mio allievo. — Aspirò altre tre o quattro boccate di fumo, poi disse: — A noi basta che il signor di Montcalm non superi il 90°. Conducetelo pure molto al nord, a noi non importa. Quello che ci preme è che lo immobilizziate prima di giungere al Polo. Dove? Come? Quando? Questo riguarda voi. — Diavolo!... — esclamo l’ex-baleniere, percuotendo il tavolo con un pugno formidabile. — E non avete pensato alla mia pelle? Che cosa ne farei dei vostri denari se io non potessi più ritornare? — Passeranno ai vostri eredi, poichè io ho l’ordine di depositare, a quella banca che voi mi indicherete, i diecimila dollari intestati al vostro nome e non ritirabili prima di tre mesi. — L’ex-baleniere fece una smorfia. — Alla malora i miei eredi!... — esclamò. — Preferisco divorarmeli io quei dollari. — Ritornate e li ritroverete. — E se, come voi desiderate, o meglio m’imponete, immobilizzo il treno in mezzo ai ghiacci all’80° od all’85° od 88° parallelo, come farò poi io a tornarmene indietro? Io non mi occuperò della pelle degli altri se vorrete ma, by-god!... Ci tengo un po’ alla mia!... — Vorreste guadagnare una somma così rispettabile senza correre nessun rischio? E poi, non vi sarà lassù mister Torpon coi suoi compagni e la sua automobile? — Purchè riesca a spingersi tanto innanzi, — osservò lo chaffeur. — Bisogna conoscerle quelle regioni per farsi un’idea delle difficoltà che si possono incontrare. — Esitate? — Ah no!... Non voglio perdere un’altra fortuna. — Accettate? — Sì, mio gentleman. — Quando parte il signor di Montcalm? — chiese il maestro di boxe. — Domani a mezzanotte. Vuole andarsene senza fracasso e senza hurràh. — Allora domani mattina, alle nove, vi aspetto qui coi diecimila dollari che andremo a depositare insieme, a nome vostro, alla banca che mi indicherete. — Patto concluso: qua la mano, gentleman. — Una stretta formidabile, una vera stretta all’americana, che fece fare al briccone una brutta smorfia, chiuse il dialogo. Dik Mac Leod si alzò, un po’ traballando sulle gambe piuttosto malferme e se ne andò colle mani sprofondate nelle ampie tasche, borbottando: — Ecco una bella giornata!... Lo sapevo io che cambiando mestiere avrei finito per fare una bella fortuna. Le foche, le morse e le balene che da tre anni lascio in pace, devono aver pregato per me. La mezzanotte suonava all’orologio del palazzo del governo, tosto ripetuta su diversi toni da tutti gli orologi dei campanili delle chiese cristiane e protestanti di Montreal, quando il cancello del giardino in mezzo a cui s’alzava il garage di Montcalm s’aprì per lasciar passare il treno destinato a conquistare il Polo artico. Nevicava fortemente ed un vento freddissimo, che giungeva a grandi raffiche dalle immense pianure dell’Ontario, spazzava, sibilando sinistramente, le vie della città ormai già deserte. Dik Mac Leod sedeva al volante; dietro di lui, ben avvolti in ampi gabbani di grosso feltro, stavano il signor di Montcalm e Walter, l’allegro studente bocciato. Nella vettura a rimorchio, ben chiusa e tutta oscura, non vi era nessuno. — Buon viaggio, padrone!... — disse il gigantesco portiere, alzando la lanterna e spalancando i cancelli. — Che Dio vi assista in così grande e così pericolosa impresa. — Addio, mio buon Perrot, — rispose, con voce un po’ commossa, il signor di Montcalm. — Se gli orsi bianchi non ci divoreranno, prima di due mesi noi saremo di ritorno. Ti manderò notizie dal forte Severn e da quello di Churchill, se non avrai premura. — Poi alzando un po’ la voce disse allo chaffeur, che si era ben accomodato dietro allo scudo d’acciaio tutto ricoperto di hickory, perchè le sue gambe non avessero nessun contatto col metallo: — All’ufficio telegrafico, prima di tutto. — Bene, signore, — rispose l’ex-baleniere. L’automobile infilò la larga via, rumoreggiando e brontolando, e spazzando dinanzi a sè la neve che si era già accumulate in alti strati. Attraversò alcuni corsi a velocità moderata, qualche piazza, poi si fermò dinanzi all’imponente ufficio telegrafico, illuminato come in pieno giorno da una moltitudine di lampade elettriche. Il canadese balzò a terra scuotendosi di dosso la neve, fece segno a Walter di seguirlo ed entrò dirigendosi verso uno sportello dietro cui sonnecchiava un impiegato. — Speditemi subito questo ad Albany, — disse il signor di Montcalm, presentando un modulo già scritto. L’impiegato sbadigliò un paio di volte, si accomodò sul naso gli occhiali e lesse: «Albany — Miss Ellen Perkins. Sono partito. «G. di Montcalm». — Null’altro? — chiese l’impiegato. — Niente da aggiungere, — rispose il canadese. Attese la ricevuta e tornò nell’automobile. — Un po’ secco quel telegramma, — disse Walter, riprendendo il suo posto. — Quella orgogliosa americana che per smania di farsi della réclame manda gli uomini che la corteggiano a rompersi il collo perfino al Polo, non merita di più, amico, — rispose il canadese. — Ecco un amore poco saldo in gambe. — Può darsi. Dik, avanti, e appena fuori della città non fate risparmio di benzina. Prima di giungere ai grandi banchi del Polo, ne troveremo dell’altra. — Chi ce la provvederà, signor di Montcalm? — chiese lo studente. — Gli orsi bianchi non ne hanno mai tenuta di certo in serbo per comodità dei signori automobilisti. — Ho prese le mie precauzioni, giovanotto mio. A quest’ora i due forti della Compagnia delle pelliccie della Baia di Hudson, che si trovano sui confini della regione abitabile, devono essere già stati avvertiti, per cura del rappresentante della Compagnia di Montreal, del mio passaggio. Là non ci mancherà la benzina, ma dopo non dovremo contare che sulla nostra riserva. Sarà dopo il forte Churchill che le grandi difficoltà ed i grandi pericoli cominceranno per noi. — E per toccare quegli stabilimenti perduti fra le nevi polari voi avete prescelto la via più lunga? — Precisamente, Walter. Se noi seguissimo invece la rotta a levante della baia d’Hudson, abbrevieremmo di molte centinaia di leghe il tragitto, ma là i forti mancano. — E voi credete che Torpon seguirà invece quella? — Così mi hanno riferito. — Speriamo che vada ad affogarsi nello stretto d’Hudson, che troverà sulla sua rotta. — E forse non ancora così solidamente gelato da poterlo attraversare, poichè lo raggiungerà troppo presto. — Mentre noi? — Mentre noi troveremo sempre terra fino alla Terra di Boothia, che si stende al di la del 70° parallelo e dalla quale potremo passare, senza alcuna difficoltà, sulla Terra di Somerset che spinge le sue punte settentrionali a pochi minuti dal 75°. — A 15 soli gradi di distanza dal Polo. — Sì, Walter. — Ossia a sole novecento miglia. — Precisamente. — Distanza che noi potremo forse superare in ventiquattro ore. — Oh, non correte tanto, amico, — disse il signor di Montcalm, sorridendo. — Su quei ghiacci non potremo spingere il nostro treno nè alla velocità di ottanta, nè di cinquanta e forse nemmeno di dieci miglia all’ora. Chissà quali brutte sorprese ci offriranno quegli sterminati campi di ghiaccio. Io non mi illudo di trovare dei paks abbastanza lisci per far correre le nostre ruote. — Eppure io sono convinto, signor di Montcalm, — disse lo studente con grande entusiasmo, che noi riusciremo a sollevare il velo misterioso che copre quel dannato Polo nord. — Si vedrà. — Intanto l’automobile continuava a correre in mezzo alla neve che copriva le vie, mantenendo una velocità moderatissima di non più di trenta miglia all’ora, per non imprimere troppe scosse alla vettura di rimorchio. Nevicava sempre a grandi fiocchi che il ventaccio faceva volteggiare in tutte le direzioni, ma nessuno se ne inquietava, poichè la capote di cuoio riparava magnificamente tanto lo chaffeur, quanto i suoi due compagni. Alle dodici e mezza il treno, quasi da nessuno notato, volgeva le spalle ai vecchi bastioni di Montreal e correva attraverso alla bianca campagna per raggiungere l’Ottawa, nel suo corso superiore. Quantunque la neve fosse già alta più d’un metro, la macchina funzionava magnificamente, aprendosi, senza fatica, un largo solco entro cui s’incanalavano le ruote, turbinando e sobbalzando. Il canadese e lo studente, stanchissimi pei lavori compiti durante la giornata, a poco a poco avevano chiusi gli occhi, invitati al sonno dal sonoro russare della macchina, e godendosi il dolce tiepore che sfuggiva dai due tubi, volti uno verso la ridotta del guidatore e l’altro verso l’interno della vettura, ed ottenuto coi semplici residui dello scappamento. Dik Mac Leod, rannicchiato dietro lo scudo protettore, colle mani coperte da grossi guanti di pelle di foca, aggrappato al volante, spalancava invece sempre più gli occhi. Temeva di incontrare qualche improvviso ostacolo, non essendo le strade canadesi così ben tenute, nè così sicure come quelle europee, quantunque le due grosse lampade a carburo, fissate sul davanti, spandessero due intensi fasci di luce che si prolungavano oltre i venti metri. Alle cinque del mattino, il treno che aveva viaggiato tutta la notte, attraversava l’Ottawa sul ponte metallico della linea ferroviaria e si slanciava verso le grandi pianure dell’Alto Canadà, coperte d’immense boscaglie di pini bianchi, di aceri, di betulle, di quercie nere, rifugi quasi sicuri dei bufali, degli orsi, delle gigantesche alci e sopratutto dei lupi, specialmente grigi e neri. Al fracasso prodotto dal treno passando sulle lastre d’acciaio del ponte, il canadese e Walter avevano aperti gli occhi. — Come va, Dik? — chiese subito il signor di Montcalm. — Benissimo, padrone, — rispose l’ex-baleniere. — La bufera di neve è terminata ed il freddo rassoderà presto quella che è caduta. — E la macchina? — Funziona meglio d’un orologio. — Allora possiamo bere il the. — Approvato, — disse l’ex-studente. — M’incarico io di andarlo a preparare. Non faccio per dire, ma gl’inglesi lo sanno fare meglio di tutti gli altri popoli. — L’automobile fu fermata ed i tre uomini passarono nella vettura-salon, anche per vedere se tutto era rimasto in ordine durante quella prima corsa. Bevuta la profumata bevanda, accompagnata da un paio di bicchierini di wisky e fatta una fumata, i viaggiatori tornarono al loro posto sull’automobile, riprendendo subito la corsa. La strada ormai non esisteva più, poichè l’Alto Canadà è poco abitato e poco frequentato. Essendo però formato da pianure o boscose o coperte di laghetti e di vastissimi stagni, almeno nella sua parte meridionale, che gelano subito ai primi freddi, il viaggio non poteva presentare alcuna difficoltà. Di quando in quando, attraverso gli squarci della nebbia, alzatasi coi primi raggi del sole, apparivano delle vaste fattorie, costruite per lo più in legname, con immensi recinti che si prolungavano per miglia e miglia, gremiti di grassi bufali durante la buona stagione, ma ora deserti. Dei cavalieri, di tratto in tratto, si mostravano e si mettevano a galoppare dietro all’automobile, lanciando grida selvagge. Erano per lo più irochesi, gli ultimi discendenti di quelle formidabili tribù che un tempo costituivano sei nazioni, ora ridotte solamente a cinque: gli Oneida, i Seneca, i Tusiarora, gli Onondaga ed i Cayuga. L’ultima è ormai scomparsa per le guerre sanguinose e non ne esiste ormai più nessun rappresentante, nemmeno fra gli Assiboini e gli Algonchini. Non vi è più nessun Mandano nel Canadà. Quegli indiani vestiti ormai quasi all’europea, con un cilindro in testa spelato ed ammaccato, adorno di qualche etichetta di sardine di Nantes, con dei lunghi calzoni neri sbrindellati, che altro non conservavano dell’antico costume che una pelle di bisonte malamente conciata o qualche coperta variopinta e tutta rattoppata, facevano una ben meschina figura, quantunque non avessero ancora perduta la tinta più o meno bruno-rossastra e le capigliature lunghe. Fenimore Cooper non avrebbe potuto più riconoscere in quei guerrieri degenerati nessuno dei suoi eroi. — Peccato! — mormorava lo studente, il quale non si stancava di osservarli, quantunque non vedesse più, sopra i lunghi capelli svolazzanti, i diademi di piume multicolori, o sui loro dorsi le artistiche acconciature di tacchino selvatico. — La civiltà ha distrutto la poesia delle pelli-rosse perfino in mezzo alle regioni nevose. — A mezzodì l’automobile, sempre rimorchiando splendidamente la carrozza-salon, dopo una corsa di oltre trecentocinquanta chilometri, si cacciava sotto le immense foreste che coprono ancora buona parte dell’Alto Canadà e che si spingono, quasi ininterrottamente, fino sulle sponde meridionali della vastissima baia di Hudson. — Walter, — disse il canadese, — ecco il momento di provare la vostra abilità nel maneggio delle armi da fuoco. Entriamo nel regno della grossa selvaggina. Spero che non vi rincrescerà assaggiare un buon filetto di bisonte o d’alce o di mooses. Io cercherò di aiutarvi, non essendo un pessimo tiratore. — Non sareste nemmeno Canadese, — rispose lo studente bocciato. — Si dice che i vostri compatriotti siano i migliori cacciatori del mondo. — Ed infatti la Compagnia delle pelliccie della baia d’Hudson preferisce arruolare i nostri piuttosto che gli altri. Facciamo una fermata sul margine di questa gigantesca foresta per prepararci il pranzo. Chissà che intanto non ci passi a tiro di fucile qualche bel capo di selvaggina. Dik, abbandonate il posto e lasciate che l’automobile russi. Un po’ di riposo non le farà nemmeno male. — CAPITOLO VIII. La caccia all’automobile. Quantunque il freddo fosse abbastanza intenso, segnando già il termometro 5° sotto zero, i tre esploratori si prepararono il pranzo all’aria aperta, proprio sul margine della grande foresta e precisamente sotto un gigantesco pino bianco che coi suoi folti e ben disposti rami aveva lasciato intorno a sè un bel circolo di terra sgombra di neve. Contando, durante quella fermata, di provare le loro armi, avevano tolte dalle casse delle rivoltelle Colt e tre mauser, nonchè una grossa carabina a due canne, carica con proiettili a punta d’acciaio, destinati a bucare la pelle dei grandi ruminanti, i quali sono ancora abbastanza numerosi nelle selve del Canadà settentrionale, malgrado l’attiva caccia che danno loro gli scorridori della Compagnia delle pelliccie. Pel momento però non si mostravano che degli uccelli, come falchi pescatori ed aquile pescatrici, gru con becchi lunghi più di venti centimetri e degli ortolani, chiamati anche uccelli delle nevi, perchè di solito non si incontrano che là dove il candido lenzuolo copre la terra. In lontananza però, ben dentro la maestosa foresta, di quando in quando si udiva risuonare lugubremente qualche urlo dei lupi cervieri, animali pericolosissimi se si trovano in buon numero e che si frammischiano anche coi grandi e grossi lupi neri, quando si tratta di dare la caccia a qualche slitta od a qualche grosso capo di selvaggina. — Proverei volentieri le vostre armi contro quegli urlatori, — disse lo studente, dopo terminato il pasto, mentre stava accendendo la pipa. — È vero quello che si dice, signor Gastone? — Che ve ne sono ancora molti dei lupi nelle foreste canadesi? — Precisamente, signore. — Io sono certo che non ci mancherà qualche furioso inseguimento da parte di quelle brutte bestie. Quando l’inverno comincia, la loro fame aumenta anche pel fatto che gran parte della selvaggina emigra in cerca d’un clima più dolce. — Sicchè ne incontreremo di certo. — Non avrete che da scegliere fra lupi cervieri, grigi e neri, — rispose il canadese. — Così ci provvederemo di pelliccie che nelle regioni più settentrionali ci faranno molto comodo. — Per farci dei giustacuori, — disse l’ex-baleniere, il quale fumava come una vaporiera con una vecchia pipa tedesca che doveva contare un bel numero di anni. — Siete anche voi cacciatore, Dik? — chiese Montcalm. — Sì, padrone. — Allora gli orsi avranno a che fare con noi. Volete che partiamo? — Stavo per domandarvelo, signor di Montcalm, — disse lo studente. — Non udite come i lupi si chiamano? Che ci abbiano fiutati? — È probabile. — Che ci mangino le gambe? — Ci rifugieremo nella vettura-salon e vedremo se saranno capaci di entrare. Sarà una vera fortezza imprendibile pei nemici a quattro gambe. — Sgombrarono il posto togliendo la piccola stufa portatile e risalirono sull’avantreno portando con loro le armi e le cartucciere ben fornite. La grande foresta lasciava dei varchi considerevoli, tali da permettere al treno di avanzarsi comodamente, tanto più che il terreno era abbastanza bene livellato. Si sa già che i pini crescono ad una certa distanza l’uno dall’altro ed in regioni dove i cespugli scarseggiano affatto e mancano assolutamente le liane, i rotangi, i calamus e tutti gli altri arrampicanti che rendono invece quasi impenetrabili le foreste equatoriali e tropicali. E poi pareva che la grande boscaglia fosse stata già vigorosamente attaccata dalla mano dell’uomo, poichè di quando in quando i viaggiatori incontravano delle vaste radure, dove giacevano ancora moltissimi tronchi già abbattuti e che davano non poca noia a Dik. — Anche questa immensa riserva di legname, fra un paio d’anni, se non prima, subirà la medesima sorte toccata a quelle che un giorno coprivano le rive dell’Ottawa e del S. Lorenzo, — disse il canadese a Walter, il quale si occupava più delle urla dei lupi che degli alberi. — Si brucia dunque spaventosamente nel Canadà? — chiese lo studente. — Eppure ci sono delle miniere di carbone anche qui. — Ma con quello non si fabbrica la carta. — La carta!... — esclamò Walter, guardandolo con stupore. — Ma sì: è la peggiore nemica delle foreste e finirà, in un tempo più o meno lungo, per distruggerle completamente. — Oh diavolo!... Io non lo avrei mai supposto. — Potrei invece dire che è il giornalismo, specialmente quello americano, che finirà per farle scomparire. — Non si adoperano più i cenci per fabbricare la carta, ora? — Certo, anche quelli, ma a che cosa basterebbero? Tutti gli stracci raccolti nel mondo non potrebbero bastare nemmeno alla decima parte del consumo attuale della carta. Sono i nostri vicini degli Stati dell’Unione che hanno decretata la distruzione dell’abete bianco, dell’abete rosso e del pioppo, i quali sono i più indicati per ottenere una buona carta adatta alla stampa a buon prezzo. In questi ultimi venticinque anni le dimensioni dei giornali americani si sono raddoppiate ed il solo aumento nel numero di pagine rappresenta la distruzione annua di una foresta lunga venti chilometri e larga dieci. — Fulmini di Giove!... — esclamò Walter. — Questo immenso sviluppo del giornalismo americano va attribuito al basso prezzo della carta, all’introduzione delle macchine ed allo sviluppo enorme della réclame per mezzo dei giornali. Oggidì funzionano, nelle sole tipografie dei giornali dell’Unione, oltre seimila macchine per comporre ed ognuna di esse fa in media il lavoro di tre operai. I più importanti periodici domenicali della sola città di New-York hanno quasi tutti sessanta pagine ciascuno e ogni copia rappresenta la quantità di carta necessaria per un libro in ottavo di 480 pagine, e tuttociò per soli venticinque centesimi. Se fate il calcolo vedrete che ogni domenica negli Stati dell’Unione escono 456 edizioni su tanta carta quanta ne basterebbe per sei milioni di volumi in ottavo di 500 pagine ciascuno. — Quei giornali divorano una foresta alla settimana dunque!... — Poco meno, Walter, — rispose il canadese. — E questo enorme consumo comincia ad impensierire non poco i yankees, i quali vedono scomparire le loro antichissime e meravigliose foreste con una rapidità spaventevole. — E quali parti impiegano delle piante? — La corteccia, la quale viene lavorata con una rapidità incredibile. Poco tempo fa si è anzi tentato un record da una grande cartiera di Eisenthal. Alle sette e trentacinque del mattino tre alberi venivano tagliati in una vicina foresta e subito portati alla fabbrica dove vennero immediatamente scorticati e macinati. Il legname fu ridotto, passando per diversi bagni, in una specie di pasta che fu affidata alle macchine da carta che la distesero in fogli sottili ed alle nove e mezza il primo foglio usciva già pronto per la stampa. La tipografia di un giornale quotidiano sorgeva a quattro chilometri dalla fabbrica. I primi fogli furono caricati su un’automobile e portati alla tipografia. Alle dieci le prime edizioni del giornale uscivano belle e stampate cogli alberi abbattuti due ore e mezza prima. — È meraviglioso!... — esclamò lo studente, — Ma se si va di questo passo non vi saranno più foreste sulla superficie del globo. — No, anche la distruzione delle boscaglie presto si arresterà, poichè i chimici hanno già trovato di che surrogare le corteccie dei pini. Oggi si comincia a ottenere della buona carta colla torba ed a un prezzo quasi derisorio. Un altro ritrovato molto recente, che dà già buoni frutti, si ha dai detriti delle piantagioni di cotone. Fino ad oggi i produttori di cotone lasciavano inutilizzati gli arbusti spogliati dell’elemento tessile. Ora si è scoperto il procedimento per mezzo del quale quelle canne triturate, macinate e ridotte in polpa si possono convertire.... — In carta, — disse lo studente, vedendo che il canadese si era bruscamente arrestato. — In lupi.... — In lupi!... Che cosa dite signor di Montcalm? — Eccoli! — Chi? I piantatori di cotone od i fogli di carta? — No, no, i lupi: guardateli come corrono!... Sono cervieri e neri!... Me l’aspettavo questo attacco. Ecco il momento, Walter, di dare una prova della vostra maestrìa nel tiro a segno. — Fulmini di Giove!... Altro che carta e giornali!... — gridò l’ex-studente, afferrando lestamente uno dei tre mauser che stavano appoggiati ai sedili. — Qui si tratta di denti. — E che denti anche, — aggiunse lo chaffeur. — Che cosa devo fare, padrone? Lanciare la macchina a cinquanta o sessanta miglia all’ora? — A cento!... — gridò lo studente. — Vi dimenticate che abbiamo da rimorchiare la nostra casa che può diventare, da un momento all’altro, una fortezza necessaria per salvare le nostre gambe? A cinquanta miglia, Dik. — Va bene, padrone, — rispose l’ex-baleniere. L’automobile accelerò subito la marcia, filando sotto i pini giganti i quali, fortunatamente, lasciavano dei vasti e numerosi passaggi. Degli ululati feroci, che si ripercossero lugubremente sotto gli immensi vegetali, seguirono subito quell’aumento di velocità. Cinque o sei dozzine di lupi, tutti di alta statura, quali grigi e quali nerastri, alti di gambe e coi musi affilati, si erano scagliati dietro al treno, ululando a squarciagola. Erano dei magnifici corridori, specialmente i primi che sono appunto chiamati, per la loro straordinaria agilità, lupi cervieri. — Walter, — disse il canadese, il quale si era pure armato d’un mauser. Volete divertirvi? Aprite pure il fuoco. Se montassimo una semplice slitta vi proibirei di sparare, per non renderli furiosi, ma noi non abbiamo gran che da temere poichè il carrozzone che ci segue è sempre pronto a riceverci. — Lo studente si alzò, appoggiò bene il calcio del fucile alla spalla ed attese che l’automobile trovasse sotto le sue ruote un lembo di terreno abbastanza liscio per non subire dei soprassalti improvvisi. Qualche minuto dopo un colpo di fuoco si mescolava agli ululati delle fameliche belve. Un grosso lupo cerviero, che guidava la corsa, aveva spiccato un gran salto, stramazzando subito in mezzo alla neve. L’orda che gli veniva dietro gli si era precipitata addosso con rabbia feroce, azzuffandosi. Uno scricchiolìo d’ossa, pochi colpi di mascelle, e sul bianco tappeto non erano rimaste che delle macchie di sangue. Il povero cerviero era scomparso pelle e peli nelle gole dei suoi compagni. — Che denti! — esclamò lo studente. — Povere le nostre gambe se dovessero attaccarsi alle nostre uose! — E che valente tiratore, mio caro, — disse il signor di Montcalm, sorridendo. — Tutti gli studenti di Cambridge vi invidierebbero. — No, signore, quelli di Oxford, — rispose l’allegro giovanotto, prorompendo in uno scroscio di risa. — Quelli di Cambridge sapevano già che ero il loro campione e che non potevano gareggiare con me. — Ora riprendete la musica, amico. Quando si cominciano a fucilare, i lupi attaccano con maggior slancio. — E perchè? — Perchè se non possono divorare gli uomini si divorano fra di loro. L’avete visto come è finito quel magnifico cerviero? Sotto: ci sono addosso!... — I feroci animali, niente spaventati da quel colpo maestro, avevano ripresa la corsa e con uno slancio così fulmineo, da raggiungere quasi l’automobile. Si erano divisi in due colonne e galoppavano furiosamente, sempre ululando per chiamare i compagni dispersi per la foresta. Quegli inviti di caccia non rimanevano inascoltati. Di quando in quando delle coppie d’altri lupi sbucavano fra i cespugli di rose canine che avvolgevano la base dei grandi pini e si univano al drappello ingrossandolo continuamente. Quegli ululati che si ripercuotevano sotto l’infinita foresta, minacciavano di far accorrere legioni di affamati. — Fulmini di Giove!... — esclamò Walter, il quale aveva già sparate sei cartuccie gettando a terra ben cinque assalitori. — Mi pare che la faccenda cominci a diventare seria. Se lanciassimo il nostro treno a ottanta miglia si potrebbe lasciare a distanza queste bestie ostinate. — No, — rispose il canadese, il quale vuotava il serbatoio del suo mauser senza mai mancare il bersaglio. — Ci tengo troppo alla mia casa. — Ci sono addosso, signore. — Lasciateli fare. — Ed aumentano spaventosamente. — Me ne rido. — E non potremo più rifugiarci nella carrozza-salon. — Questo è vero, Walter. Avremmo dovuto farlo prima. Ora, discendere per passare nella nostra fortezza sarebbe pericoloso per le nostre gambe. — Ed anche per le nostre teste, credo. — Non inquietatevi per così poco. — Fulmini di Giove!... Guardate come diventano audaci. — Un lupo enorme, un lupo nero dal pelo irsuto e fumante per la lunga corsa, si era slanciato sul predellino di sinistra tentando di azzannare le gambe dello studente. Dik però l’aveva scorto a tempo, e senza abbandonare il volante, aveva afferrata rapidamente una Colt che si trovava sospesa allo scudo, fulminandolo con un paio di palle. — Grazie, mio bravo chaffeur, — gridò lo studente, il quale si trovava in quel momento col fucile scarico. — Cercherò di rendervi, più tardi, questo favore. — Un sorrisetto ironico fu la risposta dell’ex-baleniere. — Signor di Montcalm, che cosa facciamo adunque? — riprese lo studente, dopo d’aver sparato l’una dietro l’altra, cinque o sei rivolverate. — Ci lasceremo rosicchiare i piedi? — Dik, — disse il canadese, invece di rispondergli. — Arrestate la macchina. — E poi? — chiese l’ex-baleniere, mentre lo studente spalancava gli occhi. — Saliamo sulla capote di cuoio e fuciliamo queste noiose canaglie. Lassù non ci prenderanno. — Meravigliosa idea!... — esclamò Walter, afferrando innanzi tutto le due cassette contenenti le cartuccie dei mauser e delle Colt. — Assedio in piena foresta!... Ecco un bel titolo per un capitolo d’un romanzo straordinario. — Lasciate stare i romanzi e salite presto!... — gridò il canadese prendendo le armi. L’automobile si era fermata, affondando le sue ruote fra lo strato nevoso, ed i lupi avevano rallentata la loro corsa per scagliarsi, compatti, contro la macchina. Come abbiamo detto, l’automobile aveva sopra di sè una grossa capote di cuoio, situata a tre metri e mezzo dai livello delle ruote, per proteggere i viaggiatori dalle raffiche di neve e dai freddi intensi, senza obbligarli a cercare un rifugio nel carrozzone di rimorchio. Una solida armatura in ferro, tutta rivestita di grosso feltro, la sorreggeva. I tre uomini, vedendo i lupi scagliarsi, in un momento si misero in salvo lassù, scaricando le rivoltelle. Sette od otto animali, che si erano già gettati dentro lo chassis sperando di trovare, se non gli uomini, almeno dei viveri, stramazzarono a destra ed a sinistra della macchina, ululando spaventosamente. I loro compagni, niente spaventati dai colpi di fuoco che si succedevano con rapidità meravigliosa, poichè ora erano i mauser che parlavano, in un baleno furono loro addosso divorandoli semi-vivi. — Ah!... Diavolo!... — esclamò Walter, sospendendo per un istante il fuoco. — Io non ho mai veduto animali così ripugnanti!... — Rimettete a domani le vostre riflessioni e consumate invece delle cartuccie, disse il canadese. — Non vedete che l’orda, invece di diminuire, continua ad ingrossare, malgrado i grandi vuoti che abbiamo fatto? — Che sia la foresta preferita dai lupi questa, signor Gastone? — Parrebbe. — Mi dispiace consumare tante munizioni. Dobbiamo serbarne anche per gli orsi bianchi. — Non temete: ne abbiamo una grossa provvista. — Ed allora avanti. Pum!... Patatum!... Come cadono bene!... Ottime armi questi mauser!... I boeri avevano ragione a provarli contro i miei compatriotti in cambio dei loro vecchissimi röers. — Chiacchierate troppo, Walter, — disse il canadese. — Guardate invece Dik: non pronuncia una parola, ma ammazza invece continuamente. — È vero, signor Gastone. Ah!... I signori dal pelame grigio o nero si sono finalmente accorti che fa un po’ troppo caldo qui!... Ah!... Miei cari gentlemen dei boschi nevosi, non conoscete ancora la portata delle nostre armi. Più indietro, più indietro se volete salvare la pelle. — I lupi, che erano spaventosamente aumentati, poichè ne giungevano sempre, attirati dagli spari e dagli appelli disperati dei loro compagni, dopo un furioso assalto spinto perfino dentro lo chassis dell’automobile, avevano rotto le loro file e si erano dispersi, arrestandosi a cento o centocinquanta passi dal treno. Si erano divisi in gruppetti di quattro o cinque, cercando di ripararsi dietro gli enormi tronchi dei pini bianchi e rossi, assolutamente impenetrabili anche alle palle dei mauser. Avevano però formato una specie di cerchio irregolare intorno alle due vetture, in modo da impedire ogni fuga. Alcuni, più furbi, si erano rifugiati sotto lo chassis della macchina, pronti ad avventarsi contro i viaggiatori se avessero osato abbandonare la capote di cuoio. — Fulmini di Giove!... — esclamò l’eterno chiacchierone, tormentando il grilletto del fucile. — Che cosa dite voi, signor Gastone? — Io dico che ci hanno bloccati, — rispose il canadese. — Pare anche a me. — Che possa durare molto questo assedio? — Chi lo sa. Dipende dalla maggiore o minore pazienza dei signori lupi. — Voi che siete pratico del paese e delle bestie che lo abitano, potreste spiegarvi un po’ di più. — Mio caro Walter, io non sono mai stato un lupo e perciò non posso indovinare le intenzioni di quelle bestiaccie. — E se questo assedio dovesse prolungarsi? — Ci armeremo di pazienza. — Siamo senza viveri, signore, poichè le provviste si trovano nel carrozzone-salon. — Stringeremo la cintola dei nostri calzoni per ora. — Ah!... Diavolo!... — Ohè, signor studente, credevate di andare al Polo placidamente sdraiato su un sedile o su un letto, col cuoco sempre ai vostri ordini e la stufa sempre russante? — No, no, signor Gastone, tutt’altro. — Allora non vi lamentate così presto, mio bravo campione di Cambridge, — disse il canadese, ridendo. — Converrete però con me che la nostra situazione può diventare poco allegra. Guardate: comincia a nevicare per di più. — Ah!... Questa sì che secca, se l’assedio dovrà prolungarsi. — Se non ci fossero sotto le vetture quei cinque o sei lupi si potrebbe scendere sotto la capote e metterci al coperto. — Non vi consiglio di tentarlo, Walter. Queste bestie sono ancora troppo affamate. Suvvia, riprendete il fucile e cerchiamo di decimare quelle bestiaccie. — L’ex-baleniere, durante quel dialogo, non aveva cessato di far fuoco. Disteso sulla capote mirava con calma, da uomo che ci tiene a non sprecare le sue cartuccie, e ogni volta che un lupo commetteva l’imprudenza di mostrarsi lo fulminava con una precisione meravigliosa. Se parlava poco agiva molto, destando un vero entusiasmo nel canadese. Per una mezz’ora i tre viaggiatori continuarono a sparare, sbagliando ben pochi colpi, poi sostarono. I lupi, diventati eccessivamente diffidenti, non ardivano più mostrarsi. Avevano ormai compreso che avevano da fare con degli uomini ben risoluti a difendersi e che sapevano maneggiare terribilmente quei piccoli eppure tremendi arnesi di distruzione, e si tenevano in guardia per non farsi sterminare troppo presto. Che cosa aspettavano? Che gli assediati si decidessero ad offrire loro le proprie gambe? Oppure aspettavano la notte, già non lontana, per ritentare un assalto disperato? Ed intanto la neve continuava a cadere, lenta, silenziosa, cadendo fra albero ed albero, intorno all’automobile ormai arenata come un veliero che ha dato in secco su un bassofondo. CAPITOLO IX. La baia di Hudson. La notte calava rapidissima essendo le giornate assai corte nell’Alto Canadà verso la fine dell’autunno, e la situazione non accennava a cambiare, anzi minacciava di diventare di momento in momento più grave, poichè la neve cadeva sempre, travolta da un freddissimo vento che soffiava dalle non lontane plaghe della baia d’Hudson. I lupi, più affamati che mai ed ostinati ad avere per cena un abbondante pasto di carne umana, non si erano mossi, nè avevano rotte le loro file. Si lasciavano coprire dalla neve e sfidavano filosoficamente il freddo che diventava sempre più intenso, raddoppiando le loro guardie per paura che i tre assediati tentassero di fuggire. Dopo le terribili lezioni ricevute, non avevano più abbandonati i loro posti, con grande collera del campione di Cambridge, il quale aveva ormai cacciate mezza dozzina di palle nei tronchi dei giganteschi alberi, sbagliando le punte dei musi dei prudentissimi animali. E la neve intanto cadeva; cadeva senza posa, minacciando di immobilizzare l’intero treno e di seppellire i disgraziati assediati, sempre stesi sulla capote di cuoio dell’automobile. Ah!... Se avessero potuto raggiungere il carrozzone-salon, se ne sarebbero infischiati di quel blocco. Avrebbero accesa la loro stufa, si sarebbero preparati un buon pranzetto, avrebbero fatte delle buone pipate e quindi una buona dormita sui loro comodi lettucci con delle pesanti coperte indosso. Disgraziatamente avevano indugiato troppo, credendo di poter respingere facilmente le fameliche bestie con un fuoco d’inferno, ed ora era troppo tardi per tentare la ritirata. Se l’avessero tentata, in un baleno tutti quei lupi, un centinaio per lo meno, si sarebbero scagliati loro addosso ed indubbiamente li avrebbero addentati prima che aprissero la porta del carrozzone. — Ebbene, signor Gastone, — disse ad un certo momento il giovane studente, scuotendosi di dosso, per la ventesima volta, la neve che lo copriva e gettando via, col calcio del fucile, quella che lo circondava. — Sapreste dirmi come finirà questa avventura? — Mah!... — si era limitato a rispondere il canadese, il quale, abituato ai freddi intensissimi ed alle copiose nevicate del Canadà, non sembrava preoccuparsi gran che del freddo. — Noi corriamo il pericolo di gelare vivi, signore. Se questo assedio dovesse durare tutta la notte, noi domani saremo più stecchiti dei merluzzi di Terranuova. — Guardate che cosa fa Dik. — Sì, fuma placidamente la sua pipa monumentale e si lascia coprire dalla neve come se fosse un esquimese. — Si prepara la sua tana da orso bianco, — rispose il canadese. — Ma quello è un baleniere, signor Gastone. — Forse che la sua carne è diversa della mia e della vostra? — Imitatelo, mio caro Walter, e quando anche voi sarete ben coperto, non vi lamenterete troppo del freddo. Accendete la vostra pipa e lasciate che nevichi. — Preferirei trovarmi nel carrozzone dinanzi ad una zuppa fumante di fagiuoli. — Veramente ci starei anch’io, mio bravo amico, ma i lupi non ci vogliono permettere questo lusso. — Un’idea, signor Gastone!... — esclamò improvvisamente lo studente, picchiandosi la fronte. — Dite pure. — Voi avete portato con voi delle cartuccie di dinamite per far saltare, se fosse necessario, i blocchi di ghiaccio che ci impedissero di avanzare. — Certo: ne ho un bel numero. — Se le provassimo contro i lupi? — Farebbero indubbiamente delle vere stragi. — E perchè non le proviamo? — Perchè si trovano nel carrozzone. — Walter si era bruscamente alzato, levandosi dalla cintura un solido bowie-knife, e collo sguardo aveva misurata la distanza che separava la macchina dal carrozzone. — Un paio di metri!... — esclamò. — Che miseria pel campione di Cambridge. Anche un novellino dell’Università d’Oxford non si guarderebbe indietro. È vero che c’è il pericolo di scivolare e di cadere fra le bocche di quei cento affamati. — Che cosa vorreste tentare, Walter? — chiese il canadese. — Credete che con questa buona lama si possa forzare il tetto della nostra casa ambulante? Non sono troppo grasso, e levando qualche tavola potrei passare. — Una riparazione facile a farsi, è vero Dik? — Sì, padrone, — rispose il meccanico, che era ormai quasi interamente sepolto sotto la neve. — Allora salto, disse lo studente. — Badate alle cadute. — A me, Cambridge!... — gridò l’allegro giovanotto. — Proteggi il tuo campione!... — Le sue lunghissime gambe si tesero ed il corpo intero si sollevò, attraversando facilmente la distanza che separava l’automobile dal carrozzone. — Ecco un vero saltatore! — esclamò il canadese. — È vero, Dik? — L’ex-baleniere rispose con una specie di grugnito e non voltò nemmeno la testa. Abituato agli intensi freddi dei mari polari, si trovava benissimo sotto il lenzuolo nevoso, specialmente colla pipa fra le labbra. Oh, ne aveva passate ben altre delle nottate terribili al nord dello stretto di Behring e sulle coste dell’Alaska!... Lo studente era caduto quasi nel mezzo del tetto del carrozzone, tenendosi ancora in piedi per un prodigio di equilibrio e provocando, da parte dei lupi sempre vigilanti, degli ululati spaventevoli che non lo avevano però affatto commosso. Essendo quel tetto ben più alto della capote di cuoio della macchina, poteva ridersi delle minaccie dei cervieri ed anche dei neri, buoni corridori ma pessimi saltatori di fronte ad un campione di Cambridge. — Dik, — disse il canadese, volgendosi verso il meccanico — Vi sentireste in caso di tentare anche voi il salto? — Preferisco starmene qui sotto la neve, signore. Non sono mai stato un saltatore io. — Ed io preferirei trovarmi al coperto. Dopo tutto non mi sembra un gran che fare quella volata, ora che Walter si troverà pronto a sorreggerci. Là, proviamo. — Venite anche voi, signore? — chiese lo studente che stava sbarazzando il tetto del carrozzone. — Vengo ad aiutarvi. Tenetevi pronto ad afferrarmi. — Misurò collo sguardo per bene la distanza, si raccolse su sè stesso, poi si slanciò cadendo fra le braccia aperte dello studente. — Signor di Montcalm, — disse l’allegro giovanotto, — voi meritereste di prendere parte alle gare del Queen’s Club. Io stesso avrei in voi un serio rivale nel salto. — Io non appartengo nè all’Università di Cambridge, nè a quella di Oxford, — rispose il canadese. — E poi senza il vostro pronto aiuto sarei andato certamente colle gambe in aria ed avrei finito il mio salto fra le mascelle dei lupi. Orsù, amico, cerchiamo di aprirci una via attraverso al tetto. In due lavoreremo più rapidamente. — Sbarazzarono il coperto dalla neve, tagliarono coi loro robustissimi coltelli lo strato di zinco, poi quello di feltro, e misero allo scoperto le tavole. Seguendo colle punte delle armi le connessure, dopo un quarto d’ora di lavoro accanito riuscivano finalmente a levare due tavoloni, ottenendo uno spazio sufficiente per far passare i loro corpi. — Finalmente!... — esclamò lo studente che pel primo si era calato nel carrozzone, andando a cadere su una cassa. — Ora i signori lupi avranno da fare con noi. — Accendete una lampada, — disse il canadese, il quale lo aveva subito seguito. — E poi la stufa, signore. Io non posseggo la pelle di quell’orso di Dik. È vero che lui è stato baleniere. — Come al solito, chiacchierava assai ma agiva anche molto. Il lume fu acceso, poi subito dopo la stufa, operazione facilissima che non richiedeva nemmeno mezzo minuto, non trattandosi che di dar fuoco all’essenza minerale, quindi fu sturata una bottiglia di vecchio wisky che in quel momento era più necessaria della stufa, poichè i due viaggiatori erano intirizziti dal freddo. Riscaldatisi con un paio di bicchierini e rimesse a posto le due tavole del tetto per impedire l’ingresso alla neve, che cadeva sempre abbondante, si misero a cercare la cassetta contenente le cartuccie di dinamite, impresa facile poichè tutte le casse erano state prima diligentemente numerate. — Ecco qui tanta materia esplosiva da far saltare tutti i lupi della terra, — disse il canadese prendendone, con precauzione, cinque o sei. — Walter, aprite una finestra mentre io accendo una miccia. — Non salteremo anche noi per caso? — chiese lo studente. — Io ho sempre avuto un gran terrore per questi terribili esplosivi. — La cartuccia è pesante e andrà ben lontana. — E la neve non spengerà la miccia? — Non vi è pericolo. — Il canadese si affacciò alla finestra, tenendo in mano una delle sei cartuccie il cui cordoncino già fumava. Trenta o quaranta lupi si erano radunati ad una cinquantina di passi dall’automobile, come se si preparassero a tentare un nuovo assalto. Era il buon momento per somministrare a quegli affamati una tremenda lezione. — Walter, — disse il canadese. — Gettatevi a terra. — Poi lanciò a tutta forza la cartuccia attraverso la finestra, facendola cadere in mezzo alla banda urlante. Un momento dopo una detonazione formidabile si propagava sotto la foresta e così forte che il treno intero fu scosso e spostato. Walter ed il canadese si erano precipitati verso la finestra, mentre si udiva Dik che imprecava. Del gruppo dei lupi raccoltisi per ritentare l’attacco non ne esisteva più uno. Il potente esplosivo li aveva, per modo di dire, polverizzati. Gli altri invece scappavano a tutte gambe, colle code basse, ululando spaventosamente. — Credo che sia bastato, — disse il canadese. — Che strage, signor Gastone! — esclamò lo studente. Poi udendo ancora il meccanico brontolare, gridò: — Ohè, mastro Dik, vi è caduto addosso qualche lupo? — Ho perduto la mia coperta di neve che mi teneva così caldo, — rispose l’ex-baleniere. Mi è stata portata via di colpo. — Posso offrirvene una di buona lana accanto alla stufa, insieme a una mezza bottiglia di wisky vecchio quanto Noè. Lasciate il vostro covo di orsi bianchi, ora che i lupi si sono congedati. — Se non vi fosse stata la promessa di un paio di bicchieri di quella fortissima bevanda della quale tutti gli americani fanno un uso smodato, probabilmente l’ex-baleniere, che se ne rideva delle nevi, non si sarebbe mosso, ed avrebbe attesa un’altra coperta candida. Bevitore emerito, come lo sono quasi tutti gli uomini di mare, non seppe resistere alla tentazione e saltò a terra sprofondando nella neve fino alle anche, e raggiunse la porta del carrozzone già aperta. — Volevate proprio dormire lassù al fresco? — gli chiese Walter, chiudendo subito, affinchè il dolcissimo calore della stufa non sfuggisse. — Io mi trovo meglio qui, non essendo nato esquimese. — Dik alzò le spalle e si attaccò alla bottiglia. Il canadese rinchiuse accuratamente la cassetta delle pericolose cartuccie e si mise a preparare la cena, aiutato dallo studente. Intanto fuori continuava a nevicare ed il vento sibilava o ruggiva attraverso la foresta, torcendo perfino i grossi rami dei pini bianchi e rossi. I lupi in lontananza ululavano sempre, senza però osare accostarsi al treno. Ne avevano avuto abbastanza di quella cartuccia, dopo le gravi perdite subìte prima. — Aspettiamo domani, — disse il canadese, quando ebbero terminato di cenare. — Intanto il freddo rassoderà la neve. — Purchè i lupi non attacchino le pneumatiche, — disse Walter. — Sono così robuste da sfidare i loro denti. Orsù, cacciamoci sotto le coperte. — Tutta la notte il vento soffiò con estrema violenza, facendo tremare perfino le grosse vetrate delle piccole finestre, e la neve non cessò dal turbinare. All’indomani, quando Dik aprì la porta per recarsi all’automobile, trovò uno strato nevoso alto quanto i predellini delle due vetture, ma così solido da reggere benissimo anche una piccola nave. Un freddo intensissimo ed improvviso, aveva gelato tutto. — Si può andare? — chiese il canadese, affacciandosi alla porta. — Rompiamo lo strato che rinserra le ruote e poi vedrete che bella corsa faremo. Io conto di farvi pranzare sulle rive della baia di Hudson. — Allora non perdiamo tempo. — Mandarono giù in fretta un paio di tazze di thè ben bollente, si armarono di vanghe e di picconi ed attaccarono poderosamente lo strato gelato, per fare alla macchina un po’ di largo e prendere lo slancio. Un’ora dopo il treno già filava magnificamente attraverso la foresta gelata, con una velocità di quaranta chilometri all’ora. Walter ed il canadese, ben avvolti in pesanti pelliccie, avevano ripreso il loro posto dietro il meccanico, tenendo i fucili fra le gambe, sempre in attesa di fare qualche buon colpo onde variare, con qualche buon pezzo di selvaggina, la minuta del pranzo. L’automobile si comportava magnificamente anche perchè il terreno su cui s’alzava l’immensa foresta, si manteneva costantemente piano. La neve, tramutata ormai quasi in un banco di ghiaccio, non cedeva sotto il peso del treno. Era bensì vero che qualche volta succedevano degli slittamenti, ma poi la macchina riprendeva il suo slancio con un teuff-teuff sonoro. Di quando in quando della piccola selvaggina s’alzava fra i cespugli di rose canine e di bacche, semi-sepolte nella neve, e scappava via con velocità fulminea. Erano per lo più lupatti, volpi e martore. Di tratto in tratto però qualche schiera di grossi cigni, emigranti verso il sud, passavano fischiando, producendo un rumore strano colle loro ali piuttosto deboli per sorreggere dei corpacci pesanti una trentina ed anche più di libbre. Verso il mezzodì il treno lasciava finalmente la grande foresta e si slanciava attraverso ad una sconfinata pianura tutta bianca e gelata la quale proiettava, verso le nubi gravide di neve, una luce intensissima, acciecante: era l’ice-blink. Il canadese stava per dar ordine a Dik di arrestare l’automobile per preparare il pranzo, quando degli ululati si fecero udire verso il margine della foresta che avevano appena lasciata. — Toh!... — esclamò lo studente. — Ancora i lupi!... — In caccia, — rispose il canadese, il quale tendeva gli orecchi. — Di chi? — Ma!... Forse di qualche caribou o di qualche altro grosso animale. Se si trattasse d’un piccolo capo di selvaggina non urlerebbero tanto. Dik, fermate!... — L’automobile slittò per una ventina di metri, poi si arrestò. Gli ululati dei lupi continuavano verso la foresta. A giudicarlo dalle urla non doveva trattarsi d’un grosso branco. Il signor di Montcalm, ritto sul sedile, col mauser in mano, osservava attentamente, pronto a far fuoco. Ad un tratto un grosso animale che rassomigliava ad un grande cervo, assai più alto di quelli comuni, fornito di lunghe corna ramose e colla pelliccia bruno-rossastra, si slanciò fuori dalla foresta, filando velocemente verso la vasta pianura. Sette od otto grossi lupi grigi gli stavano alle calcagna, stringendolo da presso. Un colpo di fuoco risuonò. L’animale fece un gran salto, rizzandosi poscia sulle zampe deretane e scuotendo disperatamente la testa, poi si abbattè. I lupi, sorpresi da quella detonazione e da quella inaspettata caduta, si erano fermati bruscamente, non osando scagliarsi su quel corpo che si dibatteva ancora fra le ultime convulsioni dell’agonia. D’altronde il treno aveva ripresa la corsa e si dirigeva verso il margine della foresta. — A voi ora, Walter, — aveva detto il canadese, la cui arma fumava ancora. — Sbarazzatemi da quei pochi predoni. — Sei colpi rimbombarono uno dietro l’altro e cinque lupi caddero in mezzo alla neve per non più rialzarsi. Solamente l’ultimo, sfuggito miracolosamente alla sesta fucilata, potè rifugiarsi nella vicina foresta. — Diavolo d’uomo!... — esclamò il canadese, guardando con ammirazione lo studente. — La Compagnia delle pelliccie della baia d’Hudson avrebbe fatto con voi un buon acquisto. Voi sparate meglio dei più vecchi trappeurs dell’alto Canadà, mio caro. — Lo credete? — chiese Walter, ridendo. — Rimpiango fin d’ora gli orsi bianchi che incontreremo sul nostro cammino. — Mi pare però, signor di Montcalm, che anche voi non scherziate quando vi appoggiate il fucile alla spalla. Avete fulminata quella povera bestia con una precisione matematica, come avrebbe detto il mio vecchio maestro di tiro a segno, quell’ottimo John Cardik. — Ah!... Perchè s’insegna anche a sparare all’Università di Cambridge? Poveri studi!... — Ma si diventa uomini. — Eh, lo vedo, — disse il canadese. — Poco pane della scienza ed invece molto sport. — L’automobile era giunto presso il wapiti. La povera bestia era stata colpita presso l’occhio sinistro e la palla umanitaria — come viene chiamata la pallottola del mauser — gli aveva attraversato il cervello. — Che cosa ne faremo di tanta carne? — chiese lo studente. — È un cervo splendido. Mai ne ho veduto uno di così grosso. — Quelli del Canadà superano per statura e peso tutti gli altri, disse il canadese. — Carichiamolo sulla vettura di rimorchio e poi penseremo a farlo a pezzi e gelarlo. I viveri non sono mai troppi per la gente che va al Polo. — Infatti mi hanno detto che la maggior parte degli esploratori polari sono morti di fame. — Purtroppo, — rispose il canadese. Issarono, non senza grandi sforzi, il wapiti sul carrozzone, poi l’automobile riprese la corsa attraverso la sconfinata pianura bianca. Il freddo era sempre intensissimo, malgrado che il sole, molto pallido a dire il vero, si fosse aperto un varco fra le nuvole sempre gravide di neve. Sopra l’automobile sfilavano, di quando in quando, lunghissime file di volatili diretti verso il sud, in cerca d’un clima più mite. Erano corvi di mare, oche selvatiche, anitre e stormi immensi di gru. Doveva fare un bel freddo sulla baia di Hudson. — Essi scappano e noi invece saliamo verso il nord, — disse lo studente, il quale si era provato a sparare qualche colpo senza buon successo però, data la grande altezza. — Se incontrate quel caro yankee ditegli che siamo già vicini al Polo. A proposito, che sia già partito o che stia ancora sospirando sotto le finestre di miss Ellen? — Suppongo che sia già in viaggio, — rispose il canadese. — Che lo incontriamo in qualche luogo? — Forse nelle vicinanze del Polo, se entrambi riusciremo a giungervi. Come vi ho detto mi si disse che invece di seguire le coste occidentali della grande baia si sarebbe tenuto verso quelle orientali per raggiungere al più presto la Groenlandia, terra che io invece non conto affatto di toccare. Noi saliremo direttamente fino alla terra di Grant, passando sempre attraverso le isole. — Vi spiacerebbe incontrarlo al Polo? — Preferirei non vederlo, mio caro Walter. Già io non gli presterei nessuna assistenza e lui farebbe certamente altrettanto, anche se ci trovasse morenti di fame. — Eh, da quei yankee tutto si può attendere. — Signore, — disse in quel momento lo chaffeur. — Siamo già in vista della baia. — Così presto!... Sento come il freddo aumenta rapidamente. Gli ice-bergs fanno sentire la loro influenza. — Si era alzato e proteggendosi gli occhi con ambe le mani, per vincere i bagliori acciecanti del sole riflettentisi sulla bianca pianura, aveva spinti gli sguardi verso il settentrione. Una linea azzurro-cupa spiccava vivamente sul luminoso orizzonte, cosparso di grossi punti bianchi. — È la baia coi suoi quasi eterni ghiacci galleggianti, — disse. — Se qualche accidente non interrompe la nostra corsa, faremo presto a raggiungere il Polo. Speriamo che i canali delle terre boreali siano tutti gelati e tutto andrà allora bene. — Una grande bella baia, è vero signor di Montcalm? — chiese Walter. — Sarebbe anzi stato meglio chiamarla mare di Hudson, poichè è un vero mare. È vero che il suo scopritore non aveva avuto il tempo di constatarne la vastità. — Perchè naufragò forse? — Peggio che peggio, amico. La sua fine fu tragica e forse terribilmente tragica. Era un gran bravo navigatore quel vostro compatriotta che si era già distinto in altre navigazioni polari nei pressi dello Spitzberg e che era salito in grande fama per le sue osservazioni idrografiche e magnetiche, fra le altre quella sull’inclinazione dell’ago magnetico. Nel 1610, aiutato da negozianti, armata una nave, salpava per queste regioni, animato dalla speranza di poter trovare il famoso passaggio del nord-ovest, scoperto invece più di due secoli e mezzo dopo da Mac-Clure. — Che navi avevano allora quegli audaci naviganti? — Dei miserabili navigli di cento o centocinquanta tonnellate e niente di più. — Continuate, signor Gastone. Le scoperte polari mi hanno sempre interessato. — Più fortunato di tanti altri, Hudson raggiunge felicemente l’America, tocca l’estremità nord-ovest del Labrador, scopre il gran fiume che oggidì porta il suo nome, ed avanzando nel canale intravvisto cento dieci anni prima da Cortereal, scopre la grande baia che ci sta dinnanzi. Ma lì, su quelle acque, sventure inaudite piombano sulla spedizione. I ghiacci imprigionano la sua nave nella baia di S. Michele, impedendo il ritorno. La fame non tarda a farsi sentire tremenda, poichè le provviste portate erano state tutt’altro che abbondanti. Per qualche mese si nutrono di pernici bianche, di oche, di anitre e di cigni, poi, emigrati quei volatili, si vedono costretti a nutrirsi di licheni. Sul principio del Giugno dell’anno seguente lo sgelo permette finalmente ai naviganti di rimettersi alla vela. Avevano preso molto pesce durante la primavera, ma ben poco ne era rimasto. Hudson divide fra l’equipaggio diventatogli ostilissimo mercè le arti infami del segretario Green, che pure aveva ricevuto tanti benefici dallo sfortunato esploratore, e tenta di riguadagnare l’Inghilterra. I suoi sforzi non sono condivisi dai suoi marinai, e la cospirazione, da lunga mano preparata dal Green, il 21 Giugno scoppia. Il disgraziato Hudson viene calato in una scialuppa insieme a tutti gli ammalati che si trovavano a bordo, con viveri per qualche giorno, un fucile e poche munizioni, ed abbandonato fra i ghiacci galleggianti. — Ah!... Canaglie!... — esclamo lo studente. — E che cosa accadde di quei disgraziati? — Quello che doveva fatalmente accadere: morirono tutti di fame e di freddo, almeno così si suppone, poichè nè di Hudson nè dei compagni che aveva nella scialuppa più mai si ebbero notizie. — E quel furfante di Green? — Non godette a lungo il frutto della sua vigliacca azione, che privava la marina inglese d’uno dei suoi più grandi esploratori. Venuto a questione con una tribù di esquimesi del Labrador, fu massacrato e probabilmente anche mangiato. La nave, dopo una infinità di disgrazie ed i suoi ultimi marinai, costretti a cibarsi di candele, di pezzi di pelle bollita e di ossa d’animali triturate per formare una specie di pane, giungevano finalmente alla baia di Galway, nell’Irlanda. — Avrebbero dovuto appiccarli tutti!... — Mentre pare che così non sia avvenuto, — rispose il canadese. — Ecco la baia: vediamo se possiamo fucilare delle foche o qualche morsa. — CAPITOLO X. Una caccia emozionante. La baia di Hudson è una delle più vaste che si trovano nell’America settentrionale e non ha che una sola rivale: la baia di Baffin che le è però inferiore per vastità. Sia l’una che l’altra potrebbero chiamarsi mari, poichè prima di attraversarle occorrono parecchi giorni di navigazione, anche pei grandi pericoli che presentano, essendo sempre ingombre di grandi banchi di ghiaccio e di montagne galleggianti che le correnti polari trascinano verso il sud. Quella d’Hudson si trova al di qua del circolo polare artico, poichè comincia all’isola di Southampton e finisce colla baia di James la quale si caccia, come un gigantesco cuneo, entro l’alto Canadà, eppure il suo clima è rigidissimo quasi quanto quello della baia di Baffin che si sviluppa invece al di là del circolo polare e sulle sue coste non possono sorgere città. Non vi sono che qua e là dei piccoli forti appartenenti alla Compagnia delle pelliccie e che per sei od anche otto mesi dell’anno si trovano quasi sepolti fra la neve. Vi s’incontrano invece numerose tribù di esquimesi, specialmente lungo le coste del Labrador, tribù che non hanno sedi fisse, quantunque invece di vivere entro capanne di ghiaccio come i loro confratelli del settentrione, si fabbrichino delle casupole di pietre ammonticchiate e rinsaldate con ammassi di torba. Non sono però nè leali, nè ospitali come i loro compatriotti dei ghiacci eterni. La vicinanza della civiltà li ha corrotti e sono diventati dei ladri temibili, ed hanno perduto completamente quel po’ di buono che avevano prima. Nel punto ove l’automobile era giunto, la costa si profilava frastagliata capricciosamente ed assolutamente deserta. Qualche tribù di esquimesi doveva però aver trascorso l’estate in quei luoghi, poichè esistevano ancora degli avanzi di casupole, circondati da ammassi di ossami appartenenti a foche ed a morse. La immensa baia non era ancora interamente gelata, quantunque lungo le sue coste si fossero ormai fissati i primi banchi di ghiaccio. Al largo fluttuavano pesantemente, dondolandosi, molti ice-bergs, alcuni dei quali di proporzioni gigantesche, seguìti da un numero infinito di palks e di streams, ossia piccoli banchi circolari od allungati staccatisi certamente dai grandi palks delle baie e dei golfi situati al di là del circolo artico. — Si direbbe che siamo già giunti al Polo, — disse Walter, il quale seguiva cogli sguardi gli immensi stormi di uccelli marini volteggianti sopra quei ghiacci. — Mentre non siamo che al principio del viaggio, rispose il canadese, il quale invece esaminava la costa occidentale, per rendersi conto dello stato della via che dovevano percorrere. — E non si possono vedere quei brutti musi di esquimesi? — Oh, ne incontreremo certamente. A voi, guardate laggiù: non vi pare di scorgere delle sottili colonne di fumo? — Che vi sia qualche accampamento? — Può darsi. — Se andassimo a visitare quei bevitori d’olio? — Si può salire quella costa, Dik? — chiese il signor di Montcalm. Il meccanico che era già balzato a terra, non aveva risposto. Curvo innanzi, colle mani tese dinanzi agli occhi, pareva che osservasse attentamente qualche cosa navigante al largo. — Mi avete capito, Dik? — chiese il canadese. Ancora nessuna risposta. — Fulmini di Giove!... Che sia diventato improvvisamente sordo!... — esclamò lo studente. — Ohè, chaffeur, si può salire quella costa colla nostra macchina? — Questa volta il baleniere si scosse e dalle sue labbra contratte uscì un grido: — Scandaglia la boete!... — Lo studente l’aveva guardato, domandandosi se per caso il meccanico fosse improvvisamente impazzito. Il canadese invece aveva fatto un salto innanzi, esclamando: — Il grido della vedetta dei balenieri!... Dov’è, Dik!... — Guardatela.... laggiù.... fra quei due ice-bergs!... Ah!... Se avessi una scialuppa ed il mio rampone!... — Signor Gastone, — disse lo studente. — Volete dirmi se sta per sprofondarsi la baia d’Hudson? — Non sprofonda affatto, anzi spinge a galla uno dei suoi più giganteschi abitatori. — Eccola la briccona!... Che colossale balena!... Deve essere una franca, è vero, Dik? — Sì, signore, — rispose l’ex-pescatore di cetacei, agitando in alto il braccio destro e stringendo le dita come se cercasse di afferrare qualche rampone. — Fulmini di Giove!... — esclamò lo studente. — Ero dunque io cieco poco fa per non vedere un simile mostro? — A soli cinquecento metri dalla riva, fra due gigantesche montagne di ghiaccio, era bruscamente comparsa a galla una enorme massa nera che aveva l’aspetto d’un fuso di metallo, poichè percossa dal sole luccicava come se fosse d’acciaio. All’estremità d’uno dei due capi, delle nuvole di vapore sfuggivano ad intervalli, producendo un rumore strano, allargandosi in forma d’un V. Era una magnifica balena franca, una delle pochissime sfuggite alla ferocia dei balenieri americani ed inglesi, i quali ormai le hanno quasi completamente distrutte. Quel gigante dei mari, il più grosso della specie, doveva misurare per lo meno una ventina di metri in lunghezza e pesare intorno alle settanta tonnellate, il peso di trecento grossi buoi legati insieme. — Come mai si trova così presso la costa? — chiese il canadese al marinaio. — Cercherà forse qualche posto adatto per deporre il balenottero, poichè quella è una femmina e non un maschio. — Il suo piccino? — chiese lo studente. — Dico piccino per modo di dire poichè suppongo che i neonati di questi bestioni debbono nascere ben grossi. — Come un vitello, — rispose Dik, — ed ingrossa così rapidamente che dopo poche settimane misura già, quel piccino, sette ed anche otto metri di lunghezza. — Che ottime balie devono essere le balene. — E che madri affettuose, — aggiunse il canadese. — Per difendere il loro piccino non esitano a sacrificarsi, è vero, Dik? — Sì, signore. Difendono la loro prole con un accanimento feroce, e per salvarlo si espongono ai colpi dei fiocinieri, lasciandovi quasi sempre la pelle. — Ma che cosa fa quella bestiona? — chiese Walter. — Si tuffa e risale subito spalancando le mascelle. Che abbia sete? — Si guadagna la sua zuppa, — rispose Dik. — Deve aver incontrato un banco di quei granchiolini minuscoli che noi chiamiamo bolte.... E gli zoologi: clios borealis, aggiunse il canadese. — E sta inghiottendoli in grandi masse, continuò l’ex-baleniere. — E come fa? — Spalanca le mascelle, empisce la bocca enorme d’acqua, serra i fanoni che funzionano come una rete, si sbarazza del liquido per mezzo degli sfiatatoi e manda giù il pasto, attraverso una gola non più larga del mio pugno. — È allora tutt’altro che una terribile gastronoma come i capidogli e come i pesci-cani, — disse il canadese. — Adagio, signore, rispose il baleniere. — A questi enormi mammiferi sono necessari, in un solo giorno, non meno di dieci o dodicimila chilogrammi di piccoli crostacei e d’altre materie quasi gelatinose chiamate cibo della balena. — Che zuppa!... — esclamò lo studente. — Dik, — disse in quel momento il canadese. — Guardate un po’!... Non vi sembra molto inquieta quella balena? — Era appunto quello che stavo osservando ora, — spose lo chaffeur. Infatti l’enorme cetaceo, dopo essersi immerso tre o quattro volte, a non molta profondità di certo, poichè si trovava troppo vicino alla sponda, si era messa a spiccare dei veri salti, slanciandosi quasi a metà fuori dall’acqua e mandando nel medesimo tempo delle formidabili note che avevano qualche cosa di metallico, poichè pareva che ripercuotessero entro un enorme tubo di bronzo. La sua possente coda sferzava rabbiosamente l’acqua, sollevando delle gigantesche ondate le quali si rovesciavano verso la costa con grande fragore, balzando e rimbalzando. — Che sia stata ferita da qualche colpo di rampone? — chiese il canadese. L’ex-baleniere scosse la testa, poi disse: — Fra le onde che solleva si vedrebbe qualche grossa macchia di sangue. Che i delfini gladiatori le abbiano invece divorata la lingua? Oh!... Ve ne sono molti di quei ferocissimi pesci nei mari artici. — Come, dei delfini oserebbero assalire un tale colosso!... — esclamò lo studente, con stupore. — Sono bestioni lunghi sette ed anche otto metri e con certi denti che non vorrei provare. Nutrono un vero odio contro le balene, e quando si trovano in buon numero non esitano ad assalirle e con una ferocia inaudita. Aspettano che uno di quei disgraziati cetacei spalanchi l’enorme bocca e subito vi si precipitano dentro, mentre uno di loro si getta attraverso i fanoni per impedire che le mascelle si rinchiudano completamente. Divorata la lingua, se ne vanno tranquilli e ben pasciuti. — Ah!... Birbanti!... E la povera mutilata poi muore? — Sì, e fra dolori spaventevoli, — rispose lo chaffeur. — Questo cetaceo potrebbe invece essere tormentato da qualche cyamo. — Che cos’è? — domandò il canadese. — Un crostaceo carnivoro che gli rode la cotenna e gli entra nel corpo intaccando la carne viva. Si dice che quel piccolo mostro cagioni a quei disgraziati giganti tali dolori da farli impazzire. — Povere balene!... — esclamò lo studente. — E dopo hanno gli uomini che le perseguitano senza posa, e vero, Dik? — L’ex-baleniere invece di rispondere tese un braccio verso la costa di ponente, dicendo: — Li vedete? — Chi? — domandarono ad una voce il canadese e lo studente. — Tutti quei punti neri che si dirigono verso la balena. — È vero, — disse Gastone. — Che cosa possono essere? — Potrei ingannarmi, tuttavia scommetterei il mio vecchio rampone contro una carica di tabacco che quelli sono kayak esquimesi. Guardate, escono appunto dalla piccola cala dove poco fa voi avete osservate delle colonne di fumo. — Che corrano all’attacco del gigante dei mari? — chiese lo studente. — Certo, signore. Sono fortune che toccano di rado a quei poveri diavoli sempre in lotta colla fame. Che scorpacciate di lardo che faranno se riusciranno a catturarla!... E che bevute d’olio!... — Con quei piccoli canotti di pelle di foca o di morsa oserebbero tanto? — domandò il canadese. — Vedrete all’opera quegli audacissimi pescatori. Sono in buon numero: una cinquantina per lo meno. Ah!... Godremo una caccia emozionantissima. Che peccato non aver qui il mio rampone e.... — Dik si era bruscamente interrotto, mentre un urlo spaventevole aveva lacerata l’aria: l’urlo della balena. — Si è arenata!... — esclamò quasi subito lo chaffeur. — Che festa per gli esquimesi!... — La sua voce si perdette fra i clamori assordanti che uscivano dalla gola del gigante dei mari. — Sì, sì, si è arenata!... — gridarono a loro volta il canadese e lo studente. Era vero!... Il colosso, reso certamente pazzo da atroci dolori causatigli o dalla perdita della lingua o dai morsi del vorace crostaceo, era andata a cadere, dopo un ultimo e più disperato slancio, su un banco subacqueo che non aveva potuto scorgere, ed era rimasta come ancorata, con tre quarti del corpo allo scoperto. Solamente la possente coda era rimasta immersa, ma non poteva esserle ormai di nessuna utilità, anzi le era di danno, perchè ad ogni colpo delle due gigantesche pinne il corpaccio si insabbiava sempre più. Quel banco non distava che duecento cinquanta o trecento metri dal luogo ove si era fermata l’automobile, quindi nulla poteva sfuggire, della lotta che stava per cominciare, ai tre viaggiatori. Gli esquimesi, accortisi che la colossale preda non poteva ormai più evitare il loro attacco, affrettavano la corsa, mandando clamori assordanti. Le loro leggierissime scialuppe, lunghe dai sei agli otto metri, coll’ossatura di fanoni di balena solidamente legati fra di loro con nervi di renna e di volpi ed il resto di pelli ben cucite e rese impermeabili, scivolavano sulle acque con fantastica rapidità sotto i colpi dei remi a doppia pala. I piccoli uomini delle terre gelate erano coperti in modo da sembrare tanti orsi bianchi, avendo perfino le teste riparate da ampi cappucci villosi e pur continuando ad imprimere ai loro kayaks dei grandi slanci, non cessavano di urlare. Una cosa aveva subito colpito il canadese: cioè che ogni canotto portava a poppa, a fior d’acqua, un paio di grosse vesciche ben gonfie d’aria. — Che cosa ne faranno, Dik, di quei palloni? — chiese allo chaffeur. — Quelle vesciche sono legate alle fiocine e servono ad impedire alla balena di affondare. In questo caso gli esquimesi non ne avranno bisogno, poichè questo disgraziato cetaceo non lascerà più il suo banco se non a pezzi. Ecco che l’attacco comincia. — E noi assisteremo a questa caccia senza fare nulla? — chiese lo studente. — Cerchiamo di affrettare, a colpi di mauser, l’agonia della balena. Le risparmieremo altri dolori. — Così avremo anche noi il diritto di reclamare qualche pezzo di quel colosso, — disse il canadese. — Osereste mangiare di quel lardo, signor di Montcalm? — Oh no, quello lo lasceremo agli esquimesi e faremo loro un gran piacere, essendo ritenuto un pezzo scelto. Domanderemo invece un po’ di lingua per trarne dell’olio che si dice sia ottimo per friggere il pesce, quando però è fresco, è vero, Dik? — Buonissimo, signore. Attenzione: ecco l’attacco!... — I cinquanta kayaks si erano rapidamente divisi in due ranghi, per assalire il gigante a tribordo ed a babordo, presso la testa, ed evitare i terribili colpi di coda che si succedevano senza interruzione, sconvolgendo l’acqua della baia per una distanza notevolissima. La balena si era già accorta della presenza dei nemici e mandava dei clamori sempre più formidabili. Nel medesimo tempo faceva degli sforzi disperati per sottrarsi dal mal passo ove si trovava, imprimendo al suo corpaccio dei sussulti formidabili che facevano vibrare la sua grassa cotenna come se fosse una massa gelatinosa. — Mirate presso gli occhi!... — disse il canadese allo studente. — Sprechereste inutilmente le palle se vi provaste a tirare contro quella botte di grasso. — Va bene, — rispose Walter. Un momento dopo, quando già gli esquimesi cominciavano a stringere le linee e ad impugnare le loro fiocine, alcune di buon acciaio ed altre di osso ben lavorato ed accuratamente affilato, parecchi colpi di fuoco rimbombavano sulla spiaggia. I due viaggiatori vuotavano rapidamente il serbatoio dei loro mauser, tempestando l’enorme testa del cetaceo. Gli esquimesi, udendo quegli spari, dapprima ristettero, poi avendo compreso che gli uomini bianchi non volevano altro che aiutarli nella difficile impresa, coprirono i fianchi del mostro di fiocine. Quantunque i loro canotti danzassero come turaccioli sulle creste delle onde sollevate dai potenti colpi di coda, lanciavano i loro dardi con una precisione meravigliosa. Ben presto i due fianchi del mostro apparvero irti di lancie infisse abbastanza profondamente nello strato oleoso. Larghi getti di sangue colavano in mare arrossando le acque a parecchi metri di distanza. Quello che sopratutto produceva una profonda impressione erano le urla spaventevoli che uscivano da quella gran bocca, le cui mascelle s’alzavano e si rinchiudevano convulsivamente. Ad ogni clamore del povero animale rispondevano le urla selvagge dei vittoriosi pescatori e gli spari dei mauser. Anche Dik, non avendo potuto avere una fiocina, poichè i canotti non osavano accostarsi troppo alla riva battuta da ondate irte di spuma sanguigna, si era impadronito della grossa carabina a due colpi e bruciava, con una specie di gioia feroce, le sue cartucce, scegliendo i punti più sensibili del cetaceo. Ben presto le note metalliche del mostro immane cominciarono ad affievolirsi. Le sue forze scemavano e la vita se ne andava rapidamente. La coda si alzava ormai pesantemente, ad intervalli, e non più colla suprema energia di prima. L’agonia cominciava e la morte si avanzava frettolosamente. Nemmeno quell’enorme massa l’aveva vinta o fatta indietreggiare. — Ecco la fine, — disse Dik, appoggiandosi alla carabina ancora fumante. — Guardate gli sfiatatoi. — Due fitte colonne di vapore rossastro, cariche di sangue, si erano alzate sopra la testa del gigante dei mari. Annunciavano la morte. Gli esquimesi, sapendo ormai che la gigantesca preda non poteva più sopravvivere che pochi minuti a quella tempesta di fiocine e di palle, si erano allontanati di tre o quattrocento passi per trovare una zona di mare tranquillo; poi si erano diretti rapidamente verso la costa, sbarcando e portando a terra i loro leggierissimi canotti. Parevano premurosi d’incontrarsi cogli uomini bianchi che li avevano così validamente aiutati in quella emozionante e non facile impresa. — Andiamo loro incontro, — disse lo studente. — Sono curioso di vedere da vicino questi abitanti delle nevi e dei ghiacci eterni. — Il canadese, con un certo sguardo imperioso, lo fermò. — Rimaniamo presso il nostro treno, — disse poi, — e tenete il serbatoio del vostro mauser pieno. Non fidiamoci: questi non sono gli esquimesi del settentrione. Che cosa dite voi, Dik? — Il meccanico, invece di rispondere, si gettò ad armacollo la grossa carabina, esclamando: — Karalit!... Che fortunato incontro!... Non mi sarei mai immaginato di trovarlo qui!... — Gli esquimesi non erano che a pochi passi. Il loro capo, un omiciattolo non più alto d’un metro e mezzo, tondo come una botte, tutto infagottato in una pelle d’orso bianco e le gambe cacciate dentro un paio di monumentali stivali di pelle di foca, guidava la colonna brandendo fieramente un vecchio fucile a cui mancava il cane e che doveva essere probabilmente un distintivo della sua alta carica. Dik gli si era mosso sollecitamente incontro, dicendogli: — Non mi si conosce più, dunque? Eppure un giorno io ho salvato te e anche il tuo kayak alla foce del Wenisk. Te ne ricordi, Karalit? — Il capo rimase qualche momento immobile guardando attentamente l’ex-baleniere, poi mandò un grido e gli si avventò quasi addosso strofinando energicamente il proprio naso contro quello dell’uomo bianco. — Mio fratello il pescatore di balene, — disse poi, in un pessimo inglese. — Sì, lo riconosco e sono ben lieto di rivederlo, quantunque tre volte i ghiacci si siano sciolti. Che cosa fa qui mio fratello il baleniere? — Te lo dirò più tardi. — Chi sono quelli? — chiese indicando il canadese e lo studente, i quali assistevano al colloquio frenando a gran stento le risa. — Sono miei amici, grandi cacciatori di balene. — E quella bestia che brontola come un orso bianco? — Una slitta o qualche cosa di simile. — Piena d’animali feroci? — Ma no!... — E perchè brontola così? Non conterrà qualche spirito malefico? — Spiegarti il perchè sarebbe una faccenda troppo lunga. È una slitta che gli uomini bianchi hanno inventata e che corre meglio di tutti i cani della tua tribù. — L’esquimese lo guardò con una certa diffidenza, poi disse: — Vedremo. Se sarà vero, nessuno mi leverà dalla testa che dentro quella bestia vi siano degli spiriti maligni. — Mio fratello Karalit avrebbe perduta la sua fiducia verso suo fratello bianco? — No, perchè non mi sono mai scordato che ti devo la vita. — Allora tutto andrà bene. Dove si trova il tuo villaggio? — Laggiù, dietro quella collina. — Vuoi condurci? — La mia capanna è aperta a te ed ai tuoi amici, ma non a quelle bestie. — Non hanno bisogno della tua ospitalità. Quando sezionerai la balena? — Domani, quando le ondate si saranno calmate. — Allora precedici. — Il capo fece ai suoi uomini un segno e la colonna si mise in marcia verso il villaggio. Dik, il canadese e lo studente erano risaliti sull’automobile la quale pareva impaziente di riprendere lo slancio. — Devo farla correre? — chiese Dik, riprendendo il suo posto dietro il volante. — No, no, — rispose il canadese. — Non spaventiamo questi uomini primitivi. — L’automobile si mise subito in moto, procedendo al passo e lanciando un urlo poco dissimile da quello della balena. Gli esquimesi si erano arrestati di colpo, presi da un improvviso terrore, poi si erano slanciati a corsa disperata attraverso la pianura nevosa, in direzione del loro villaggio. Il capo, non importa dirlo, era stato il primo a far lavorare le sue gambe. — Non vi avevo detto di far risuonare la sirena? — disse il canadese. — La loro paura passerà presto, signore, rispose l’ex-baleniere, con un sorriso strano. — Lasciate fare a me. — E lanciò l’automobile dietro ai fuggiaschi, raggiungendoli dinanzi al loro villaggio. CAPITOLO XI. Il traditore all’opera. Gli esquimesi, che gli antichi naviganti norvegesi, che furono i primi a vederli intorno al 1000, chiamarono Skrellinger, ma che si fanno chiamare nella loro lingua invece Innuit, che vuol dire «uomini», quantunque non siano molto numerosi, occupano tutte le coste dell’America settentrionale, le isole polari, la Groenlandia e perfino quelle dello stretto di Behring. Anzi si trovano delle loro colonie perfino sulle coste asiatiche, verso l’oceano polare artico. Formano delle piccole tribù, disperse per lo più a grandissime distanze le une dalle altre, eppure tutte parlanti, salvo poche varianti, la medesima lingua. Da dove proviene questa razza vivente sotto un clima così infame che rende quelle regioni dei ghiacci eterni appena abitabili agli uomini più robusti? Dapprima si credette di ritrovare in quei piccoli uomini tutti i caratteri della razza mongolica, poi quella degl’indiani dell’America settentrionale, ma fino ad oggi il difficile problema non è stato ancora risolto. Il fatto sta che hanno degli uni e degli altri, e cosa ancor più straordinaria, hanno anche delle strane rassomiglianze coi baschi, che furono i primi pescatori di balene che si spinsero, in epoche lontane, verso i mari nordici, forse ancora prima dei norvegesi, dei danesi e degli islandesi. Può darsi che siano usciti dalla fusione di tutte e tre. La loro statura sorpassa di rado il metro e mezzo, nondimeno taluni individui superano questa misura. Hanno la faccia larga, appiattita, con mascelle massiccie, zigomi sporgenti, occhi neri, naso stretto e corto, i capelli neri, grossolani e poco folti, e la pelle, sotto lo strato d’olio e di sporcizia, giallo-chiara con sfumature ramigne. Sono robustissimi ed hanno invece mani e piedi piccolissimi. Che un tempo la loro razza avesse abitato regioni più miti, non vi ha dubbio, perchè sono stati trovati dei crani esquimesi perfino nei pressi delle cascate del Niagara. La ferocia delle pelli-rosse, specialmente delle bellicose tribù canadesi, deve averli a poco a poco scacciati verso quelle terre delle notti quasi eterne e dei grandi freddi, e la pare che si siano perfettamente adattati, poichè trasportati in climi più miti ed in paesi civili soffrono al punto di morire di nostalgia. Tutti sono grandi cacciatori e grandi pescatori e vivono per lo più del mare e dei suoi animali. Infatti la loro alimentazione si può dire che è affatto animale e divorano che è uno spavento a vederli. Come fare diversamente d’altronde per mantenere il calore organico in quei climi così terribilmente freddi? Dotati d’un coraggio meraviglioso, osano affrontare i giganteschi orsi bianchi, assalendoli prima a colpi di freccia e poi colle loro lancie dalla punta d’avorio. Sul mare poi sono veramente straordinari. Coi loro leggerissimi canotti resi insommergibili da vesciche e così ben chiusi che l’acqua non può entrare da nessuna parte, si allontanano dalla costa, per molte centinaia di chilometri talvolta, sfidando le tempeste, i ghiacci, i nebbioni intensi, e non ritornano senza qualche foca, qualche morsa, o alla peggio con qualche lontra, se non con un grosso narvalo. È la fame, l’eterna fame che li perseguita senza posa e che di quando in quando distrugge delle intere tribù, quella che li ha resi così coraggiosi e così sprezzanti della vita. Due sorta di abitazioni usano gli esquimesi, secondo che servono per l’estate o per l’inverno. Durante la breve estate si accontentano di semplici tende; d’inverno invece si costruiscono delle capanne che sono una specie di tumuli molto bassi, a facce tronche, costruiti con zolle e pietre e coperte da un tetto piatto, sorretto da grandi ossa di balena. L’ingresso, stretto assai, mette in un corridoio a declivio, che poi si rialza e che finisce in un’unica stanza la quale serve spesso d’asilo a parecchie famiglie. Una lampada, che è una specie di scodella un po’ ovale, di pietra, con un grosso lucignolo immerso nel puzzolente olio di foca, le illumina e le riscalda così bene che spesso gli abitanti della catapecchia si svestono mentre al di fuori il termometro segna 50° sotto zero. Quelli che si trovano più al nord, usano invece la capanna fabbricata completamente di blocchi di ghiaccio. Comunque sia, le loro abitazioni sono dei veri porcili, dove dormono alla rinfusa uomini, donne, fanciulli di varie famiglie insieme ai cani, ai pesci in putrefazione, agli avanzi di foca. L’odore che regna dentro quei covi è tale, che un europeo si sente asfissiare: gli esquimesi invece ci si trovano benissimo. A quante migliaia ammontano quei piccoli uomini dell’estremo nord? È impossibile saperlo poichè si trovano delle tribù sperdute a tale distanza dalle terre note da non poter farsene un’idea. Ne furono scoperte talune perfino al di là dell’80° e può darsi che altre se ne trovino anche nelle vicinanze del Polo. L’automobile, urlando come una belva in furore, in pochi istanti aveva sorpassati gli esquimesi che scappavano da tutte le parti mandando urla di terrore, e dopo d’aver girata la collina si era precipitata in mezzo ad una cinquantina di capanne allineate di fronte alla spiaggia, provocando fra gli abitanti uno scompiglio indescrivibile. Udendo quelle urla e vedendo quel mostro sconosciuto rantolante e sbuffante, i vecchi che erano rimasti a casa, le donne, i fanciulli si erano slanciati fuori dalle catapecchie disperdendosi in tutte le direzioni. Un uomo solo, che si avvolgeva in una gigantesca pelle d’orso bianco, la cui testa gli serviva da cappuccio nascondendogli quasi interamente il viso, era rimasto coraggiosamente fermo, minacciando l’automobile con una specie d’arpione a doppia punta e con un gruppo di code di lupo che agitava disperatamente colla sinistra. Era l’angekok, ossia lo stregone della tribù. — Ecco un personaggio importantissimo che noi dovremo trattare coi guanti, — disse il canadese. — Dik, andate a portare, come primo regalo, a quell’imbroglione, una bottiglia di gin. Con un paio di sorsate si calmerà. — Mentre lo chaffeur si recava nel carrozzone, l’angekok, preso da un improvviso delirio danzante, si era messo a girare e rigirare intorno al treno, spiccando salti indiavolati e urlando a squarciagola. Scagliava maledizioni contro il mostro rantolante, colla speranza di farlo scappare, oppure manifestava in quel modo la sua sorpresa e la sua gioia? Sarebbe stato difficile saperlo. Quella danza però ottenne un effetto straordinario, poichè gli abitanti delle capanne, che poco prima se l’erano data a gambe, non tardarono a ritornare insieme ai pescatori di balene ed al capo. Il contegno eroico dello stregone doveva averli pienamente rassicurati, tanto più che il mostro misterioso non l’aveva affatto divorato, anzi non si era più mosso e continuava a russare tranquillamente dinanzi alle capanne. Dik frattanto aveva portate due bottiglie invece d’una, e dopo d’averle decapitate con un colpo di coltello per fare più presto, le aveva offerte una al capo e l’altra allo stregone. I due messeri dovevano aver assaggiato altre volte la fortissima bevanda, poichè a rischio di rovinarsi la lingua se le accostarono alla bocca e cominciarono a vuotarle avidamente con un glou-glou rumoroso. — Corpo di Giove e di tutti i suoi fulmini!... — esclamò lo studente, il quale era balzato a terra portando con se il mauser ed una Colt a sei colpi. — Che stomachi!... Si ubriacheranno, se continuano ad alzare il gomito a questo mondo! — Lasciateli fare, — disse il canadese. — Sono imbottiti d’olio ed il gin non avrà facile presa su di loro. — Stregone e capo gareggiano che è una meraviglia. Giù, giù, ancora.... hanno già finito!... Corpo di Giove!... Si direbbe che hanno bevuto un litro di acqua fresca. — I due esquimesi, dopo essersi ben assicurati che non era rimasta più una sola goccia, passarono le bottiglie ben asciutte ai loro sudditi, perchè potessero almeno fiutare l’odore, poi s’accostarono, non senza una certa esitanza, all’automobile. Mio fratello bianco, — disse Karalit, rivolgendosi a Dik, — mi ha grandemente spaventato colla sua brutta bestia. Questa bevuta mi era necessaria. Dovrebbe farmene fare un’altra per rimettermi completamente. — Più tardi, — rispose l’ex-baleniere. — Fa intanto gli onori di casa a me ed ai miei amici. — La colazione deve essere pronta. — Misericordia!... — esclamò Walter. — Che cosa ci offrirà questa botte d’olio? Accettate, signor Gastone? — E perchè no? — rispose il canadese, ridendo. — Che cosa potrà offrirci? Qualcuno dei suoi cani fritto nell’olio di foca? — Si vedrà, Walter. Faremo però bene a portare con noi delle conserve alimentari e qualche bottiglia di Bordeaux. — Me ne incarico io. — Lo studente corse nel carrozzone, empì un canestro di scatole e di biscotti, tirò fuori dalla piccola cantina un paio di bottiglie polverose, richiuse accuratamente la porta colla spranga e colle chiavi, per paura che durante la loro assenza gli esquimesi tentassero un saccheggio in piena regola, e raggiunse il canadese e Dik i quali si erano fermati, insieme al capo ed allo stregone, dinanzi ad una catapecchia un po’ più vasta delle altre, adorna, sulla cima, d’una mezza dozzina di crani di renne e d’alci, infilati in corna di narvali. Dinanzi all’abituro si stendeva, per una mezza dozzina di metri, una specie di galleria che doveva essere ben bassa, formata con pietre e coperta di torba e d’alghe marine. — Dov’è la porta? — chiese lo studente, che aveva compiuto il giro dell’abitazione senza vederne alcuna. — È quel buco che immette nella galleria, — disse il canadese. — Corpo di Giove!... È vero che gli esquimesi sono poco alti, ma non so come facciano ad entrare. — Strisciando come i serpenti. — Dentro quel budello che sembra il tubo d’un pozzo nero? — Non ci tengono gran che alla pulizia, mio caro. — È tutta una fetente pozzanghera dove guazzano avanzi di pesci e d’intestini di foca e di morsa. — Non ci fate caso. — Povere le nostre vesti! — Ci cambieremo più tardi. Orsù, coraggio e spingete prima innanzi il canestro. — Il capo, l’angekok e Dik si erano già cacciati dentro quel budello, aiutandosi colle mani e coi piedi ed inzaccherandosi fino al collo. Lo studente sternutò una mezza dozzina di volte, poi si fece animo e si mise dietro ai talloni di Dik. Appena dentro, credette di morire asfissiato, tanta era la puzza che usciva da quel corridoio; sentendosi spinto innanzi dal canadese che lo seguiva, sgattaiolò il più presto che gli fu possibile fra le strette pareti, colla speranza di poter giungere subito in un posto meglio arieggiato, e si trovò in una stanza circolare abbastanza vasta, illuminata da un foro aperto in alto e difeso da un pezzo di vescica di cavallo marino che bene o male serviva da vetro. La speranza di poter trovare un’aria più respirabile, sfumò subito, poichè la puzza che regnava la dentro era ben più acuta di quella che aveva invasa la galleria. Quello sopratutto che colpì e che prese alla gola, il povero studente, fu un acre odore d’ammoniaca. La catapecchia ne era addirittura appestata in modo spaventevole. — Per tutti i fulmini di Giove!... — esclamò, rialzandosi a fatica. — Ohè, Dik, c’è qualche fabbrica d’ammoniaca qui dentro? Come fate voi a resistere? — Vi abituerete anche voi, — rispose l’ex-baleniere, il quale pareva che non si trovasse troppo a disagio entro quel letamaio. — E da che cosa proviene.... questo profumo, chiamiamolo pure così, se è quello gradito dalle belle esquimese. — Lo chaffeur gl’indicò tre o quattro grossi vasi di pietra porosa, che occupavano un angolo della stanza. — Da quelli, — disse poi. — Sono pieni d’orina. — E che!... Questi porci la conservano per.... — Per conciare i loro stivaloni di mare. — Ed anche le nostre pelli a quanto pare, — disse il canadese, sbucando dal corridoio. — Questo è un vero negozio di profumeria. — Infernale, — aggiunse lo studente, il quale non cessava di sternutare e di fare delle smorfie ridicole. Si erano guardati intorno. Tutto il mobilio si riduceva a grossi rotoli di pelli che alla sera dovevano servire certamente da letti, ed a molti vasi dentro i quali gelavano, immersi nell’olio puzzolente degli anfibi marini, pezzi di foca, di morsa e di narvalo. Tutto il soffitto era coperto di pesci appesi a delle corde fatte di nervetti intrecciati, pesci già corrotti che spandevano un odore più che nauseante, molto gradito però agli esquimesi i quali preferiscono la carne già molto, anzi troppo passata, a quella fresca. Questione di gusti. — Se non crepiamo asfissiati è un vero miracolo, signor Gastone, — disse lo studente. — Dovevamo portarci qualche bottiglia di eliotropio o di ilang-ilang!... Per tutti i fulmini di Giove!... Che razza di polmoni posseggono dunque questi orsi umani? — Si sono abituati, — rispose il canadese. — Ma io non ci riuscirei mai e poi mai. — Nemmeno io, credo. — Eppure quel diavolo di Dik pare che non si trovi troppo male qui dentro. — Era marinaio, mio caro. — Già, me l’ero scordato. — Mentre si scambiavano le loro impressioni, il capo e lo stregone non perdevano il loro tempo. Avevano levate, di sotto un cumulo di pelli di foca, certe scodelle di forma ovale, di pietra ollare malamente scavata, e le avevano deposte nel centro della catapecchia, su una splendida pelliccia d’orso bianco, poi avevano portato quattro o cinque vasi di dimensioni piuttosto enormi, tirando fuori, colle mani, si capisce, poichè l’esquimese ha sempre ignorato l’uso della forchetta, delle teste di foca arrostite prima sulla lampada e poi conservate nell’olio di balena, bocconi degni solamente di essere assaggiati dai grandi personaggi. Poi da un altro vaso trassero un certo intruglio formato di sangue coagulato e di quei tali licheni chiamati zuppa di roccia, altro boccone scelto, quindi un paio d’oche marine conservate nel grasso di balena dopo essere state arrostite al fuoco della fumosa lampada, che per gli esquimesi serve da stufa e da fornello. — Dio degli dei!... — esclamò lo studente, cacciandosi le mani nei capelli come un disperato. — Ed io dovrò mandare giù queste porcherie!... Fulmine di tutti i fulmini di Giove, del cielo e della terra!... Io scappo!... — Se il canadese non fosse stato pronto ad afferrarlo per un lembo della sua villosa casacca, il campione del salto di Cambridge avrebbe certamente dato un saggio dell’agilità e della robustezza dei suoi garretti, filando come un’automobile attraverso la galleria. — Avete dunque dimenticato che abbiamo portato un canestro contenente qualche cosa di meglio di queste porcherie, tollerabili solo, sono il primo a convenirne, dagli stomachi degli esquimesi? Vi assicuro che nemmeno io assaggerò questi manicaretti polari, debbano o no offendersene i nostri cari orsi del nord. — Corpo di Giove!... Mi ero scordata la nostra colazione. — Mettetela fuori dunque, e vedremo se il capo ed il suo compare faranno più onore alle nostre conserve alimentari o alle loro teste di foca. — Ma si soffoca qui dentro, signor di Montcalm. Io puzzo già come un pozzo nero. — Ce ne andremo al più presto, Walter. Credo che anche Dik cominci ad averne abbastanza. — È vero, signore, — rispose lo chaffeur. — Preferisco respirare della buona aria gelata a 50° sotto. — Allora spicciamoci. — Il canestro fu vuotato accanto alla zuppa di roccia ed alle teste di foca ed alle oche e tutti cominciarono un poderoso attacco, sopratutto i due esquimesi. La zuppa ed i manicaretti polari fecero una gran magra figura, poichè anche il capo e lo stregone preferirono divorare le provviste degli esploratori e lasciare in pace le teste di foca ed anche le oche. L’olio non fece la sua comparsa poichè le due bottiglie di buon vino lo surrogarono e che furono prestissimo asciugate dai due compari del nord. — Andiamocene, — disse Walter, gettando in aria il canestro vuoto. — Aria!... Aria!... — Sì, sì, lasciamo subito questa cloaca, — disse il canadese. — Al diavolo tutte le capanne di questi orsi polari. — Ne avevano fino sopra i capelli, compreso Dik, il quale aveva finito per trovarsi a disagio là dentro, quantunque avesse soggiornato molte volte presso le tribù esquimesi. Appena si trovarono all’aperto, la popolazione intera fu loro addosso urlando e gesticolando. Pareva in preda ad un pazzo terrore. — Che cos’è accaduto? — chiese il canadese. — Sono diventati nuovamente matti questi cari amiconi? — Una bestemmia era sfuggita a Dik. — Hanno toccato la macchina e l’automobile si è spostata. Purchè non abbiano guastato il radiatore!... — Infatti il treno, durante la loro assenza, si era avanzato per oltre centocinquanta metri e s’accaniva a salire una roccia incrostata di ghiaccio assolutamente insuperabile. Qualche curioso aveva mossa la leva e la macchina si era messa in moto a rischio di frantumarsi contro quell’ostacolo. Dik in pochi slanci la raggiunse ed arresto il motore, mentre la piccola tribù si disperdeva nuovamente in tutte le direzioni malgrado le grida del capo e dell’angekok. — Nulla di guasto? — chiese il signor di Montcalm, il quale, insieme allo studente, aveva raggiunto lo chaffeur. — Qualche cosa deve essersi rotto, — disse Dik, la cui fronte appariva annuvolata. — Il radiatore forse? — Ah no, signore. Non sarà cosa grave. Prima di domani la nostra macchina sarà in ordine. Ne rispondo io. — Saremo così costretti a fermarci qui questa sera. — È necessario, signore. Devo visitare il meccanismo. — Abbiamo commessa una imprudenza ad abbandonare il nostro treno, — disse Walter. — Sarà l’ultima, rispose il canadese. — Che il diavolo si porti via quel maledetto orso che ha avuto la pessima idea di mettere in moto la nostra macchina. — Possediamo tutto l’occorrente per guarire simili ammalati, è vero, Dik? — Sì, signore. Come vi ho detto, io rispondo di tutto. — Ecco un buon medico!... — esclamò lo studente. L’automobile fu fatta indietreggiare fino al villaggio, presso la catapecchia del capo, fra le urla degli abitanti, i quali a poco a poco erano ritornati, senza che gli esploratori potessero comprendere se erano grida ostili o di gioia. Cominciava a far buio poichè le giornate sono straordinariamente corte d’inverno, sotto quelle alte latitudini, ed un vento freddissimo si era alzato sulla vastissima baia, soffiando con molta violenza e spingendo innanzi a sè nubi di nevischio. Era il momento di ritirarsi nel comodo carrozzone-salon e di accendere la stufa. Anche gli abitanti cominciavano a rifugiarsi nelle loro catapecchie, dove già le donne avevano accese le puzzolenti lampade. Fuori non rimanevano che i cani, scorazzanti in mezzo alla neve, insensibili al freddo ed al vento. Un bel buco sotto la neve e la loro casa era pronta e preferibile forse al pestifero corridoio delle capanne. — Signore, — disse Dik al canadese. — Io non soffro affatto al freddo e se non vi rincresce dormirò sulla mia macchina, così sorveglierò anche questi uomini. Non dobbiamo fidarci poichè, a quanto ho capito, ritengono il nostro treno come un genio malefico destinato a distruggere tutta la selvaggina che è così necessaria per la loro esistenza. Prima di addormentarmi visiterò il motore e vedrò se vi è realmente qualche guasto. — Fate come volete, Dik, rispose il canadese. — Per mio conto preferisco addormentarmi presso la stufa. — E sui nostri comodi lettucci, — aggiunse lo studente. — Io starò benissimo anche sotto la capote della macchina, — rispose l’ex-baleniere. — Buona notte, signori. — Si erano già congedati dal capo e dall’angekok, i quali si erano pure ritirati nelle loro capanne. Il canadese e lo studente, che si sentivano investire furiosamente dalle raffiche nevose, si ritrassero in fretta nel carrozzone, mentre l’ex-baleniere caricava tranquillamente la sua grossa pipa insensibile al freddo ed alle folate, mormorando: — È questo il momento di mettermi ai servigi di mister Torpon e di mantenere le mie promesse. By-god!... Diecimila dollari non si gettano via come se fossero sabbia. Karalit mi aiuterà, corpo di una balena sventrata!... Se gli ho salvata la vita, mi deve della riconoscenza, e se si rifiuterà guai a lui. Dik è stato sempre un bel briccone, lo dicevano tutti i miei camerati ed in fondo non s’ingannavano. Orsù, all’opera ed areniamoli qui!... — CAPITOLO XII. Un’orgia di carne e d’olio. Il briccone si cacciò sotto la capote, si avvolse nella sua pelliccia e dopo d’aver tracannati alcuni lunghi sorsi di wisky, avendo sempre una bottiglia di riserva accanto allo scudo protettore, accese la sua monumentale pipa mettendosi placidamente a fumare. Che cosa aspettava? Certo che le tenebre fossero più fitte e che il canadese e lo studente si fossero addormentati. Aveva già fatto il suo piano e non attendeva che il buon momento per metterlo in esecuzione. Karalit non si sarebbe certamente rifiutato di prestargli man forte colla promessa di qualche buon regalo, d’un fucile per esempio, arme ambita soprattutto da quel popolo di cacciatori. Il vento continuava a soffiare forte sulla baia di Hudson, avventando contro la costa delle grosse ondate, le quali rumoreggiavano sinistramente. Di quando in quando, fra gli ululati della gelida tramontana ed i muggiti della risacca, si udivano dei rombi spaventevoli, seguìti poco dopo da tonfi d’una sonorità estrema. Erano gli ice-bergs, ossia le montagne di ghiaccio galleggianti che si urtavano e che si capovolgevano sotto la formidabile spinta. Per due volte Dik caricò e fumò la sua pipa, poi si decise finalmente a muoversi. Si cacciò nella cintura una Colt, non essendo improbabile che dei lupi si aggirassero intorno al villaggio per fare la festa a qualche cane esquimese, poi si accostò con precauzione al carrozzone-salon guardando attraverso un finestrino. Buio perfetto. I due esploratori dormivano già, invitati dal dolce tiepore che si sprigionava dalla piccola stufa e dai ruggiti delle raffiche. — Benissimo, — mormorò l’ex-baleniere. — Speriamo che Karalit non li abbia imitati!... — Tornò indietro e si cacciò dentro la galleria che metteva nella capanna del capo, giungendo ben presto nella stanza circolare. Karalit non si era affatto coricato. Stava preparando una pelle di morsa, battendola con un sasso mentre sua moglie, una donna ancora giovane e abbastanza belloccia per essere una esquimese, seduta sotto la lampada masticava coi suoi robusti denti gli stivaloni da caccia del marito per renderli più morbidi. — Mio fratello bianco qui!... — esclamò il capo, interrompendo subito la sua nauseante operazione. — Che cosa vuole a quest’ora? — Invitarti a bere con me una bottiglia, prima di tutto, di quell’acqua forte che brucia e che scalda e che a te piace tanto, — rispose l’ex-baleniere. — L’hai portata con te? — chiese l’esquimese, i cui occhi si erano subito accesi d’ardente bramosìa. — Eccola: è quasi piena. — Mio fratello bianco è un vero amico, — disse Karalit, allungando le mani per afferrarla. — Adagio, mio caro: te la berrai discorrendo con me. — Che cosa vuoi? — Ricordarti un’altra volta, innanzi tutto, che io ti ho salvata la vita. — Non l’ho mai dimenticato, — rispose Karalit. — E che io non ho avuto da te mai nessuna ricompensa. — Allora ero un povero pescatore, padrone d’un kaiak sdruscito e d’una sola fiocina. — Ma oggi sei capo tribù. — È vero: domanda quindi quello che vuoi. Delle foche? Delle morse? Dei cani? Delle slitte? — Niente affatto, poichè noi abbiamo abbondanza di viveri ed una macchina creata dal genio del male, che sfida tutti i tuoi cani. — Ed allora? — chiese l’esquimese, imbarazzato. — Le mie fiocine ed il mio arco? — Nemmeno, perchè anzi ho intenzione di regalarti un buon fucile da caccia, che ho già sottratto nascostamente al mio padrone. — I piccoli occhi dell’esquimese tornarono ad illuminarsi. Un fucile a lui!... Gl’indiani canadesi che sono i nemici secolari di quei piccoli uomini del nord e che li trucidano ferocemente ritenendoli spiriti maligni, avrebbero ben dovuto guardarsi d’ora innanzi. — Che cosa vuole da me dunque mio fratello bianco? — chiese, con voce quasi tremante. — Una cosa semplicissima. — Parla. — Impedire ai miei compagni di partire. — Perchè? — chiese Karalit, con stupore. Dik, invece di rispondere subito, si sedette su un ammasso di pelli mettendosi fra le gambe la bottiglia di wisky sulla quale si posavano insistentemente gli occhi del capo, poi chiese: — Sai che cosa vanno a fare quegli uomini che io conduco verso il gran nord con quella macchina? — Non me l’hanno detto. — Vanno a distruggere tutte le foche, le morse, le lontre, i narvali, i lupi, gli orsi bianchi e perfino i buoi muschiati che abitano le vostre terre ed i vostri mari. — E perchè? — Per farvi morire tutti di fame. — Noi non abbiamo mai fatto nulla di male agli uomini bianchi. — Dicono che voi siete dei ladri e che sterminate tutte le balene che si trovano in questi mari, mentre sono necessarie agli uomini bianchi per trarne l’olio occorrente alla illuminazione delle loro grandi case. — E hanno mandata quella brutta bestia che brontola sempre!... — Una bestia veramente terribile, amico, — disse Dik. — Tu l’hai veduta come corre. — Va come le grandi raffiche. — E quando corre a tutta forza piomba su tutti gli animali e li uccide col solo urto. Capisci? — Abbastanza, — rispose Karalit. — Sicchè distruggerà tutti gli animali che sono necessari all’esistenza delle nostre tribù? — E non vi rimarrà altra risorsa che quella di tapparvi nelle vostre capanne e di lasciarvi morire di fame. — E perchè tu, che sei nostro amico, hai accettato di guidare quella brutta bestia? — Se mi fossi rifiutato il gran capo degli uomini bianchi mi avrebbe fatto bruciare vivo. — Che cosa devo dunque fare per impedire che i miei sudditi ed i miei fratelli del gran nord muoiano di fame? — Impedire ai miei padroni di andare innanzi e ricacciarli verso il gran sud. Tu hai abbastanza gente per costringerveli. — E se facessi gettare quella brutta bestia nella baia insieme ai tuoi padroni? — Non ti consiglierei di farlo, perchè quella bestia nasconde nel suo ventre del fuoco che potrebbe scoppiare e bruciare te e tutto il tuo villaggio. — Ed allora, che cosa devo fare? — ripetè l’esquimese. — Fermarli qui o farli retrocedere? — Fermali, se puoi. — Hanno delle bocche da fuoco e quelle fanno paura. — Ti ho detto che ne darò una anche a te. — Mio fratello bianco è un vero fratello, — disse Karalit. — Ora mi dia da bere. La mia lingua ha parlato troppo ed è asciutta. — A te, ora bevi, — rispose Dik. Il capo afferrò la bottiglia e si mise a bere a garganella. — E tua moglie? — chiese l’ex-baleniere, fermandolo. — Lasciala gustare i miei stivali, — rispose l’egoista. — A lei bastano. — Rialzò la bottiglia con un gesto brusco, e per paura che suo fratello bianco tentasse ancora d’intervenire, in tre o quattro colpi vuotò il contenuto. — Ecco il calore, — disse, facendo scoppiettare la lingua. — Ve ne sono ancora di queste bottiglie nella bestia maledetta? — È piena, — rispose Dik. — Allora puoi tenerti certo che i miei sudditi, se tu vorrai, muoveranno senza esitare all’attacco della bestia per spillarle dal ventre l’acqua che riscalda e che raddoppia la vita. — Io lascerò loro tutte le bottiglie e parte dei viveri purchè non commettano dei guasti. — Quando dovremo agire? — Domani, dopo lo squartamento della balena, alla quale assisteranno senza dubbio i miei padroni. Di quanti uomini puoi disporre? — Di un centinaio. — Armi da fuoco? — Nessuna: solamente archi e fiocine. — Dik si tolse la rivoltella e la porse al capo, dicendo: — Dirò ai miei padroni che voialtri me l’avete rubata. Hai otto colpi da sparare. — Me ne servirò. Conosco queste armi avendone appreso il maneggio da un cacciatore che è passato per di qua prima dello scioglimento delle nevi. — A domani, — disse Dik, alzandosi — Ah!... Farai bene a mandar via le donne ed i ragazzi. — L’avevo già pensato. — Buona notte, Karalit. — Che mio fratello bianco riposi tranquillo, rispose l’esquimese. L’ex-baleniere si ricacciò nel corridoio, passando sopra a sette od otto cani che si erano rifugiati là dentro, e raggiunse l’automobile. Le raffiche accennavano a diminuire di violenza, mentre il freddo era rapidamente aumentato. Sulle coste della baia le onde si frangevano sempre con estrema violenza, rumoreggiando sinistramente nella notte cupa. Dik si cacciò sotto la capote, si sdraiò sui soffici cuscini, si avvolse per bene nella sua pelle d’orso nero e si addormento placidamente dopo d’aver mormorato più volte: — Gli affari sono affari.... — L’indomani, ai primi albori, fu svegliato da un gridìo assordante mescolato a latrati di cani. I cacciatori si disponevano a recarsi alla piccola cala sui cui banchi si era arenata la gigantesca balena, con un lungo seguito di slitte tirate da dozzine di cani irrequieti, un po’ somiglianti ai lupi e che non cessavano di azzuffarsi fra di loro benchè i loro padroni picchiassero forte colle lunghissime fruste a manico cortissimo. Il canadese e lo studente, udendo tutto quel baccano, erano pure usciti dal carrozzone e si erano accostati all’automobile dove Dik stava montando la sua piccola incudine per procedere alla riparazione del guasto che non esisteva che nella sua fantasia. — Che cosa succede, amico? — chiese il signor di Montcalm. — Nulla di male, signore, — rispose l’ex-baleniere, levando da una delle cassette una quantità di ferri. — Quel caro Karalit sta per recarsi alla costa coi suoi pescatori per pelare la balena. Sarà uno spettacolo interessante a vedersi e vi consiglierei di approfittare della bella occasione, anche perchè l’automobile non potrà essere pronta prima di questa sera. — È grave il guasto? — Ma no, signore, richiederà solo un po’ di tempo e di pazienza. Come vi ho già detto, rispondo io di tutto. — Allora possiamo accompagnare gli esquimesi, — disse lo studente. — Stavo per proporvelo. Rimanendo qui vi annoiereste inutilmente, — disse l’ex-baleniere. — Si va, signor di Montcalm? — Andiamo, Walter, — rispose il canadese. Karalit aveva già fatto avanzare una slitta tirata da venti cani e guidata da un giovane pescatore, mettendola a loro disposizione. I due viaggiatori vi salirono, portando con loro i mauser ed un canestro di provviste, e subito i cani, al primo colpo di frusta della guida, si slanciarono attraverso la pianura gelata, latrando e ululando di quando in quando come i lupi. Tutte le altre slitte si erano pure messe in moto, gareggiando fra un incessante scrosciare di fruste ed un baccano assordante, poichè i guidatori sono costretti a urlare non meno fortemente dei cani per farsi obbedire. Che quelle bestie, derivate a quanto sembra da un incrocio di lupi e di volpi polari, prestino ai piccoli abitanti delle nevi eterne dei grandi servigi, è innegabile; tuttavia non si creda che siano molto docili ed obbedienti ai loro padroni. L’istinto selvaggio delle due razze e sopravvissuto e la lunga schiavitù non li ha affatto domati. Si prestano al tiro delle slitte per paura della frusta, non per fare una cosa gradita ai loro padroni, verso i quali anzi non nutrono nessuna affezione e ci vivono insieme solamente perchè sanno che qualche cosa rimarrà sempre anche per loro dopo il pranzo. Solo gli esquimesi sanno guidarli. Un europeo non riuscirebbe ad altro che ad andare a gambe levate ad ogni momento, insieme alla slitta. Correndo rissano continuamente fra di loro, imbrogliando i legami, si mordono, urlano, poi chi si scaglia a destra, chi a sinistra, generando una confusione enorme che solo la terribile frusta, maneggiata dal guidatore con una maestrìa ed un vigore straordinario, riesce a calmare. Guai poi se sulla loro corsa s’imbattono in una volpe, in una martora od in qualche altro piccolo animale. Allora non c’è più direzione. Si scagliano dietro alla selvaggina senza più badare alle grida ed alla grandine di frustate, gettandosi all’impazzata dentro i crepacci o dentro i burroni, finchè finiscono per rovesciare il veicolo ed il più delle volte per renderlo anche inservibile. Sono ben lontani dai nostri cani danesi o di Terranuova, sempre docili e sempre obbedienti e di buona lena. Le cinquanta slitte, poichè tante erano, in meno di venti minuti raggiunsero la costa, fermandosi di fronte al bassofondo su cui si era arenata la balena. L’enorme massa non era stata menomamente smossa dalle ondate della notte e mostrava il suo potente dorso ancora tutto irto di fiocine. La coda, rimasta fuori dal banco, fluttuava sotto i colpi della risacca, la quale s’ingolfava perfino dentro l’enorme bocca, rumoreggiando e spumeggiando intorno e fra mezzo i fanoni non ben serrati. Walter ed il canadese erano subito balzati a terra, ed approfittando della bassa marea che aveva lasciato il banco quasi allo scoperto, si erano spinti innanzi fugando, con due colpi di fucile, una miriade di volatili radunatisi per prendere parte alla festa e rimpinzarsi di lardo. Gabbiani, falchi pescatori, aquile pescatrici, procellarie, albatros giganteschi, erano accorsi da tutte le parti e volteggiavano sopra il gigante marino con un gridìo assordante. Le lumme poi si contavano a migliaia e migliaia. Gli esquimesi si erano armati di certe pale di ferro, di forma quadrata, assai taglienti, a manico corto, comperate certamente dai balenieri, ignorando quel popolo nordico la lavorazione del ferro, metallo che forse manca in quelle regioni, ed avevano invaso il banco per spogliare quell’enorme massa del suo lardo e delle sue carni. Prima ad essere assalita fu la testa del cetaceo, per mettere al sicuro la lingua. Sfondati i fanoni, dodici o quattordici uomini penetrarono nella bocca e si misero subito all’opera, mentre altri cominciavano a piantare le loro pale nei fianchi del gigante, segnando le striscie di lardo che più tardi dovevano venire levate e trasportate, sulle slitte, al villaggio. — Ecco i viveri assicurati per tutto l’inverno, — disse il canadese a Walter. — Questi uomini fortunati potranno attendere senza timore le grandi nevicate, senza porre la punta dei loro nasi fuori dalle capanne. — Quanto olio potranno ricavare dalla lingua, signor di Montcalm? — chiese lo studente, il quale si era avvicinato all’enorme bocca entro la quale gli esquimesi lavoravano accanitamente. — Circa otto barili, ed è il migliore che si ricava dalla balena. — E dalla massa intera? — Suppergiù trentamila libbre. — Una vera inondazione. — È la parola, Walter. — Vediamo un po’ questi fanoni, che devono essere i famosi ossi di balena che si pagano ben cari. — Sono grosse lamine, fisse nella mascella superiore, che scendono diritte formando una specie di siepe, un po’ dentellate ad uno dei margini. — Vedo, — rispose lo studente — E nessun dente!... È strana!... — Certi cetacei, quelli chiamati balene maschio, ne posseggono però, ma non se ne servono. — Mentre i capidogli?... — Sono formidabilmente armati di denti di forma conica, ognuno dei quali non pesa meno di due chilogrammi. — Che morsi devono dare!... — Lo sanno purtroppo le disgraziate balene. — Perchè sono nemici? — E terribili nemici; e sono, come potete immaginarvi, sempre le balene che hanno la peggio, non servendo a nulla i fanoni. — Sapete che idea mi dà la bocca di questo cetaceo? — D’una scialuppa. — Precisamente, — rispose lo studente. — A quanto stimate la lunghezza di queste mascelle? — A non meno di venti piedi, — rispose il canadese. — La larghezza di questa bocca deve raggiungere i dieci, con un’altezza di sei, ossia di due metri. Come vedete, gli uomini non hanno bisogno di curvarsi per lavorare. Lasciamo che questa brava gente si avvoltoli nell’olio e nel lardo, e noi andiamo a tirare quattro fucilate contro gli uccelli marini. Non avete che da scegliere. — Sparerò sugli albatros. — Carne coriacea, amico. Preferisco gli altri. — Mentre si divertivano a fare dei bei colpi contro tutti quegli immensi stormi di volatili, i quali d’altronde non si mostravano affatto spaventati, gli esquimesi tagliavano, rompevano, fracassavano con energia febbrile, ansiosi di demolire il gigante e di mettere in salvo la sua carnaccia ed il suo lardo prima che si scatenasse qualche tempesta e lo portasse via, trascinandolo verso altre coste a formare la fortuna di qualche altra tribù. Schiere d’uomini, carichi di enormi pezzi di grasso sgocciolanti d’olio, rossi di sangue fino ai capelli, passavano continuamente sulla costa e caricavano le slitte, le quali ripartivano subito pel villaggio per poi tornare al più presto. Gli altri, sotto la direzione di Karalit, non cessavano di tagliare, cacciandosi perfino dentro l’enorme carcame, per strappare alle viscere brandelli enormi di grasso. Sembravano tante formiche attorno al corpo d’un bisonte o d’un rinoceronte. A mezzodì i lavoratori presero un po’ di sosta, radunandosi sulla spiaggia cosparsa di vere montagne di lardo e di carne. Che festa!... Uomini e cani gareggiavano nel rimpinzarsi e gli uccelli vi prendevano parte indisturbati, giacchè nè le grida, nè le frustate sarebbero riuscite a cacciarli di là. Piombavano a legioni così fitte da oscurare talvolta la luce del sole, ed erano così audaci da strappare di mano, con un fulmineo colpo di becco, i pezzi che gli uomini stavano per portarsi alla bocca. Soprattutto i grossi albatros mostravano un accanimento feroce e resistevano energicamente alle frustate ed anche ai colpi di rampone, sbattendo furiosamente le loro immense e poderose ali. Il canadese e lo studente, nauseati da quello spettacolo e quasi soffocati dalla puzza orribile che tramandavano le interiora del cetaceo in mezzo alle quali si avvoltolavano cani ed uomini insieme, si erano tirati in disparte, saccheggiando il loro canestro. Durante la giornata, il via vai di uomini, di cani, di slitte non cessò. Gli esquimesi, quantunque pieni di lardo al punto da correre il pericolo di scoppiare, avevano nuovamente assalito il carcame, che ormai mostrava le gigantesche costole, per privarlo di tuttociò che poteva servire di nutrimento. Alla sera ben poco rimaneva del disgraziato cetaceo. Perfino la testa era stata sfondata per togliere il cervello, relativamente piccolo riguardo alla massa imponente del corpo, che doveva fornire al capo ed allo stregone una deliziosa frittura!... Ricominciava a soffiare il vento sulla baia ed a cadere del nevischio, quando i pescatori tornarono al loro villaggio cogli ultimi carichi. Il canadese e lo studente avevano ripreso posto sulla slitta messa a loro disposizione dal capo, e che per un certo riguardo, molto apprezzato dai due esploratori, non era stata adoperata per trasportare quelle montagne di grasso. Venti minuti dopo giungevano al villaggio, fermandosi presso l’automobile. Dik stava vibrando alcuni colpi di martello su dei bulloni e su delle viti, canticchiando a mezza voce, quantunque avesse la pipa stretta fra i denti. — Tutto accomodato? — chiese il canadese. — Tutto, signore, — rispose l’ex-baleniere. — La nostra macchina filerà meglio di uno steamer. — Allora domani potremo riprendere la nostra corsa e spingerci fino al forte Severn. — Anche direttamente a quello di Churchill, signore. Avremo abbastanza benzina per raggiungerlo. — Walter, prepariamoci il pranzo, — disse il canadese, — e voi Dik venite a dormire con noi nel carrozzone. — Io mi trovo benissimo sotto la capote dell’automobile, — rispose l’ex-baleniere. — E poi non mi fido affatto di questi uomini dopo il guasto che ho constatato. Capirete che basta un momento a rovinare il radiatore o sventrarci le pneumatiche, e sarà perciò meglio che io vegli. Io già non ho mai avuto molta fiducia negli esquimesi, checchè si sia detto sulla loro pretesa onestà. Ho finito: vengo ad aiutare il cuoco. — CAPITOLO XIII. Battaglia in mezzo alle nevi. Il canadese e lo studente, dopo un’abbondante cena ed una buona dose di pipate, si erano cacciati sotto le coperte, quando un fracasso indiavolato, che veniva dal di fuori, li strappò bruscamente dal primo sonno. Pareva che fra gli abitanti del villaggio fosse scoppiato un vivo alterco, poichè fra i latrati dei cani si udivano grida minacciose e certi colpi come se delle slitte venissero spezzate. Walter pel primo era balzato giù dal lettuccio, e dopo essersi impadronito d’una rivoltella, la prima arma trovata sotto mano, si era precipitato verso uno dei finestrini tentando di vedere ciò che accadeva intorno al treno. Quantunque la notte fosse oscurissima e la neve cadesse in quel momento in abbondanza, travolta dal ventaccio che soffiava da settentrione, vide subito numerosi uomini dibattersi e urtarsi gli uni gli altri, spingendosi contro l’automobile. — Signor di Montcalm!... — gridò. — Quei miserabili attaccano la nostra macchina. — Il canadese era già balzato, a sua volta, giù dal letto, ed aveva, prima di tutto, accesa la lampada, poi si era armato d’un mauser il cui serbatoio delle cartuccie era pieno. — Aprite la porta, Walter!... — gridò. — Pagheremo la loro ospitalità a colpi di fucile. — Lo studente si slanciò contro la sbarra di ferro, la tolse e si provò a spingere, ma con sua grande sorpresa la porta non cedette. — Signor di Montcalm!... — gridò. — Ci hanno chiusi dentro!... — È impossibile!... — Provate anche voi. — Aiutatemi!... I due uomini fecero impeto senza ottenere alcun risultato. La porta era stata chiusa esternamente forse colla sbarra che era rimasta fuori e che gli esquimesi avevano ricollocata a posto per impedire ai due esploratori di uscire. — Ah!... Canaglie!... — esclamò il canadese. Si affacciò al finestrino che lo studente aveva aperto gridò: — Dik!... Dik!... A noi!... — Fra tutto quel vocìo confuso gli parve di udire la voce dell’ex-baleniere, poi rimbombarono due colpi di rivoltella. — Dik!... Dik!... — ripete il canadese. — In nome di Dio, rispondete!... Che cosa succede? — Un gruppo di uomini armati di archi e di ramponi si diresse verso il carrozzone-salon. Karalit era con loro e stringeva in una mano la rivoltella ancora fumante. — Miserabile!... — gridò il canadese, puntandogli contro il mauser, mentre lo studente, aperto un altro finestrino, agitava la sua grossa Colt, minacciando di sparare. — Contro chi hai fatto fuoco? Che cosa significa tutto questo baccano? Rispondi o ti uccido come un lupo arrabbiato. — Non sono stato io a tirare quei due colpi, bensì il tuo marinaio, — rispose Karalit. — Per poco non mi uccideva. — Perchè? — Non lo so. — Dov’è il mio marinaio? — Lo abbiamo legato ben bene e cacciato dentro una capanna. — Per qualche motivo deve aver sparato, tanto più che era tuo amico e quindi non poteva nutrire odio alcuno verso i tuoi sudditi. — Ah, io non lo so, ripetè Karalit. — Allora te lo dirò io, furfante!... — gridò il canadese. — Tu ed i tuoi uomini volevate rovinarci la nostra macchina. Ce l’avete guastata anche ieri. — Può essere, — rispose candidamente l’esquimese, il quale non perdeva di vista la canna del mauser. — E hai l’audacia di confessarlo!... — Sì, uomo bianco, perchè noi non vogliamo che tu vada più oltre verso il gran nord. — E perchè? — Perchè l’angekok ha detto che la tua bestia ha uno scopo terribile: quello di distruggere tutti gli orsi, le foche, le morse ed i cavalli marini, e così far morire di fame tutte le tribù degli Innuit. — Walter scoppiò in una sonora risata, poichè quantunque l’esquimese masticasse la lingua inglese in modo orribile, aveva compreso tutto. Il canadese invece aveva lanciata una grossa bestemmia. — Il tuo angekok è un pazzo e tu sei un triplice imbecille! — gridò, furibondo. — Finiamola con questa commedia: noi siamo uomini di corta pazienza. — Il nostro angekok non si è mai ingannato, — rispose Karalit, e se ha detto così, vuol dire che è la verità. O torna indietro o noi distruggeremo la tua bestia. — Fa togliere prima la sbarra che tu hai cacciata dinanzi alla porta. — No. — Per tutti i fulmini di Giove!... — gridò lo studente, il quale voleva prendere parte anche lui alla conversazione. — Signor mangiatore di lardo, è ora di finirla con questa storia. Signor di Montcalm, piantategli una palla sulla punta del naso o lo crivello io come una schiumarola. — Aspettiamo un po’, Walter, — rispose il canadese. — C’è la macchina fuori e Dik non è più là a difenderla. Se ce la guastano, addio viaggio al Polo. — Ai primi colpi di fuoco scapperanno come volpi, ne sono sicurissimo, signore. — Non dobbiamo dimenticare che tengono nelle loro mani Dik e che gli hanno presa la rivoltella. — Corpo di Giove!... Che cosa fare dunque? Cedere? — Vediamo, — disse il canadese. — Questi furfanti contano certamente su qualche premio. Alle carote dell’angekok non credono nemmeno loro, scommetterei mille dollari contro uno. — Karalit, seduto su un hummok di neve, colla rivoltella sempre in pugno, circondato da una quarantina dei suoi sudditi, i quali provavano la forza dei loro archi fabbricati con pezzi di corna di renna strettamente legati, aspettava pazientemente che i due esploratori avessero finito di chiacchierare. Aveva del tempo da perdere il briccone, ora che le sue capanne rigurgitavano di carne e di lardo di balena. — Insomma, che cosa vuoi? — chiese il canadese, minacciandolo col pugno. — Te l’ho già detto, uomo bianco, — rispose l’esquimese — Impedirti di avanzare verso il gran nord. — Ma se ti ho già detto anch’io che il tuo angekok è un pazzo da mandare a casa dello spirito maligno. — L’angekok ha parlato e basta, — ripicchiò l’ostinato. — Non si è mai ingannato nel predire le grandi tempeste, i grandi freddi, le scarse caccie e non s’ingannerà ora. — E vuoi che torniamo indietro? — Sì: questo e il fermo volere mio e di tutti i miei sudditi. — Sia pure, ce ne andremo, — rispose il canadese. — Metti in libertà il mio marinaio e rimetteremo in moto la nostra bestia. — Ah no! — esclamò Karalit. — Senza bestia. — Che cosa vorresti dire? — urlò il canadese. — Che la bestia rimarrà qui, perchè tenga lontani, colle sue urla, gli spiriti maligni. S’incaricherà l’angekok di darle da mangiare. — Come!... Tu pretenderesti che ti lasciassimo la nostra macchina!... — Accoppiamolo, signor di Montcalm!... — urlò lo studente. — Guardatevi!... — disse Karalit, con voce minacciosa. — Ho cento uomini sotto di me e se volessi averne tre volte tanti non avrei che da far attaccare i cani e mandare alcuni dei miei uomini da mio suocero, il gran capo dei Katirak. Cadremo noi, ma cadreste anche voi. Ho detto!... Tornerò prima che il sole tramonti!... — Con un’agilità meravigliosa Karalit si gettò dietro l’hummok, mentre i suoi uomini si disperdevano in tutte le direzioni correndo come lupi e scomparve fra le tenebre prima che i due esploratori avessero avuto il tempo di far uso delle loro armi. — Pezzo di galera!... — gridò lo studente. — Ci è scappato di sotto mano!... E quell’animale di Dik, che si è lasciato cogliere come una gru addormentata, e perfino farsi prendere la rivoltella! — L’avranno sorpreso nel sonno, — rispose il canadese. — E poi, con cento uomini che aveva intorno, ben poco avrebbe potuto fare, anche se avesse avuto a sua disposizione due Colt. — Che abbiano guastato l’automobile? — Speriamo di no, Walter. Siccome ciò potrebbe succedere, sarà meglio che cerchiamo un mezzo per uscire. Questa carrozza funzionerà pur sempre da fortezza, ed in caso di pericolo ci rifugeremo sempre qui. — Canaglie!... Dopo d’averli aiutati ad ammazzare la balena, senza chiedere per nostro conto nemmeno un pezzo di lingua, ci hanno preparato questo bel giuochetto!... E mi avevano detto che gli esquimesi erano delle brave persone!... — Quelli che abitano più al nord sì, non questi che sono stati corrotti dalla civiltà, — disse il canadese. — Orsù, cerchiamo di uscire. — Vi è la sbarra al di fuori e le finestre sono troppo strette, signore. — Il canadese riflettè un momento, poi battendosi fortemente la fronte, esclamò: — Noi siamo proprio due stupidi!... — Dite? Non me ne offendo affatto. — Ma sì, Walter, due imbecilli. Quando i lupi ci assediavano come ci siamo rifugiati qui? — Attraverso il tetto. — E dal tetto usciremo, — rispose il canadese. — I chiodi non sono nemmeno stati ribattuti e le viti non più messe a posto. — Corpo di tutti i fulmini dell’occidente e dell’oriente!... — esclamò Walter — Che io abbia lasciata la mia memoria nell’Università di Cambridge? — No, l’avete un po’ perduta in quella famosa gara del salto, — disse il signor di Montcalm. — Credo che abbiate ragione, — disse Walter, scoppiando in una allegra risata, segno evidente che le minaccie degli esquimesi non erano riuscite affatto ad impressionarlo. — Un martello ed uno scalpello, signor Gastone. A voi la guardia della fortezza ed a me quella del bastione dominante l’automobile. Guai a loro se toccheranno la nostra macchina!... — Gli attrezzi da fabbro e da falegname non mancavano nel carrozzone. Aprirono una cassetta indicata con un numero, si munirono dell’occorrente, salirono su due sedie ed assalirono la tavola che era stata già levata durante l’assedio dei lupi. Pochi colpi di martello e di scalpello, uno sforzo, e l’apertura s’offerse dinanzi ai loro occhi. Walter, che era più magro del canadese, in tre tempi si issò sul tetto della vettura, spingendo a destra ed a sinistra la neve che lo ingombrava. Il signor di Montcalm si era affrettato a passargli un mauser ed una cartucciera. — Dunque? — chiese, dopo qualche istante. — Per tutti i fulmini di Giove!... — esclamò lo studente. — Lasciate che i miei occhi si abituino un po’ all’oscurità. — Se la pianura è bianca!... — Ma la capanna di quel briccone di Karalip o Kaparaliko che sia, non riesco a vederla bene. Pare che la neve l’abbia coperta tutta. — Occupatevi dell’automobile. — Diavolo!... È sempre dinanzi a noi. — Nessuno la guarda? — Non mi pare. — E dove sono andati quei bricconi? — Li odo gridare senza vederli. Dopo tutto io credo che abbiano fatto bene a ritirarsi nelle loro tane. È una vera notte da lupi, signor Gastone, e fa un freddo da spaccare le pietre. Vi assicuro che si sta meglio al coperto. — Volete una pelle di bisonte? — Accetto, purchè sia in compagnia d’una bottiglia di wisky o di brandy. — Vi preparerò un buon grog invece. — Vada pel grog. Scommetto che ci starebbe anche Dik a vuotare un buon bicchiere in mia compagnia. Ah!... Signor Gastone, che questi pessimi soggetti siano capaci di tormentarlo od anche di ucciderlo? — Oh!... Non oseranno tanto. E poi non ho mai udito narrare che gli esquimesi siano crudeli. — Io però ho letto una storia di certi pescatori di balene di razza esquimese che si divertivano a martirizzare i naufraghi di razza bianca. — Una storia antica, mio caro Walter. Lasciate che accenda la stufa e che vi prepari il grog. Intanto non perdete di vista l’automobile. — Nemmeno un secondo, signore. — A voi la pelle di bisonte. — Benissimo: eccomi trasformato in un capo indiano in attesa d’un viso pallido da scotennare. Sarò il gran sakem Piede pesante o Testa d’aquila. — Al diavolo!... — esclamò il canadese. — Si è mai veduto un giovanotto più allegro di questo? Se tutti quelli che frequentano l’Università di Cambridge sono tagliati così, manderò anche i miei figli in Inghilterra a tentare la corsa delle cento yarde od il gran salto. — E farete bene, — concluse lo studente, avvolgendosi maestosamente nella gigantesca pelle di bisonte. Era una vera notte da lupi polari. Il ventaccio non cessava di ululare attraverso la bianca pianura, rovesciando addosso al villaggio e contro l’automobile delle vere trombe di neve che però subito tornavano a disperdersi. Il freddo poi era diventato così intenso che l’alito dello studente, appena uscito dalla bocca, si tramutava in nevischio. Un termometro collocato all’aperto avrebbe certamente segnato 30° sotto zero e fors’anche di più. Gli esquimesi non si facevano vivi, però Walter di quando in quando udiva le loro voci uscire attraverso i corridoi delle capanne. Probabilmente stavano discutendo per formare il loro piano di guerra. Fors’anche stavano interrogando il disgraziato Dik, disgraziato pei due esploratori, i quali non potevano avere su quel birbaccione il più lontano sospetto. Walter bevette il suo grog, accese la sua corta pipa di radica autentica e tornò ad avvilupparsi nella sua pelle di bisonte, mentre il canadese vegliava dietro ai finestrini sagrando contro quella maledetta sbarra di ferro che gli impediva di uscire. Era trascorsa una mezz’ora, quando lo studente udì il signor di Montcalm che chiamava: — Walter!... — Che cosa c’è, signore? — chiese l’inglese. — Che sia questo freddo cane che ci rende stupidi? — Perchè, signor Gastone? — Voi siete fuori ed io sono ancora chiuso dentro e nell’impossibilità di raggiungervi senza togliere un’altra tavola, mentre sarebbe così facile, specialmente con un saltatore come voi, fare quattro passi all’aperto. — Che cosa diavolo dite, signor Gastone? — Un salto di tre metri in mezzo alla neve non vi spaventa? — Ma nemmeno se quel salto fosse di dieci yarde. — Allora fatemi il piacere di lasciare il vostro osservatorio, di gettarvi abbasso e di togliere quella maledetta sbarra esterna. — Corpo di Giove!... — esclamò lo studente. — E tutto questo non vi è venuto in testa prima!... Decisamente il gran freddo deve intorpidire il cervello. — L’aveva detto anche Franklin, il grande ammiraglio della spedizione polare dell’Erebus e del Terror. — Ci credo. Che bestia che sono!... Sono fuori e lascio voi prigioniero!... Ah!... Signori esquimesi, ora l’avrete da fare con noi. Imbottiremo le loro pelli oleose di buon piombo. — Balzare in mezzo alla neve, togliere la sbarra e presentarsi al canadese fu l’affare di pochi momenti. — Eccoci nuovamente riuniti, signor Gastone, — disse. — Che brutta sorpresa per gli eschimesi quando ci troveranno liberi, pronti a caricarli. — Andiamo a fare un giro intorno all’automobile, — disse il canadese. — Guai a loro se ce l’hanno guastata. — Incendieremo il loro villaggio, — disse lo studente, con voce minacciosa. — Sì, con questa neve!... — Sono una vera bestia, signor Gastone. — Credevate di trovarvi, non ostante questo freddo che fa soffiare sulle dita, in mezzo a qualche villaggio africano formato di capanne di paglia. — Raggiunsero l’automobile affondata nella neve fino allo chassis e procedettero ad una rapida visita, avendo portato con loro una lampada. — Nulla mi pare che sia stato toccato, — disse il canadese. — Avevo avuto qualche timore pel volante, mentre vedo che funziona bene. Si direbbe che non c’è stata nessuna lotta fra Dik e gli esquimesi, poichè tutto è in ordine. Che si sia lasciato portar via ancora addormentato? Che cosa dite voi, Walter? — Che quei bricconi hanno finito di gridare e che si preparano ad agire. — Chi? — Gli esquimesi. — Ah!... Diavolo!... Bisognerà proprio fucilarli per calmare i loro umori bellicosi. — Signor Gastone, lasciate a me la cura di difendere l’automobile; voi incaricatevi del carrozzone. Se il pericolo stringerà vi raggiungerò. — Rimarrete esposto al tiro delle freccie. — Ah no, signore!... Mi rannicchierò dietro lo scudo e vedremo se i dardi di quei mangiatori di lardo mi raggiungeranno. Presto: eccoli!... — Dalle capanne gli esquimesi uscivano in gran numero, gridando e gesticolando, e si erano subito incolonnati dirigendosi verso il treno. Il canadese fu lesto a riguadagnare il carrozzone, mentre lo studente si inginocchiava dietro lo scudo di metallo foderato di grossa stoffa, mettendosi dinanzi la rivoltella ed impugnando il mauser. Vedendo che la banda continuava ad avanzarsi, mandò il primo grido. — Chi vive!... Alt!... — Un sibilo acuto fu la risposta ed una freccia si piantò nella capote di cuoio, mezzo metro sopra la testa dello studente. — Ah!... Birbanti!... — esclamò questi. — Pare che vogliano darci battaglia!... E sia!... Dik se la caverà come potrà, giacchè è stato così stupido da farsi prendere. — Alt o faccio fuoco!... — gridò poi, con voce tuonante. Altre tre o quattro freccie attraversarono l’aria sibilando sinistramente, ed una ruppe la sua punta contro lo scudo del volante. — Quand’è così, brutti bevitori d’olio, non mi trattengo più!... — Un colpo di fucile rimbombò fra le urla del vento, seguito da un grido acutissimo e da una volata di dardi. Poi fu un nuovo sparo che echeggiò, partito questo dal carrozzone. Il signor di Montcalm, accortosi che gli esquimesi non avevano intenzione di scherzare, aveva subito appoggiato il tiro dello studente. Gli esquimesi sostarono un momento, poi girarono sui talloni rifugiandosi più che in fretta dentro i corridoi delle loro capanne. Sulla candida distesa di neve erano rimaste due grosse figure nere: erano due esquimesi passati da parte a parte dalle palle dei mauser e fulminati sul colpo. Il canadese, non scorgendo più nessuno, si era affrettato a lasciare il carrozzone e avvicinarsi all’automobile. — Ebbene, Walter? — chiese. — Pare che si siano calmati, signore, — rispose lo studente. — Siete stato colpito? — Ma che!... Tirano le freccie peggio dei ragazzi del sud Africa. — Ed ora, che cosa succederà? — Che si vendichino su Dik? — Se non si fosse lasciato portar via lancierei l’automobile a corsa sfrenata, — disse il canadese. — Non sono un perfetto chaffeur, tuttavia me ne intendo di queste meravigliose macchine e non mi troverei imbarazzato neanche se dovesse succedere qualche guasto. — Sapete che cosa dovremmo fare, giacchè ci lasciano un po’ tranquilli, signor Gastone? — Dite, Walter. — Aprire la via all’automobile, perchè possa prendere lo slancio. La neve si è accumulata in abbondanza intorno alla nostra bestia, come la chiamano quei luridi mangiatori di grascia. — Mi pare che voi abbiate dato un buon consiglio. Andate a prendere le pale, mentre io sorveglio le capanne ed i loro abitanti. — Lo studente non si fece ripetere l’ordine due volte. Un mezzo minuto dopo i due esploratori lavoravano accanitamente per aprire il passo al treno, perchè potesse prendere, al momento opportuno, il suo slancio. Avevano già scavato un largo solco, lungo una ventina di metri, quando gli esquimesi tornarono a mostrarsi. Parevano in preda ad un folle furore. Urlavano come lupi arrabbiati, si dimenavano come ossessi e scagliavano freccie in tutte le direzioni per provare forse la portata dei loro archi. — Pare impossibile come della gente che vive sempre in mezzo ai grandi freddi, possa prendere fuoco in questo modo, — disse lo studente. — Che l’olio di balena abbia la proprietà di ubbriacare questi mangiatori di foche? Ne faro l’esperimento anch’io se ci verranno meno le bottiglie di gin e di wisky. — Il signor di Montcalm, vedendoli dirigersi risolutamente verso l’automobile, si era fatto innanzi col fucile imbracciato, gridando. — Indietro, miserabili, o noi vi stermineremo tutti!... Mettete subito in libertà l’uomo bianco, canaglie!... — Arrendetevi!... — gridò una voce. — Vogliamo la bestia che divora gli orsi bianchi. — Sì, vieni a prenderla, poltrone, — disse lo studente. — Signor Gastone, cerchiamo di mandare all’altro mondo quel briccone di Karaliko. È lui che ha parlato. — Ripieghiamoci sull’automobile! — gridò il canadese. — Andate a chiudere il carrozzone. — È subito fatto, signore. — E poi fuoco a volontà. — Lasciate fare a me!... — Mentre delle freccie, lanciate piuttosto a casaccio, poichè la neve non cessava di cadere ed il vento di soffiare con estrema forza, cadevano intorno all’automobile, lo studente in quattro salti raggiunse il carrozzone e lo sprangò, poi tornò di corsa verso il canadese il quale continuava a urlare: — Indietro, canaglie, o vi massacriamo tutti!... — Gli esquimesi pareva che non avessero molta fretta di esporsi al fuoco dei mauser. Invece di continuare ad avanzare, si erano a poco a poco gettati a destra ed a sinistra, coricandosi in mezzo alla neve ed allargando sempre più le loro file. Strisciavano come le foche e le morse fermandosi solo qualche istante per lanciare una volata di dardi affatto inoffensivi, data la distanza, la quale anzi aumentava sempre. Quella strana manovra però fini per preoccupare il canadese. — Si direbbe che cerchino di chiuderci in mezzo, — disse. — Vi pare, Walter? — Sono dei volponi, signore. — Che ci daranno dei gravi fastidi se non prendiamo una decisione senza perdere un istante. — Si tratterebbe di far cantare i fucili? — Sì, Walter. — E lasciamoli cantare, allora, — concluse lo studente. — Io ho sempre udito raccontare che il piombo e l’unico nemico dei popoli selvaggi. A me la linea di destra, signor di Montcalm, a voi quella di sinistra. Vedremo come ballano i mangiatori di lardo. — CAPITOLO XIV. Tempesta polare. Gli esquimesi, aizzati dal capo e dall’angekok, e persuasi di aver da fare con un mostro destinato a distruggere tutta la selvaggina polare, parevano ben decisi a muovere all’attacco del treno, quantunque avessero provato già l’effetto terribile delle armi da fuoco. Niente intimoriti dalle grida e dalle minaccie del canadese, si erano disposti in modo da formare un grand’arco che al momento propizio doveva chiudersi intorno ai due esploratori. Essendo in buon numero, la vittoria non poteva riuscire difficile, poichè il canadese e lo studente non avevano da difendere il solo carrozzone, bensì anche l’automobile, il quale non offriva una difesa completa, quantunque la capote di cuoio fosse abbastanza resistente per arrestare le freccie. Non vi era quindi un momento da perdere. Era necessario arrestare la marcia dei pescatori di balene con un fuoco terrorizzante, prima che il cerchio fatale si stringesse. — Siete pronto, Walter? — chiese il signor di Montcalm, dopo d’aver intimato agli assalitori, per l’ultima volta, di ritornare alle loro capanne e di mettere in libertà Dik, senza aver ottenuto obbedienza. — Quando vorrete, — rispose lo studente. — Allora diamo battaglia. Tanto peggio per loro, se subiranno delle perdite crudeli. — Due colpi di fuoco squarciarono l’aria illuminando per un istante la notte cupa, poi seguì un craac craac precipitoso. I serbatoi dei mauser si vuotavano, seminando la bianca pianura di proiettili. Gli esquimesi, sorpresi da quel fuoco intenso che pareva non dovesse finire più, e terrorizzati da quella continua successione di detonazioni, erano balzati in piedi tentando di arrestare quella grandine di palle con delle volate di freccie, poi vedendo che alcuni compagni erano già caduti urlando di dolore, per la seconda volta si erano slanciati a corsa furiosa verso il loro villaggio, ricacciandosi nelle loro gallerie e quindi nelle capanne. La rotta era completa. I mangiatori di lardo ne avevano avuto abbastanza, poichè avevano lasciato sul terreno altri cinque uomini e tutti colpiti in pieno petto da quei terribili bersaglieri. — Signor Gastone, — disse lo studente, il quale si affrettava a riempire il serbatoio del fucile. — Non vi pare che sia questo un brutto mestiere? Noi massacriamo senza quasi correre alcun pericolo e ciò diventa noioso. — Vorrei anch’io risparmiare quei poveri diavoli che quel cretino di stregone ha scaraventato contro di noi gonfiandoli di panzane, ma se noi mostriamo un solo istante di debolezza in questo momento, non risponderei più nè della nostra automobile nè della nostra pelle. Ormai sono lanciati e non si arresteranno finchè non avranno vendicati i loro compagni. — E Dik? — Che cosa volete che vi dica? — Non possiamo abbandonarlo. — Non ci penso affatto. — Se provassimo a venire a trattative? — Non vedete che scappano sempre? — Signor Gastone, vorrei darvi un consiglio. — I vostri li ho trovati, almeno finora, sempre ottimi, quindi potete parlare liberamente. — Se mettessimo in moto l’automobile per averlo sempre pronto? — Ottima idea. Faremo una corsa intorno al villaggio. Il freddo intenso ha rassodata la neve e le nostre ruote morderanno bene. Tenete d’occhio gli esquimesi, voi. — Nessuno si avvicinerà, signor Gastone. Il mio serbatoio è pieno e potrò coprire le capanne con una vera grandine di palle. — Il canadese si era slanciato sull’automobile per far funzionare il motore, cosa che richiedeva pochi minuti, essendo la vettura munita del magnete Bosch a bassa tensione con candele a rupteurs. Lo studente intanto sorvegliava attentamente le capanne, pronto a far fuoco sul primo esquimese che si presentasse con intenzioni ostili. — Sono pronto, — disse ad un tratto il canadese. Il motore funzionava lanciando in aria i suoi metallici e poderosi teuff-teuff. Tutta la vettura pulsava e fremeva, impaziente, dopo un così lungo riposo, di riprendere le sue corse vertiginose. — Devo salire? — chiese Walter. — Certo, — rispose il canadese. — Faremo per ora una corsa intorno al villaggio per provare la resistenza della superficie nevosa. — E gli esquimesi? — Vedremo che cosa sapranno fare vedendoci in corsa. A me il volante, a voi il mauser. Se ci lasciano tranquilli non fate fuoco. Ne hanno avuto abbastanza, credo, e noi abbiamo già dei delitti sulla coscienza. — Uh!... Le botti di grascia pesano poco, — rispose lo studente, salendo a fianco del canadese. Una lunghissima nota metallica lacerò l’aria satura di nevischio, propagandosi attraverso la pianura sulle ali del vento, ed il treno si slanciò impetuosamente innanzi, sul largo solco aperto dalle pale. Con un balzo brusco sormontò lo strato di neve che si trovava all’estremità dello squarcio e si precipitò sulla pianura rumoreggiando e traballando. La sirena continuava a urlare coprendo gli ululati del vento e rombando dentro le capanne ed i corridoi, con poco piacere certamente degli esquimesi, già sinistramente impressionati dalla voracità di quella bestia misteriosa. Il treno descrisse un gran circolo intorno al villaggio, poi si arrestò dietro l’ultima capanna, mentre i due esploratori gridavano a piena gola: — Dik!... Dik!... Saltate fuori!... — Invece dell’ex-baleniere fu il capo che si mostrò, accompagnato dall’angekok. Da dove erano sbucati? Nè il canadese, nè lo studente si occuparono di saperlo. — Briccone!... — gridò il signor di Montcalm, abbandonando il volante per afferrare la rivoltella che aveva appesa allo scudo. — Cerchi di farci pagare ancora la tua ospitalità? Dov’è l’uomo bianco? Rispondi, o ti imbottisco di piombo. — L’uomo bianco si calmi, — rispose Karalit, tutto umile. — Io non vengo più come nemico, bensì come amico. — Che amicizia!... — esclamò Walter. — Fidatevi di questi furfanti!... Si protestano amiconi quando le hanno prese, e non si sentono più in grado di prendersi la rivincita. Signor di Montcalm, non vi fidate troppo di questa gente. — Non metterò i piedi sulla trappola delle volpi, — rispose il canadese. Karalit aveva fatto altri tre o quattro passi innanzi, studiandosi di mostrare la grossa rivoltella che non aveva affatto strappata a Dik, poichè l’aveva avuta in regalo. — Come vi ho detto, — ripetè, — vengo da amico. — Dammene subito una prova lasciando libero l’uomo bianco, — rispose pronto il canadese. — Ma tu mi hai ucciso degli uomini, — ribattè con altrettanta prontezza l’esquimese. — Ci hanno assaliti e noi ci siamo difesi. Quando i lupi assalgono le vostre slitte ed i vostri cani, che cosa fate voi? Vi lasciate divorare tranquillamente? — Ah no!... — E noi abbiamo fatto altrettanto contro di voi. — Non siamo lupi però noi. — Forse peggiori, perchè non potendo lavorare di denti, ci scagliavate contro delle freccie. Risponda l’angekok che è il grande consigliere della tribù. — Lo stregone dondolò la testa, si avvolse maestosamente nella sua pelliccia d’orso bianco e si guardò bene dal rispondere. La logica stringente del canadese lo aveva messo certamente in grande imbarazzo e la sua lingua in quel momento si era paralizzata. — Deciditi dunque, — disse il canadese, il quale non perdeva di vista la grossa Colt che l’esquimese impugnava, temendo qualche tradimento. — Tu mi hai ucciso degli uomini, — ripete Karalit, dopo una lunga riflessione. — E così? — Devi ricompensare la tribù di una così grave perdita. — Sono sette i caduti, è vero? — Sì, — rispose Karalit. — Che cosa chiedi per loro? — La tua bestia e tutte le tue armi da fuoco. — Tu sei pazzo!... — Mandiamolo da Calkraff!... — gridò lo studente. — Se fosse qui lo appiccherebbe per bene!... — Il canadese si era bruscamente alzato. Aveva lasciata la rivoltella per afferrare il mauser ed aveva puntata rapidamente l’arma contro il capo, dicendo: — Se fai un solo passo per fuggire ti ammazzo!... A voi, Walter!... Puntate lo stregone!... — Lo studente aveva già compreso al volo l’intenzione del canadese. Pronto come il lampo aveva già preso di mira l’angekok, il quale aveva sbarrati spaventosamente gli occhi credendo che fosse giunto il suo ultimo momento. Karalit non aveva nemmeno osato alzare la rivoltella, la quale doveva contenere ancora quattro o cinque cariche. — Mi volete uccidere? — gridò, con voce tremante. — Certo, se non dai subito l’ordine ai tuoi sudditi di mettere in libertà l’uomo bianco e se non getti via quell’arma che non sapresti d’altronde adoperare. — Io sono venuto da te come amico, — balbettò il capo, il quale guardava con spavento la canna del fucile. — Ed io ti tratto come un nemico pericoloso invece, — rispose il canadese. — O mi obbedisci o sparo. Getta quell’arma!... — Karalit capì benissimo che quello non era il momento di esitare nè di tentare una qualunque resistenza, e lasciò cadere la rivoltella, mentre l’angekok, che tremava come una foglia, gettava via la fiocina. — Ora ordina ai tuoi uomini di mettere subito in libertà il prigioniero. — Andrò a prenderlo io stesso. — No, amico, — disse il canadese. — Darai l’ordine rimanendo qui. — Ti prometto.... — Non promettere niente, perchè già non ti crederei. — L’esquimese digrignò i denti e brontolò qualche cosa, poi finalmente si decise a lanciare delle grida che dovevano avere il loro significato, poichè pochi momenti dopo dal corridoio d’una capanna usciva una forma umana, la quale si diresse sollecitamente verso l’automobile. — Dik!... Dik!... — gridarono ad una voce il canadese e lo studente. — Buona sera, signori, — rispose l’ex-baleniere, colla sua solita voce tranquilla. — Spero che non vi sarete troppo inquietati della mia prigionia. — Un po’ sì, — disse lo studente. — Avrebbero potuto uccidervi. — Ah!... Baie!... Questi uomini non sono così cattivi come credete, e se non si fossero cacciati in testa che la nostra macchina è una divoratrice d’orsi e di foche, non ci avrebbero dato nessun fastidio. Che cosa volete, sono un po’ superstiziosi. Ecco tutto. Signor di Montcalm, regalate loro alcune bottiglie di gin, se non vi spiace, tanto per compensarli delle perdite subite. — Che hanno volute, — disse lo studente. — Dategliele pure, — disse il canadese, — e lasciate pure al capo la vostra rivoltella. — L’ex-baleniere aprì il carrozzone, empì un canestro di bottiglie e le porto a Karalit, il quale pareva ancora istupidito. — Va a berle alla nostra salute coi tuoi sudditi, — gli disse. Poi aggiunse a bassa voce: — Va a farti impiccare, minchione!... — Ciò detto balzò sull’automobile prendendo il volante e lanciò il treno a tutta velocità, attraverso la sconfinata pianura coperta già da un buon metro di ghiaccio. Karalit aveva raccolta prontamente la rivoltella ed aveva sparato un paio di colpi, ma ormai l’automobile era lontana. — Ah birbante!... — esclamò lo studente, il quale aveva uditi gli spari, malgrado il fragore che produceva l’automobile. — Non credevo che quei piccoli uomini fossero così cattivi. Che gli dia una lezione, signor Gastone? — Lasciatelo andare, — rispose il canadese, abbassandogli il fucile che aveva già impugnato. — Non aggiungiamo un’altra vittima a quelle che abbiamo già fatte. — Graziamolo pure, egli però se avesse potuto, non ci avrebbe risparmiati. — Che cosa volete: sono vendicativi questi abitanti dei grandi freddi, e non meno degli abitanti dei grandi calori. Dik, badate!... Poggiate verso la baia e state attento ai corsi d’acqua che sono ormai gelati e scomparsi sotto la neve. Slittano le ruote? — No, signore: mordono abbastanza bene. — Rallentate un po’. Dobbiamo pensare anche al carrozzone, la nostra casa che ci sarà più cara dei motori, quando i grandi freddi piomberanno su di noi. — Mi pare che comincino a prenderci già ora, — disse lo studente, stringendosi addosso la pelliccia. — Mi pare che il mio naso voglia andarsene a tener compagnia alla neve. — E questo non è ancora nulla, — rispose il canadese — Non abbiamo che 30° sotto, una vera inezia. — Volete spaventarmi, signor Gastone? — No, prepararvi. — A sfidare.... — Una cinquantina di gradi. — Mi sento gelare di già. — Eppure gli esploratori polari che a migliaia e migliaia si sono avventurati fra le alte latitudini, li hanno sopportati. — Erano di ferro quelli. — Lo diventeremo anche noi, Walter, — rispose il canadese, ridendo. — Toh!... Ecco che ricomincia a nevicare. La bianca dama ci accompagnerà certamente fino al Polo, se riusciremo a giungervi. — Ne dubitereste? — Mah!... — Badate che lassù splendono i begli occhi di miss Ellen. — Una nube passò sulla fronte del canadese e le sue labbra si contrassero ad un sorriso ironico. — Credo, — disse poi, con voce un po’ sorda, — che gli occhi della miss abbiano ben poco a che fare col Polo ormai. Ora non si tratta più che dell’onore della bandiera: il Canadà o gli Stati dell’Unione? Spero di far impallidire le stelle di mister Torpon sotto i colori della vecchia Francia. — Non sotto il rosso infuocato dei miei compatriotti? — No, Walter, — rispose con voce grave il signor di Montcalm. — I vecchi canadesi sono rimasti francesi. Dik.... rallentate! La pianura diventa cattiva. — Ed infatti la immensa pianura che costeggiava la baia dalla parte di ponente, cominciava a diventare pessima. Le grandi raffiche che avevano soffiato nei giorni precedenti sul mare interno, avevano accumulata la neve in ammassi considerevoli i quali formavano delle vere montagnole, entro le quali l’automobile, che filava con una velocità di cinquanta chilometri all’ora, si affondava sfaldandole e seppellendovisi quasi dentro. Per di più ricominciava a nevicare a larghi fiocchi ed un vento impetuoso e freddissimo scendeva dalle regioni boreali spazzando, di quando in quando, la sterminata pianura con una violenza inaudita. — Brutta giornata!... — esclamò lo studente. — Purchè non veniamo bloccati in mezzo a questo deserto di neve! — Dik aveva rallentata la velocità anche perchè gli ostacoli aumentavano continuamente e la tempesta di neve aumentava con una rabbia impressionante. La macchina si affannava a vincere i cumuli di neve, funzionando con grande energia e riempiendo del suo fragoroso respiro la bianca pianura. Le sue ruote anteriori, che giravano vertiginosamente, aprivano nella neve due larghe breccie, come due gigantesche ferite entro cui quelle posteriori affondavano pesantemente, seco trascinando il carrozzone il quale funzionava come una gigantesca catapulta. Pareva che l’automobile fosse diventata una nave sbattuta dalla tempesta, poichè rollava e beccheggiava entro i crepacci che la neve aveva ormai coperti e che cedevano sotto il peso dei motori. Intanto il vento aumentava e la neve turbinava così fitta che certe volte l’ex-baleniere non riesciva a mantenere la direzione giusta, quantunque il canadese tenesse la bussola in mano. L’alba era ancora assai lontana, essendo le notti lunghissime in quelle regioni dei grandi freddi. Il treno si dirigeva ormai a caso, piegando sempre verso ponente per non trovarsi improvvisamente sulle coste della grande baia e cadervi dentro. Intorno agli esploratori, rannicchiati sui loro sedili, da ogni parte imperversava la bufera di neve, piena di ululati e di fragori sinistri. L’orizzonte si era chiuso rapidamente sotto un denso velo di nebbia il quale si avanzava coll’impeto delle onde del mare sospinte dall’uragano. Pareva che una falce gigantesca, vertiginosamente agitata, volesse precipitarsi sul treno e spazzarlo via o sminuzzarlo. Nelle alte regioni dell’aria turbinavano migliaia di ghiacciuoli, sottili come spilli, i quali di quando in quando si abbattevano sull’automobile, colpendo senza misericordia Dik, non protetto dalla capote di cuoio, pungendogli dolorosamente il viso e le mani esposte sul volante. Di quando in quando le raffiche cessavano, come se desiderassero un po’ di riposo per riprendere maggior lena, poi si scatenavano con furia indicibile, ululando o ruggendo e scagliando dentro l’automobile turbini di neve e di ghiacciuoli i quali s’ingolfavano, come una tromba, perfino dentro la capote, strappando al poco paziente campione di Cambridge una interminabile sfilza di maledizioni. L’automobile correva, correva: il suo motore funzionava sempre rabbiosamente per vincere gli urti sempre più poderosi del vento. Si era affondata nella nebbia, la quale aveva finito per raggiungerlo. Una oscurità densissima ormai l’avvolgeva. Dove andava? Attraverso la tempesta che ruggiva da tutte le parti, senza poter avere una direzione esatta. Ad un tratto la macchina si drizzò come un cavallo che s’inalbera sotto un poderoso colpo di sperone e ricadde pesantemente, seppellendosi quasi intera in un enorme cumulo di neve che aveva sfondato col proprio peso. La vettura di rimorchio, spinta dallo slancio, la investì con un fragore spaventevole. — Dik!... — gridò il canadese. — Che cosa è successo? — Una cosa semplicissima, signore, — rispose l’ex-baleniere, colla sua calma abituale, chiudendo d’un colpo i freni. — Siamo in panne. — È guastata la macchina? — Non lo so. — Eppure il motore funziona sempre. — Buon segno. — Arresta ed aspettiamo l’alba. — È fatto. — Ed ora ritiriamoci nel carrozzone e lasciamo che la burrasca passi, giacchè non si può più andare innanzi. — E prepariamoci la cena che ieri sera ci è mancata, — disse Walter. — Il mio stomaco la reclama imperiosamente. Non so se quello di Dik sia stato riempito di teste di foca o di grasso di balena. — L’ex-baleniere masticò fra i denti qualche cosa, probabilmente una bestemmia, poi balzò a terra affondando nella neve fino quasi alla cintola. — Una notte d’inferno, è vero, mastro Dik? — chiese lo studente. — Uh!... Ne ho vedute ben altre nello stretto di Lancashir, — rispose il marinaio, alzando le spalle. Tolse la sbarra al carrozzone ed entrò accendendo subito la stufa e la lampada. Il canadese e lo studente, dopo d’aver sbarazzato le pelliccie dai ghiacciuoli, l’avevano seguito, mentre al di fuori la tempesta di neve si scatenava con violenza inaudita, ed in lontananza le grosse ondate della baia di Hudson muggivano più forte che mai, sfasciandosi contro la desolata costa. CAPITOLO XV. L’attacco degli orsi bianchi. Tutta la notte fu un rombo continuo intorno al treno che affondava sempre più nella neve turbinante in tutte le direzioni, poichè pareva che tutti i venti dei quattro quadranti si fossero messi in lotta, urtandosi con rabbia folle. I tre esploratori non avevano osato chiudere gli occhi pel timore che qualche raffica riuscisse a mandare anche il carrozzone colle ruote in aria, cosa non difficile ad accadere con tanta furia di vento. Rannicchiati presso la stufa, colle pipe in bocca, attendevano pazientemente che spuntasse l’alba, colla speranza che anche la tempesta di neve cominciasse a decrescere e permettesse loro di riprendere la corsa. Dopo una lunghissima attesa, il cielo cominciò finalmente ad imbiancarsi verso levante. Una larga ferita si era aperta fra le tempestose nubi ancora gravide di neve e di ghiacciuoli, allungandosi verso l’opposto orizzonte, diventando rapidamente violacea, poi rossastra. Il sole stava per mostrarsi fra un altro grande strappo di vapori cavalcanti sulle ali del vento, e colla comparsa dell’astro la tempesta accennava a diminuire rapidamente d’intensità. Il canadese si era alzato, mentre lo studente preparava il thè, e si era affrettato a lanciare uno sguardo attraverso un finestrino. — Perbacco!... — esclamò. — Siamo quasi sepolti sotto la neve. Avremo ben da fare per aprire una via alla nostra macchina. Dik, preparatevi a raggiungerla e ditemi se ha sofferto. — Subito, signore, — rispose l’ex-baleniere, gettandosi addosso una pesante pelliccia. — Con questo freddo la neve si rassoda rapidamente e non correrà il pericolo di affondare. — Aprì la porta, ma subito si arrestò mandando un grido soffocato. Un gigantesco orso bianco era sorto bruscamente dinanzi a lui, uscendo dall’ammasso di neve che si addossava al carrozzone, spalancando una bocca enorme armata di lunghi denti gialli, solidi forse quanto l’acciaio. Un momento di esitazione ed il terribile carnivoro balzava dentro. Fortunatamente l’ex-baleniere non era un uomo troppo impressionabile, tanto più che aveva avuto, durante la sua vita avventurosa fra le regioni nordiche, altri incontri con quegli abitanti dei ghiacci eterni. Rimessosi prontamente dalla sorpresa, aveva chiusa con fragore la porta sul muso del bestione, sprangandola. — Che cosa avete, Dik? — domandò il canadese, il quale essendo occupato a mettere a posto alcune casse, non si era avveduto di quel brutto incontro. — Che non mi aspettavo una simile sorpresa, signore, — rispose l’ex-baleniere, con voce un po’ alterata. — Credevo di doverli trovare più al nord. — Chi? — Gli orsi bianchi. — Lo studente che, come abbiamo detto, stava preparando il thè, udendo quelle parole, aveva lasciato cadere il bricco pieno d’acqua bollente, mentre il signor di Montcalm interrogava collo sguardo il meccanico ancora pallido. — Corpo di Giove!... Scherzate, mastro Dik? — gridò il campione di Cambridge. — Non mi pare che questo sia il momento, signore, — rispose il baleniere. — Vi dico che quei signori dalla bianca pelliccia sono venuti a farci visita. — Vi hanno consegnato il loro biglietto di visita? — chiese Walter. — Date qui.... Vedremo come lavorano gli stampatori polari. — Andate a farvelo dare voi, se vi piace, — rispose Dik. — Orsù, disse il canadese, — spiegatevi meglio. Dove sono questi orsi? — Davanti alla porta. Se non mi affrettavo a chiuderla il primo entrava. — Non avrete preso un blocco di neve per un orso bianco? — Ah no, signor di Montcalm. Aveva tanto di bocca e certi denti da far venire la pelle d’oca al più coraggioso cacciatore della Compagnia delle pelliccie. — Erano molti? — chiese lo studente, per nulla impressionato. — Io non ne ho veduto che uno, ma ve ne possono essere degli altri, avendo quegli animali l’abitudine di andare accompagnati e talvolta perfino a branchi. — Vediamo, — disse il canadese, staccando un fucile dalla parete, subito imitato dallo studente. Aprirono uno dei finestrini più vicini alla porta e guardarono fuori. Subito una testa comparve dinanzi a loro, alitando in pieno viso ad entrambi un fiato caldo e fetente. — Corpo di Giove!... — esclamò lo studente, balzando indietro. — È ben un orso bianco questo. — Vi ha consegnato il suo biglietto di visita? — chiese Dik, ironicamente. — Sarò io che gli darò il mio sotto forma d’una buona palla. — Il canadese aveva pure fatto un passo indietro ed aveva passata la canna del mauser attraverso il finestrino, ma l’orso bianco era scomparso. — Non sparate? — chiese Walter, il quale aspettava il colpo. — Il briccone si è nascosto sotto il carrozzone, — rispose il canadese. — Vi sono tre o quattro larghe buche scavate quasi dinanzi alla porta. — Che in ognuna vi sia un orso? — Lo sospetto, Walter. — Che aspettino che usciamo per mostrarsi? — È probabile. Che cosa dite voi, Dik? — Che siamo assediati, — rispose l’ex-baleniere. — E potrà durare molto questo assedio? — chiese lo studente. — Se sono affamati non se ne andranno se prima non avranno fatto almeno una colazione colle nostre polpe. — In quanto a questo, la vedremo, mio caro baleniere. — Vi è poco da scherzare cogli orsi bianchi. Valgono i grizly delle Montagne Rocciose. Quello che ho veduto io era lungo non meno di due metri. — Signor di Montcalm, che cosa pensate di fare? — Lo domando a voi, Walter. — Se provassimo a sparare un po’ di rivoltellate per deciderli a mostrarsi? — Si può tentare. Dik, prendete anche voi un fucile e mettetevi all’altro finestrino. Se si alzano, non fate economia di piombo. — Sono pronto. — Ed io pure, — disse lo studente, impadronendosi d’una Colt. — Se sono dei coraggiosi, dovrebbero accettare subito la battaglia che loro offriamo. — Io credo invece che non saranno tanto minchioni, — disse l’ex-baleniere. — Non devono trovarsi troppo male sotto il carrozzone, colla stufa che brucia qui dentro. — E non vi sarà qualche pericolo per l’automobile? — Tutt’al più divoreranno la capote di cuoio, — rispose lo chaffeur, con un brutto sorriso. — Provate, Walter, — disse il canadese. Lo studente si affacciò al finestrino, allungando, prima di tutto, il braccio armato della grossa rivoltella, e guardò entro le buche che il canadese aveva notate e gli parve di vedere la neve muoversi. — Sono lì sotto, — pensò. — Vediamo se salteranno fuori. Si sporse più innanzi che potè e sparò, uno dietro l’altro, sei colpi, urlando: — Fuori!... Fuori poltroni!... — Dei grugniti minacciosi furono la sola risposta che ottenne. — Non si mostrano? — chiese il signor di Montcalm, il quale attendeva col dito sul grilletto del mauser. — Ma che!... Sono degli orsi vigliacchi, — rispose Walter. — Io al loro posto mi sarei per lo meno degnato di mostrare la punta del mio naso. — Questa avventura da nessuno desiderata comincia ad inquietarmi. — Quando non troveranno di che sfamarsi se ne andranno, signore. — Uhm!... Gli orsi bianchi sono abituati ai più lunghi digiuni. — E sono realmente terribili, signor Gastone? A vederli non si crederebbe. — Sono ancora più pericolosi di quelli grigi delle Montagne Rocciose, poichè posseggono una forza straordinaria ed un coraggio a tutta prova. — Questi no, signore. Lo escludo assolutamente. — Provate a mostrarvi fuori del carrozzone e mi saprete dire poi qualche cosa. — E sono più grossi dei grizly? — Sì, quando sono adulti, — rispose il canadese. — Si sono veduti dei vecchi maschi lunghi perfino due metri e mezzo, e se ne sono uccisi di quelli che non pesavano meno di quattrocento chilogrammi. — D’ottima carne? — Eccellente, poichè, eccettuato il fegato, che talvolta produce dei grandi dolori a chi lo mangia, tutto è buono dell’orso bianco. — Speriamo di assaggiare questa delizia polare. Mastro Dik, che cosa fanno quei signori? — Mi pare che russino tranquillamente, rispose l’ex-baleniere. — Ed allora prendiamo il nostro thè, — concluse lo studente. — Non vi è ragione alcuna per rinunciare alla colazione. — Così sarete un po’ più grasso se qualcuna di quelle bestiaccie riesce ad acciuffarvi, — brontolò l’ex-baleniere, ritirando il fucile e richiudendo il finestrino. La presenza di quattro o cinque orsi, pronti a fare una scorpacciata di carne umana, non aveva tolto affatto l’appetito ai tre esploratori, poichè divorarono tranquillamente la loro colazione, facendo un’ampia breccia nella cassa del biscotto. D’altronde non potevano correre alcun pericolo finchè si tenevano rinchiusi nella loro fortezza, poichè la porta era bene sbarrata, le finestre troppo piccole per permettere agli assedianti di entrare, e le pareti così solide da sfidare tutte le unghie riunite di tutti gli orsi bianchi della baia di Hudson. C’era però il pericolo che quell’assedio si prolungasse per molti giorni, facendo loro perdere un tempo troppo prezioso. Altri uragani di neve potevano scoppiare e seppellirli anche per delle intere settimane, e la stagione fredda era già abbastanza inoltrata per contare sulle buone giornate molto problematiche e anche troppo brevi in quelle regioni. I tre esploratori si erano rimessi in osservazione dinanzi ai finestrini, tenendo i fucili a portata di mano, ma pareva che gli orsi bianchi si trovassero troppo bene sotto il carrozzone e che pel momento non avessero nessuna intenzione di forzare la piazza forte. Walter, che aveva levato il grosso feltro che copriva il tavolato, accostando bene or l’uno ed ora l’altro orecchio, aveva dichiarato che le gigantesche bestie russavano beatamente, come se fossero sicure di fare, presto o tardi, una scorpacciata delle carni dei tre assediati. A mezzodì nulla di nuovo era avvenuto. Solamente il tempo si era rimesso al cattivo, facendo sparire il sole sotto una nuvolaglia gravida di neve che pareva impaziente di scaricarsi del soverchio peso. Dik, coricato su una poltrona, non aveva cessato di fumare come una vaporiera; il signor di Montcalm aveva occupato il suo tempo a mettere un po’ in ordine le casse e le cassette che ingombravano il carrozzone; il campione di Cambridge non aveva trovato di meglio che aprire un libro che si occupava della vita degli orsi bianchi. Diavolo!... Prima di affrontarli voleva almeno conoscere bene le loro abitudini e sopratutto accertarsi bene della loro ferocia. Non si trattava più della corsa delle cento yarde, nè del gran salto!... Si trattava della pelle, altro che delle gambe!... — E dunque, Walter? — chiese il signor di Montcalm, avvicinandosi allo studente, dopo di aver guardato l’ora. — Pare che gli orsi vi abbiano fatto dimenticare che tutti i mortali dell’orbe terracqueo, quando battono le dodici, usano cacciare qualche cosa in corpo. — Per tutti i fulmini di Giove, avete ragione, signor Gastone!... — esclamò lo studente, scaraventando il libro dall’altra parte del carrozzone. — Tanto v’interessavano gli usi ed i costumi di questi abitatori polari a quattro gambe e troppi denti? — In fede mia sì. — E che cosa avete appreso dunque? — Che se non si ammazzano a colpi di fucile o di rampone non si lasciano mangiare. — Soltanto questo? — Per ora sì. — Lo sapevo anch’io, senza leggere quell’interessantissimo libro. Visto e considerato però che quegli amabili animali non desiderano per ora offrirsi ai nostri mauser, fareste bene a prepararci della carne di bue conservata, con dei cavoli sotto aceto, così terremo lontano lo scorbuto. — Ecco il cuoco all’opera, signore, — rispose lo studente, precipitandosi verso la stufa armato d’una padella. — E voi, Dik, che nuove avete da darmi dei nostri vicini? — Che si sono armati di molta pazienza, rispose l’ex-baleniere, alzando le spalle, — e che ricomincia a nevicare. — Ancora? — Fa molto buio al nord, signore. — Brutto affare. Il nostro treno si immobilizzerà. — Faremo come gli orsi, signore: ci armeremo di pazienza. D’altronde che cosa ci manca qui? I viveri abbondano, il wisky ed il gin sono eccellenti ed il tabacco non manca. Non si potrebbe desiderare di più! — Ed il tempo passa. — Al Polo non ci si bada al tempo, signore. — Ma mister Torpon potrebbe giungervi prima di noi e questo non lo desidererei affatto. — L’ex-baleniere scrollò un’altra volta le spalle. — Non vi è giunto ancora, — disse poi. — Non si va facilmente al Polo quantunque anch’io riconosca che l’automobile abbia maggiori probabilità d’un veliero o d’un piroscafo. Per centomila balenotteri!... — Che cosa avete, Dik? — Il baleniere aveva volto lo sguardo sul fornello sul quale lo studente, cuoco improvvisato eppure abbastanza abile, stava preparando la seconda colazione. — Hanno un buon naso gli orsi, — disse. — Ed infatti, quando noi volevamo attirarli sulla costa, bastava dar fuoco ad una scatola piena di grasso. Anche se si trovavano a dieci miglia di distanza accorrevano, per offrirsi gentilmente ai nostri colpi di carabina. — Che cosa volete dire, Dik? — chiese il canadese. — Che qualcuno viene a reclamare la sua parte di cola.... — Non aveva finita la frase. Un vetro d’una delle piccole finestre era stato infranto da un poderoso colpo di zampa, ed una testa era comparsa, sbuffando dentro il carrozzone una fumata d’aria densa. Lo studente aveva levata prontamente dal fuoco la padella e si era precipitato dinanzi alla finestrina, gridando: — Eccovi servito, signore!... La carne è pronta!... Favorite entrare, se la vostra pelliccia non vi impedisce!... — L’orso bianco, attirato certamente dal profumo che esalava la carne aveva spalancate le mascelle mandando un urlo rauco. Il canadese, con rapidità fulminea, si era impadronito d’una rivoltella, gridando: — Indietro, Walter!... Lasciate che gli faccia pagare anticipatamente il conto del vetro e della colazione!... — Lo studente si era precipitosamente abbassato, guardando bene di non rovesciare la padella. Il signor di Montcalm, che si trovava ad un passo dal finestrino, aveva alzato il braccio sparando furiosamente. Al primo colpo l’orso aveva spalancato maggiormente le mascelle: al secondo aveva mandato un urlo ferocissimo che si era ripercosso sinistramente dentro il carrozzone; al terzo le sue zampe, aggrappate all’orlo del finestrino, si erano staccate; al quinto tutto il suo corpo gigantesco si era alzato sotto la spinta delle zampe deretane, mostrando il petto, ed al sesto era stramazzato, affondando nell’alto strato di neve. — Signore!... — gridò Walter, slanciandosi verso il finestrino. — E la mancia? Pezzente, me l’avete frodata come un negro dell’Angola!... Prendi, canaglia!... Mangia anche questo, giacchè hai annusato il profumo!... Ti consolerà nelle ultime strette dell’agonia!... — Ed il mattacchione, senza pensare che i suoi compagni attendevano la colazione, scaraventò padella e contenuto dentro la buca dove era affondato il gigante dei mari glaciali. — Corpo di una balena!... — gridò Dik. — Che cosa avete fatto? E noi? — Lo studente si era voltato calmo, calmo, guardando ironicamente l’ex-baleniere, il quale pareva che fosse lì lì per scagliare fuori una interminabile sfilza di imprecazioni marinaresche. — E noi, — disse, — mangeremo uno dei zamponi dell’orso. Non sapete che valgono i prosciutti dei maiali d’Irlanda? — E chi andrà a prenderlo? Io no di certo. — Corpo di tutti i fulmini dell’amico Giove!... — esclamò Walter, grattandosi la testa. — Mi ero dimenticato che vi sono altri tre o quattro orsi nascosti sotto il carrozzone! Decisamente sono uno stupido!... — E grosso come un rinoceronte, — brontolò l’ex-baleniere, stritolando il cannello della pipa che teneva fra i denti. — Walter, — disse il canadese. — Era grossa la mancia? — Non l’ho ancora ricevuta, signore, — rispose lo studente, il quale appariva desolato. — Il fornello è sempre acceso però. — Lo vedo. — Se potete offrirci uno zampone arrostito, io e Dik siamo pronti ad assalirlo. — Ah no, signore. Domani forse, ma per ora non mi sento al caso. — Allora aprite delle altre scatole di conserva e rimettetevi al lavoro. — Mi lasceranno poi finire, i signori orsi? — Se verranno a disturbarvi ci penseremo noi, è vero Dik? — Sì, purchè il cuoco faccia presto. Il thè l’ho già in fondo ai talloni io. — Il canadese riaccese la sua pipa e si mise in osservazione dinanzi ad uno dei finestrini, mentre lo studente si affannava a preparare la colazione non senza brontolare contro gli orsi. L’uragano continuava ad imperversare al di fuori con furia crescente. La neve turbinava in forma di trombe immense, le quali finivano poi per abbattersi contro il treno, minacciando di seppellirlo. Degli orsi nessuna nuova. Sonnecchiavano pacificamente sotto il carrozzone, in attesa che gli uomini si decidessero ad uscire. Intanto aguzzavano l’appetito. CAPITOLO XVI. I cacciatori della baia di Hudson. Durante tutta la giornata, la tempesta non cessò di ruggire intorno all’automobile ed al carrozzone, aumentando le inquietudini degli assediati, i quali temevano di vedersi seppellire sotto parecchi metri di neve. La scomparsa della luce non portò nessun cambiamento. Fioccava sempre ed il vento non finiva mai di ululare. Sulla vicina baia di Hudson la tempesta doveva infuriare tremendamente. Il freddo aumentava. Un termometro appeso fuori da un finestrino aveva rapidamente raggiunto i 30°. — Signor di Montcalm, — disse lo studente dopo la cena, che era stata piuttosto triste. — Come finirà questa faccenda? Se questa tempesta continuerà, noi finiremo per non poterci più muovere. Tutta questa neve che si accumula intorno a noi gelerà e ci chiuderà come entro una morsa. — Che cosa volete che vi dica? — rispose il canadese, il quale fumava la sua pipa seduto dinanzi al tavolino collocato sotto la lampada. — Aspettiamo che questa ira di Dio cessi. — Può durare molti giorni. — Oh!... Anche delle settimane, se non dei mesi, — disse l’ex-baleniere. — Ne so io qualche cosa. — Se attaccassimo gli orsi? — Se si trattasse di affrontarne uno, fors’anche due, vi direi, mio caro Walter, che io sono pronto a balzare fuori e ad impegnare risolutamente la battaglia. Quattro!... Ah!... Sono troppi per tre uomini. Che ne dite, Dik? — Che ci mangerebbero, — rispose il marinaio. — Cerchiamo un qualche mezzo per farli scappare. — Cercate pure, Walter. — Se fossi certo che il carrozzone non prende fuoco, aprirei un buco nel pavimento e bagnerei per bene quelle bestiaccie. — E perchè no!... — esclamò il canadese, colpito da quella idea originale. — Si spegne la stufa e la lampada ed ecco evitato il pericolo d’un incendio. — M’intendevo di arrostirli, signore. — Ah no, mio caro!... Abbiamo troppe munizioni e troppa benzina qui e non mi sorride affatto l’idea di saltare in aria insieme al carrozzone. Voglio andare al Polo io!... — Allora li arrostiremo quando verranno fuori. — Sì, se si terranno a debita distanza. — Approvate dunque la mia idea? — Pienamente. — Dik, aiutatemi. — Mentre io cerco una grossa trivella, — disse il canadese. Furono tolti il tavolo e parecchie casse e fu levato il tappeto di feltro, mettendo a nudo il tavolato. Lo studente accostò innanzi tutto un orecchio, ascoltando attentamente ora più innanzi ed ora più indietro. — Si odono? — chiese il canadese, che si era armato della trivella. — Sono qui sotto, signore. Russano come contrabbassi scordati. — Dik, spengete la stufa e la lucerna ed anche la vostra pipa, e portate qui una latta di benzina. Le precauzioni non sono mai troppe con un liquido così infiammabile. — Il pavimento fu subito attaccato ed un buco della circonferenza d’un dollaro, fu ben presto aperto. Gli orsi dovevano trovarsi proprio lì sotto, poichè il loro poderoso russare giunse subito più sonoro agli orecchi dei tre esploratori, accompagnato anche da qualche grugnito soffocato. Qualcuno di quei bestioni doveva aver avvertito il rumore prodotto dalla trivella, quantunque fosse stata maneggiata con molta prudenza. — Accostate la latta e lasciate colare attraverso il foro, Dik. Un paio di litri basteranno per inzupparli. — Che si ubbriachino, signor Gastone? — chiese Walter. — Non ho mai conosciuto il gusto degli orsi, — rispose il canadese. — Può darsi che la benzina piaccia a questi giganti. — Procurerà in tal caso loro dei dolori atroci. Prepariamo la nostra piccola farmacia per poter somministrare loro un forte emetico. — Sì, burlone. — Un glu-glu li avvertì che la benzina cominciava a colare attraverso al foro. — Vedremo se bevono, — disse lo studente. — Scommetto che sono capaci di leccarsi il pelame ed anche i baffi. — Dei brontolii, che parevano dei ruggiti soffocati, lo persuasero invece del contrario. — Hanno ragione, — disse il chiacchierone. — Avrebbero preferito dell’olio di foca. Sarà per un’altra volta. — Gli orsi, sorpresi da quella inondazione di nuovo genere, si agitavano furiosamente e soprattutto sternutavano sonoramente. I loro poderosi dorsi urtavano il fondo del carrozzone con tale violenza, da imprimere alla casa viaggiante un vero movimento di rollìo. — Walter, — disse il canadese. — Alle finestre coi mauser! Basta, Dik!... Riaccendete invece la stufa e subito preparatemi un po’ di canape che inzupperete nella benzina. Guardate nella cassa N. 7. — Signor Gastone, volete fare un arrosto? — chiese lo studente. — Sì, d’orso vivo, — rispose il canadese. Mentre l’ex-baleniere levava il recipiente chiudendolo per bene, si erano slanciati verso due finestrini dopo di essersi armati dei fucili. Gli orsi stavano per abbandonare il loro rifugio e s’aprivano il passo attraverso la neve già gelata, scavando rabbiosamente. Erano dalla parte della porta, poichè era proprio là che il carrozzone subiva i più poderosi urti. — La stufa!... — gridò il canadese. — Vengono!... — È pronto, — rispose Dik. — La lampada ora. — È fatto. — Eccoli!... — gridò in quel momento lo studente. Un orso enorme, forse più grosso ancora di quello che era stato ucciso, era comparso rizzandosi, con una brusca mossa, sopra lo strato di neve. Muggiva come un giovane toro, alternando dei nitriti di cavallo. Un altro gli aveva tenuto subito dietro. Il canadese apri il finestrino gridando a Dik: — Accendete la canapa!... — Una luce intensa illuminò l’interno del carrozzone. L’ex-baleniere aveva dato fuoco ad un grosso rotolo di canape incatramato ed inzuppato abbondantemente di benzina. — Qui!... Qui!... Dik!... Gettate!... — I due orsi si erano arrestati a tre o quattro metri dal carrozzone e pareva che attendessero i compagni prima di scagliarsi all’assalto. Era il momento opportuno. Dik d’un salto fu presso il finestrino che il canadese aveva precipitosamente abbandonato per lasciargli il posto e gettò la canapa fiammeggiante. Una vampata gigantesca avvolse tosto i due disgraziati orsi il cui pelame era inzuppato di benzina. Urla spaventevoli lacerarono l’aria, vincendo in potenza perfino i ruggiti della tempesta. Le due bestie che ardevano come torcie e che si sentivano crepitare la pelle addosso e calcinare le carni sotto i morsi del terribile liquido, girarono per alcuni istanti su loro stessi come se fossero stati colpiti da una improvvisa pazzia, poi si slanciarono a corsa sfrenata attraverso la pianura nevosa lasciandosi dietro due immense striscie di fuoco e di scintille. — Ah!... Poveri diavoli!... — esclamò lo studente. — Dovevano piuttosto lasciarsi ammazzare docilmente da noi e servirci dei copiosi pranzi. Chi mangerà ora la loro carne arrostita alla benzina? — Ci penseranno i lupi, — rispose l’ex-baleniere. — I loro stomachi non soffriranno. — Aveva preparato un altro rotolo di canapa e l’aveva asperso di benzina. Il canadese si era riaffacciato al finestrino. Anche gli altri due orsi, attirati dalle urla dei loro compagni, ancora galoppanti fra la bufera di neve, si erano mostrati. — Sotto, Dik!... — gridò. — Non li lasciate scappare!... — Il baleniere diede fuoco alla canapa e la gettò nuovamente, colla mano sicura di un esperto fiociniere. Il risultato, come era già da prevedersi, fu identico al primo. I disgraziati animali che mai di certo avevano conosciuto il fuoco, furono avvolti in una gigantesca fiammata, e pazzi di dolore si erano slanciati a loro volta in mezzo alla tempesta di neve, mescendo le loro urla orribili a quelle del vento. Per parecchi minuti i tre esploratori videro vagolare per la pianura quelle quattro torcie viventi spandendo di tratto in tratto dei grandi sprazzi di luce, poi l’oscurità ripiombò, e la neve che continuava a cadere con rabbia estrema coperse tutto. — È finito, — disse lo studente, la cui voce sembrava un po’ commossa — Ah!... Che terribile fine hanno fatto quei poveri orsi!... Dal grande freddo sono passati improvvisamente al gran caldo e che caldo!... Non vorrei provarlo mai!... — Avete cinque delitti sulla coscienza, dei quali dovrete rendere conto al genio protettore benigno di tutti questi abitanti del gran nord. — Dovevamo lasciarci divorare dunque, come semplici bistecche? Con quelle bocche non vi era da scherzare. Se il buon o cattivo genio polare verrà a rimproverarmi di aver fatto fare ai suoi figli una morte così atroce, lo inviterò a mettersi in mezzo a cinque dei suoi orsi e vedremo che cosa lasceranno di lui. — La vostra idea è stata veramente meravigliosa, Walter. È vero che potevamo fare anche noi l’egual fine. Se invece di fuggire si fossero precipitati contro il nostro carrozzone, che scoppio sarebbe avvenuto, se il fuoco si fosse comunicato! — Lo ammetto, signor Gastone, ma quei bravi orsi hanno avuto il buon senso di non farlo. — E siete loro riconoscente? — Certo, — rispose seriamente lo studente. — Ciò non v’impedirà però di assaggiare gli zamponi del bestione che è caduto sotto le nostre palle e che è affondato nella neve, quasi dinanzi alla porta. — Per tutti i fulmini di Giove!... Me l’ero scordato!... — Un cuoco che dimentica quattrocento chilogrammi di carne deve essere un pessimo cuciniere. — No, uno stordito, signore, perchè io vi farò vedere come arrosolerò quegli zamponi. — Uhm!... Uhm!... — fece Dik, guardando lo studente di traverso. — Signor Gastone, — riprese Walter, — che proviamo? — A che cosa fare? — A issare quel bestione. — Ci vorrebbe una grue con un buon paranco. Lo faremo a pezzi sul posto quando questa dannata bufera sarà cessata. Pel momento preferisco fumare la mia pipa accanto alla stufa e leggere la storia delle spedizioni polari. — Io allora andrò a cercare un trattato dell’Ottimo cuoco che ho veduto nella piccola biblioteca, per prepararvi dei manicaretti.... conditi coll’olio di foca. — Ah!... Birbante!... — Quando saremo giunti più al nord, signore, dovremo ben abituarci all’olio di quegli anfibi. Io ho letto che Nansen, il famoso esploratore norvegese, cucinava i suoi pezzi d’orso, quando ne poteva avere, su una lampada alimentata con olio di foca. — Questo è vero, anzi si dichiarava abbastanza soddisfatto di quella cucina veramente esquimese. Andate pure a studiare, signor cuoco. — Anche durante tutto quel giorno la tempesta non cessò di ruggire intorno al treno, nè la neve di cadere. Fortunatamente le raffiche si succedevano così violenti da disperdere rapidamente i grandi cumuli di nevischio che si formavano qua e là, diversamente il carrozzone sarebbe rimasto sepolto sotto uno strato di parecchi metri. Solamente verso sera, nel momento in cui il sole, mostratosi per qualche minuto fra uno strappo delle nubi, «pallido come se avesse fatto una grave malattia» come diceva lo studente, il vento cominciò a cadere e la neve a sostare. Un freddo intensissimo che superava i 35° era subito succeduto, trasformando la sterminata pianura in un immenso campo di ghiaccio tutto ondulato. Alle 9 di sera non vi era più una nube in cielo e la luna splendeva meravigliosamente, facendo scintillare tutto lo spazio. Era il momento di tentare qualche cosa per liberare il treno il quale poteva correre il grave pericolo di subire quelle terribili pressioni prodotte dal dilatarsi dei ghiacci e che schiacciano le navi più poderose come fossero nocciuole. I tre esploratori, che avevano trascorsa quasi l’intera giornata sonnecchiando sui libri, invitati dal dolce russare della stufa, dopo essersi ben coperti, si armarono di picconi e di pale e sicuri ormai di non correre più alcun pericolo, saltarono sul campo di ghiaccio. — Questo si chiama veramente freddo!... — esclamò Walter, fregandosi furiosamente il naso per paura che gelasse. — E non siamo ancora al polo!... Come fanno dunque gli esquimesi a resistere? È vero che sono prossimi parenti degli orsi bianchi!... — Il ghiaccio si era ormai formato intorno al carrozzone ed all’automobile, d’uno spessore d’un paio di metri, ed aveva cominciato a stringere le ruote. Non vi era un momento da perdere. Il treno correva il pericolo di venire sfondato prima che l’alba spuntasse. I tre esploratori, consci della gravità della situazione, si misero valorosamente all’opera, maneggiando i picconi con suprema energia. La prima cosa che misero allo scoperto fu l’orso, sulla cui carne molto contavano per aumentare le loro provviste di trecentocinquanta o quattrocento chilogrammi di eccellente carne. Non potendo trarlo dalla buca, entro la quale stava gelando, a gran colpi di scure lo fecero a pezzi sul luogo, sacrificando la pelliccia per non perdere troppo tempo, poi dopo aver messo al sicuro quei grossi quarti sulla cima della vettura perchè si conservassero meglio, ripresero il duro lavoro. Soltanto verso la mezzanotte riuscirono a raggiungere e liberare l’automobile, la quale aveva sfidata impavida la bufera senza riportare danno alcuno. Si trattava ora di aprirsi dinanzi un solco a scarpata per prendere lo slancio e montare sul campo di neve, ed i tre esploratori, quantunque estenuati, vi si accinsero con novella lena facendo volare intorno a loro, a colpi di piccone, larghi pezzi di ghiaccio. Al primo impallidire delle stelle, tutto era pronto per la partenza, ed il motore aveva ricominciato a sbuffare, pronto a slanciarsi animosamente alla conquista del Polo. — Dik, — chiese il canadese, prima di dare l’ordine della partenza. — Quanta benzina avremo ancora? — Tanta da poter percorrere comodamente quattrocento miglia senza aver bisogno di rifornirci. — Allora lasciamo da parte il forte Severn e muoviamo direttamente su quello di Churchill. Così risparmieremo tempo. — E ne guadagneremo su Torpon, — disse Walter. — Non so che cosa pagherei per sapere dove si trova quel bisonte. — Speriamo che si trovi ancora sulle coste del Labrador, — rispose il canadese. — Che riesca anche lui ad andare al Polo? — Il signor di Montcalm guardò lo studente sorridendo: — Voi dunque, — gli chiese, — siete ben sicuro di giungervi? — Per tutti i fulmini di Giove!... Mi pare già di vedermi seduto sull’incrocio di tutti i meridiani dell’orbe terraqueo, signor Gastone. Chi potrebbe dubitare che uomini come noi non vi giungano? Andremo a fumare la nostra pipa lassù ed a vuotare una buona bottiglia di champagne in onore del vecchio Polo. — Questa vostra fiducia mi piace, Walter, — disse il canadese. — Sì, noi arriveremo al Polo. — E prima di quel bisonte, anche. — Certo, Walter. — Allora posso gridare: hurràh pel Polo. — Sì, mattacchione, e se.... — Un brusco salto dell’automobile gli spezzò la frase. — Che cosa succede, Dik? — chiese, riprendendo subito l’equilibrio. — La via diventa pessima, signore, — rispose l’ex-baleniere. — Questa neve copre delle insidie che non sempre si possono evitare. — Vi sono sotto dei crepacci che non si sa quanto siano larghi. — Volete rallentare? — Preferirei invece aumentare e passare sopra quelle spaccature in piena volata. — Fate come volete, purchè la vettura di rimorchio non si spezzi. — Rispondo io di tutto, signore. — La interminabile pianura che si stende lungo le coste occidentali della baia di Hudson, spingendosi fino al golfo di Boothia, incominciava infatti a diventare pessima. La tempesta che doveva aver infuriato con estrema violenza verso il nord, aveva accumulate la neve in quantità enormi, formando delle vere bastionate alte parecchi metri e che l’automobile era costretto a montare, non esistendo altri passaggi. Per di più il gelo intenso l’aveva rassodata sopra i numerosi corsi d’acqua che si scaricano nella baia, in modo da non potersi più scorgere. Una rottura dello strato nevoso poteva accadere da un momento all’altro sotto il peso delle due vetture, piuttosto considerevole, e delle gravissime conseguenze potevano succedere. Lo chaffeur che ci teneva, dopo tutto, alla propria pelle per poter godersi più tardi i dollari di mister Torpon, aveva aumentata la velocità per passare di slancio sopra quei pericolosi ostacoli. Da trenta miglia all’ora era passato alle cinquanta. Il motore funzionava rabbiosamente imprimendo alle ruote una rapidità vertiginosa. La vettura traballava come una nave in piena tempesta, inclinandosi ora a babordo ed ora a tribordo, poi si alzava di colpo per superare le bastionate di neve che si succedevano senza interruzione e sempre più ripide. Il canadese e lo studente sotto quelle scosse incessanti si urtavano l’un l’altro con grande pericolo di rompersi la testa. Dik, aggrappato al volante, stava invece saldo come un blocco di granito e non cessava di aumentare la velocità, poco preoccupandosi della vettura. Quella corsa pazza durava da un paio d’ore, quando alcune detonazioni rimbombarono in lontananza. — Rallenta, Dik!... — gridò il canadese. — Siamo vicini a qualche forte. — Che vi siano dei cacciatori qui? — chiese lo studente. — Quelli della Compagnia delle Pelliccie. — Allora Churchill non è lontano. — Ah!... Come scappano!... — Presso una collinetta erano comparsi degli animali somiglianti ai daini, ma molto più alti e più grossi di quelli comuni. Erano cinque o sei e fuggivano con grande rapidità sollevando, nella loro corsa sfrenata, coi robusti zoccoli, un turbinìo di nevischio. — Che cosa sono? — chiese lo studente, il quale aveva preso un fucile, colla speranza di fare un buon colpo. — Daini mooses, e se vi piace meglio, dei mangiatori di legno. È inutile che sprechiate una palla; qualcuno sarà già rimasto a terra poichè i cacciatori della Compagnia quasi mai mancano il bersaglio. Ah!... Eccoli!... — Due uomini coperti di pelli villose ed armati di fucile, muniti di racchette di rete per poter camminare anche sulla neve molle, erano comparsi a circa cinquecento passi dall’automobile la quale avanzava lentamente. Vedendo la macchina si erano arrestati, poi entrambi, con una mossa simultanea, avevano puntate in aria le loro carabine scaricandole. — Rispondete al saluto, Dik, — disse il canadese. Un urlo lacerante che durò parecchi secondi, mandato dalla piccola sirena, risuonò per l’aria, ripercuotendosi contro la collinetta. I due cacciatori affrettarono il passo ed in pochi istanti raggiunsero l’automobile, la quale si era arrestata dinanzi ad un bastione di neve. Erano due giovani di forme vigorose, con barbe appena nascenti, gli occhi azzurri ed i capelli biondi, distintivi delle razze nordiche. — Buon giorno, signori, — disse il più attempato dei due, portandosi una mano al cappuccio di pelle d’orso che lo riparava per bene dai grandi freddi e dai venti taglienti del settentrione. — Come mai vi ritroviamo qui, mentre quattro giorni fa eravate sulle coste del Labrador? — Il canadese, udendo quelle parole, aveva fatto un soprassalto. — Buon giorno giovanotti, — si affrettò a rispondere poi. — Siete cacciatori della Compagnia? — Sì, signore, del forte Churchill. — E siete ben sicuri di averci incontrati ancora? — I due cacciatori si guardarono l’un l’altro, poi il primo riprese: — Sicuri proprio no, ma noi abbiamo veduto passare una macchina simile alla vostra ad un miglio appena dalla costa della baia, sulla terra del Labrador. — Proprio precisa? — No, perchè non aveva dietro di sè una vettura. — Chi la montava? — Tre uomini. — Avete parlato con loro? — Non ne abbiamo avuto il tempo, e poi correva a gran velocità in mezzo alla bufera di neve che spazzava allora tutto il Labrador. — E quando l’avete veduta quella macchina? — Quattro giorni fa. — Avevate attraversato la baia? — Sì, per cacciare le lontre, e non siamo sbarcati che tre o quattro ore fa, lasciando la nostra scialuppa sulla spiaggia, entro una caverna ove potrà sfidare tutte le nevicate. — Non poteva essere che l’automobile di quel bisonte di Tarpon, — disse Walter. — Ci si è messo d’impegno anche lui. — Non poteva fare diversamente, — rispose il canadese. — Ero certo che avrebbe presa la via del Labrador per raggiungere poi gli stabilimenti danesi della Groenlandia. C’incontreremo al Polo, se riuscirà ad arrivarci. — Io spero di no, signor Gastone. — Chi lo sa? Per nostro conto faremo il possibile per giungervi. — Si rivolse ai due cacciatori i quali aspettavano pazientemente che quel dialogo terminasse, e chiese loro: — Tornavate verso il forte? — Sì, signore, — rispose il più attempato dei due. — La stagione della caccia è finita e non sarebbe prudente battere ora le grandi pianure. Comincia lo svernamento anche pei cacciatori della Compagnia. — Avete carico? — Sette pelli di lontra che non varranno meno di mille dollari, signore. — Quanto distiamo dal forte? — Una sessantina di miglia. — Ed i mooses li avete mancati? — Erano troppo lontani, signore. D’altronde la loro pelle non vale gran che. — Andate a prendere le vostre pelli di lontra e salite con noi. In un paio d’ore saremo al forte. — Che macchine meravigliose s’inventano oggi!... — esclamò il cacciatore. — Grazie, signore, siamo con voi. — Cinque minuti dopo il treno riprendeva la sua corsa verso il settentrione, costeggiando la baia d’Hudson, e due ore più tardi giungeva dinanzi al forte di Churchill, il più settentrionale che la Compagnia abbia fondato su quelle sterminate plaghe spazzate dagli uragani polari. CAPITOLO XVII. Una battaglia coi trichechi. La Compagnia delle Pelliccie, che conta oltre trecento anni di esistenza, tiene un numero ragguardevole di stabilimenti che chiamansi forti, disseminati su quella immensa regione che è sottoposta al dominio britannico e che dai confini degli Stati Uniti va fino oltre il circolo polare Artico, ed è bagnata dall’Atlantico e dal Pacifico. Quei forti non sono gran cosa, poichè consistono in un fabbricato centrale, per lo più in pietra, ed in poche tettoie dove vengono conservate le pelliccie in attesa che la buona stagione permetta di spedirle verso i porti più prossimi per poi disperderle pel mondo intero. Un capitano, chiamato il borghese, li comanda ed ha sotto di sè venti o trenta cacciatori, per la maggior parte canadesi, tiratori infallibili che di rado sbagliano i loro colpi, ed abituati a sfidare tutte le fatiche e tutte le intemperie. Dopo lo sgelo quei bravi avventurieri si mettono in campagna, facendo strage di lupi, di volpi bianche ed azzurre, di martore, di foche, di morse, di alci, di wapiti, di daini mooses, di lontre dalla pelliccia preziosissima, che si paga perfino mille e cinquecento lire, ed anche di orsi bianchi. Vanno lontano, percorrendo regioni quasi inesplorate, vivendo alla meglio sotto tende o capannuccie improvvisate con avanzi di navi naufragate e con ossami di balene e di capidogli, e non ritornano fino a che le loro slitte, tirate da grosse mute di cani, non siano ben cariche. Quelli che rimangono al forte attendono le tribù indiane ed esquimesi che accorrono numerose a vendere pelli e ricevere in cambio coperte, polvere, fucili e ornamenti per le loro donne. Alle prime nevicate i cacciatori tornano ai forti e durante l’inverno se la passano fumando e raccontandosi le loro avventure di caccia intorno alle stufe russanti. Quantunque la selvaggina sia oggidì molto scemata, la Compagnia continua a fare affari d’oro, ripartendo fra gli azionisti somme considerevoli. Il forte di Churchill è il più settentrionale di quelli fondati nella regione dell’Hudson, ma è anche quello che raccoglie maggior numero di pelliccie per la sua vicinanza al circolo polare Artico, dove la selvaggina si trova ancora abbondante, non spingendosi le tribù indiane fino lassù, e rare essendo quelle esquimesi. Al pari degli altri consiste in una casa di pietra tale da poter resistere alle furiose bufere polari ed alle enormi nevicate, ed in poche tettoie che d’inverno sono riparate da bastionate di ghiaccio. L’accoglienza che ebbero i tre esploratori, giunti come una bomba dinanzi al forte, fu entusiastica. Il borghese, ossia il comandante e tutti i suoi uomini, una ventina, portarono come in trionfo quegli audaci, che si proponevano di levare il velo misterioso che copriva il terribile e fino allora inaccessibile Gran Nord, nel gran salone del forte, dove russavano due stufe monumentali, offrendo subito loro, giacchè era l’ora del pranzo, un piccolo banchetto inaffiato copiosamente da vini e da liquori. Essendovi al forte una grossa provvista di benzina per l’illuminazione, il canadese non ebbe alcuna difficoltà a farsene cedere tanta da riempire tutti i suoi lattoni. — Se noi rimarremo senza, — disse l’ospitale borghese, — bruceremo olio di foca o di morsa. I miei uomini non sono così delicati da non soffrire un po’ di sgradevole odore. — Quella notte gli esploratori si riposarono in buoni letti, al riparo dalle intemperie e soprattutto dal freddo che aumentava spaventosamente di ora in ora, ma all’indomani, ai primi albori, malgrado le proteste dei cacciatori che desideravano averli loro ospiti qualche giorno ancora, erano già sull’automobile, pronti a slanciarsi verso il Grande Nord. Gli addii furono commoventi e gli auguri infiniti, e verso le otto, nel momento in cui la nebbia cominciava a diradarsi sotto gl’impetuosi colpi di vento del settentrione, il treno riprendeva la sua corsa fra gli hurràh rimbombanti ed i colpi di fucile della piccola guarnigione. — Che brava gente!... — esclamò il campione di Cambridge, ancora entusiasmato dall’accoglienza ricevuta. — Avrei passato fra quei cacciatori l’inverno intero. — Senza andare al Polo? — Ah questo no, signor Gastone. Preferisco andare a vedere che cosa c’è lassù. — E che cosa credete di trovare lassù? — chiese il canadese, ridendo. — Che ne so io? Almeno uno dei due cardini del mondo al quale noi daremo un po’ d’olio. Per Giove!... Dopo tante centinaia di secoli, deve essere bene arrugginito. — Dite delle migliaia. — Come volete, signor Gastone. Fa lo stesso. Ma, dite un po’: che ci siano degli abitanti al Polo? — Può darsi, amico, — rispose il canadese. — Gli esploratori Artici hanno trovato degli esquimesi nelle sue vicinanze, gente emigrata lassù chissà da quanti secoli, e che credeva di essere sola al mondo, non avendo mai avuto alcun contatto colle tribù del sud. — Dite un po’ signor Gastone, da che parte sono venuti questi piccoli uomini che hanno preferite le pianure gelate del Polo alle fertili pianure del continente americano? — Un tempo si credette che fossero giunti, intorno al mille, da una emigrazione asiatica passata attraverso lo stretto di Behring e poi dispersasi per l’America settentrionale. Oggi invece, recenti scoperte hanno dimostrato che l’Asia non ha nulla a che fare colle razze primitive americane, perchè anche su queste terre si sono trovate tracce umane assai più antiche di quelle che finora erano state rinvenute nell’Europa e negli altri continenti. — Me lo aveva già detto il mio professore Hart, quell’ottimo e terribile bevitore di birra, fra un salto e l’altro dell’allenamento per la sfida d’Oxford, ma io non ci avevo fatto gran caso. Allora, da dove sono derivati questi americani, indiani ed esquimesi? — Chi lo sa? Io vi posso solamente dire che in varie regioni del continente, specialmente in quello settentrionale, si sono trovati numerosi avanzi d’uomini vissuti ai tempi dei mammouth, ed anche molto più antichi, cioè avanti il periodo quaternario, in un’epoca nella quale la vita vegetale ed animale era ben diversa da quella d’oggi. — Si direbbe che l’America ha avuto i suoi primi uomini prima ancora degli altri continenti, — disse lo studente. — Tutto lo indicherebbe, — rispose il canadese, il quale era un uomo istruitissimo. — Or sono pochi anni, in una caverna dell’Arizona, fu trovata la mummia d’un bambino che fu giudicata appartenente all’epoca terziaria, e che aveva notevolissime somiglianze col pithecanthropus erectus, ossia della scimmia che più si avvicina all’uomo. D’altronde ormai è provato che l’uomo, sia esquimese od indiano, visse qui avanti la fine del periodo glaciale, ossia in un’epoca in cui l’uomo forse non aveva ancora popolato il continente antico. — Il continente americano doveva essere ben diverso da quello che è oggi, in quei lontanissimi tempi. — Non aveva la forma che ha presentemente. La sua ampiezza era molto minore e si estendeva sopra i due oceani come una immensa isola allungata verso il Polo. Molto diverse di quelle attuali erano allora la sua flora e la sua fauna, della cui ultima facevano parte delle specie gigantesche oggidì completamente e da gran tempo scomparse. Come e quando quegli abitanti e quegli animali comparvero su queste terre, non è facile dirlo. È un problema che ha affaticato tante menti, senza che una così interessante questione sia stata definitivamente risolta. Chissà che il Polo non riservi a noi delle straordinarie sorprese. Ohè, Dik, che cosa fate? — Un rombo assordante sfuggiva in quel momento sotto le ruote dell’automobile. Si sarebbe detto che passasse sopra un ponte metallico d’una eccessiva sonorità. — Da che cosa proviene questo fracasso dunque, Dik? — chiese nuovamente il canadese, alzandosi bruscamente. — Pare che ci sia del vuoto sotto lo strato di ghiaccio, rispose finalmente l’ex-baleniere, rallentando subito. — Passiamo forse sopra un fiume? — Che ne so io, signore? — Lo chaffeur stava per obbedire, quando si udì uno scricchiolìo fortissimo seguito da un crac spaventevole. — Sprofondiamo!... — urlò Walter. Lo strato gelato si era improvvisamente spezzato sotto il peso ed il treno intero era precipitato in un abisso apertosi sotto le sue ruote. Tre urla si erano confuse in una sola, tre urla di spavento, seguite un istante dopo da un rombo. Il canadese, lo studente e l’ex-baleniere si sentirono proiettati innanzi, come se una bomba fosse scoppiata dietro di loro, e stramazzarono in mezzo a degli ammassi di neve più o meno indurita, mentre il motore dell’automobile si arrestava di colpo. Trascorsero parecchi minuti, poi un uomo si alzò penosamente, tastandosi le costole e le gambe. — Corpo di tutti i fulmini di Giove e di tutti i suoi parenti!... — esclamò. — Questo si chiama un capitombolo, almeno all’Università di Cambridge!... — Stette un momento immobile, come istupidito, guardando l’automobile e la vettura che si erano affondati in mezzo ad un enorme cumulo di neve, poi si slanciò avanti come un pazzo. Aveva scorto un corpo umano pochi metri più innanzi. — Signor Gastone!... Signore!... — urlò con quanta voce aveva in corpo. Il signor di Montcalm giaceva dinanzi a lui colle braccia e le gambe allargate e gli occhi socchiusi. — Fulmini!... — gridò lo studente, spaventato. — Del wisky, del gin!... — Si precipitò verso la vettura che si trovava quasi rovesciata su un fianco, ma per un caso miracoloso ancora in buon stato, levò la sbarra che chiudeva la porta, si gettò nell’interno ed uscì con una bottiglia in mano. Spezzò il collo contro la parete di ghiaccio e versò nella bocca aperta del canadese alcuni sorsi di wisky. Uno sternuto sonoro fu la risposta, accompagnato da due o tre colpi di tosse. — Buon segno!... — esclamò lo studente allegramente. — I morti non sternutano nè tossiscono. Hurràh!... Hurràh!... — Il signor di Montcalm si era messo a sedere, guardandosi intorno con un vivo stupore. — Walter, mi ubbriacate? — chiese con voce abbastanza robusta. — Ah!... Diavolo!... Siamo caduti, è vero? — Pare di sì, signore, rispose lo studente. — Mi ricordo vagamente.... — Ed anch’io. — E Dik? — Non so se sia morto o vivo. Spero però che la sua ossatura da bisonte non avrà ceduto. — E l’automobile? — Ce ne occuperemo più tardi, signore. Mi pare che non abbia gran che sofferto. Ce lo dirà Dik, se sarà ancora vivo. — Ne avreste dubitato? — chiese in quel momento una voce un po’ ironica. — I balenieri hanno la pelle dura, mio caro signore. — La testa di Dik era in quel momento comparsa fra un grosso ammasso di neve che si trovava a cinque o sei metri dall’automobile. Una fortuna veramente prodigiosa aveva protetto i tre esploratori, poichè se fossero stati scaraventati un po’ più innanzi si sarebbero fracassate le ossa sulla superficie quasi liscia del sotto-campo di ghiaccio, duro quasi quanto il granito. Il baleniere, facendo forza di braccia, uscì dal cumulo, si scosse di dosso la neve che gli si era appiccicata alla pelliccia, e dopo d’aver aspirata l’aria freddissima, empiendo per bene i suoi polmoni, disse: — Nulla di spezzato nè dentro nè fuori. Non poteva andare meglio. — Per noi, ma per l’automobile? — chiese il signor di Montcalm. Lo chaffeur alzò impercettibilmente le spalle, poi rispose: — Se avrà qualche cosa di rotto la medicheremo sul posto, senza mandarla all’ospitale. — Che sarebbe troppo lontano, — aggiunse lo studente. — Corpo di tutti i fulmini di Giove!... Dove siamo noi? — Ve lo dirò io, — disse il canadese. — Sulla superficie gelata d’un corso d’acqua. — E perchè questo vuoto? Si direbbe che noi siamo precipitati in una galleria. — Perchè l’acqua prima era alta assai ed ha fatta la sua prima crosta di ghiaccio, poi si è abbassata ed ha formata questa, lasciando così un gran vuoto che può prolungarsi per parecchie centinaia di chilometri. — E come faremo noi a risalire alla superficie? Ci vorrebbe un potente argano a vapore. — Seguiremo il fiume fino alla sua foce. — E dove andremo a finire? — Nella baia d’Hudson, senza dubbio, — rispose il canadese. Questa brutta avventura ci farà perdere del tempo. — Non so che cosa farci, mio caro. E dunque, Dik? — L’ex-baleniere che stava esaminando l’automobile, alzò la testa e dopo d’aver fatta schioccare la lingua, rispose: — Bisogna credere che qualche Santo abbia protetto noi e la nostra macchina insieme. È vero che abbiamo fatto un salto di soli quattro metri, tuttavia potevano toccarci dei guasti irreparabili. Se la benzina avesse preso fuoco, a quest’ora non rimarrebbero che i cilindri intatti. Devo convenire però che questa automobile è stata costruita a prova di capitomboli. — Nemmeno il radiatore si è guastato? — Fortunatamente no. — Ed il carrozzone? — Ha resistito meravigliosamente e le sue ruote non hanno ceduto. — Sicchè potremo riprendere la nostra corsa dentro questa galleria? — Quando vorrete, signore. Ecco, udite come il motore funziona ancora perfettamente? I colpi sono regolarissimi. — Allora, mio caro Walter, imbarchiamoci. — Non desidero di meglio, signor Gastone, — rispose lo studente. Rimontarono sui comodi sedili, ben felici di essersela cavata così a buon mercato: Dik riprese il volante ed il treno si rimise in moto sfondando impetuosamente i cumuli di neve. Quella galleria si presentava meravigliosamente bella. La volta, formata da una crosta di ghiaccio ben consolidato, dello spessore di qualche metro, si manteneva ovunque ad un’altezza variante fra i quattro ed i cinque metri, mentre le due pareti, costituenti le rive del fiume, distavano cinquanta passi l’una dall’altra. Una luce diafana, stranissima, trapelava attraverso lo strato superiore su cui si rifrangevano in quel momento i raggi del’astro diurno. Il piano poi si svolgeva con larghi serpeggiamenti, come una splendida pista, con pochissimi ostacoli, poichè la superficie del fiume doveva essersi gelata quasi tutta d’un colpo, forse durante la bufera dei giorni precedenti, senza lasciare il tempo alla formazione dei piccoli, eppure noiosissimi hummoh. Il fragore che produceva l’automobile, lanciato ad una velocità di quarantacinque miglia all’ora, era impressionante. Un rombo continuo si propagava sotto quella volta interminabile, ripercuotendosi indefinitamente. Un urlo della sirena era sembrato lo scoppio d’una gigantesca mina. Dik, ben stretto al volante, guidava con una grande sicurezza ed abilità. Pilota sul mare, era tale in terra con non meno bravura. Per tre ore il treno divorò lo spazio, seguendo le larghe curve del corso d’acqua, senza aver incontrato anima viva, poi Dik bruscamente rallentò. Avevano allora percorso circa cento cinquanta miglia. — Vi sono degli ostacoli? — chiese prontamente il canadese. L’ex-baleniere, invece di rispondere, arresto il motore e si mise in ascolto. Quando i fragori cessarono dentro la galleria, i tre esploratori poterono udire distintamente uno strano concerto a base di muggiti cavernosi, che si ripercuoteva sotto le vôlte con intensità sonora. — Si direbbe che dinanzi a noi vi sono dei bisonti!... — esclamò lo studente, il quale, per ogni buon caso, si era armato del suo fedele mauser. — Dei bisonti qui!... Siete pazzo, Walter? Non siamo già nelle praterie del Far-West, — rispose il canadese. — Eppure questi sono muggiti, — disse lo studente. — Non lo nego. Che cosa dite voi, Dik? — Che siamo vicini alla foce di questo corso d’acqua, — rispose l’ex-baleniere, rimettendo in moto la macchina. — Che sia l’acqua che produce questo fragore? — chiese lo studente. — Preparate il fucile. — Per accoppare chi? — Le morse, signor mio, diventano talvolta pericolose quando sono in buon numero e si disturbano i loro accampamenti. Si sono scelte la foce di questo fiume per svernare tranquillamente. — È almeno buona la loro carne? — Puah!... — fece l’ex-baleniere. — Tutt’al più il fegato. — Ci prenderemo l’olio. Di quello almeno ne danno. — Non è benzina, — disse il canadese. — Avanti, Dik, con prudenza. — L’automobile si avanzava lentamente, seguendo una grande curva, la quale impediva di scorgere la foce del corso d’acqua. Malgrado il fragore prodotto dal motore, i muggiti giungevano sempre, aumentando d’intensità. Pareva che il campo dei trichechi fosse ben popolato, a giudicarlo da tutto quel fracasso. Oltrepassata la curva, uno spettacolo terribile si offerse dinanzi agli occhi dei tre esploratori. Radunati all’estremità della galleria, la quale finiva sui banchi di ghiaccio della baia d’Hudson, si trovavano tre o quattrocento anfibi, di dimensioni enormi, poichè quasi tutti misuravano non meno di tre metri di lunghezza con una circonferenza di due. Erano delle morse, chiamate anche trichechi, e dagli esquimesi awak. Quei mostri delle regioni polari, nella forma si avvicinano alle foche, ma sono più giganteschi, con un muso corto ed ottuso, le labbra fornite di grosse setole irte come quelle dei gatti in collera e armate di due lunghissime zanne, d’un avorio assai più fino di quello degli elefanti. Il loro aspetto è terribile, mentre invece quei disgraziati sono tutt’altro che battaglieri, essendo in terra estremamente pesanti. Ciò non esclude però che assaliti, specialmente in mare, si difendano qualche volta disperatamente, affondando le imbarcazioni che osano attaccarli. Vedendo l’automobile avanzarsi, tutti quei colossi si erano prontamente radunati come se fossero risoluti a chiuderle il passo, mandando nel medesimo tempo dei muggiti spaventevoli che talvolta sembravano dei veri ruggiti. — Fulmini di Giove!... — esclamò Walter, il quale si era alzato, imbracciando il mauser. — Si direbbe che noi, invece di trovarci nelle regioni polari, siamo entrati in una foresta equatoriale abitata da una banda di ferocissimi leoni. Se quelle bestie lì avessero degli artigli, poveri noi!... — Fortunatamente non posseggono che delle zanne di superbo aspetto e niente affatto pericolose, — rispose il canadese. — Non vorrei però provarle, signor Gastone. — Non sanno servirsene quando questi anfibi si trovano a terra. Non vedete come si muovono a stento? — Sfido io!... Sono botti d’olio!... — È precisamente per quello che si arenano. Se fossero invece in acqua vedreste quelle botti balzare e rimbalzare sulle onde come gavitelli. — Mastro Dik, voi che avete già conosciuto da vicino questi signori abitanti del Polo, diteci che cosa possiamo fare. — Provatevi a sparare, — rispose l’ex-baleniere. — Scapperanno. — Lasciate che scappino. — Per tutti i fulmini di Giove!... Come mostrano i denti e rizzano i baffi!... — Fate fuoco!... Voi chiacchierate troppo. — Non sono un baleniere io, mastro Dik. I lupi di mare, si sa già da lungo tempo, sono assai avari di parole. — E prendono le balene. — Ed io, pur chiacchierando, vi mostrerò, mastro Dik, come si ammazzano i trichechi. — L’allegro campione di Cambridge balzo giù dall’automobile e sparò sei colpi uno dietro l’altro, facendo stramazzare altrettanti giganti polari. Sparava con una sicurezza meravigliosa ed anche con una calma stupefacente, che strappava grida d’ammirazione al canadese. Perfino il baleniere pareva estremamente stupito. Sei morse, colpite tutte alla testa, erano cadute l’una vicina all’altra, senza però far indietreggiare le altre, le quali anzi parevano decise a scagliarsi contro il treno e tentare di metterlo a pezzi. — Mastro Dik, — disse lo studente. — Che vogliano, queste otri d’olio, provare su di noi la robustezza delle loro zanne? — Continuate, — rispose l’ex-baleniere. — Poi lancerò il treno a tutta velocità e passeremo su quei mastodonti che creperanno appunto come otri. — E manderete l’automobile a sprofondarsi nella baia, — disse il canadese, il quale era pure balzato a terra, armato di un fucile. — Non ci pensate, signore: io rispondo di tutto. — Walter aveva riempito il serbatoio ed imbracciato nuovamente il mauser. — Voi a destra, signor Gastone, ed io a sinistra. Per tutti i fulmini di Giove!... Dovremo preparare agli orsi bianchi un banchetto colossale? — Sparate, — disse Dik. — Io mi preparo a caricare a fondo. — Fu un vero fuoco di fila che rimbombò ai due lati dell’automobile. Lo studente ed il canadese gareggiavano in abilità e le morse cadevano sotto i loro colpi, fulminate da quei colpi meravigliosi che le toccavano al cuore o al cervello. Le compagne, rese furiose per le perdite subite, non accennavano affatto a cedere il campo. In file compatte, s’avanzavano verso l’automobile, trascinandosi penosamente, con delle contrazioni furiose, tentando di venire a contatto. Ruggivano ferocemente, facendo rintronare la galleria tutta, provocando perfino delle piccole frane nello strato superiore. — Salite, — disse ad un tratto l’ex-baleniere. — Giacchè si ostinano, passeremo egualmente. Tanto peggio per quelli che rimarranno sotto le nostre ruote. Tenetevi saldi!... — Walter ed il signor di Montcalm si erano slanciati sui predellini, poi si erano messi dietro all’ex-baleniere, ricaricando prontamente i fucili. — Bestie dannate!... — esclamò lo studente. — Non credevo che fossero così ostinati i barilotti d’olio. — L’automobile prese lo slancio e si scagliò innanzi colla violenza d’un ariete che sfonda la porta d’una fortezza, passando quasi di volo attraverso quell’ammasso mostruoso di corpi. Fu una serie di salti spaventosi che mise a dura prova i muscoli dei tre esploratori, poichè l’automobile passava, insieme al pesante carrozzone, sopra i disgraziati anfibi, lasciandosi dietro un vero fiume di sangue e d’olio. Lo slancio era stato così improvviso e così fulmineo, che i trichechi non avevano avuto il tempo di tentare nessun attacco, nemmeno contro le pneumatiche, che passavano sui loro corpacci aprendo dei solchi sanguinosi. In tre o quattro secondi il treno attraversò il campo e si precipitò verso l’uscita della galleria, slanciandosi sui banchi di ghiaccio che si erano formati lungo le spiaggie della baia d’Hudson. L’ex-baleniere, che conservava il suo meraviglioso sangue freddo, virò quasi sui posto, a meno di trecento metri dai giganteschi ice-bergs che si erano già accumulati in gran numero, trasportati dalla corrente polare e spinti dai venti di levante, poi risalì di volata la costa riguadagnando la sconfinata pianura. — Ventre di Giove!... — esclamò lo studente, il quale pareva che in quel momento si fosse dimenticatati i suoi eterni fulmini. — Questo marinaio è diventato uno chaffeur prodigioso. Non potevate trovarne uno migliore, signor Gastone. — È vero, — rispose il canadese. — Colpo d’occhio, mano sicura e un’audacia straordinaria. Dik, come si presenta la pianura? — Buona, signore, almeno per ora, — rispose l’ex-baleniere, sempre appoggiato al volante. — Potremo giungere, prima che la notte scenda, al lago di Yath-kyed? — Lo spero. — Allora spingete pure, giacchè il ghiaccio è abbastanza liscio. Non dimentichiamo che Torpon corre pure verso il Polo. — Lasciate fare a me, signore, — rispose l’ex-baleniere, con un risolino un po’ sardonico. — Andremo più presto dell’americano. — Fate attenzione ai corsi d’acqua. Un altro salto potrebbe riuscirci fatale. — Aprirò gli occhi, signore. — L’automobile correva velocissima senza scosse, senza soprassalti, poichè la pianura polare si presentava bellissima come una pista. Pochi hummok di quando in quando si mostravano, formati all’ultima tempesta di neve, ostacoli insignificanti che l’ex-baleniere evitava facilmente. Bande di uccelli polari si alzavano dinanzi al treno, spaventati dal fragore del motore. Erano gabbiani venuti dalla vicina baia di Hudson, borgomastri, piccoli plectrophanes nivales eternamente pigolanti, e graziosissimi auk, uccelli che vivono in stormi immensi e che gli esquimesi prendono in gran numero servendosi d’una rete simile a quella usata dai nostri ragazzi per impadronirsi delle farfalle. Anche la piccola selvaggina si levava, scappando con rapidità fulminea e cacciandosi sotto gli hummok. Ora era una magnifica martora, di quelle chiamate dai cacciatori della Compagnia di Pelliccie charsa, lunga un mezzo metro, con una coda di quaranta e più centimetri, col pelame giallo-brillante; talvolta invece era una coppia di linci polari che balzava fuori dalla neve e che s’allontanava soffiando rabbiosamente e scuotendo i due bizzarri pennacchi biancastri che adornano i loro orecchi. Walter non mancava, di quando in quando, di sparare qualche colpo di fucile, ma la rapidità dell’automobile non gli permetteva di mandare le palle a giusta destinazione. Due ore prima del tramonto, il treno, sempre lanciato a grande velocità, raggiungeva il North Lined, uno dei più bei laghi dell’alta terra hudsoniana, popolato sempre da stormi immensi di cigni trombettanti dalla mattina alla sera, ritrovo preferito dei cacciatori canadesi durante la stagione estiva, ma in quel momento assolutamente privo persino d’esquimesi. Due colpi di fucile sparati dallo studente assicurarono una copiosa cena di carne eccellente e ben grassa. Alle sei, nel momento in cui il sole scompariva in mezzo ad un fitto nebbione, che il gelido vento del nord spingeva furiosamente attraverso quelle desolate plaghe coperte di neve e di ghiacci, l’automobile si arrestava all’estremità meridionale dell’Yath-kyed, un altro lago perduto fra le alte terre hudsoniane. CAPITOLO XVIII. Un dramma polare. Quella notte, passata sulle rive di quel lago gelato, fu tranquillissima, ed i tre esploratori poterono riposarsi placidamente sui loro piccoli ma soffici lettucci, russando insieme alla stufa che era stata lasciata accesa dopo la cena. L’indomani una nebbia intensa copriva la sterminata pianura polare. Il canadese, dopo aver rilevato alla meglio, sulla bussola, la posizione e aver fatti accendere i due potenti fanali, diede il segnale della partenza. Era forse una imprudenza avventurarsi attraverso a quel denso strato di vapori che un vento freddissimo del nord ora lacerava ed ora addensava. Se Torpon non si fosse già spinto tanto innanzi, il canadese avrebbe accordato un giorno di riposo, non avendo stabilito il giorno per raggiungere il Polo; l’idea però che il rivale potesse giungere prima di lui all’incrocio di tutti i meridiani e spiegarvi la bandiera stellata dell’Unione Americana, lo spingeva ad affrettarsi. — Aprite bene gli occhi, Dik, — disse, prendendo il solito posto insieme allo studente. — Non spingete troppo la corsa, almeno fino a che la nebbia non si sia diradata. Se tutto va bene, faremo quest’oggi un bel tratto di via e ci lasceremo alle spalle il circolo polare artico. — E l’automobile si era slanciata in mezzo a quel caos di vapori turbinanti, procedendo con una velocità di trenta miglia all’ora, velocità che se fosse durata sole dieci ore, avrebbe potuto condurre gli esploratori fino sulle coste meridionali del vastissimo golfo di Boothia. La pianura si manteneva sempre abbastanza buona, quantunque, di quando in quando, si presentassero dei crepacci che l’ex-baleniere evitava con grande fatica e che talvolta invece superava quasi di volata, facendo subire alle due vetture dei soprassalti spaventosi. A mezzodì il treno giungeva sulle rive del Chesterfied, una specie di fiord che staccandosi dalla baia d’Hudson s’inoltra entro terra per parecchie dozzine di leghe. Essendo la sua superficie tutta gelata, l’automobile vi si avventurò, senza perdere tempo a girarlo verso ponente. Giganteschi ice-bergs, alti due e perfino trecento metri, si erano qua e là accumulati, formando talvolta delle barriere che apparivano insuperabili. Il freddo intenso li aveva però saldamente imprigionati entro il pak, sicchè non c’era pericolo che da un momento all’altro perdessero l’equilibrio e schiacciassero il treno. Descrivendo delle grandi curve e dei vasti angoli, l’automobile avanzava sempre, perseguitato da vere nubi di volatili, i quali osavano perfino precipitarsi sugli esploratori colle loro grida rauche e discordi. Erano così poco paurosi, che anche presi a fucilate, dopo qualche minuto tornavano alla carica. Walter era riuscito a strozzarne perfino alcuni colle mani, e li aveva messi da parte, contando di prepararseli per la cena, quantunque il canadese ed anche l’ex-baleniere avessero fatto delle smorfie molto significanti. Valeva infatti molto meglio la carne dell’orso bianco, più saporita e meno coriacea. Un’ora più tardi l’automobile correva nuovamente sulle pianure settentrionali, muovendo sul Wager River, che non è affatto un fiume, bensì un altro lunghissimo e largo fiord che sbocca di fronte all’isola di Southampton. Il terreno era diventato nuovamente migliore, sicchè Dik, il quale pareva pel momento che si fosse dimenticato delle promesse fatte a mister Torpon, spingeva la velocità talvolta perfino a sessanta miglia all’ora. Se non vi fosse stato il carrozzone, quel diavolo d’uomo non avrebbe esitato a lanciarlo anche a cento, non essendovi alcun pericolo di schiacciare delle persone, ma non doveva dimenticare il peso considerevole che il motore era costretto a trainare. Ancora tre ore di corsa velocissima in mezzo ad un piccolo uragano di neve ed il treno giungeva sulle rive del golfo di Boothia, un grado e mezzo sopra del circolo polare artico. — Se continuiamo così e non succedono guasti, fra cinque o sei giorni al più, noi faremo colazione al Polo, mio caro Walter, — disse il canadese, nel momento che l’automobile si arrestava. — Siamo infatti molto innanzi, signor Gastone. Me ne accorgo dal freddo intenso. Quanti gradi avremo? — Trentacinque sotto. — Brrr!... Eppure si può ancora resistere abbastanza bene. — Perchè non soffia il vento del nord. — Ci fermiamo qui? — Voglio prima assicurarmi dello stato dei ghiacci. — Correremo sul mare? — Sarà molto meglio, Walter, così raggiungeremo più presto l’isola di Devon. Lasciamo che si occupi Dik della cucina per oggi, e noi andiamo a fare una piccola esplorazione lungo la costa. — Avete capito, mastro baleniere? — gridò lo studente. — Vi raccomando i miei gabbiani. — Che mangerete voi solo, — rispose lo chaffeur. — Io preferisco un filetto d’orso bianco. — Come vi piace: io tengo più ai miei volatili. — Andiamo, Walter, — disse il canadese. Presero i loro fucili ed i loro coltellacci, non essendo improbabile l’incontro di qualche orso bianco, e scesero la spiaggia interrotta da seni e da minuscoli fiords. Tutto il golfo, il quale si prolunga fra la terra omonima che si frastaglia a ponente e quella di Baffin a levante, era gelato. S’aprivano però qua e là dei larghi canali, in mezzo ai quali sfilavano gli ice-bergs. Una luce intensissima, d’una bianchezza diafana, che il cielo, coperto di nubi gravide di neve, rifrangeva, lo illuminava tutto: era l’ice-blink. — Che inverno precoce, — disse il canadese. — Guai se i balenieri si fossero quest’anno indugiati. — Che ne troviamo qualcuno rinchiuso fra i ghiacci? — chiese lo studente. — Può darsi, Walter. Questo freddo intenso è però favorevole a noi poichè potremo correre, senza alcun pericolo, attraverso i canali del Reggente e di Lancaster e raggiungere le terre di Lincoln e di Ellesmere. Oh!... Toh!... Che cos’è quella massa oscura che si scorge laggiù, rinserrata nel pak? — Qualche trichecho forse? — Non mi sembra, Walter. Si direbbe piuttosto un rottame. — Possibile? — Andiamo a vedere. — Una massa piuttosto grigiastra, anzichè nerastra come una morsa od una foca, si scorgeva in mezzo al ghiaccio, ad un duecento metri da un piccolo fiord. Un animale non doveva certo essere, poichè scorgendo i due uomini avanzarsi, non avrebbe tardato a fuggire. — Sì, deve essere un rottame o per lo meno una scialuppa, — disse il canadese. — Una scialuppa, signore, — aggiunse Walter, il quale forse aveva la vista più acuta. Affrettarono il passo avanzandosi sul ghiaccio e si avvidero di non essersi ingannati. Una piccola scialuppa baleniera si trovava incastrata nel pak, con un fianco già sfondato dalle prime pressioni, e dentro vi era un uomo ormai ridotto allo stato di scheletro, semi-avvolto in una vecchia pelliccia. Il cranio sporgeva da una parte; le due gambe dall’altra prive dei piedi, i quali si erano staccati e giacevano in fondo al battello. Accanto a quel disgraziato vi era un fucile arrugginito, un’ascia ed un barilotto che doveva aver contenuto dei viveri e che ora invece era affatto vuoto. — Chi sarà quest’uomo? — chiese lo studente, con voce commossa. — Che sia morto di fame e di freddo? — Invece di rispondere, il canadese, passato il primo istante di doloroso stupore, era entrato nella scialuppa ed aveva messe le mani su un pezzo di carta ingiallita, su cui erano state vergate alcune righe con una materia rossastra, probabilmente del sangue. Molte parole erano assolutamente indecifrabili, ma due colpirono subito il canadese: «Sarya e barone de Tolt». Un grido di profonda sorpresa gli era sfuggito. — Una scialuppa della Sarya qui!... Come l’hanno condotta fino a questi luoghi le correnti polari? Ah!... Mi ricordo benissimo della disgraziata spedizione del barone de Tolt, che commosse non solo la Russia intera, ma anche tutti i naviganti polari dell’Europa e dell’America. — Che cosa dite voi, signor Gastone? — chiese Walter, il quale continuava a guardare, con un misto di terrore e di compassione, quel teschio umano le cui vuote occhiaie pareva che lo guardassero. — Chi sarà questo naufrago sperduto sui mari del Grande Nord? — Chi lo sa? Forse il barone de Tolt in persona od uno dei marinai che lo seguivano. — Qui vi è una drammatica istoria che mi pare voi conosciate. — È vero, Walter. — Chi era dunque quel barone? — Un ardito esploratore russo che nel 1900, ossia cinque anni or sono, si era proposto di esplorare le isole della Nuova Siberia, sulle quali sperava di trovare ancora qualche mammouth vivente o almeno ancora ben conservato fra i profondi strati sabbiosi. Già molti denti giganteschi, d’un avorio ben più fino di quello degli elefanti, erano stati trovati su quelle terre desolate da indigeni siberiani spinti lassù dalle tempeste. — Narrate, signor Gastone. I drammi polari mi interessano ed hanno destato sempre in me una profonda impressione, dopo che ho letto dei rapporti dell’Ammiragliato sulla terribile fine dell’Erebus e del Terror, che l’ammiraglio Franklyn conduceva al Polo e che l’Inghilterra ancora piange. — Seguiamo la costa, Walter, — rispose il canadese. — La vista di questo disgraziato mi impressiona. — E me non meno di voi, — rispose lo studente. — Vi dicevo dunque, — riprese il canadese, rimettendosi in cammino, — che quel disgraziato scienziato voleva visitare quelle isole così prossime al Polo. Aveva, a tale scopo, armata una nave che si chiamava la Sarya. Ai primi di Giugno del 1900 la spedizione aveva oltrepassato lo stretto di Kara filando lungo le coste siberiane. Il ghiaccio era pessimo ed ostacolava continuamente la nave, minacciando ad ogni istante di rinchiuderla in qualche wake o nei grandi paks. Alla fine di Settembre la Sarya veniva strettamente imprigionata sulle coste settentrionali dell’isola Taimer, oltre l’imboccatura dell’Jenissik. Svernò in quel luogo, colla speranza che la prossima estate sciogliesse i grandi banchi di ghiaccio, ma soltanto verso la fine dell’Agosto potè muoversi, e dopo una lotta spaventosa cogli ice-bergs, si diresse verso le isole della Nuova Siberia. Nel Settembre la Sarya raggiungeva l’isola Bennett, la famosa isola scoperta dall’equipaggio della Yeannette, perito così tragicamente, quasi tutto, di fame e di freddo alla foce della Lena, il grande fiume siberiano. I ghiacci che circondavano quell’isola inospitale costrinsero il barone de Tolt a cercarsi un altro rifugio e lo trovò infatti in una baia dell’isola Kotelinoi. Era ormai troppo tardi per pensare al ritorno. Il pak si stringeva da tutte le parti intorno alla poco fortunata nave e fu deciso un secondo svernamento. Nella primavera del 1902 il coraggioso barone parte con delle slitte, una scialuppa, probabilmente quella che abbiamo trovata or ora, in compagnia d’un astronomo e di un medico, risoluto a raggiungere l’isola Bennett. Aveva avvertito il capitano della nave che se dopo tre mesi non fossero tornati, si mettesse in cerca di loro. La spedizione pareva però perseguitata da un triste destino. Un’altra volta la Sarya, che nel frattempo aveva potuto raggiungere la costa siberiana, approfittando del breve estate, per rifornirsi di viveri e di carbone, viene presa dai ghiacci. Raggiungere l’isola Bennett era impossibile, ed erano già trascorsi cinque mesi. Un coraggioso, votatosi prima ad una morte certa, il tenente Kolchak, parte a bordo d’un piccolo canotto, e passando fra i canali aperti fra i banchi di ghiaccio, dopo sforzi sovrumani riesce a raggiungere l’isola e la percorre in lungo ed in largo. Trova finalmente un cairn, ossia una piramide formata di pietre, la atterra e vi trova dentro una scatola di zinco contenente una lettera scritta dal barone che datava dall’anno precedente, ossia dal Novembre 1902, se la memoria non m’inganna. Il disgraziato esploratore diceva in quelle righe che stava per partire pel sud, non avendo viveri che per sole tre settimane. Fu cercato invano e più nulla mai si seppe di lui e dei suoi compagni. Si suppose che i ghiacci si fossero aperti sotto le slitte e che lo avessero inghiottito, mentre invece noi abbiamo ora la prova che lui solo o insieme all’astronomo o al medico si erano imbarcati sulla scialuppa baleniera forse colla speranza di raggiungere le coste della Siberia. — Ma come quella imbarcazione può essere giunta qui? — chiese lo studente. — Non sono mai stato molto forte in geografia, tuttavia mi pare che le isole della Nuova Siberia siano lontane assai. — Delle migliaia di miglia, mio caro Walter. Voi però dovete tener conto delle correnti le quali girano intorno al Polo da ponente a levante. Pensate inoltre che questa scialuppa ha impiegato ben due anni prima di incanalarsi attraverso il passaggio del nord-ovest scoperto da Mac-Clure e finire qui. — E che cosa sarà succeduto degli altri due che mancano? — Chi potrebbe dirlo? Forse quei disgraziati, rosi dalla fame, si sono divorati. — Ah!... — Forse che i superstiti della spedizione Franklyn non hanno fatto altrettanto? Si assassinavano per riempire le caldaie di carne umana. — È orribile!... — Il Polo, mio caro, ha avuto centinaia e centinaia, e forse delle migliaia, di vittime umane. Orsù, ritorniamo. Ricomincia a nevicare ed il nebbione si avanza scendendo lungo il golfo. Questa sera non faremo un passo innanzi. — Dopo essersi accertati della resistenza del ghiaccio, risalirono la sponda bruciando qualche cartuccia contro i volatili polari e raggiunsero il treno proprio nel momento in cui la neve cadeva a larghe falde attraversando silenziosamente la nebbia che s’avanza va velocissima, tutto avvolgendo. Il sole era già scomparso e la notte era scesa, ma una bella luce usciva attraverso i vetri del carrozzone e dal tubo della stufa uscivano dei profumi appetitosi. — I miei gabbiani? — chiese lo studente, entrando. — Pronti, signore, — rispose l’ex-baleniere, il quale si affaccendava intorno alla stufa, prestando tutta la sua attenzione ad un enorme pezzo d’orso bianco già perfettamente arrosolato. — A tavola!... — aveva concluso il canadese, sbarrando la porta e sbarazzandosi della grossa pelliccia. Tutta la notte la neve cadde senza interruzione; il freddo però era così intenso che la gelava quasi di colpo. Nondimeno all’indomani, quantunque con molto ritardo, avendo dovuto i tre esploratori rompere il ghiaccio per un buon tratto, l’automobile ed il carrozzone ripartivano, scendendo sul golfo, che, come abbiamo detto, era gelato a perdita d’occhio, per raggiungere lo stretto del Reggente. Il tempo era sempre pessimo ed il freddo così intenso da non poter più appoggiarsi ad un pezzo di metallo od impugnare un oggetto qualsiasi di ferro senza riportare alle mani delle vere bruciature. I grossi guanti di pelle di foca erano stati messi in opera con poco piacere da parte di Walter, il quale si trovava imbarazzato a far uso dei suoi fucili. E la selvaggina non scarseggiava sui banchi di ghiaccio, tutt’altro!... Di quando in quando dai canali salivano drappelli di foche e di morse, salivano per scomparire subito appena il treno s’avvicinava a loro. Abbondavano sopratutto le volpi azzurre dalla pelliccia preziosissima, animali ormai quasi scomparsi nei dintorni della baia di Hudson, in seguito alle caccie accanite degli uomini della Compagnia. — Valgono proprio molto, signor Gastone, quelle pelliccie? — chiese il campione di Cambridge, il quale le seguiva cogli sguardi ardenti, senza provarsi nemmeno a far fuoco, poichè le astute bestie si nascondevano subito in mezzo alla neve. — Si pagano perfino duemila e cinquecento lire l’una, rispose il canadese, — ed il prezzo certamente aumenterà poichè sono diventate rarissime. Un tempo si cacciavano non solo su questi territori, nell’Alaska e nelle isole dello stretto di Behring, bensì anche in Siberia e perfino nell’Europa settentrionale, ma ora non se ne trovano più. Sono diventate rarissime poichè su 25,000 volpi che si uccidono ogni anno nel distretto di Beresow è molto se se ne trovano cinquanta di azzurre. In Siberia su cento volpi non se ne trovano che tre o quattro, mentre una volta erano più numerose. Solo in Groenlandia sono ancora abbastanza in buon numero, però anche là non tarderanno a scomparire. — E da che cosa proviene quella splendida tinta azzurrognola? — Alcuni credettero che ciò dipendesse più che altro dal cambiamento delle stagioni; ora però si suppone che derivi dal sesso e dall’età. — E sono anche quelle delle volpi, signor Gastone? — chiese lo studente, il quale si era precipitosamente alzato. — Quali? — Per tutti i fulmini di Giove!... Che l’automobile abbia fatto, a nostra insaputa, una volata in pieno Far-West? Si direbbero bisonti quegli animali che accennano a tagliarci la strada. — Fermate, Dik!... — gridò il canadese. — Abbiamo dinanzi — a noi un grosso branco di buoi muschiati!... — CAPITOLO XIX. La carica dei buoi muschiati. Una lunga fila composta di animali d’aspetto imponente, s’avanzava attraverso i ghiacci dirigendosi verso la costa. Quantunque i buoi muschiati non abbiano le dimensioni mostruose dei bisonti delle praterie americane, sono delle splendide bestie, grosse e alte quanto i tori comuni, armate di corna più arcuate e d’aspetto più selvaggio in causa anche del fitto e magnifico vello, di color bruno, a riflessi giallastri, che scende, come un mantello, fino a terra, sicchè appena appena si possono scorgere i bianchi e robustissimi zoccoli. Questi animali, che un tempo erano numerosi anche nel Canadà, ormai non si trovano più che sulle grandi isole polari o sui territori situati al nord della baia di Hudson. Sembra che si siano perfettamente abituati ai grandi freddi, poichè si moltiplicano abbastanza bene e sfidano le terribili bufere di neve senza risentirne gran danno. Al pari dei bisonti, sono emigranti e viaggiano continuamente per cercare i licheni ed i muschi dei quali si nutrono, non essendo riusciti ad abituarsi, come i cavalli islandesi, a nutrirsi di pesci. La loro carne non sarebbe meno eccellente di quella dei buoi comuni se non sapesse di muschio, forse in causa del genere del loro nutrimento. Se il canadese aveva dato ordine a Dik di fermare prontamente l’automobile, aveva avute le sue buone ragioni. I buoi muschiati, al contrario dei bisonti americani che si lasciano massacrare senza quasi mai rivoltarsi, sono ombrosi come i bufali indiani, e se si credono minacciati caricano con furia irresistibile, a testa bassa, presentando le loro formidabili corna. Guai a chi ha la sventura di trovarsi sulla loro corsa!... Viene scaraventato in aria e poi finito a colpi di zoccolo. La schiera che si avanzava sul golfo e che proveniva probabilmente dalla Terra di Baffin in cerca d’un rifugio migliore, si componeva di due dozzine d’animali, tutti adulti, senza piccini fra di loro. Probabilmente erano tutti maschi, a giudicarne anche dallo sviluppo delle corna. — Signor Gastone, — disse lo studente, il quale aveva già preso il suo mauser. — Lascieremo noi andarsene in pace quella splendida selvaggina che io non ho mai assaggiata, senza consumare una mezza dozzina di palle? — Sono troppi, mio caro Walter, — rispose il canadese. — Voi ignorate la forza che posseggono quegli animali. Una volta preso lo slancio non si arrestano più, e sarebbero capaci di guastare seriamente il nostro treno. È vero, Dik? — Sono infatti terribili, — rispose l’ex-baleniere, il quale aveva accesa tranquillamente la sua pipa. — Se provassimo, signor Gastone? — insistette lo studente. — Non sono che a quattrocento metri e siamo abili cacciatori. Il canadese, che sapeva di che cosa fossero capaci quei bestioni, non meno terribili degli orsi bianchi, esitava, poi finalmente la passione del cacciatore lo vinse. — Sì, disse. — Venire al Polo per non provare le forti emozioni della caccia sarebbe una sciocchezza. Proviamo, Walter. Dopo tutto non getteranno in aria il nostro treno a colpi di corna. Dik!... Armatevi anche voi di un fucile. — Pronto, signore, — rispose l’ex-baleniere, il quale amava le forti emozioni non meno degli altri. Mentre si dirigeva verso il carrozzone per prendere la grossa carabina da caccia, il canadese e lo studente erano balzati sul campo di ghiaccio, mettendosi in ginocchio l’uno accanto all’altro. I buoi muschiati si erano già accorti della presenza di quel mostro a loro sconosciuto, ed avevano arrestata la loro marcia verso la spiaggia, disponendosi su una doppia fila, colle teste basse, come se si preparassero a caricare. — Che siano veramente così terribili? — si chiese lo studente. — Ora lo sapremo. — Si volse indietro. Dik giungeva in quel momento portando tre grosse carabine da caccia, già cariche. — Per Giove!... — esclamò lo studente. — Che tutti i fulmini mi piombino addosso se questa sera non assaggerò un pezzo di bue polare. Se sarà muschiato come un coccodrillo, tanto peggio per la cucina. — Mirò con estrema attenzione e fece fuoco. Il canadese lo aveva subito imitato. Un bufalo, fulminato da una o dall’altra palla, era caduto subito sulle ginocchia, mandando un lungo muggito. Gli altri rimasero un momento come stupiti, forse un po’ spaventati da quei due spari che forse mai avevano uditi, poi con un insieme fulmineo si slanciarono a corsa sfrenata verso il treno, mentre il loro compagno si rovesciava pesantemente su un fianco, vomitando un torrente di sangue dalla bocca. Dik aveva mandato un grido: — Nel carrozzone, signori!... — Il canadese e lo studente, prima di obbedire, vuotarono celeremente i serbatoi dei mauser colla speranza di arrestare la carica che diventava di momento in momento più fulminea, poi vedendo che le terribili bestie avanzavano, quantunque dovessero aver ricevuto non poche palle, poichè anche Dik aveva fatto fuoco, saltarono dentro il carrozzone, nella loro fortezza che nessun corno poteva certamente sollevare e rovesciare. — E l’automobile? — gridò il signor di Montcalm. — Lasciate fare a me, — rispose lo chaffeur, tornando precipitosamente indietro. Un istante dopo un urlo interminabile lacerava l’aria. Essendo il motore sempre in funzione, Dik aveva aperto la valvola della sirena e le urla stridenti si succedevano con un fracasso infernale. I ventiquattro o venticinque buoi muschiati che arrivavano a corsa sfrenata, udendo quelle note, si divisero in due piccole colonne, passando a destra ed a sinistra dell’automobile, senza osare di attaccarlo. Probabilmente l’avevano scambiato per una belva terribile, qualche enorme orso di nuovo genere, di colore oscuro anzichè bianco. Vedendo però il carrozzone, uno di loro vi si scagliò addosso con tanta furia che le sue corna attraversarono le tavole rimanendovi confitto. Walter, che vegliava ad una delle piccole finestre, fu pronto a fulminarlo cacciandogli una palla nel cranio. Gli altri, impressionati forse dallo sparo ed anche dalle urla laceranti della sirena che non dovevano cessare finchè vi era benzina nel serbatoio, ripartirono a corsa furiosa prima ancora che il canadese e Dik avessero potuto far fuoco, arrestandosi a cinque o seicento metri di distanza. — Per tutti i centomila fulmini di Giove!... — esclamò lo studente. — Parola d’onore che non credevo questi animali così terribili. Valgono bene gli orsi bianchi, signor Gastone. — Se non sono peggiori, — rispose il canadese. — Ed ora, ci assedieranno? — Pare. — Non sono che a mezzo chilometro, signor Gastone. — A tale distanza non sarà facile abbatterli, anche perchè questi animali, al pari degli orsi bianchi, possono resistere a parecchie palle. — Noi abbiamo commessa una vera corbelleria. — Siete stato voi. — Ed ora me ne pento. — Troppo tardi. — Per mille milioni di fulmini di Giove!..... — Mettete pure dei miliardi, per ora la nostra situazione non cambierà. — All’Università di Cambridge non si conoscono dunque i buoi muschiati? — chiese ironicamente Dik. — No, solamente i montoni, e quando sono bene arrostiti, — rispose lo studente, ridendo. Voleva dare forse del montone all’ex-baleniere? È probabile, ma il marinaio era troppo ruvido per capire. Il canadese intanto aveva deposto il fucile ed aveva caricata la pipa. — Che cosa fate, signor Gastone? — chiese Walter. — Come vedete, mi accingo a fare una bella fumata. — Ed i buoi? — Lasciateli per ora nel loro muschio. Non avranno fretta di assalirci, ve lo dico io. Guardateli: fingono di non accorgersi nemmeno della nostra presenza e sfondano il ghiaccio per cercarsi la colazione. — Era proprio vero. Dopo quella carica furiosa, si erano improvvisamente calmati, ed a gran colpi di corna si erano messi a rompere la superficie gelata per cercare forse dei licheni che non dovevano certamente trovare, poichè sotto le loro zampe stava il mare. — Se sprofondassero tutti? — disse lo studente. — Uhm!... — fece il canadese. — Non saranno così sciocchi da prendere un bagno che è troppo freddo in questa stagione. Non sono già degli orsi bianchi. — E che abbiano proprio intenzione di tenerci prigionieri? — Pare di sì, Walter. — E noi aspetteremo i loro comodi? Ah no, per tutti i fulmini di Giove. Signor Gastone, ho ancora in tasca tre dollari, gli ultimi. Volete che li giuochiamo? — Contro chi? Contro i buoi muschiati? — Io li giuocherò sulla canna del mio fucile. I mauser tirano ben altro che a cinque o seicento metri. Io punto un dollaro su ogni palla. — Ed io una sterlina, — rispose il canadese. — Perderete. — Vedremo. — Ed io le mie tre pipe, — disse l’ex-baleniere. — Vada anche per le vostre pipe, quantunque puzzino come se fossero passate attraverso di loro dieci piantagioni di tabacco. — Sono ben cotte, signor mio, e perciò più pregiate. — Le proveremo: io metterò contro ognuna tre bottiglie di gin che il signor di Montcalm mi addebiterà. — Sì, Walter, — rispose il canadese, scherzando. — Avanti, signor campione del salto, se volete guadagnarvi anche il campionato del tiro al bersaglio.... bovino. — Vi farò stupire, — rispose lo studente, imbracciando il fucile ed affacciandosi ad uno dei finestrini. — Quale scegliete signor Gastone? — Quel bel maschio che ha il pelame macchiato di nero e le corna più lunghe di tutti. Si presenta anche ottimamente per un bel tiro. — A me, mio polso e miei occhi, — esclamò lo studente. Puntò il mauser, mirando con estrema attenzione, poi dopo alcuni istanti rimbombava uno sparo. Il bue muschiato che in quel momento stava rompendo il ghiaccio coi durissimi zoccoli, alzò bruscamente la testa, la scosse come per cacciar via un insetto importuno, poi riprese il suo lavoro come se nulla fosse avvenuto. — Corpo di tutte le scarpe di Giove!... — esclamò lo studente al colmo della sorpresa. — Toh!... Anche le scarpe dopo i fulmini!... — esclamò il canadese, scoppiando in una risata. — Signor campione di Cambridge, avete perduto uno dei vostri tre dollari. — Eppure sono sicuro di averlo colpito. — Non dico di no; vi faccio solamente osservare che il bue è ancora ritto sulle sue quattro zampe. — Che i proiettili dei mauser abbiano perduta la tanta loro vantata penetrazione? — Non lo credo affatto. Gli è che voi dovete aver colpito quell’animale in piena fronte e che la vostra palla ha dovuto per forza rimbalzare altrove. Hanno le ossa dure, mio caro, i muschiati. — L’ex-baleniere in quel momento si fece innanzi, dicendo con comica gravità: — Signor mio, datemi la bottiglia che io ho vinto, così intanto l’assaggerò. — Andate a prendervela all’inferno!... — gridò Walter, furioso. — Niente affatto, vado a prendermela nella dispensa. — Avete ragione, Dik, — disse ii canadese. — Servitevi pure: Walter più tardi me la pagherà. — Mi rimangono ancora due dollari da giuocare, signor Gastone, — disse lo studente. — Io spero ancora di fare un buon affare, corpo di tutti i fulmini di Giove. — Volete ricominciare? — Diamine!... Con due palle posso andare molto lontano. — Tornò ad imbracciar il fucile, allargò ben bene le gambe per prendere una posa rigida, mirò più a lungo di prima e lasciò partire il secondo colpo. Questa volta il vecchio maschio fece un brusco scarto, alzando vivamente la testaccia e mandando un lungo muggito, ma rimase ancora ritto sulle sue zampe. — Per tutte le code del diavolo!... — urlò lo studente. — Come va questa faccenda? — Il diavolo ci ha messo una delle sue code ed io ho guadagnato un’altra bottiglia e salvata la mia seconda pipa, — disse Dik. — Signor Gastone, ci capite nulla voi? — chiese Walter al canadese, che lo guardava ridendo. — Anzi, ci capisco molto, mio caro Walter, e cioè che la vostra borsa si è alleggerita di un altro dollaro. — Eppure anche questa volta ho colpito il bersaglio. — Non lo nego. — Sono dunque impastati coll’acciaio quei maledetti animali? — Ve lo avevo detto che a grande distanza avreste sprecate inutilmente le nostre munizioni. — Mi rimane ancora un dollaro. — Giuocatelo. — Ed una bottiglia che pagherò quando potrò. — Io non sono un taverniere inesorabile. Vi concedo un credito illimitato. — Che Dik mi berrà. A me, miei occhi: fermi i nervi, corpo d’un bue muschiato!... Si tratta di buttar giù un semplice bue, che diamine! e di guadagnare un campionato di tiro al bersaglio anche senza l’Università d’Oxford. — Si era rimesso in posizione mantenendo il fucile in linea rigida. Le sue mani non davano nessuna vibrazione. Un terzo sparo echeggiò, seguito da un hurràh fragoroso. Il bue muschiato, colpito in qualche organo vitale, era caduto dapprima sulle ginocchia battendo pesantemente la testa contro la superficie gelata, poi si era rovesciato bruscamente su un fianco, rimanendo immobile. Walter depose il fucile e stese la destra dicendo: — Signor di Montcalm, date qui la vostra sterlina, e voi, mastro Dik, tirate fuori dalle vostre tasche una delle tre vostre pipe. Questa sera vedrò se tirerà bene!... — Adagio, amico, — disse il canadese, che rideva a crepapelle. — Gli affari sono affari, dicono i nostri vicini d’oltre S. Lorenzo. Mi dovete due dollari e due bottiglie che da onesto mercante ve le metterò un dollaro ciascuna, quindi vi debbo cinque sole lire. — Che ladroni sono i tavernieri canadesi! — esclamò lo studente. — Prezzo del mercato. — Un grande scoppio di risa chiuse la discussione. Nemmeno l’assedio dei terribili buoi muschiati aveva guastato il buon umore dei tre esploratori. Essendo giunto il momento di far colazione, funzione molto importante che non volevano affatto trascurare, si misero tutti insieme intorno alla stufa per sgelare un zampone d’orso bianco e divorarselo appena arrosolato, dopo una zuppa fumante di pemmican con biscotti. I buoi muschiati intanto, colla testardaggine della loro razza, continuavano a vigilare a cinque o seicento metri di distanza, decisi, a quanto pareva, a non lasciare il passo libero al treno, senza aver prima vendicato il loro compagno che pendeva sempre lungo il lato destro del carrozzone, colle corna confitte nel fasciame. CAPITOLO XX. La caccia al treno. La giornata trascorse senza che la situazione cambiasse per nulla. Quantunque quegli ostinati animali non avessero potuto scoprire di certo nè muschi, nè licheni sotto il ghiaccio, che come abbiamo detto si stendeva sopra le acque del golfo, non avevano lasciato il loro posto. Si erano contentati di girare e di rigirare intorno al vecchio maschio abbattuto dallo studente, mandando dei muggiti poco rassicuranti, poi calata la notte si erano coricati dinanzi al treno, formando una lunga linea e mantenendo la distanza di cinque a seicento metri. Si sarebbe detto che ormai avessero perfettamente conosciuta la potenza delle armi da fuoco dei loro avversari. I tre esploratori cominciavano già ad inquietarsi non poco di quella situazione che minacciava di prolungarsi assai, quando verso le sei di sera un gran nebbione cominciò ad avanzarsi attraverso il golfo, scendendo dal settentrione e guadagnando rapidamente via. L’ex-baleniere che l’aveva già previsto, e che stava fumando presso uno dei finestrini, levò dalla bocca la sua pipa, e rivolgendosi verso il canadese, disse: — Signore: io credo che stia per giungere il momento di ripartire. — Senza fanali? —M’incarico io di condurre egualmente l’automobile e di farlo passare sul corpo di quei maledetti animali. — Che cosa dite voi, Walter? — chiese il signor di Montcalm. — Io dico che abbiamo aspettato perfino troppo, e che colle armi che noi possediamo potremo passare. — E se nella nostra corsa incontrassimo un ostacolo, ed i buoi muschiati si precipitassero su di noi colle corna calate? — Li fucileremo a brucia-pelo, signor Gastone. — Voi avete pronta la risposta a tutto. — Mi preme di giungere al Polo. — Sareste un altro concorrente, o meglio un rivale? — chiese il canadese, scherzando. — Gli occhi, per quanto bellissimi, di miss Ellen non hanno bruciato affatto il mio cuore, ve lo assicuro, — rispose lo studente. — Io non amo le donne americane. — Forse avete ragione, — disse il canadese, mentre la sua fronte s’increspava lievemente. — Dik, aprite la porta e andate a riempire i serbatoi. I buoi non vi scorgeranno con questa nebbia che diventa sempre più fitta. — Forse dormono, — rispose l’ex-baleniere, con accento strano. Tolse la sbarra e uscì, scomparendo in mezzo alla nebbia. Il canadese e lo studente spensero la stufa e la lampada affinchè la luce non attirasse l’attenzione dei buoi muschiati, ed indossarono le loro pesanti pelliccie. Avevano prese le loro armi, aggiungendo due grosse rivoltelle, e stavano per raggiungere lo chaffeur quando se lo videro comparire dinanzi. — Siete voi, Dik? — chiese il signor di Montcalm, il quale subito non aveva potuto distinguerlo. — Sì, signore, — rispose l’ex-baleniere. — Che cosa c’è di nuovo, dunque? — Devo darvi una brutta notizia, signore. — Quale? — Che il motore non funziona più e che noi siamo in una panne completa. — Che diavolo mi raccontate? — Mi pare di essermi spiegato. — Voi scherzate, mastro Dik!... — gridò lo studente, riaccendendo subito la lampada. — Non ne ho l’abitudine, — rispose seccamente l’ex-baleniere. — Per tutti i fulmini di Giove!... — Dite quello che volete, il fatto è che noi siamo arenati. — Che cosa si è guastato? — chiese il signor di Montcalm, il quale era diventato pallidissimo. — Non lo so, signore, ma certo deve essere avvenuto un guasto importante, poichè i miei sforzi per far funzionare il motore sono stati vani. — Che si sia spezzato od alterato il radiatore? — Con questo nebbione mi sarebbe impossibile, per ora, trovare il malanno. — Come va questa faccenda? — chiese lo studente. — Fino a stamane l’automobile funzionava perfettamente. — Non so che cosa dire, — rispose Dik. — Gli automobili hanno gli organi delicati, checchè si dica. — Accendiamo i fanali ed andiamo a vedere. — Ed i buoi muschiati li avete dimenticati? — chiese lo chaffeur, con un leggier tono ironico, che produsse però sugli animi dei due esploratori una sgradita impressione. — Se scorgono i fuochi si getteranno su di noi e ci faranno a pezzi a colpi di corna. Chi vi assicura che non abbiano approfittato della nebbia per avvicinarsi? M’è anzi parso di aver udito a brevissima distanza un muggito. — Che sia stato uno di loro a produrre il guasto con qualche cornata? — si chiese il signor di Montcalm con ansietà. — Può darsi, signore, — rispose Dik, — anzi io lo credo. — Che cosa fare ora? — chiese Walter. — Non ci rimane che aspettare l’alba, — rispose il canadese. — E ci lasceranno quei dannati animali riparare il guasto? — Questo è un vero punto interrogativo, mio caro Walter. Speriamo che durante la notte se ne vadano. — Corpo di tutti i fulmini di Giove!... — gridò lo studente furioso. — Guastarsi la macchina proprio ora, mentre con questo nebbione avremmo potuto passare improvvisamente su di loro e scappare a tutta velocità!... Che il Polo cominci a congiurare contro di noi? Eppure finora si era mostrato benigno! — Forse il guasto è meno grave di quello che Dik suppone, — disse il canadese. — Ne succedono sempre ai motori delle automobili, e noi possediamo una piccola officina fornita d’ogni istrumento necessario per una riparazione di qualsiasi genere. Giacchè non possiamo fare nulla per ora, lasciamo che i buoi si godano i soffi della nebbia e noi cacciamoci sotto le coperte. — Non sarebbe prudente montare la guardia, signor Gastone? — chiese lo studente. — Lo ritengo affatto inutile. Con questa oscurità i buoi non oseranno assalirci, nè d’altronde credo che siano stati essi a danneggiare la nostra macchina. Forse è avvenuto quel guasto in causa dell’intenso freddo. Orsù, a letto. — Tornarono a spegnere la lampada per non attirare l’attenzione dei maledetti animali, e si cacciarono, dopo essersi a metà spogliati, sotto le coltri. Malgrado le loro preoccupazioni — preoccupazioni che Dik non condivideva di certo — tutti si addormentarono. Dei muggiti minacciosi che si ripercuotevano perfino dentro il carrozzone, li fecero balzare in piedi dopo moltissime ore di sonno. Una luce scialba, grigiastra, trapelava a malapena attraverso i vetri dei finestrini, incrostati esternamente d’uno spesso strato di ghiaccio. — Per tutti i fulmini di Giove!... — esclamò lo studente, precipitandosi sul suo fucile. — Ci sono addosso. — Aprì, non senza fatica, un finestrino e guardò al di fuori. Fra le ondate di nebbia che un vento terribile, tagliente e freddissimo sospingeva, scorse delle grandi ombre le quali si aggiravano a soli pochi metri dal carrozzone. Lo studente non esitò un solo istante ed esplose, con grande rapidità, tutte le cartuccie del serbatoio, sparando ora a destra ed ora a sinistra. Il canadese non aveva tardato ad imitarlo, facendo fuoco dall’opposto finestrino dove altre ombre erano comparse. Dei muggiti formidabili accolsero quelle scariche che si succedevano furiosamente, poi seguì un galoppo fragoroso che faceva risuonare cupamente la superficie gelata del golfo. — Sono scappati!... — gridò lo studente. — Mastro Dik, all’automobile. — L’ex-baleniere fece una smorfia, poi disse: — Ne siete proprio sicuro? — Mastro Dik, grande baleniere, avreste paura? — Oh mai, signor mio. — Allora seguiteci, — disse il canadese. — Noi vi scorteremo coi mauser e le Colt. — Prima di scendere si misero in ascolto, per paura che non tutti i buoi muschiati fossero fuggiti, poi rassicurati dal silenzio che regnava intorno al treno, rotto solamente di quando in quando da qualche ululato del vento, si diressero sollecitamente verso l’automobile, le cui ruote erano coperte da uno strato di ghiaccio. — All’opera, Dik, e subito, — disse il canadese, con voce imperiosa — Approfittiamo di questo momento di sosta. Io me ne intendo abbastanza di meccanica e vi aiuterò. — Ed io che non me ne intendo affatto monterò la guardia, — disse lo studente. — Corpo delle cento balene ramponate da mastro Dik!... Voglio vedere se quelle bestiaccie oseranno ancora circondarci. — Si gettò sulle spalle anche il secondo mauser, e mentre lo chaffeur ed il canadese si mettevano alacremente all’opera per cercare il guasto e ripararlo, si mise a battere audacemente i dintorni, tuffandosi nel nebbione, il quale non accennava a lasciare il posto ai raggi solari. Sia che fosse per dare una prova del suo coraggio o che se ne infischiasse delle corna dei bufali, l’imprudente prese il largo smarrendosi ben presto fra le masse di vapore. Quando se ne accorse era troppo tardi. Il treno era scomparso in mezzo al nebbione. — Che diamine!... — esclamò lo studente, un po’ pentito della sua imprudenza. — Non ammetterò mai che il signor di Montcalm sia partito senza di me. Se fosse quel Dik!... — Tese gli orecchi e non udì più i colpi di martello che poco prima giungevano fino a lui, nè i fragori del motore. — Corpo di Giove!... — esclamò, che mi sia proprio smarrito? Ed i buoi muschiati? Il brutto sarebbe che andassi a battere la mia testa contro le loro corna. Giove imbecille, aiutami insieme a Venere, a Marte e tutti gli astri che ti accompagnano. Cerchiamo di orientarci. — Era assolutamente impossibile prendere una direzione qualsiasi fra quel nebbione che diventava sempre più fitto, intercettando completamente la luce del sole. Una semi-oscurità che nemmeno l’ice-blink riusciva a vincere, avvolgeva i grandi campi di ghiaccio stendentisi sul golfo. — Dove andare? — si domandò per la decima volta lo studente. — Proviamo a volgere le spalle alla via che ho seguito finora.... Oh!... Triplice imbecille!... Forse che non ho due fucili per fare dei segnali? — Ne impugnò uno e lo puntò in aria. Stava per far fuoco, quando un terribile pensiero lo arrestò. — Stavo per commettere una grossa sciocchezza, — disse, abbassando prontamente l’arma. — Ed i buoi maledetti non accorreranno allo sparo e non mi scaraventeranno in aria? Walter mio, tu minacci di diventare un vero stupido. Forse questo freddo cane non sarà estraneo al rammollimento del mio cervellaccio di studente poco meno che asino. Gambe e occhi aperti ed orecchi tesi. — Il giovanotto girò tre o quattro volte su se stesso non sapendo quale direzione prendere, poi partì a gran passi senza sapere dove potesse andare a finire, poichè la nebbia non gli permetteva di distinguere un oggetto qualsiasi a cinque passi dalla punta del suo naso. Marciava verso l’automobile o gli volgeva le spalle? Si allontanava dai pericolosi animali o si cacciava proprio sotto le loro formidabili corna? Quanto avrebbe dato per saperlo!... — Gira e rigira in qualche luogo andrò a finire, — si disse l’allegro giovanotto, il quale essendo armato di due fucili non si inquietava gran che. — Che finisca al Polo? Le mie gambe, dopo tutto, sono quelle d’un saltatore e d’un corridore. — Camminò per una diecina di minuti, bestemmiando contro il nebbione che gli si accumulava addosso, rinserrandolo da tutte le parti, poi fece un rapido dietro front e si caccio dietro un piccolo hummok cercando di farsi più piccino che gli era possibile. A breve distanza aveva udito un muggito, seguito poco dopo da un altro più rauco e non meno minaccioso. — I buoi muschiati!... — esclamò, a mezza voce. — Altro che automobile!... Che io sia proprio destinato a lasciare le mie budella sulle corna di quegli animali? — In quell’istante udì uno sparo, poi un secondo, quindi un terzo. — Le Colt del signor Gastone!... — mormorò. — Deve essersi accorto della mia scomparsa e mi chiama. Che cosa fare? Se rispondo mi attirerò addosso tutta la banda dei buoi, e non sarà questo miserabile monticello di ghiaccio, che non è più alto di due metri, che mi salverà. Corpo di tutte le corone e di tutte le spade di Giove!... Eccomi in un bell’imbarazzo. — Un quarto, poi un quinto sparo rimbombarono, ma così lontani che lo studente ne fu spaventato. Doveva aver percorso parecchi chilometri in mezzo al nebbione, credendo di girare sempre intorno al treno. Malgrado il freddo intensissimo che avrebbe spaccato perfino una pietra, Walter si senti bagnare la fronte da grosse goccie di sudore. — Triplice imbecille, — mormorò. — Che cosa fare dunque? Continuare a rivolgermi questa domanda senza nulla risolvere? — Una sesta, poi una settima detonazione si propagarono fra la nebbia, la quale, contrariamente a quello che si crede, è una eccellente conduttrice dei suoni. — Accada ciò che si vuole, io risponderò, — disse. — Se i buoi maledetti mi daranno la caccia tanto peggio per me. Dopo tutto sono il campione della corsa delle cento yarde e per qualche motivo mi sono guadagnato quel grado. — Alzò risolutamente uno dei due mauser e sparò, uno dietro l’altro, due colpi. L’eco si era appena spenta quando altri due colpi risposero e questa volta non erano di rivoltella. Il canadese doveva essersi provveduto di qualche altro mauser essendovene parecchi nel carrozzone. — Ora a me, garretti!... — gridò lo studente. — In marcia! — Stava per slanciarsi a corsa sfrenata, quando udì dietro di sè un galoppo furioso. — Fulmini!... — esclamò. — I buoi mi danno la caccia!... Via, Walter mio, se vuoi salvarti le tue budella. — Si era messo a correre a tutta lena, spiccando di quando in quando dei grandi salti, spronato da un fragore di zoccoli che risuonavano vicinissimi a lui. Dall’automobile il canadese o l’ex-baleniere continuavano a sparare ad intervalli di mezzo minuto. Lo studente però, avvolto da quel gelido sudario, si trovava immensamente imbarazzato a mantenere una esatta direzione, anche perchè il vento spostava il rimbombo dei colpi. Nondimeno non cessava di correre, raccomandandosi ai suoi garretti, fortunatamente robustissimi. Diamine!... Si era ben allenato sulla pista di Cambridge prima di misurarsi coi corridori d’Oxford. Correva come il vento, colle braccia tese innanzi per prevenire una disastrosa caduta, la bocca ben chiusa e le nari invece bene aperte, in preda ad un’angoscia che fino allora non aveva mai provata. Dietro di sè udiva sempre il rombo prodotto da una ottantina di zoccoli percuotenti il ghiaccio. I buoi gli davano una caccia spietata, accanita, colla speranza di fargli fare un bel salto in aria e di ricevere il suo corpo sulle punte delle corna. Avevano però da fare con un vero campione di corsa, poichè lo studente manteneva la distanza tuffandosi sempre più nel nebbione. — Se non ci vedo io, non ci vedranno nemmeno loro, — si diceva il fuggiasco, allungando sempre. — Quando troverò l’automobile? — Ad un tratto si tolse dalle spalle uno dei fucili, si arrestò un momento e scaricò sei colpi dietro di sè, a casaccio, all’altezza d’un metro. — Ormai mi hanno scoperto, — disse, riprendendo la corsa, — tanto vale quindi a rispondere al signor Gastone. — Due spari risposero tosto a quella scarica. Il canadese e l’ex-baleniere segnalavano sempre la loro posizione. Quei colpi erano echeggiati vicinissimi, forse alla distanza di cinque o seicento metri. Il treno quindi non era lontano e non doveva essere difficile ritrovarlo se gli spari continuavano. Lo studente si orientò rapidamente, impugnò il secondo fucile e riprese lo slancio urlando: — Forza, campione di Cambridge!... Batti il récord di Oxford! — Pareva però che anche i buoi muschiati volessero stabilire il récord polare, poichè non cessavano un istante di galoppare sulle tracce del disgraziato studente. Avanzavano con un fragore d’uragano, muggendo ferocemente, furiosi di non aver ancora potuto raggiungere il fuggiasco che li teneva così bene in scacco e di non aver ancora potuto affondare le loro corna nelle sue carni. Un altro minuto di corsa disperata, poi due lampi squarciarono il nebbione a pochi metri dinanzi allo studente. L’automobile ed il suo carrozzone stavano a pochi passi, pronti a ripartire poichè il guasto, più per opera del canadese che dell’ex-baleniere, il quale se avesse potuto l’avrebbe invece aggravato, era stato nel frattempo riparato. — Signor Gastone!... Dik!... — gridò lo studente con voce strozzata. — Qui!... Qui!... — rispose subito il canadese. — I buoi!... I buoi!... Mi danno la caccia!... — Li odo!... Saltate!... — La sirena lacerò l’aria, mentre il motore ricominciava i suoi teuff-teuff affannosi. Walter in quattro salti raggiunse l’automobile ormai visibile pei suoi fanali proiettanti attraverso la nebbia due splendidi fasci di luce, si slanciò sul predellino e cadde fra le braccia del canadese il quale grido subito: — Via Dik!... A cinquanta miglia!... — Poi prendendo una bottiglia di wisky ancora mezza piena, la porse allo studente, dicendogli: — Mandate giù un sorso e poi sparate. — I buoi muschiati giungevano come una valanga, in gruppo serrato, le teste basse, colle corna quasi rasentanti la superficie gelata. Guai se tutte quelle masse, lanciate come erano, si fossero precipitate addosso al treno. Fortunatamente giungevano con qualche mezzo minuto di ritardo. — Via, Dik!... — ripetette il canadese, impugnando le due grosse Colt. L’automobile scricchiolò tutta sotto lo sforzo supremo fatto per sbarazzare le sue ruote dal ghiaccio che le imprigionava, con un salto raggiunse il livello del banco e si slanciò innanzi rumoreggiando sinistramente. I buoi vedendola fuggire non interruppero la loro corsa, anzi raddoppiarono di velocità, ma un fuoco terribile partito dai due lati dell’automobile e che gettò a terra tre o quattro di loro li obbligò ben presto a sostare. D’altronde non avrebbero potuto gareggiare a lungo con quella splendida macchina che divorava la via sfondando il nebbione. Qualche istante dopo il loro galoppo furioso cessava, mentre il canadese e lo studente lanciavano le loro ultime cariche. — Signore, — disse Dik, il quale cominciava a rallentare, temendo di trovarsi, da un istante all’altro, dinanzi qualche canale pronto ad inghiottirli tutti. — Così non possiamo continuare. Io non posso rispondere delle vostre vite se questo nebbione non si alza. — Infatti è una corsa da pazzi che finirà in una catastrofe, — disse il canadese, il quale pensava pure alla possibilità di fare un terribile salto in qualche spaccatura del campo di ghiaccio. — Si odono più i buoi? — No, signor Gastone, — disse lo studente. — I miei amici sono rimasti indietro e ci hanno perduto di vista. — Potete avanzare al passo con piena sicurezza, Dik? — I fanali proiettano abbastanza luce per scorgere a tempo un ostacolo. — Allora tirate innanzi come potete, mantenendo la rotta sempre al nord. Rimonteremo più tardi la riva. E voi, Walter, come vi siete smarrito nel nebbione? Simili imprudenze, come avete veduto, possono costare la vita. — Mi è costata invece, le gambe la mia, — rispose lo studente, ridendo. — Ah!... Che corsa, signor Gastone!... Se tornerò un giorno in Inghilterra lancerò una sfida in piena regola a tutti i corridori dell’Università di Oxford e di Cambridge insieme, sicurissimo ormai di batterli senza troppa fatica. Meno male che tirando su di me l’attenzione dei buoi, ho lasciato a voi il tempo di lavorare tranquilli. Era grave il guasto? — Oh!... — rispose il canadese, facendogli segno di troncare subito. — Che diavolo vi è qui sotto? — brontolò lo studente, un po’ impressionato dall’aria grave del canadese. Il dialogo termino lì. L’automobile intanto continuava ad avanzare quasi a passo d’uomo, sempre affogata in mezzo al nebbione. Dik non osava lanciarlo, quantunque la luce dei fanali, potentissima, si proiettasse fino ad una decina di metri. Quella marcia durò un paio d’ore, poi il canadese comando l’alt. — Andiamo a prepararci la colazione, Walter, — disse, — e voi Dik, giacchè non temete nè il freddo nè gli orsi, andate a esplorare un po’ la via. Prendetevi un fanale e non dimenticate il fucile. — Attese che lo chaffeur si fosse allontanato, poi si ritrasse nel carrozzone assieme allo studente e accese la lampada e la stufa. — Amico mio, — disse poi, — che cosa avete voi pensato di quel guasto misterioso? — Aspettavo da voi anzi una spiegazione, — rispose lo studente. — Si trattava di cosa grave? — No, perchè è forse mancato il tempo all’autore del guasto di dare il colpo di martello esattamente, ma un po’ più innanzi, ed il radiatore, l’anima della nostra macchina, andava a pezzi. — Signor Gastone, quello che mi narrate è molto grave. — Non dico di no, — rispose il canadese, il quale appariva assai preoccupato. — Sicchè voi dubitereste di Dik? — Non potrei affermarlo, tuttavia.... — Ed a quale scopo il baleniere avrebbe tentato di arrestarci? — Chi lo sa? Vi potrebbe essere sotto la mano di Torpon. — Signor Gastone, quel guasto non potrebbe essere stato prodotto da qualche scossa o da una cornata di qualche bue muschiato? — Non è possibile. — Corpo di tutti i fulmini di Giove!... Che la faccia di quel Dik non mi rassicuri pienamente, non ve lo nego, tuttavia non lo crederei capace di compiere una simile infamia. — Potrò essermi ingannato, Walter, però vi consiglio di aprire anche voi ben bene gli occhi. È facile guastare un automobile, e se ciò accadesse non dovremmo più pensare a conquistare il Polo. — Aprire gli occhi!... Non lascerò un solo momento, da questo istante, il baleniere, e se lo sorprendo, giuro su tutti i fulmini di Giove di fracassargli il cranio con una rivoltellata. Ed ora signor Gastone, prepariamoci la cena. — CAPITOLO XXI. Le estreme terre boreali. Per due giorni l’automobile, avvolta sempre da quel fitto nebbione che non permetteva alla luce del sole di penetrare, rimase immobilizzata sul campo di ghiaccio del golfo di Bosnia. La mattina del terzo giorno, dopo una notte burrascosa, accompagnata da furiose raffiche freddissime, l’automobile finalmente si riponeva in marcia fra una vera tempesta di neve. La nebbia però, spazzata dalle folate, se n’era andata verso il sud, raccogliendosi all’estremità del golfo. Il canadese e lo studente si erano messi sotto la capote dell’automobile, dietro all’ex-baleniere, per sorvegliarlo strettamente. Ormai il sospetto, non infondato, si era infiltrato nei loro cuori e non volevano correre il pericolo di rimanere a mezza via. Procedevano rapidamente poichè il ghiaccio si prestava meravigliosamente ad una corsa anche velocissima, non essendovi che dei rarissimi hummok incastrati fra i ghiacci. In due ore raggiunsero le isole Murchison che si stendono lungo la costa occidentale della terra di Boothia, poi filarono verso la terra di Somerset, cacciandosi audacemente dentro il canale del Reggente. Di quando in quando apparivano degli orsi bianchi i quali però, udendo la sirena fischiare, si affrettavano a fuggire a tutte gambe, abbandonando perfino le foche che avevano pescate sull’orlo dei crepacci e che stavano divorando. La traversata, dal sud al nord, del canale del Reggente, non richiese più di quattro ore, poichè avendo trovato il pak quasi liscio, il canadese aveva ordinato a Dik di spingere la velocità dell’automobile a ottanta chilometri all’ora. Già le coste meridionali della grande isola di Devon cominciavano a delinearsi, quando l’immenso pak sul quale l’automobile correva sfrenatamente, tutto d’un tratto comincio a vibrare in maniera strana ed a mugghiare come se un immenso armento di bisonti stesse in quel momento attraversandolo. — Per tutti i fulmini di Giove!... — esclamò lo studente, assai impressionato da quei fragori che aumentavano di momento in momento d’intensità. — Sta per scatenarsi qualche spaventevole bufera? Eppure il cielo e sgombro di nubi e di nebbia. — Sono le pressioni, — rispose il canadese, mentre Dik rallentava subito la corsa. — Prodotte da che cosa? — Da un salto improvviso del freddo. Il ghiaccio in questo momento aumenta il suo spessore, e non trovando più posto, il nuovo si accapiglia col vecchio tentando di sfondarlo. All’Università di Cambridge vi avranno già insegnato che quando l’acqua gela aumenta considerevolmente il suo volume. — Mi pare, — rispose lo studente, sorridendo. — E che cosa succederà ora? — Una cosa gravissima, mio caro Walter, — disse il canadese, il quale appariva assai preoccupato. — Queste pressioni schiacciano le più solide navi come se fossero delle semplici nocciuole e sono le nemiche più temute dai navigatori artici. — Ma la nostra automobile non è una nave, signor Gastone. — Può correre egualmente dei gravissimi pericoli, poichè il pak, sotto l’enorme spinta del nuovo ghiaccio sarà costretto ad aprirsi, a creparsi, ed una spaccatura può manifestarsi, da un istante all’altro, sotto le ruote del nostro treno. — Ed allora che succederebbe?... — Un capitombolo in fondo al mare senza alcuna speranza di tornare a galla poichè il ghiaccio, durante le pressioni si apre e si chiude quasi istantaneamente. — Le pressioni sono adunque i terremoti polari. — Nè più nè meno, Walter. — Diavolo!... — esclamò lo studente, grattandosi la punta del naso. — Io non sono mai stato un ammiratore dei terremoti. — Dik, — chiese il canadese, — che cosa ci consigliate di fare? — Aspettare, — rispose asciuttamente l’ex-baleniere, il quale aveva già fermato il motore. — Non si potrebbe fare una volata fino all’isola di Devon? Là almeno potremmo riderci delle pressioni, poichè sulla terra ferma non avvengono. — Ci occorrerebbe per lo meno una buona mezz’ora, signore. Aspettiamo qui che il movimento del pak cessi. Il pericolo d’altronde sta qui come a dieci o venti miglia più innanzi. — Walter, guardate il termometro. — Quarantadue gradi sotto, — rispose lo studente. — Mentre poco fa non ne segnava che 36. Che salto di freddo!... — Me lo sento indosso, signor Gastone. Mi caccierei volentieri nel nostro carrozzone accanto alla stufa. — Lo farete più tardi, quando il pericolo sarà cessato. Ecco che le pressioni ricominciano: come la finiremo noi? Stritolati od inghiottiti? — L’immenso pak, dopo alcuni minuti di sosta, ricominciava a vibrare ed a rumoreggiare. Delle fessure o meglio delle spaccature che si prolungavano per parecchi chilometri, di quando in quando si succedevano, accompagnate da detonazioni non meno intense di quelle prodotte dai pezzi grossi della marina. Succedeva un altro momento di calma, poi quei fragori tutto d’un colpo acquistavano una sonorità spaventosa. Mille muggiti si fondevano accompagnati da urla e da spari, poi il banco compresso enormemente ai suoi confini da una forza incalcolabile si curvava in alto, gonfiandosi come una gigantesca onda. Allora avvenivano delle rotture. Dei canali si aprivano per rinchiudersi subito dopo d’aver vomitato blocchi di ghiaccio e masse d’acqua spumeggiante che si solidificava quasi istantaneamente. Certe volte s’aprivano improvvisamente delle buche più o meno circolari e sorgevano delle punte di ghiaccio le quali s’ingrossavano rapidamente, s’alzavano in forma di torri e di campanili, per poi diroccare con un fracasso assordante che si ripercuoteva fino agli estremi limiti dell’orizzonte. Guai se l’automobile si fosse, per caso, trovata presso qualcuno di quei centri di pressione!... Sarebbe stata schiacciata sul colpo dallo strapiombare di quegli enormi massi di ghiaccio. — È uno spettacolo che fa tremare il cuore, — disse lo studente, il quale si teneva stretto al sedile, poichè la vettura oscillava come una nave percossa da un violentissimo rollìo. — Non credevo che i ghiacci fossero capaci di animarsi. E dureranno molto queste pressioni? — Fino a quando il pak si sarà completamente assestato, — rispose il canadese. — Forse dei grandi ice-bergs sono scesi lungo lo stretto di Lancaster ed esercitano anche loro delle spinte poderosissime per aprirsi il passo e cacciarsi dentro quelle del Reggente. — E noi giuochiamo la fortuna. — Certo, Walter, e se la fortuna dovesse abbandonarci, allora potreste dare e per sempre un addio al Polo. — Non poteva toccare a quel bisonte di Torpon un simile affare? — Le pressioni non risparmieranno nemmeno lui. — Potessero inghiottirlo insieme alla sua macchina. — Siete più feroce di me, Walter. — Quel bisonte mi è antipatico. — Saldo, Walter!... — Il ghiaccio si era gonfiato sotto di loro ed il treno era stato spinto in alto con un rombo spaventevole. Per un momento i tre esploratori credettero che tutto fosse finito e che s’aprisse qualche immensa spaccatura, invece nulla accadde. Il pak, dopo d’aver vibrato e dopo d’aver oscillato in tutti i sensi come se fosse diventato una massa liquida, s’abbassò bruscamente riprendendo il primiero livello. Tre o quattrocento passi più innanzi però una torre di dimensioni enormi si era innalzata per cinquanta o sessanta metri, e dopo d’aver oscillato spaventosamente si era sfasciata, scagliando dei massi del peso di parecchie tonnellate, in tutte le direzioni. La pressione del ghiaccio si era sfogata, e pel momento più nessun pericolo poteva minacciare i tre audaci esploratori. — Credevo già di vedermi in fondo al mare, — disse lo studente, il quale era ancora pallidissimo. — Signor Gastone, l’abbiamo scappata bella. — Anch’io per un istante ho creduto che tutto fosse finito, — rispose il canadese. — Se quella torre fosse sorta trecento passi più vicina, l’automobile ed anche il carrozzone sarebbero stati sminuzzati. — E noi con loro. Che belle bistecche per gli orsi bianchi! Che il pak si risollevi? — Invece di rispondergli, il canadese si volse verso Dik il quale, abituato a quei terribili spettacoli, non appariva affatto impressionato e gli disse: — Lanciate e cerchiamo di guadagnare la terra ferma. Il freddo è aumentato d’un altro grado e le pressioni continueranno chissà per quanto tempo, il pericolo esiste qui come più innanzi. Sfidiamolo. — L’ex-baleniere scosse il capo, poi rimise in movimento il motore ed approfittando d’un momento di calma, scagliò le vetture a cento chilometri di velocità. Aveva pur lui compreso che solo la terra ferma avrebbe potuto salvarli da un disastro spaventevole che poteva succedere da un momento all’altro. Ben presto la corsa del treno divenne fulminea. Pareva che volasse, tutto avvolto in un turbinìo di sottilissimi aghi di ghiaccio i quali balenavano stranamente sotto gli ultimi raggi del sole. Di quando in quando faceva dei balzi giganteschi e rollava disperatamente come un veliero sbattuto dalla tempesta, fra i mille muggiti delle formidabili pressioni che si potevano benissimo scambiare pei muggiti delle onde in furore, completando così l’illusione. Intorno, il pak si sollevava, crepava, detonando, si alzavano bruscamente immani colonne di ghiaccio spinte in alto dalle possenti strette e che poi, come sempre, crollavano, lanciando a grandi distanze i loro blocchi i quali rimbalzavano in tutte le direzioni. — Dio!... Comincio ad aver paura! — aveva esclamato lo studente. — Raccomandiamo le nostre anime. — Vi era infatti da aver paura delle tremende convulsioni dell’immenso banco di ghiaccio, il quale s’apriva e si rinchiudeva come se sotto le acque un formidabile terremoto scuotesse le estreme parti del mondo settentrionale. La terra di Devon era scomparsa fra una cortina di nebbie scendenti dal nord, ma l’ex-baleniere aveva la bussola dinanzi a sè, e quantunque l’ago fosse così inclinato da toccare quasi la rosa dei venti in causa dell’attrazione magnetica del polo, funzionava ancora abbastanza bene per non ingannarlo sulla vera direzione. Ed intanto il treno continuava a correre, rombando spaventosamente, fra una vera tempesta di ghiacciuoli che cadevano non si sapeva da qual parte, lambendo profondi crepacci in fondo ai quali il mare rumoreggiava tentando di montare alla superficie del pak, saltando e balzando sopra i blocchi di ghiaccio disseminati in tutte le direzioni. Mezz’ora era trascorsa e cinquanta chilometri erano stati divorati, quando la vettura fece un soprassalto e si rizzò come un cavallo che s’impenna sotto una terribile frustata, poi ricadde raddoppiando la corsa. L’ex-baleniere aveva mandato un grido. — Che cosa è accaduto, Dik? — chiese il canadese, il quale per poco non era stato scaraventato sul pak dal contraccolpo. — L’automobile si è alleggerita e mi scappa sotto le mani. — Alleggerita di che cosa? — Corpo di tutti i fulmini di Giove!... — gridò in quel momento lo studente, il quale si era alzato aggrappandosi all’orlo della capote di cuoio. — La vettura si è staccata ed è rimasta indietro!... — Mille dannazioni eterne!... — urlò il canadese. — Devo frenare? — chiese Dik. — Lasciamola andare per ora, — rispose il signor di Montcalm. — Tornare, sarebbe come cercare la morte. Torneremo più tardi a riprenderla se il ghiaccio non l’avrà inghiottita. Via, Dik!... Via!... — Le pressioni ricominciavano in quel momento con rabbia crescente. Il pak, compresso contro le sponde meridionali dell’isola di Devon, si contorceva tutto come se fosse diventato di gomma. Da tutte le parti sorgevano blocchi di ghiaccio, i quali saltavano fuori dalla grande massa coll’impeto di blocchi scaraventati in aria dallo scoppio di una mina. La morte aleggiava intorno ai tre audaci e dava loro la caccia per afferrarli e seppellirli in fondo ai gelidi baratri dell’oceano artico. Si poteva dire che ormai gareggiavano coll’orribile megera. — Via!... Via!... — continuava a gridare il signor di Montcalm, con voce strozzata. — Lanciate Dik!... Lanciate!... — L’ex-baleniere non aveva bisogno di quei consigli. Aggrappato disperatamente al volante, cogli occhi spalancati, quasi rannicchiato dietro lo scudo protettore, non scemava d’un metro la spaventosa velocità del motore pulsante febbrilmente. Passarono altri dieci minuti lunghi come dieci ore pei tre disgraziati, poi la vettura s’alzò scagliandosi in mezzo ad una fitta cortina di nebbia. — Saliamo la costa, — gridò Dik, — Tenetevi fermi!... Cerco di frenare!... — Avevano raggiunto la terra ferma ed ormai le pressioni più non potevano afferrarli. Dalle pressioni però erano caduti in seno ad una furiosa tempesta di neve che si dibatteva in mezzo ad un fitto nebbione. L’automobile risalì di volata una costa, traballando come un ubbriaco, spiccò una mezza dozzina di salti, poi sprofondò in mezzo ad un ammasso di neve. Nel medesimo istante il motore cessò di colpo di funzionare. — Dik, che cosa è avvenuto? — chiese con angoscia il canadese. L’ex-baleniere esitò un momento a rispondere, poi abbandonando il volante disse: — Un nuovo guasto è avvenuto, signore. Siamo immobilizzati. — Grave? — Chi lo sa? — Il canadese e lo studente si guardarono l’un l’altro con estrema ansietà, poi il primo disse con rassegnazione: — Fatalità questa volta. — Che cosa faremo ora, signor Gastone? — chiese il secondo. — Aspettare che la bufera cessi e poi ritornare sui banchi di ghiaccio a ricuperare il nostro carrozzone senza del quale non potremmo resistere a lungo ai terribili freddi del Polo. — E se il mare l’avesse inghiottito? — Tenteremo di avanzare egualmente. — Senza viveri e senza stufa? — Bruceremo il grasso degli orsi bianchi e l’olio delle foche. — Ed i serbatoi di benzina che sono tutti nel carrozzone? — Il canadese guardò lo studente con ispavento. Non aveva pensato alla benzina, la forza vitale ed unica dell’automobile che si era lasciata dietro in balìa alle formidabili pressioni del pak. — Ebbene, signor Gastone? — chiese lo studente, vedendo il canadese diventato cupo. — Che cosa volete che vi dica, Walter, — rispose finalmente il signor di Montcalm. — Se è stato ormai scritto sul gran libro del destino che noi dovremo morire senza vedere il Polo, sapremo affrontare la nostra fine da uomini forti. Il Polo ha divorato in dieci secoli centinaia e centinaia di arditi naviganti: può divorare anche tre automobilisti. Aspettiamo!... — CAPITOLO XXII. Le ultime corse. L’uragano di neve scoppiava allora con una furia veramente spaventevole, come se volesse gareggiare colle terribili convulsioni del grande pak che si stendeva sul golfo di Boothia. Un vento d’una violenza inaudita e così gelido da far screpolare la pelle dei volti e sopratutto le labbra, soffiava dal nord con ululati sinistri, sconvolgendo gli altissimi strati di neve che coprivano quella grande isola perduta ai confini del mondo abitabile. Le folate, o meglio le raffiche, giungevano con tanta rabbia da scuotere l’automobile, quantunque questa fosse, per sua fortuna, sepolto nella neve fino sopra le ruote. Il signor di Montcalm, Dik e Walter si erano rifugiati in fondo alla capote dopo aver abbassata e ben legata la grossa cortina di cuoio, portando con sè una bottiglia di gin, l’unica che ormai possedevano e la sola che potesse dare ai loro corpi intirizziti da 45° di freddo, un po’ di calore. Ben stretti l’uno contro l’altro e avvolti nelle loro folte pelliccie d’orso bianco, attendevano pazientemente che quell’ira di Dio si calmasse. Il canadese era diventato più taciturno di Dik; lo studente aveva perduto completamente il suo buon umore. Di fronte a quel disastro non si sentiva più in grado di scherzare. Preferiva dare, di quando in quando, qualche bacio alla bottiglia per combattere alla meglio quel freddo feroce che non accennava affatto a diminuire. La notte era scesa, una notte oscurissima marina, e la tempesta non cessava d’infuriare. La neve continuava ad accumularsi intorno all’automobile formando dei bastioni alti tre ed anche quattro metri, che di quando in quando venivano sfondati dalla furia del vento polare. — Bella notte, — disse ad un tratto lo studente, dopo di aver sbadigliato come un orso. — Che domani ci svegliamo con un contorno di ghiaccio? E la cena? — Andate a prendervela nel carrozzone, disse il canadese. — Se le pressioni fossero cessate mi ci proverei, signor Gastone, anche perchè io non sono mai stato abituato a coricarmi senza aver prima cacciato qualche cosa nel mio ventre, fosse pure un miserabile biscotto bagnato con un po’ di gin. — Non vi consiglierei di avventurarvi sul pak con un simile tempo. Non andreste certamente molto lontano. — Freddo e ventre vuoto!... Questo non può durare. — Volete un altro consiglio? — Dite pure, signor Gastone. — Stringete la cintura dei vostri calzoni, copritevi bene e chiudete gli occhi. Chi dorme non sente più gli stiracchiamenti dello stomaco. — Farò come voi dite. — Dik, accendete un fanale per tenere lontani gli orsi bianchi. Potrebbero approfittare di questa tempesta per farci una visita, da me non certo desiderata. — E da me anzi invocata, signor Gastone, — disse lo studente. — Sarebbe l’arrivo della cena e di non so quanti pranzi poi. — Potreste però servire voi da cena a quei messeri dalla bianca pelliccia. — Attesero che la lanterna fosse accesa, si misero accanto le armi, fecero riabbassare la tenda di cuoio, e dopo di aver vuotate le ultime gocce della bottiglia, si ricacciarono in fondo alla vettura, stringendosi bene dappresso, per scaldarsi un po’ reciprocamente. Al di fuori la bufera si scatenava sempre più formidabile. Il vento scaraventava addosso alla vettura, fra ululati e ruggiti spaventosi, una grandine di ghiacciuoli ed immense colonne di neve. Vi era il pericolo che tutto rimanesse seppellito prima che sorgesse l’alba. La stanchezza, le emozioni provate ed il freddo che li intorpidiva ebbero ben presto ragione sulle apprensioni, ed i tre uomini non tardarono ad addormentarsi. Lo studente soprattutto, malgrado la mancanza della cena, non aveva tardato a cadere nel mondo dei sogni. Sognava di trovarsi in un grande albergo americano, seduto dinanzi ad una tavola copiosamente imbandita, e fornita d’un bel numero di bottiglie di champagne, e di essere lì per allungare una mano verso un magnifico pudding appena levato dal forno. La mano infatti fu allungata dallo studente anche se dormiva, ma quale fu il suo stupore nel sentirsela afferrare da certe granfie che un momento prima, nel sogno, non aveva vedute dinanzi a sè!... Sentendo quella stretta si era svegliato di colpo spalancando gli occhi. La tenda di cuoio era caduta ed una massa enorme, che la luce della lanterna volta verso l’interno della vettura illuminava, si era arrampicata sul dinanzi dello scudo protettore, allungando due zampaccie villose verso lo studente che si era addormentato quasi dietro al volante. Walter con una mossa fulminea aveva ritirata la mano urlando a piena gola: — Aiuto!... Aiuto!... Gli orsi bianchi!... — Il canadese e Dik, strappati bruscamente dal loro torpore da quelle grida terribili, erano balzati in piedi stringendo ognuno una Colt. Vedendo quella massa bianca si misero a sparare all’impazzata, bruciando fino l’ultima cartuccia. L’orso, poichè si trattava realmente di uno di quei giganti abitatori delle regioni polari, imbarazzato dal volante che gli aveva impedito di avanzare, ricevette quel fuoco di fila senza nemmeno protestare. Crivellato a brucia pelo dai proiettili delle grosse rivoltelle, si piegò da un lato, poi rotolò giù dalla vettura scomparendo sotto la neve prima che Walter, il quale era riuscito a trovare uno dei due mauser, avesse avuto il tempo di dargli il colpo di grazia che d’altronde non era necessario. — Ve lo avevo detto io che malgrado la tempesta ci avrebbero fatta qualche sgradita visita? — disse il canadese, mentre Dik rimetteva a posto la tenda di cuoio per arrestare la neve che il vento spingeva dentro la vettura. — Nemmeno la luce dei fanali arresta più queste bestiaccie. — Che sia proprio morto, signor Gastone? — chiese Walter. — Con dodici palle che ha ricevuto? Io credo che nessuna sia andata fuori bersaglio. — I lupi non ce lo mangeranno? Ci tengo a ritrovarlo intatto per rifarmi della cena che mi è mancata. — I lupi sono piuttosto scarsi oltre il circolo polare artico, e poi non oseranno lasciare le loro tane con una notte così orribile. Walter riprendiamo il nostro sonno. — Volentieri, signor Gastone. Ora che so di non dover morire di fame dormirò più tranquillo. — Si rincantucciarono in fondo alla vettura, ricaricarono per precauzione le armi, quantunque avessero la convinzione di non ricevere altre visite da parte di quei pericolosi signori del Polo, e non tardarono a riprendere il sonno così bruscamente interrotto. Al mattino la tempesta infuriava ancora e, sempre con eguale violenza, la neve continuava a turbinare. Una semi-oscurità avvolgeva l’isola quantunque la dormita degli esploratori si fosse prolungata fino dopo le dieci. Intorno alla vettura si erano accumulate delle enormi masse di neve le quali oltrepassavano la capote. — Siamo come sepolti, — disse lo studente, mentre Dik si sforzava di far agire il motore per riscaldare un po’ l’interno della vettura. — Come faremo a uscire, signor Gastone? — Colle nostre gambe e colle nostre picozze, — rispose il canadese. — Fortunatamente nella cassa abbiamo anche dei badili per aprirci il passo. — E ritrovare il nostro orso, signore. Se mi dovesse mancare anche la colazione mi sentirei di morire molto presto. — Il grande freddo domanda la sua parte di carbone che pei nostri corpi deve essere rappresentato da carne, a qualunque specie d’animali appartenga. — E dove cucineremo noi le nostre bistecche? Non abbiamo qui la stufa. — Se fossimo degli esquimesi non ci troveremmo imbarazzati, Walter. — Volete dire? — Che si potrebbe farle arrostire sulla fiamma dei fanali. — Puah!... — fece lo studente sputando un pezzo di ghiaccio che gli si era formato in bocca. — Ed allora, mio caro, divoreremo le nostre bistecche crude. Su, prendete i picconi e le pale e cerchiamo di liberare la vettura dalla neve che la stringe da tutte le parti, prima che geli completamente. Dopo cercheremo l’orso. — Mi premerebbe prima, signor Gastone. — Abbiate un po’ di pazienza, signor affamato. Sbarazziamo almeno prima le ruote per evitare che il ghiaccio faccia scoppiare le pneumatiche. — Lavorando febbrilmente liberarono dapprima la parte anteriore della vettura che era quasi scomparsa sotto la neve, poi assalirono i bastioni di ghiaccio che tendevano a restringersi contro le ruote per effetto delle pressioni che si manifestano anche a terra, non però colla violenza spaventosa che si nota sui paks. Per quattro ore quei tre uomini, quantunque sfiniti dalla fame, maneggiarono ora i picconi ed ora le pale, sotto una continua bufera di neve, poi ottenuto, almeno pel momento, uno spazio sufficiente, si misero in cerca dell’orso. Il bestione, sprofondando, aveva aperta una buca nella neve, sicchè non fu difficile scovarlo, quantunque sepolto sotto uno strato di due metri. A gran colpi di scure il canadese e l’ex-baleniere gli troncarono le zampe posteriori senza perdere tempo a scuoiarlo tutto, poi si affrettarono a rifugiarsi sotto la capote non potendo più resistere alla furia del vento ed al freddo intensissimo che aveva raggiunto ormai i 45°. Togliere la pelle e tagliare a fette uno zampone ben grosso fu l’affare di pochi momenti. — Rosbif sanguinanti riscaldati sotto la neve! — gridò allegramente lo studente. — Cucina polare!... — Ed i tre uomini, divorati dalla fame, assalirono quel gigantesco prosciutto divorando a crepapelle e senza provare alcun ribrezzo. Si provarono poi ad accendere le pipe, ma dovettero ben presto rinunciare, poichè dopo poche tirate si trovavano in bocca un pezzo di ghiaccio ed il tabacco si spegneva. Il termometro sospeso all’esterno era disceso di altri due gradi in meno di un’ora. — Finiremo per morire gelati, se questa tempesta non cessa, — disse lo studente, il quale pensava al tiepido carrozzone riscaldato dalla russante stufa. Non potendo recarsi fino alla spiaggia per vedere se la loro vettura esisteva ancora od era stata inghiottita, non trovarono di meglio che di riaddormentarsi, ciò che riuscì loro facile poichè le bassissime temperature intorpidiscono l’uomo più vigoroso annichilendogli quasi il cervello. Anche durante tutto quel giorno la bufera rumoreggiò ed urlò intorno alla vettura, però la neve dopo mezzodì era completamente cessata. I tre esploratori che si erano svegliati, ne approfittarono per cercare di riparare il guasto toccato al motore. Come già il canadese ne aveva avuto il sospetto, il pezzo che avevano forse troppo frettolosamente saldato, si era nuovamente spezzato. Fortunatamente il radiatore non aveva nulla. Dik, sorvegliato strettamente dallo studente e dal canadese, il quale lo aiutava, si mise di buona o mala voglia all’opera, e prima che le tenebre scendessero il motore aveva ricominciato a funzionare. — A domani, — disse il canadese. — Lasciamo che questa notte la neve si rassodi, poi ci scaveremo una via per far rimontare la vettura che si trova due buoni metri sotto lo strato. Durante la notte anche la bufera, che durava da due giorni, finalmente si calmò, sicchè al mattino sulla grande isola regnava una calma relativa. La neve era però caduta in così grande quantità che lo spessore del ghiaccio era aumentato di quasi tre metri, rendendo l’atmosfera quasi irrespirabile tanto era fredda. Il canadese ed i suoi compagni, quasi completamente assiderati, malgrado lo spessore delle loro pelliccie, con un ultimo sforzo aprirono un varco nella massa gelata, improvvisando una strada saliente verso la superficie del ghiaccio, poi lanciarono l’automobile, ansiosi di tornare sul pak. Avrebbero ritrovata la loro vettura che portava con essa tutte le loro speranze, poichè nei suoi fianchi stavano rinchiusi i serbatoi di benzina? Ecco quanto si chiedevano ansiosamente. Se il golfo di Boothia l’aveva inghiottita potevano considerarsi come perduti, poichè l’automobile non avrebbe potuto percorrere più d’una cinquantina di chilometri nè, anche se avesse avuto una grossa riserva di benzina, proteggerli contro i terribili freddi del Polo artico. La tempesta di neve aveva trasformata la costa meridionale dell’isola. Se due giorni prima era quasi piana, ora mostrava una serie infinita di ondulazioni più o meno accentuate, simili alle rolling prairies delle sconfinate praterie del Far-West, che l’automobile però superava facilmente, pur rollando e beccheggiando disperatamente. Con una volata di mezz’ora, a sessanta chilometri di velocità, la vettura raggiunse la costa, arrestandosi bruscamente sulla cima sotto una poderosa stretta di freni. Il canadese, lo studente e perfino il flemmatico Dik erano balzati in piedi. L’immenso pak, tutto scintillante d’una luce intensissima in causa del rifrangersi dei raggi solari, si stendeva dinanzi a loro. In mezzo a quello scintillìo che accecava, un punto oscuro attrasse subito l’attenzione dei tre esploratori. — Il nostro carrozzone!... — gridò il canadese. — Sì, il nostro vagone-salon!... — urlò lo studente dimenando le braccia come le ali d’un mulino. — Hurràh!... Hurràh!... La conquista del Polo è assicurata!... — Anche Dik pareva commosso. Dopo tutto non doveva garbargli troppo di trovarsi arrestato al di là del circolo polare artico in piena panne, colla sola risorsa di ritornarsene al Canadà a piedi sia pure coi diecimila dollari di mister Torpon. — Dik, — disse il canadese. — Il pak a quanto pare ha ripreso il suo equilibrio. Possiamo scendere? — Sì, signore. — Andiamo a riprendere il nostro carrozzone. — Purchè il motore non si guasti ancora. — Lasciate a me allora il volante, — disse il signor di Montcalm, con tono un po’ acre. — È impossibile che ogni momento succedano dei malanni ad una macchina che è stata costruita con tutte le cure possibili. Si direbbe che voi avete sbagliato mestiere. — E che avreste fatto meglio a continuare a fare il baleniere, — aggiunse Walter. Dik si era alzato, lanciando sui due uomini un brutto sguardo. — Pare che mi vogliate offendere, — disse poi, con calma glaciale. — Se siete stanchi di me, ditemelo francamente, ed io me ne tornerò al Canadà colle mie sole gambe, purchè mi si dia un fucile colle relative munizioni. — Per farvi mangiare dagli orsi bianchi? — disse lo studente. — Siete pazzo, Dik? — disse il canadese. — Uh!... Un baleniere non ha paura nè del freddo, nè degli orsi. Se volete, parto subito. — Riprendete il volante, — comandò il canadese, con voce imperiosa. — Io vi ho arruolato e dovrete venire con noi fino al Polo. — Avete ragione, — rispose asciuttamente l’ex-baleniere, dopo una breve esitazione. Tornò a sedersi dietro il volante e dopo d’aver guardato per qualche istante la spiaggia che scendeva rapidissima, rimise in moto il motore, tenendo una mano sul freno. Più che una discesa fu uno scivolamento, poichè le ruote erano state chiuse. La vettura balzò finalmente sul pak, il quale aveva riacquistata la sua immobilità e filò verso quel punto grigiastro che ingrandiva a vista d’occhio, scomparendo la distanza rapidissimamente. Dopo d’aver girato intorno a numerosi e giganteschi ice-bergs, i quali erano riusciti a cacciarsi a forza dentro l’immenso campo di ghiaccio, la vettura potè finalmente raggiungere il carrozzone scampato miracolosamente alle formidabili pressioni che avrebbero potuto stritolarlo in un attimo e mandarlo rotto in fondo al golfo di Boothia. Nessun danno aveva subito. Solamente le sue ruote si erano affondate nel ghiaccio e l’intera massa si era inclinata su un fianco. — Signor Gastone, — disse lo studente, il quale era balzato a terra prima di tutti. — In questo miracolo io vedo una straordinaria protezione da parte della fortuna verso di noi. Ora non dubito più di poter sedermi in quel punto dove tutti i meridiani s’incrociano e di bagnarli con una bottiglia di champagne. — Lo spero anch’io, Walter, — rispose il canadese. — Sono anch’io fermamente convinto ormai che la fortuna ci abbia accordata la sua intera protezione. Dik, guardate di attaccare e rinforzare le catene. Ne abbiamo altre in serbo. E noi, Walter, accendiamo la stufa e sgeliamoci le membra che ne hanno proprio bisogno dopo tanto freddo. — E prepariamoci un pranzetto più o meno luculliano per riscaldare anche le nostre budella, signor Gastone, — rispose lo studente. — Corpo di tutti i fulmini di Giove!... La carne dell’orso mi scendeva nello stomaco come pezzi di ghiaccio. — Lascio a voi preparare la minuta, signor ghiottone. — E vedrete che fagiolata fumante vi preparerò io!... Me l’ha insegnata la mia povera mamma, e come le faceva eccellenti!... — Il bravo e sempre allegro giovanotto balzò nella vettura per accendere la stufa prima di tutto, mentre il canadese e Dik si occupavano dell’allacciamento delle catene che si erano spezzate durante quella corsa disperata attraverso al pak. Un’ora dopo i tre esploratori si trovavano riuniti intorno alla stufa, dinanzi ad un pranzetto sapientemente preparato dallo studente. Avevano proprio bisogno di un po’ di calore esterno e sopratutto interno dopo due giorni passati quasi a digiuno fra una temperatura oscillante fra i 42° ed i 45° sotto lo zero. Quantunque avessero desiderato riposarsi alcune ore sui loro lettucci, il timore che le terribili pressioni potessero ancora sorprenderli li decise a riprendere senz’altro il viaggio. Lasciarono molto a malincuore quel tiepido ambiente, allietato dal russare dolcissimo della stufa, e ripresero il loro posto nella vettura non senza aver prima rifornito il serbatoio della benzina. Con una volata rapidissima riguadagnarono l’isola di Devon e dopo una breve fermata per fare il punto, alle tre pomeridiane tagliavano il 75° parallelo. Lo stesso giorno, con un tempo relativamente calmo, si accampavano sulle rive settentrionali di quella vasta terra, di fronte allo stretto di Jones che era completamente gelato ed in vista dell’isoletta di Coburg. L’indomani, dopo una notte tranquillissima, rischiarata da una magnifica aurora boreale, passavano sulla terra di Lincoln, terra appena esplorata lungo le coste e che si ignora ancora esattamente se sia una grande isola o se sia congiunta alla terra di Ellesmore. Il ghiaccio era sempre buono e permetteva all’automobile di percorrere senza fatica i suoi cinquanta chilometri all’ora. Qualche orso di quando in quando si mostrava, subito salutato da una scarica di mauser, e anche delle foche e delle morse apparivano in vicinanza delle coste, presso i buchi che avevano aperti nei banchi di ghiaccio per venire a respirare e godersi qualche pallido raggio di sole. Il secondo giorno da che avevano lasciato il pak del golfo di Boothia, correvano già sulla terra di Ellesmore, una delle ultime esplorate dai navigatori americani ed europei in questi ultimi anni. Le difficoltà però cominciavano a farsi sentire di miglio in miglio che l’automobile si avvicinava al Polo. Dei vasti canali di quando in quando interrompevano la corsa, canali a mala pena gelati, quantunque il freddo si mantenesse sempre elevato, obbligando gli esploratori a fare dei lunghissimi giri. Ora invece erano ammassi formidabili di vecchi ice-bergs, che la cortissima estate da tanti anni non aveva potuto sciogliere, che si presentavano dinanzi al treno senza mostrare alcun passaggio, il che obbligava gli esploratori a perdere delle lunghissime ore ed a sprecare molta benzina per cercare una salita abbastanza accessibile. Ora erano i pak dei larghi stretti aperti al di là della terra di Ellesmore, che mettevano a dura prova ed a grandi rischi quei tre animosi — o meglio i due animosi — colle loro pressioni. Da quattro giorni correvano senza posa, talvolta bersagliati da improvvisi uragani di neve, quando verso il mezzodì del quinto giorno il treno passò sulla terra di Smith, una delle più settentrionali e delle meno note. — Prendiamoci ventiquattro ore di riposo, — disse il canadese, dopo che l’automobile, con grande fatica, ebbe superata l’alta costa, sprofondando fino all’altezza delle ruote in un campo di neve non ancora rassodato. — Ne abbiamo bene il diritto. — È ancora molto lontano questo signor Polo? — chiese lo studente. — Io spero, fra due giorni, se nulla di grave succede, di sturare la nostra famosa bottiglia di champagne sull’incrocio dei meridiani e di vuotarla.... — Alla salute dei begli occhi di miss Ellen Perkins, — interruppe Walter. Il canadese lo guardo socchiudendo più volte gli occhi, poi rispose bruscamente: — No.... alla nostra. Pranziamo; e poi, giacchè il vento non ci tormenta e la temperatura è diventata stranamente mite, andremo ad esplorare un po’ il paese ed a cacciare. — CAPITOLO XXIII. L’ultimo mammouth? Come ebbero mangiato in fretta per approfittare delle poche ore di luce che rimanevano, avvicinandosi rapidamente la lunga notte polare, i tre esploratori che sentivano un grande bisogno di muoversi per combattere il torpore che li invadeva in causa del grande freddo, presero le armi e si allontanarono verso il settentrione, colla speranza di fare l’incontro di qualche orso. Ne avevano già veduti parecchi durante la loro fulminea corsa e si tenevano certi di sparare non pochi colpi di fucile. Pel treno, affondato nella neve fino alla parte inferiore dello chassis, non avevano nulla da temere, tanto più che avevano prima sprangato il carrozzone il quale conteneva i viveri. La selvaggina non si presentava troppo abbondante. Qualche volpe polare scappava con velocità fulminea, sfidando le palle che lo studente le sparava dietro senza riuscire a colpirle; abbondavano invece i volatili, specialmente i borgomastri ed i gabbiani, ma nessuno pensava a sprecare delle munizioni diventate ormai piuttosto scarse. Avevano percorso un paio di chilometri quando, con loro grande sorpresa, trovarono impresse sulla neve delle orme gigantesche che non potevano essere state prodotte dalle zampe di orsi bianchi, gli animali più grossi fino allora conosciuti. — Signor Gastone, — chiese lo studente, al colmo dello stupore. — Quale bestione può aver impresse su questa neve queste orme? — Il canadese invece di rispondere si era curvato, guardandole attentamente. — È strano!... — esclamò finalmente. — Si direbbero traccie di elefanti!... — Lo studente rispose con una sonora risata. — Degli elefanti al Polo!... Ah!... Signor Gastone, che cosa dite voi mai? — Vi stupite? — Non siamo già all’equatore. Non sentite questo freddo cane? — E allora? — Vorreste proprio dire che queste traccie somigliano a quelle d’un pachiderma? — Pachiderma: ben detto, mio caro Walter, perchè la bestia che è passata per di qua non può appartenere che a quella famiglia. — Volete scherzare, signor Gastone. — Niente affatto. Chi può assicurare che i giganteschi mammouth, quei fratelli degli elefanti, che un tempo popolavano queste regioni, siano veramente tutti scomparsi? Chi ha esplorate queste terre per affermare ciò? — Infatti, signore, io ho letto in non so quale libro della biblioteca di Cambridge, che in tempi remoti i mammouth abitavano la Siberia e le grandi isole dell’oceano polare. — Non tanto remoti quanto credete, amico, — rispose il canadese. — Nel 1900, se ben ricordo, giungeva all’Accademia di Pietroburgo la strabiliante notizia che un cosacco aveva scoperto sulle spiaggie dell’oceano polare, in un luogo assolutamente deserto, il cadavere di uno di quei colossali pachidermi in uno stato di conservazione splendido. Aveva ancora intorno alle sue ossa la carne, e la pelle era ancora coperta di peli: non gli mancava che la proboscide. — Nel 1900 avete detto? — Sì, Walter. Ammetto che il ghiaccio abbia conservato a lungo la carne di quel colosso, ma ammetterete pure che non l’avrà conservata per secoli e secoli. Ciò vuol dire che i mammouth se sono veramente tutti scomparsi, sono finiti molto recentemente. Ed infatti Behring affermava di aver veduto sulle isole dello stretto degli animali giganteschi, i quali potevano benissimo essere dei pachidermi. — E fu ricuperato quell’animalaccio? — Il governo russo, appresa la notizia di quella scoperta, mandò subito in Siberia il conservatore delle collezioni zoologiche di Pietroburgo, ed il mammouth, che si era affondato in mezzo ai ghiacci, poco lontano dal villaggio di Sredne Kolynk, fu portato in Russia non senza grandi difficoltà, non esistendo allora nessuna linea ferroviaria fino agli Urali. Oggi lo scheletro di quel bestione figura nel museo imperiale di Pietroburgo. — Che non siano proprio tutti scomparsi? — Chi lo sa?... Qualcuno può essere sopravvissuto. — Corpo di Giove!... Una caccia all’elefante al Polo!... Chi ci crederebbe? Signor Gastone, seguiamo queste tracce. — Certo, Walter. — Ho udito narrare che la tromba degli elefanti è un vero manicaretto. — Così si afferma. — Corpo di tutti i fulmini di Giove!... Se potessi assaggiarla anch’io!... — Guadagnatevela, signor ghiottone. — È quello che tenterò di fare. — Allora in marcia dietro le orme. — I tre uomini esaminarono prima i fucili, trattandosi d’una caccia tutt’altro che facile, poichè se il mammouth era un animale tranquillo quando non era disturbato, diventava invece, al pari degli elefanti, terribile se assalito; poi si misero in marcia risolutissimi a scovare quell’animale che fino allora si credeva scomparso da qualche centinaio d’anni se non di più. Le larghe orme si dirigevano verso un picco isolato, contornato da colossali ice-bergs alla sua base e che probabilmente doveva essere un isolotto. Giunti a duecento metri, i tre cacciatori, con loro non poca sorpresa, scopersero due traccie. Una si dirigeva verso ponente del picco e l’altra verso oriente. Erano due i colossali pachidermi od uno solo che aveva girato e rigirato intorno agli ice-bergs? — Dik, — disse il canadese, — se vi trovaste dinanzi ad un simile animale, avreste paura? — Un sorriso quasi sprezzante spunto sulle labbra dello chaffeur. — Un uomo che ha ucciso più di venticinque balene può affrontare un elefante, a qualunque razza appartenga, — disse. — Gli sparerò dentro il naso. — Allora voi girate il picco verso ponente, mentre noi lo gireremo verso levante e se lo trovate spingetelo contro. — Va bene, — rispose l’ex-baleniere. Accese la sua pipa, quantunque avesse poche probabilità di fare molte tirate, in causa del freddo sempre intensissimo, e si allontanò col fucile sulle spalle. Il canadese e lo studente, dopo aver esaminate nuovamente le orme, si misero a loro volta in marcia, girando il picco in senso contrario. Un’ardore bellicoso animava entrambi. La prospettiva d’una caccia così colossale li esaltava, unita alla grande curiosità di vedere, ancora vivente, un animale appartenente alla razza antidiluviana, scampato chissà per quale miracolo alla formidabile sommersione della crosta terrestre. Le traccie continuavano, traccie profonde, formate da cinque unghie assai larghe che avevano perfino spezzato il ghiaccio. Non si poteva ormai più dubitare che si trattasse veramente d’un mammouth o di qualche altro animale simile, forse l’ultimo della sua razza sperdutosi sugli ultimi confini della terra di Ellesmore. I due cacciatori raggiunsero l’estrema punta del picco che scendeva verso levante in forma d’uno sperone colossale, e piegarono verso il settentrione per incontrarsi con Dik che doveva procedere dal lato opposto. Le traccie continuavano ma l’animale non compariva. Forse pascolava dall’altra parte, spaccando il ghiaccio colle robustissime zanne per mettere allo scoperto i pochi muschi ed i licheni sepolti sotto. Già cominciavano a disperare d’incontrarsi con quel colosso, quando uno sparo rimbombò a poca distanza seguito da un urlo acutissimo che li fece trasalire. — Aiuto!... Aiuto!... — Dik!... La voce di Dik! — gridò Walter, prendendo lo slancio. — Signor Gastone, accorriamo!... — Sì, preparate il fucile!... — rispose il canadese, con voce soffocata. — Il mammouth ha assalito il baleniere! — Girarono a gran corsa una specie di bastione che si stendeva sul fianco settentrionale del picco, ed uno spettacolo terrificante si offerse ai loro sguardi. Un animale gigantesco, assai più grosso e più alto d’un elefante, armato di due lunghissime zanne ricurve in alto, d’un avorio bianchissimo, aveva afferrato l’ex-baleniere colla sua tromba e lo scuoteva furiosamente a venti metri dal suolo, barrendo spaventosamente. Il disgraziato chaffeur, semi-soffocato da quella poderosa stretta, agitava pazzamente le braccia e le gambe gettando delle grida orribili. Il signor di Montcalm in pochi salti raggiunse il colossale pachiderma, imbracciò il fucile e sparò uno dietro l’altro, con una calma meravigliosa, sei colpi, mirando le spalle anzichè la testa. Il pachiderma, spaventato da tutte quelle detonazioni che si succedevano senza tregua e colpito in pieno, sciolse la tromba lasciando cadere Dik in mezzo ad un ammasso di neve fortunatamente non ancora gelata, scosse le larghe orecchie, lanciò un formidabile grido di guerra che si ripercosse contro i fianchi della montagna e si scagliò innanzi, cercando di precipitarsi verso lo stretto di Smith che era poco lontano. Altri sei colpi rimbombarono in quel momento. Walter, passato il primo istante di stupore, a sua volta vuotava il serbatoio del suo mauser. Il colosso si fermò un momento lasciandosi fucilare quasi a bruciapelo, lanciò tre o quattro barriti spaventevoli, poi, quantunque avesse in corpo ben dodici palle, riprese la corsa verso la spiaggia. Giunto però sulla ripa si fermo nuovamente lasciando penzolare, quasi inerte, la sua proboscide pelosa, scosse le orecchie, poi rovinò sul pak sottostante con un cupo rimbombo. L’ultimo mammouth era morto!... Mentre fuggiva, il canadese si era slanciato verso Dik il quale si teneva le mani strette ai fianchi. — Siete ferito, Dik? — gli chiese premurosamente. — Bah!... — rispose lo strano uomo con un sorriso. — I balenieri hanno le costole dure. Se però tardavate un istante a giungere, non so se avrebbero resistito ad un’altra stretta. Quei bestioni posseggono la forza delle balene. — Si alzò senza dimostrare alcuna sofferenza, incrociò le braccia e dopo d’aver guardato lo studente che si era precipitato dietro al mammouth, gli disse: — Signor di Montcalm, vi devo la vita. — Mi è costato ben poco a conservarvela. Al mio posto voi avreste fatto altrettanto. — Non lo so, signore, — rispose l’ex-baleniere, con voce grave. — Che cosa vorreste dire, Dik? — chiese il signor di Montcalm con stupore. — Che avendomi salvata la pelle, io vi condurrò al Polo. — Dik!... Siete impazzito? Io non riesco a comprendervi. — Mi comprenderete subito quando vi dirò che mister Torpon mi ha dato diecimila dollari per impedirvi di andare al Polo. — Miserabile!... — gridò il canadese, levandosi la rivoltella che portava alla cintura e puntandogliela contro. — Uccidetemi pure, — disse l’ex-baleniere. — Siete nel vostro diritto. — Il canadese aveva subito abbassata l’arma, poi l’aveva rimessa nella guardia. — Vi ha versato diecimila dollari! — esclamò. — Sì, signor di Montcalm. — Mi aspettavo qualche brutto tiro da parte di quel yankee. Mi stupisce però che voi vi siate lasciato comperare da quell’uomo. — Sono un miserabile, signore, — rispose Dik, con voce sorda. — Che cosa volete? Quei diecimila dollari caduti dal cielo mi avevano acciecato. In quel momento pensavo con quella somma di armare una piccola goletta e di ritornare baleniere per mio conto. — Confessate di aver cercato di rovinare il nostro motore? — Lo confesso. — Disgraziato, e non pensavate che perdendo noi nelle solitudini gelate del Polo perdevate anche voi? — A questo non ci avevo pensato. — Io avrei il diritto di uccidervi. — Non ve lo contesto: se volete, armate la vostra rivoltella e finitemi. Questa vita che voi avete strappata alla proboscide di quel bestione vi appartiene. — No, — disse il canadese. — Io non commetterò mai un assassinio così, a sangue freddo, ma vi avverto Dik, che se vi sorprendo a guastare la mia automobile vi ammazzerò come un cane, e vi avverto pure che io sono un uomo da mantenere la parola. — E farete bene, signor di Montcalm. Dovendovi però troppa riconoscenza, siate sicuro che io farò tutti gli sforzi possibili per condurvi al Polo. — Non se ne parli più di questo affare. Se il destino mi farà incontrare Torpon, qualche cosa di terribile succederà, e le nevi immacolate del Polo si tingeranno per la prima volta di sangue umano. Seguitemi: andiamo a vedere l’ultimo mammouth, poichè sono certo che è l’ultimo della sua razza. — Mi avete perdonato, signor di Montcalm? — Vi ho detto di sì, — rispose un po’ asciutto il canadese. — Vi giuro che sarò da questo momento il vostro fedele marinaio. — Vedremo. — Raccolse il fucile e si diresse verso la spiaggia, dove si udiva lo studente strepitare come un’oca marina. In meno di cinque minuti i due esploratori raggiunsero la ripa dalla quale era rotolato sul pak il gigantesco animale. Il ghiaccio che copriva il canale di Smith doveva avere uno spessore enorme, poichè non aveva ceduto sotto l’enorme urto, sicchè il colosso non si era sprofondato nel mare. Giaceva rovesciato sul fianco sinistro, colla proboscide tesa dalla quale era uscita una larga pozza di sangue, colla bocca spalancata dalla quale era sfuggito l’ultimo barrito e l’ultimo rantolo. Una delle sue gigantesche zanne si era spezzata ed era rimbalzata a cinque o sei metri dal corpo; l’altra invece si ergeva ancora minacciosa, arcuata in alto, molto più bianca dei denti degli ippopotami che danno il miglior avorio, assai superiore a quello degli elefanti. — Che sia proprio un vero mammouth, signor Gastone? — chiese Walter al canadese, girando e rigirando intorno alla mostruosa massa. — Avete mai veduto degli elefanti con delle zanne così arcuate? — Io no. — E così coperti di pelo? Se guardate bene il pelame e di due tinte diverse: uno breve, fitto, rossastro ed il secondo più lungo e più biondastro. — Infatti è vero. — Anche la coda è diversa da quella degli elefanti: guardatela. È più breve, poichè non misura più di cinquanta o sessanta centimetri ed è formata esclusivamente da peli neri. — E questi colossi devono possedere una vitalità straordinaria. Dodici palle e palle di mauser e sparate, almeno da parte mia, in direzione del cuore. — Mio caro, nel mammouth scoperto a Sredne Kolynk si è potuto constatare che le pareti del cuore avevano la bagatella di cinque centimetri di spessore. — E sono intelligenti questi animali? — Non meno degli elefanti, avendo il loro cervello uno sviluppo quasi eguale. — E voi dite che un tempo erano numerosissimi in queste regioni? — Non solo qui, bensì, ma in Siberia e perfino allo Spitzberg. — E perchè sono scomparsi? Distrutti a poco a poco dal freddo o dalla fame? — No, gli scienziati danno una versione ben diversa. La causa che ha determinate la fine di questi colossi, che secoli indietro dovevano essere numerosissimi, a giudicarlo dalla grande quantità d’ossami che si scoprono continuamente, specialmente in Siberia, la si deve cercare nel movimento dei ghiacciai. Rotolando questi, attraverso le valli, continuamente dei massi, vi formavano delle vere trappole sulle quali i mammouth si arrischiavano per cercare i muschi ed i licheni dei quali avevano bisogno per nutrirsi. L’enorme peso degli animali sfondava quelle croste di ghiaccio ed i disgraziati precipitavano in gran numero dentro quelle trappole senza poter poi più uscire. Infatti tutti gli avanzi dei mammouth si sono sempre trovati a dieci e perfino a quindici metri sotto lo strato attuale del ghiaccio. Dik, andate a prendere un paio di scuri e tagliate un pezzo di proboscide, — continuò il canadese, volgendosi verso lo chaffeur. — Noi l’assaggeremo, è vero Walter? — Ve la preparerò in salsa piccante. — Come vorrete, amico, — rispose il canadese, ridendo. Mezz’ora dopo i tre uomini tornavano al treno reggendo a grande stento mezza tromba del disgraziato animale, la quale non pesava meno di centocinquanta chilogrammi, aumentando così considerevolmente le loro provviste diventate già piuttosto scarse. CAPITOLO XXIV. Un duello al Polo. Nel pomeriggio, dopo una vera scorpacciata di carne di mammouth sapientemente preparata dallo studente con grande abbondanza di droghe e di pepe per toglierle quel sapore di selvatico che si riscontra in tutti i grossi animali, il treno riprendeva la sua corsa. Ormai soli dieci gradi, ossia seicento miglia, li separavano dal Polo, una vera inezia se potevano trovare il ghiaccio sempre buono. In tre giorni, e fors’anche in minor tempo, quella distanza poteva essere superata anche senza troppo spingere l’automobile. Dopo essersi assicurati del buono stato del ghiaccio steso sullo stretto di Smith, lasciarono la terra di Ellesmore e scesero sul pak per raggiungere la terra di Grinnell, le cui coste si profilavano distintamente sul limpido orizzonte. Enormi ice-bergs si erano radunati nel vasto canale, piantandosi saldamente sul campo di ghiaccio e formando qua e là delle barriere le quali interrompevano sovente la corsa del treno, costringendolo a perlustrare per miglia e miglia prima di poter trovare un passaggio. Fortunatamente in quel momento le pressioni non si facevano sentire che assai leggermente. Di quando in quando il campo di ghiaccio vibrava e muggiva e qualche ice-berg, perduto l’equilibrio, strapiombava sul pak con un fragore assordante, aprendosi uno squarcio attraverso a cui l’acqua del mare saliva spumeggiando e rimbalzando. Gli uccelli marini, che erano tornati numerosissimi, e che nidificavano sui fianchi o sulle cime di quei colossi, scappavano via spaventati, mentre migliaia e migliaia di uova si fracassavano sul ghiaccio, gigantesche frittate perdute, come diceva, molto amaramente lo studente, il quale non aveva ancora potuto, fino allora, permettersi il lusso di regalarsene una. Tre ore dopo l’automobile, varcato lo stretto, saliva la terra di Grinnell, una terra assai accidentata, cosparsa di profondi fiords e tagliata in vari sensi da catene di montagne di considerevole altezza. È una delle ultime conosciute, che si stende di fronte agli estremi limiti settentrionali della Groenlandia, da cui è separata dal canale di Kennedy e più oltre da quello di Robison. Quantunque non formi che una massa sola, si divide in due terre un po’ separate dalla lunga baia di Lady Franklin, chiamandosi quella più boreale terra di Grant, nome datole dagli esploratori americani in memoria del loro glorioso Presidente. Essendo la parte occidentale piuttosto piana, il treno piegò verso quella direzione per raggiungere il Greely fiord e più tardi la costa di Garfield; nondimeno dovette ben presto rallentare la corsa poichè i ghiacciai delle montagne orientali avevano già spinto molto innanzi le loro enormi masse di ghiaccio, disperdendole in tutte le direzioni. Dik, che ormai dirigeva risolutamente la corsa, premuroso di mostrare al canadese il suo pentimento pei tradimenti passati, era costretto suo malgrado a fare delle frequenti fermate, delle quali d’altronde approfittavano i suoi compagni per sparare sugli orsi bianchi e sui buoi muschiati che si mostravano numerosissimi. Una cosa aveva colpito gli esploratori: la improvvisa mitezza del clima. Mentre più si avvicinavano al Grande Nord, la temperatura, invece di aumentare vertiginosamente, scemava di ora in ora. Il sole splendeva magnifico, durante le quattro o cinque ore che rimaneva sull’orizzonte, poichè la lunga notte polare s’avvicinava a grandi passi; l’aria si manteneva sgombra di nebbie ed aveva una mollezza che contrastava stranamente coll’altezza dei paralleli, i quali ormai toccavano l’82°. — Che esista realmente un mare libero intorno al Polo, come hanno affermato tanti navigatori, cominciando da Barentz? — si chiedeva continuamente il canadese. — Se questa temperatura continua a diminuire invece di aumentare, come sarebbe nel suo diritto, noi fra poco troveremo gli ultimi canali quasi sgombri dai ghiacci. Fortunatamente ho portato con me un canotto di cauciu e mi spingerò da solo verso il Polo. Ah!... Io non tornerò senza averlo veduto e senza avere spiegata lassù la bandiera della vecchia Francia. — Alla sera il treno, dopo una traversata assai laboriosa, si arrestava sulle rive del Greely fiord. Erano allora appena le tre pomeridiane ed il sole era già tramontato. Non essendovi nè luna, nè stelle, nè aurora boreale, i tre esploratori si accamparono poco lungi dal pak, non fidandosi di attraversarlo per paura che non fosse abbastanza solido per reggere il peso del treno. La temperatura, che diventava sempre più dolce, li costringeva ormai a diffidare del ghiaccio marino. Alle nove del mattino, quando un leggiero barlume di luce cominciava a mostrarsi verso levante, riprendevano la marcia a piccola velocità, girando il fiord il quale era formato da aspre colline non sempre accessibili, e verso le undici, al primo raggio di sole, passavano sulla terra di Grant, terra assolutamente deserta, poco nota, che spinge le sue spiaggie fino al canale di Robison, l’ultimo esplorato. Anche l’83° parallelo era stato felicemente superato. Sette gradi ancora ed il Polo, quel terribile polo che in quattro o cinque secoli aveva divorate tante vittime umane per non lasciarsi togliere il velo misterioso che lo copriva, era vinto. — Avanti giorno e notte, — disse il canadese a Dik, preso da un improvviso entusiasmo. — Vi offro mille dollari ogni grado che mi farete vincere. — Ed io vi prometto di intascarli, — aveva risposto l’ex-baleniere. — Mister Torpon per me ora è morto!... — Ed il treno era subito ripartito a grande velocità, salendo e scendendo le larghe ondulazioni della pianura gelata, sprofondando però talvolta entro la neve rammollita da quello strano tiepore che non aveva cessato di aumentare. Al tramonto anche la terra di Grant, l’ultima rilevata ed osservata dagli esploratori artici, arrestatisi allo stretto di Robison ed alla baia di Morkham, era attraversata. Malgrado i molteplici ostacoli, Dik aveva condotto meravigliosamente il treno, imprimendogli talvolta una velocità di sessanta e perfino di settanta miglia. Al di la dell’ultima terra esplorata dagli audaci navigatori americani ed europei, si stendevano parecchie isole che sembravano picchi vulcanici emersi dal mare chissà in quali lontane epoche, congiunte fra di loro da terre basse e contornate da ghiacci ancora abbastanza solidi per reggere il treno. Non vi era però da fidarsi gran che. La temperatura non cessava di scemare, e verso il settentrione apparivano degli ampi canali d’acqua libera, quantunque ingombri d’ice-bergs natanti, vecchi forse da secoli. — Adagio Dik e scandagliamo prima il ghiaccio, — disse il canadese, il quale temeva che da un istante all’altro il pak cedesse sotto il peso del treno e li facesse scomparire nei baratri dell’oceano artico. — E noi, Walter, gonfiamo il canotto cauciu e teniamolo pronto. Non è di grande portata, tuttavia potrà, in caso disperato, reggerci. — L’automobile ormai non avanzava che con estrema lentezza, passando da un’isola all’altra, non senza che Dik, esperto conoscitore dei ghiacci, avesse prima provata la solidità dei campi di ghiaccio. L’89° parallelo era stato già superato quando il treno, dopo d’aver attraversato un’isoletta di mediocre vastità, si trovò improvvisamente dinanzi ad una distesa d’acqua intensamente azzurra, ingombra solamente da enormi montagne di ghiaccio che il vento del nord faceva oscillare spaventosamente ed urtare le une contro le altre con rombi che impressionavano. Un picco aguzzo, tutto coperto di ghiaccio, forse un antico vulcano, dai fianchi quasi inaccessibili, spiccava su quel mare libero che una superba aurora boreale, sprigionatasi in quel momento, tingeva d’un rosso vivissimo. Il canadese mando un grido altissimo: — Ecco uno dei due cardini del mondo!... Il Polo è là!... Dik, il canotto!... — Il polo!... Quello è il polo!... — esclamò lo studente. — Sì, Walter: domani a mezzodì io farò il punto, e vedrete che è proprio sul vertice di quel picco che s’incrociano tutti i meridiani del mondo. — Possibile, signore? — Che cosa credevate di trovare dunque voi al Polo? La luna forse, o tutti i vostri fulmini di Giove riuniti in fascio? — Non lo so, signor Gastone, — rispose lo studente, che pareva sbalordito. — Dik, il canotto!... — ripetè il canadese. — Metteteci dentro la gloriosa bandiera della vecchia Francia. — Eccomi, signore, — rispose l’ex-baleniere uscendo di sotto il carrozzone, dove in un cassetto di ferro si trovava il canotto ben ripiegato, coi pezzi dell’armatura, i due remi e la pompa premente per gonfiarlo. Lo studente era accorso in suo aiuto. In dieci minuti la piccola imbarcazione, capace di portare non più di due uomini, fu gonfiata, armata e portata sulla spiaggia. — Lasciate che per ora io solo prenda possesso del Polo nord, — disse il canadese con voce grave, fissando e spiegando sulla poppa una piccola bandiera coi colori di Francia. — Ne avete il diritto, signor Gastone, rispose lo studente. — A voi spetta pel primo di posare i piedi sul cardine boreale dell’orbe terracqueo. — Il canadese aveva già afferrati i remi, quando un colpo di fucile rimbombò sul mare libero, ripercuotendosi fragorosamente fra i monti di ghiaccio. — Uno sparo.... qui.... a due passi dal Polo!.... — esclamò il signor di Montcalm con vivo stupore. Poi un nome gli sfuggì: — Torpon!... — Dik e Walter si erano slanciati giù dalla spiaggia, spingendo i loro sguardi al largo. In quel momento un secondo sparo rimbombò, e sui fianchi d’un enorme ice-berg, il quale oscillava spaventosamente a cinque o seicento metri dalla sponda, salì una nuvoletta di fumo. — Un uomo laggiù!... — disse l’ex-baleniere. — Aspettatemi qui!... — gridò il canadese. — Chiunque sia cercherò di salvarlo. — Afferrò i remi e fece volare il canotto sulle acque spingendolo verso la gigantesca montagna di ghiaccio la quale, quantunque il mare fosse calmo, continuava a rollare come se fosse lì lì per perdere l’equilibrio e rovesciarsi. Su una specie di piattaforma che declinava verso l’acqua, una forma umana era comparsa ed agitava pazzamente le braccia, urlando a squarciagola: — Help!... Help!...1. — Il canadese, abilissimo canottiere, come tutti i suoi compatriotti del S. Lorenzo, in pochi minuti attraverso la distanza, gettò un gancio sul ghiaccio e balzò sulla piattaforma. L’uomo che gridava era scomparso qualche istante prima dietro una sporgenza. — Dove siete? — gridò il canadese. — Sono venuto a salvarvi!... Non abbiate alcun timore!... — Aveva già raggiunta la cima della piattaforma, quando un uomo gli rovinò addosso, bestemmiando. Stringeva fra le mani un fucile, impugnandolo per la canna. — Ah!... Miserabile!... — gridò, con accento feroce. — Ti ho trovato finalmente ed ora ti uccido!... Tu non andrai al Polo!... — Voi.... Torpon!... — aveva gridato il canadese, balzando indietro. — Disgraziato, che cosa volete fare? — Era proprio il yankee, il suo rivale, che gli stava dinanzi, spaventosamente dimagrito, colla pazzia negli sguardi, il viso smunto, col naso gelato e già intaccato dalla cancrena. Che cosa era toccato a quel miserabile, ritrovato in vista, anzi a poche centinaia di metri dal Polo? Dov’era la sua automobile? Dov’erano i suoi compagni, poichè non era ammissibile che si fosse slanciato da solo nella grande e perigliosa impresa? — Giù quel fucile!... — gridò il canadese, estraendo rapidamente il bowie-knife che portava appeso alla cintola, e che era l’unica arma che in quel momento possedeva. — Io non voglio farvi alcun male, mister Torpon, quantunque abbiate ordito contro di me dei tradimenti infami!... — Lo yankee rispose con uno scoppio di risa, e dardeggiò sul suo rivale uno sguardo feroce. — Io non ho potuto andare al Polo quando già stavo per metterci il piede, — disse con voce cupa. — Il freddo ha spento i miei due compagni e l’oceano ha inghiottita la mia automobile, ma nemmeno voi andrete al Polo, signor di Montcalm. Già se anche io ci andassi, miss Ellen non mi vorrebbe più ora che il mio naso è putrido. Guardatevi: non ho più che una sola cartuccia, perchè le due ultime le ho sacrificate per richiamare la vostra attenzione, però ho ancora abbastanza forza per uccidervi. Nessuno di noi guarderà più mai gli occhi di quella terribile e crudele fanciulla!... — Giù quel fucile, mister Torpon, — ripetè con tono minaccioso il canadese. — Vi ripeto che non voglio farvi alcun male e che vi ricondurrò sul continente, perdonandovi i vostri tradimenti. — Quali? — chiese ironicamente l’americano. — Dik, il mio chaffeur, mi ha narrato tutto. — Ecco una grande canaglia: mi prende diecimila dollari e vi lascia giungere al Polo. Bisogna che vi uccida tutti!... — Con un balzo improvviso si era scagliato sul canadese, mandando un ruggito di belva. Il suo avversario che già si teneva in guardia, aspettandosi qualche brutto giuoco da parte di quell’uomo a cui le sofferenze avevano guastato il cervello, con un salto di fianco si sottrasse al calcio del fucile che avrebbe dovuto spaccargli la testa, poi gli si precipitò addosso afferrandolo strettamente e gridando: — Arrenditi!... Ho un coltello nelle mie mani!... — La risposta fu una bestemmia seguita da uno scroscio di risa. L’americano aveva lasciato cadere la carabina ed aveva, a sua volta, avvinghiato il canadese, cercando di spingerlo giù dalla piattaforma e scaraventarlo nel mare. Una lotta terribile, feroce, si era impegnata fra i due uomini, i quali ormai non avevano altre armi che le loro mani, poichè anche il canadese si era lasciato sfuggire il bowie-knife. Erano caduti sul ghiaccio e si rotolavano tentando di sopraffarsi e scambiandosi, quando potevano, dei poderosi pugni. Imprecazioni e ruggiti di belve in furore sfuggivano dalle loro labbra. Walter e Dik, impotenti, assistevano a quella lotta selvaggia senza nulla poter tentare, poichè il canotto era rimasto fisso al ghiaccione col raffio. Intanto l’enorme ice-berg, sospinto dal vento polare, s’avvicinava alla spiaggia rollando sempre più spaventosamente. Gli uccelli marini che nidificavano sulla sua cima erano già volati via abbandonando le loro uova, e dai fianchi della gigantesca massa rotolavano, rimbalzando, gran numero di ghiacciuoli. Era un avvertimento ben conosciuto ai marinai pratici delle regioni artiche. Il colosso, roso alla sua base dalle acque non più così intensamente fredde, stava per perdere il suo equilibrio e capovolgersi. Dik se n’era accorto. — Signor di Montcalm!... — gridò, facendo colle mani porta-voce. — Fuggite!... La montagna sta per rovesciarsi!... Al canotto!... Al canotto, signore!... — Disgraziatamente la sua voce veniva coperta dal continuo grandinare dei ghiacciuoli, e poi i due uomini erano tanto accaniti nella lotta da non vedere e da non udire più nulla. Continuavano a rotolarsi per la piattaforma, tempestandosi di pugni, l’uno facendo sforzi disperati per non lasciarsi precipitare in mare, e l’altro per gettarvelo. Ad un tratto l’enorme montagna s’inclinò su un fianco tuonando, come se nel suo seno fosse scoppiata una mina. Le due vette descrissero sull’azzurro del cielo un grande arco, poi l’enorme massa, che pesava quanto un’alta montagna, si rovesciò rapidamente mentre la parte fino allora sommersa s’alzava sollevando una immensa ondata. Dik e Walter avevano mandato due grida d’angoscia. — Signor di Montcalm!... — Per qualche istante videro i due uomini, strettamente aggrappati, sollevarsi in aria insieme alla piattaforma sulla quale lottavano, poi non scorsero altro che una immensa colonna di acqua e di spuma da cui emerse, con un salto immenso, la parte inferiore dell’ice-berg. CAPITOLO XXV. Il ritorno. — Ebbene, signor Gastone, come va dunque? — Ho un freddo terribile, mio buon Walter. — Sfido io!... Con quel po’ po’ di ghiaccio che avevate intorno!... L’acqua non doveva essere certamente calda. — Chi mi ha ripescato? — Quel bravo Dik. Corpo di tutti i fulmini di Giove, quell’uomo è un vero orso marino. Si è appena cambiato ed è corso subito fuori per cercare di trovare l’altro, ma io non credo che sia tanto fortunato, o meglio tanto sfortunato, poichè quel bisonte americano sta meglio in fondo all’oceano artico piuttosto che sopra. — Il canotto dunque? — Si è staccato nel momento in cui l’ice-berg si rovesciava ed abbiamo potuto raccoglierlo subito essendo stato scaraventato sulla spiaggia dal contraccolpo dell’onda. — Che sia proprio morto, Torpon? — Vorrei sperarlo, signor Gastone, — rispose lo studente. Nel carrozzone, bene riscaldato, poichè la stufa, abbondantemente alimentata, brontolava più forte che mai facendo gorgogliare il ramino per l’acqua del thè, regnò per alcuni istanti un certo silenzio. Il canadese, che si trovava coricato sul suo lettuccio, sepolto sotto un mucchio di coperte di lana, aveva alzato la testa e pareva che ascoltasse ansiosamente. — Walter, che l’abbia trovato? — chiese finalmente. — Io spero di no, — ripetè lo studente, versando l’acqua bollente nella teiera dove aveva già messo due cucchiai di thè polvere di cannone. — Quell’uomo era pazzo. — Era un gran birbante invece, signor Gastone. Cercava di spingervi nell’abisso. — In quell’istante la porta si aprì e comparve l’ex-baleniere. — Nulla? — chiesero ad una voce il canadese e lo studente. — Ogni ricerca è stata inutile, signori, — rispose Dik, con voce un po’ alterata. — Qualche masso deve averlo schiacciato ed il mare lo ha inghiottito. — Avete compiuto il giro dell’ice-berg? — Sì, signore. — Che il mare se lo tenga, — disse lo studente, alzando le spalle. — Signor Gastone, ed anche voi Dik, mandate giù una tazza di questo eccellente thè. Dopo il bagno che avete preso, vi assicuro che vi farà bene. — I due uomini trangugiarono a gran sorsi la profumata bevanda, poi anche Dik si gettò sul suo lettuccio, mentre il canadese si ricacciava sotto le coperte. Le tenebre erano già scese con rapidità fulminea poichè ormai il sole non si manteneva sull’orizzonte che sole tre ore. — Dormite tranquilli, — disse lo studente, accendendo la sua pipa mobile. — Io vado a far la guardia al Polo dentro l’automobile. Perdinci!... Ora che l’abbiamo raggiunto, bisogna guardare che non ci scappi. — E l’allegro giovanotto se ne andò mentre il cielo si tingeva tutto d’immensi raggi bianchi, verdi, giallastri e sopratutto rossi. L’aurora boreale illuminava il cardine settentrionale del mondo. Dopo il mezzodì dell’indomani il signor di Montcalm approfittando del mare tranquillo e di quelle poche ore di luce, s’imbarcò da solo sul leggiero canotto per prendere possesso della montagna polare sopra la cui cima, la sera innanzi, lo studente aveva veduto brillare la fulgida stella dei naviganti boreali. Arrancando di gran lena, poichè il bagno e le emozioni del giorno prima non lo avevano affatto indebolito, mezz’ora dopo sbarcava alla base della montagna, e su una roccia che era riuscito a scalare piantava la bandiera francese, dicendo: — Io prendo possesso di te, o Polo artico, che per secoli e secoli sei stato il sogno ardente dei più arditi naviganti dell’America e dell’Europa. Io solo ti ho domato e sei mio!... — Guardò la cima della montagna, guardò a lungo il mare libero che la circondava, poi scese lentamente verso la spiaggia, balzò nel canotto e ritornò verso i compagni, i quali lo aspettavano in preda ad una viva emozione. — Partiamo, amici, — disse. — Ormai non abbiamo più nulla da fare qui. — Poi tese loro le mani dicendo: — Grazie: è stato per sforzi anche vostri che io sono riuscito a raggiungere il Polo. — L’automobile pulsava fragorosamente come se fosse impaziente di tornare verso il sud, orgogliosa, nella sua anima d’acciaio e di fuoco, d’aver aggiunta un’altra vittoria alle tante guadagnate dall’automobilismo su tutte le piste del mondo. Il sole, pallidissimo, come se fosse ammalato, si coricava rapidamente come se s’immergesse nel mar libero polare, quando l’automobile e la sua vettura volsero le spalle al nord slanciandosi attraverso le isolette collegate fra di loro da banchi di ghiaccio abbastanza solidi per reggerli. Fuggivano temendo che le grandi nevicate li immobilizzassero sulle terre di Grant, di Grinnell o di Ellesmore, le più fredde e le più battute dagli uragani di tutte quelle che si stendono al di là dell’oceano artico. Dopo due giorni di corsa quasi continua, poichè splendide aurore boreali illuminavano, meglio che il pallidissimo sole, quelle plaghe desolate, il treno riattraversava felicemente lo stretto di Robison all’altezza della baia di Markham. Dieci ore di sosta, o meglio di sonno, poi eccoli nuovamente in corsa, prima attraverso la terra di Grant, poi quella di Grinnell. Il freddo era aumentato spaventosamente. L’enorme calotta polare, formata di ghiacci antichissimi e di campi di ghiaccio sconfinati, soffiava nebbioni e nevicate abbondanti. Due giorni ancora ed ecco i fortunati conquistatori del Polo sulla terra di Ellesmore, in rotta per quella di Lincoln. Poi eccoli in gran corsa attraverso il canale di Jones, che superarono senza provare le tremende pressioni che li avevano sorpresi sullo stretto di Lancaster. La benzina sfumava rapidamente, ma i grossi serbatoi del carrozzone ne davano sempre come se fossero inesauribili. Erano ancora ben lontani dal forte di Churchill, l’unico posto dove potessero rifornirsi, pure non disperavano di raggiungerlo e non completamente asciutti. E la corsa continuava furiosa, febbrile, giorno e notte, con brevissimi riposi, sovente fra spaventose bufere di neve, attraverso prima la terra di Devon, poi quella di Baffin, quella di Boothia; quindi eccoli sulle spiaggie della immensa baia di Hudson. Sette giorni dopo giungevano finalmente, ancora con qualche centinaio di litri di benzina, al forte di Churchill, quasi interamente sepolto sotto la neve. Ormai potevano considerarsi nel Canadà. I fortunati esploratori, grandemente festeggiati da quei bravi cacciatori e dal borghese, sostarono un paio di giorni al forte per rimettersi dalle terribili prove subite e dalle dure fatiche. Erano giunti assai dimagriti e molto sfiniti. La partenza pel sud infinito fu salutata da tutti i cacciatori del forte con entusiastici hurràh e con grandi scariche di moschetteria. Quantunque non tutti i pericoli fossero cessati, poichè l’inverno scatenava quasi ogni giorno furiose tempeste di neve, i tre esploratori ridiscesero verso l’alto Canadà, sempre costeggiando la baia di Hudson in gran parte gelata, poi nel basso, e ventitrè giorni dopo aver lasciato il Polo, una bella notte calma, di luna piena, entravano in Montreal fermandosi dinanzi la palazzina che avevano creduto di non più mai rivedere. — Silenzio con tutti per ora, — disse il signor di Montcalm quando si ritrovò nel suo gabinetto da lavoro. — Per quarant’otto ore desidero che tutti ignorino, canadesi ed americani, che noi abbiamo conquistato il Polo nord. Poi forniremo ai reporters dei giornali tutto quello che vorranno sapere sul nuovo trionfo di queste macchine impareggiabili che si chiamano automobili. — Prese un foglietto di carta e vi scrisse sopra rapidamente alcune righe, poi lo porse al suo gigantesco portiere dicendogli: — Manda subito a miss Ellen Perkins questo dispaccio. — Subito, padrone, — rispose il colosso, uscendo frettolosamente. Il signor di Montcalm stette un momento silenzioso, poi volgendosi verso l’ex-baleniere disse: — Dik, andate pure a riposarvi nella stanza che vi ho fatta preparare. Domani mattina verrete qui ad incassare uno cheque di diecimila dollari che uniti agli altri che voi avete guadagnati in quel modo che voi sapete, vi permetteranno di armare una buona goletta da pesca e diventare capitano baleniere. — Grazie, signore, — rispose Dik, curvando il capo ed arrossendo. — Andate: anche voi avete bisogno di riposo. — Si alzò, prese da uno scaffale una vecchia bottiglia di Bordeaux, la sturò ed empì due bicchieri, poichè nella elegante stanzetta non era rimasto che Walter. — Che cosa credete che io abbia telegrafato a miss Ellen? — chiese allo studente, il quale sgranava gli occhi come per interrogarlo. — Che mister Torpon è morto, che voi avete vinta la sfida e che attendete la sua mano, — rispose Walter. — Davvero? — chiese ironicamente il canadese. — Diamine!... Non avete trionfato voi? Non è morto il vostro rivale? — Bevete, Walter: domani ne saprete di più. — Corpo di tutti i fulmini di Giove!... Vi assicuro che non ci vedo chiaro in tutta questa faccenda. — Ci vedrete meglio domani, poichè quella graziosa miss, dagli occhi di tigre, non mancherà di farci visita sulla sua automobile. Le donne americane quando promettono mantengono, ma l’aspetterà una sgradita sorpresa. — Come?... Voi.... — Bevete, Walter, — disse il canadese, interrompendolo bruscamente. — Ora che ci siamo perfettamente conosciuti e che ho avuto il tempo di apprezzare le vostre meravigliose qualità, vorrei farvi una proposta. — Dite pure, signor Gastone. — Voi siete venuto al Canadà per crearvi una posizione. — È vero. — Vi nomino, se non vi spiace, mio segretario a vita. Voi vi occuperete delle mie immense boscaglie e delle mie segherie e comanderete da padrone. — Ah!... Signor Gastone!... — esclamò lo studente, allargando le braccia. — Sì, qua una buona stretta mio giovane amico, con cinquemila dollari all’anno. Ed ora, Walter, andiamo a dormire in un buon letto. Alle nove del mattino, una splendida automobile di 60 cavalli, si arrestava bruscamente dinanzi la palazzina del signor di Montcalm e miss Ellen Perkins, più bella e più fresca che mai, quantunque sotto le spoglie poco simpatiche delle automobiliste, balzava leggermente a terra senza l’aiuto dello chaffeur e del suo aiutante. Il gigantesco portiere, già avvertito dal suo padrone di quella visita, la introdusse tosto nel salotto di ricevimento. Un momento dopo il canadese entrava, salutandola con un profondo inchino e senza porgerle la mano. Walter era pure entrato, quasi di soppiatto, celandosi nell’angolo più oscuro. — Ah!... Signor di Montcalm!... — esclamò la giovane. — È dunque vero che voi avete raggiunto il Polo? — Ho dei testimoni, miss, — rispose freddamente il canadese, facendo un nuovo inchino. — E mister Torpon? — Riposa laggiù, nei baratri dell’oceano artico, vittima della sua audacia. — Morto!... Già, non aveva mai avuta fortuna quel disgraziato. — Ah!... — fece il canadese, coi denti stretti. — Sicchè domani tutti i giornali dell’America parleranno di voi, diventerete l’uomo più popolare degli Stati dell’Unione e del Canadà, e parleranno del nostro matrimonio, poichè voi avete conquistata valorosamente la mia mano. — Quale, miss? — chiese il canadese, un po’ ironico. — La mia: siete voi che avete vinto. — Ebbene miss, a quella vittoria alla quale era impegnata la vostra mano io vi rinuncio, — rispose il signor di Montcalm, con voce grave. — Le donne che esigono delle vittime e che cercano di spingere degli uomini ad uccidersi in imprese arrischiate, non hanno mai fatto fortuna nel Canadà. Miss, cercatevi pure un marito fra i vostri compatriotti. — Avete detto? — gridò la giovane furente. — Che miss Ellen Perkins non diventerà mai la signora di Montcalm. — Ciò detto il canadese le volse le spalle e uscì dalla stanza. La giovane spezzò con un pugno un magnifico vaso giapponese mandandolo in mille pezzi, ed a sua volta uscì seguita da uno scroscio di risa sardoniche del campione di Cambridge. L’indomani tutti i giornali degli Stati dell’Unione e del Canadà salutavano con grande entusiasmo la nuova vittoria dell’automobile e la conquista del Polo artico.